Andrea Vanni, “Fare diligente inquisitione”. Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, Viella, Roma 2010
[ISBN 9788883344435; € 26,00]

Giampiero Brunelli, Il Sacro Consiglio di Paolo IV, Viella, Roma 2011
[ISBN 9788883344718; € 26,00]

Chiara Quaranta, Marcello II Cervini. Riforma della Chiesa, concilio, Inquisizione, Il Mulino, Bologna 2010
[ISBN 9788815137258; € 37,50]

Daniele Santarelli
Université Bordeaux 3 / LARHRA-CNRS
Alle origini della Controriforma, tra nuovi ordini religiosi, progetti di rinnovamento istituzionale, concilio e Inquisizione: a proposito di tre libri recenti

1. Gian Pietro Carafa è figura controversa e complessa, e quindi assai difficile da indagare. Fuori discussione è il ruolo fondamentale che egli svolse all’interno della Chiesa del Cinquecento, che per certi versi riuscì a plasmare secondo i suoi ideali di riforma, soprattutto come cardinale e capo del Sant’Uffizio, quindi come papa col nome, terribilmente ricordato, di Paolo IV. Recentemente il campo degli studi su di lui si è rinnovato con la pubblicazione di diversi lavori centrati su aspetti diversi della sua attività e della sua biografia.

In questa sede ci si vuole concentrare su due libri recenti, entrambi pubblicati da Viella: il primo di Andrea Vanni, riguardante il rapporto tra Gian Pietro Carafa e l’ordine dei Teatini da lui stesso fondato; il secondo di Giampiero Brunelli dedicato a una curiosa, interessantissima ed al tempo stesso ben poco indagata istituzione fondata e promossa da Paolo IV negli ultimi mesi del suo papato, il “Sacro Consiglio”, che rinnovò lo stile di governo dello Stato della Chiesa. Il discorso si allargherà alla figura di Marcello II Cervini, papa per soli 22 giorni e predecessore di Paolo IV, ma personaggio di primo piano, come vescovo e come cardinale, della Chiesa cinquecentesca. Legato all’Inquisizione e al Carafa, di cui condivideva gli ideali di riforma della Chiesa, Cervini è stato l’oggetto di una recente importante biografia da parte di Chiara Quaranta: un testo ricco di stimoli e di suggestioni anche per un eventuale, futuro biografo di Gian Pietro Carafa, dati gli strettissimi rapporti tra i due personaggi.

2. “In questi ultimi anni è stato, ed è, un gran parlare di Inquisizione. Pur sottolineando il ruolo di spicco che Carafa ebbe nella istituzione del Sant’Ufficio e nella sua strumentalizzazione in funzione della sua carriera ecclesiastica, molti importanti studi non hanno tuttavia evidenziato il percorso, politico, ideologico e istituzionale che spinse la Chiesa di Roma a dotarsi di uno strumento così efficace nella lotta contro il dissenso religioso e nel processo di accentramento dei suoi poteri”.[1]

Questa affermazione “coraggiosa” spicca nell’Introduzione del lavoro di Andrea Vanni su Carafa o meglio sulla parabola dell’ordine dei Teatini da lui fondato insieme a Gaetano di Thiene, di cui l’autore ripercorre ampiamente le vicende biografiche parallelamente a quelle del futuro Paolo IV. Su queste tematiche esisteva già lo studio “classico” e puntigliosamente erudito di Pio Paschini, S. Gaetano Thiene, Gian Pietro Carafa e le origini dei Chierici Regolari Teatini, pubblicato nel lontano 1926, il cui titolo è quasi identico alla seconda parte del titolo dell’opera di Vanni: Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini. Manca Gaetano di Thiene, le cui vicende sono comunque ampiamente illustrate nel libro. L’ipotesi che Vanni cerca di verificare è indubbiamente originale: secondo lui c’è uno stretto collegamento tra la peculiare evoluzione dell’ordine dei Teatini e la nascita dell’Inquisizione. Viene così illustrata la storia dei Teatini dalla nascita nel 1524, con particolare attenzione alla ricostruzione della “formazione” dei due principali “padri fondatori” dell’ordine, Carafa, appunto, e Gaetano di Thiene, dei quali sono approfondite anche le vicende familiari. In particolare sono indagati il rapporto tra Gian Pietro Carafa e lo zio cardinale Oliviero e l’eredità che quest’ultimo lasciò al nipote, destinato ad avere il successo che lo zio non ebbe. Egli riuscì infatti a farsi eleggere papa, ma anche e soprattutto ad imporre alla Chiesa romana il proprio programma di riforma e lotta contro gli eretici. Vanni indaga poi l’evoluzione del rapporto tra Carafa e Gaetano di Thiene, dai primi contatti all’interno dell’Oratorio del Divino Amore alla progressiva egemonia “conquistata” da parte di Carafa sull’ordine, a scapito del Thiene stesso e di altri confratelli.

Il trasferimento del quartier generale dell’ordine a Venezia in seguito al sacco di Roma del 1527 significò una sempre maggiore specializzazione nell’attività investigativa a danno degli eretici, anche grazie alla collaborazione col nunzio a Venezia Girolamo Aleandro. In seguito i Teatini proseguirono questa attività anti-ereticale, tentando di arginare la propagazione delle idee valdesiane a Napoli e a Viterbo. Nel 1542 la svolta: il Carafa diventava capo della nuova Inquisizione, ottenendo una “autonomia operativa” tale da non aver più bisogno dell’ordine da lui stesso fondato, da cui (secondo Vanni) progressivamente si distaccò.

3. La ricostruzione di questi sviluppi, pur encomiabile, lascia alquanto insoddisfatti. Nella recensione del volume di Vanni per un’autorevole rivista americana, Stephen Bowd ha sottolineato che “this book is not the fully and rounded study of Carafa that is badly needed, but it does offer some important insights into the world of this key figure of the early modern Church”.[2] In realtà non era questo l’intento dell’autore, anche se l’enfasi del titolo su Gian Pietro Carafa e ’Inquisizione può trarre in inganno.

Vanni di fatto deve troppo spesso capitolare di fronte alla carenza di fonti che hanno fatto desistere altri studiosi dall’impresa di scrivere una biografia di Carafa ed è costretto a focalizzare il suo sguardo sui rapporti tra il Carafa e il “suo” ordine, sulla biografia di Gaetano di Thiene e sulla storiografia teatina (argomento su cui si era già indirizzata l’attenzione di Aubert e Firpo[3]). Solo una parte limitata e marginale del libro, una trentina di pagine, è dedicata agli anni più importanti della biografia di Carafa, dal cardinalato (1536) e soprattutto dalla guida della nuova Inquisizione (a partire dal 1542) al papato (1555–59). Molto spazio è dedicato alla figura e alle vicende di Gaetano di Thiene (1480–1547), illustre esponente, oltre che del rinnovamento cattolico dei primi decenni del Cinquecento, di una famiglia della Vicenza “eretica”, che diede il suo contributo alla comunità ginevrina di esuli religionis causa (si veda, ad esempio, il caso di Odoardo di Thiene). Non a caso, sulla sua inquieta figura, al confine tra “evangelismo” (se ancora è lecito usare tale categoria) e Controriforma, si chiude il libro di Vanni, che ripercorre nelle ultime pagine le vicende del processo di beatificazione seicentesco di Gaetano. Chiusosi positivamente nel 1629, fu rallentato dalla circostanza, imbarazzante per l’Ordine, della sua appartenenza a una famiglia così compromessa.

4. Carafa non pare dunque il centro gravitazionale dell’opera di Vanni, nonostante l’enfasi sul suo nome e sull’Inquisizione nell’accattivante titolo, che a parere dello scrivente fuorvia un po’ il lettore: le affermazioni di Vanni riportate poco sopra appaiono in particolare un po’ fuori contesto e troppo pretenziose rispetto ai risultati finali, che vanno in tutt’altra direzione. E forse un riferimento nel titolo anche a Gaetano di Thiene sarebbe stato più che pertinente, anche se lo avrebbe reso troppo simile (anzi identico) a quello dello studio “classico” di Paschini. Il libro di Vanni appare senz’altro utile per certi suoi aspetti e lodevole è la capacità dell’autore di districarsi tra vicende complesse e numerosi (e inquieti) personaggi del Cinquecento religioso italiano. Ma, per tornare ancora al titolo, molto discutibile è in ogni caso la tesi centrale del libro secondo cui i Teatini sarebbero stati organizzati da Carafa come un’Inquisizione ante litteram.

Scrive l’autore: “Già nel 1531, a proposito della riforma dei minori osservanti, Clemente VII stabilì che un bon frate ‘vadi per li lochi a fare diligente inquisitione di ogni cosa, et poi riferisca ogni cosa a monsignor di Chieti, et monsignor di Chieti, inteso et bene examinato tutto riferisca con ordine el suo parere’. Dieci anni prima della emanazione della Licet ab initio [...] erano già chiari alcuni dei presupposti per la riorganizzazione dell'Officium fidei in senso verticistico e accentrato”.[4] Ma fare diligente inquisitione è un’espressione che non ha alcun significato ‘tecnico’; vuol dire semplicemente fare un’attenta ricerca, non sottintende alcun rapporto con l’Inquisizione come tribunale della fede o come procedura penale. La tesi centrale di Vanni si basa dunque a priori su una svista, su una premessa errata. E, anche se brillanti sono la sua ricostruzione e le sue riflessioni sul periodo “formativo” del Carafa fino al 1527, più deludente e poco innovativa rispetto a quel che si sapeva già dal Paschini e dal Monti[5] è, ad avviso dello scrivente, la ricostruzione del soggiorno veneziano del 1527–1536, periodo in cui i Teatini avrebbero cominciato appunto a caratterizzarsi, secondo l’autore, come “struttura preinquisitoriale”.

5. L’errore interpretativo di Vanni è tipico di una tendenza a forzare la mano, manipolando eccessivamente le fonti a sostegno della presunta novità delle proprie tesi, cosa che accade spesso quando si tratta di argomenti “particolari” e ormai molto studiati come l’Inquisizione. Sono caduti in simili errori anche più illustri studiosi,[6]con la conseguenza che alcune vicende e questioni importanti non sono state trattate come avrebbero meritato.

La mancanza ad oggi di uno studio sui membri della Congregazione del Sant’Uffizio nel Cinquecento, sugli avvicendamenti e sulle dinamiche interne dei primi anni, al di là del “gran parlare di Inquisizione” (per riprendere le parole di Vanni), si fa sentire.[7] E Vanni ha senz’altro ragione quando afferma che “molti importanti studi non hanno evidenziato il percorso, politico, ideologico e istituzionale che spinse la Chiesa di Roma a dotarsi di uno strumento così efficace nella lotta contro il dissenso religioso e nel processo di accentramento dei suoi poteri”.[8] Tuttavia con il suo libro non sopperisce in alcun modo a questa lacuna. Inoltre egli incorre nell’errore abbastanza comune di identificare Carafa con l’Inquisizione, aspetto senz’altro importante dei suoi interessi e della sua biografia ma non esaustivo.

I vari aspetti dell’attività del Carafa in realtà andrebbero non isolati l’uno dall’altro ma studiati congiuntamente nei loro legami intimi. È stato utile, per esempio, indagare congiuntamente, senza separarli l’uno dall’altro, sui vari aspetti del suo cruciale pontificato, dalla guerra e dalla successiva politica nei confronti della Spagna all’attività inquisitoriale, dai provvedimenti di riforma della Chiesa alla gestione delle nomine e dei benefici ecclesiastici. Sarebbe forse utile fare lo stesso per l’intera biografia di Carafa: si potrà avere così una ricostruzione più approfondita di una vita intensa e ricca, che ha attraversato il tournant fondamentale degli anni centrali del Cinquecento, tra Rinascimento, Riforma e Controriforma, guerre d’Italia e guerre di religione.[9] Si pensi soltanto alla ricchezza della documentazione conservata nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede: uno spoglio incrociato dei Decreta Sancti Officii e dei fittissimi volumi di corrispondenze potrebbe consentire sia una ricostruzione ravvicinata e piena del Carafa inquisitore, sia, più in generale, dell’attività e delle dinamiche del Sant’Uffizio e delle parabole dei personaggi ad esso legati. Ma anche le serie dell’Archivum Romanum Societatis Iesu, con la loro attenzione minuta alle dinamiche del potere centrale della Chiesa, sono una miniera straordinariamente fertile, capace di fornire indicazioni importanti.

6. Tutt’altra prospettiva e tutt’altra tematica sono al centro del libro di Giampiero Brunelli, Il Sacro Consiglio di Paolo IV. Il libro si concentra su un organo che ebbe pochi mesi di vita, il “Sacro Consiglio”, istituito da Paolo IV subito dopo la cacciata dei nipoti dal potere (31 gennaio 1559) e che cessò di fatto di esistere alla morte del papa (18 agosto 1559) e lo fa dal punto di vista di uno storico delle istituzioni. Una istituzione così effimera merita di essere trattata in modo così approfondito e merita un libro di 280 pagine? Senz’altro. Innanzi tutto perché fu una novità assoluta nella storia del governo della Chiesa, una rottura significativa rispetto all’abituale nepotismo, cui era ricorso lo stesso Paolo IV. Il pontificato di questi è associato alla guerra contro la Spagna, all’Inquisizione, alle scelleratezze dei nipoti (soprattutto del cardinal Carlo Carafa): ma la “fase” meno conosciuta del suo papato, a parte per le vicende inquisitoriali, è proprio quella seguita alla pace con gli Spagnoli (settembre 1557) e alla cacciata dei nipoti (gennaio 1559), in cui il vecchio papa napoletano, liberato dai gravami politico-militari, poté dedicarsi completamente, oltre che all’Inquisizione, con cui egli è generalmente identificato dalla storiografia, all’attività di riforma della Chiesa e dello Stato Pontificio.

Questa politica produsse un cambiamento che impressionò l’ambasciatore veneziano Alvise Mocenigo (giunto a Roma nel marzo 1558 in sostituzione di Bernardo Navagero e restatovi fino all’inizio del papato di Pio IV). Egli descrisse la situazione con tali, significative parole: “Roma a paragone delli tempi degli altri pontefici si poteva riputar come un onesto monasterio di religiosi”[10]. Pastor[11] non aveva mancato a suo tempo di sottolineare molto intelligentemente, en passant, questi aspetti; ma la storiografia jediniana, a partire dal suo capofila che dedicava ben poche pagine all’attività di riforma di Paolo IV nella sua monumentale Storia del concilio di Trento, di fatto considerandola irrilevante[12], li aveva ignorati. Ugualmente trascurata, con alcune eccezioni, è l’attività di riforma amministrativa dello Stato della Chiesa da parte di Paolo IV, che per lui, va sottolineato, si accompagnava a un progetto di riforma morale, ma che di fatto sortì esiti rilevanti anche dal punto di vista della riorganizzazione politica.

7. Dopo aver illustrato le esperienze di rinnovamento istituzionali nelle grandi monarchie (Francia e Spagna), nonché gli antecedenti nello Stato della Chiesa del Cinquecento, Brunelli si dedica puntigliosamente alle innovazioni istituzionali del papato di Paolo IV, particolarmente significative a partire dalla fine del 1557. Il Sacro Consiglio venne istituito il 31 gennaio 1559, pochi giorni dopo la cacciata dal potere dei nipoti. Il motuproprio del 3 febbraio 1559 ne sanciva le competenze: diretto dai cardinali Virgilio Rosario e Bernardino Scotti e dal nobile romano Camillo Orsini (morto però l’8 aprile 1559; quindi sostituito da Giovan Antonio Orsini), era titolare “di tutta la materia di governo dei domini temporali della Chiesa” (p. 53). Tra il personale di questo organo, oltre ai “tecnici” (cioè giuristi competenti in utroque iure), come l’uditore Ottavio Ferri e il segretario Angelo Massarelli, figuravano personaggi ammirati da Paolo IV per rigore e rettitudine morale (oltre che per l’ortodossia), significativamente provenienti dall’ambiente teatino (come i cardinali, entrambi creati da Paolo IV, Bernardino Scotti e Giovanni Battista Consiglieri, quest’ultimo fratello di Paolo Consiglieri, co-fondatore dei Teatini nel 1524).

Sulla base di un’analisi rigorosa della documentazione (corredata da appendice documentaria e tabelle e grafici di notevole interesse), Brunelli descrive il funzionamento del Sacro Consiglio, le sue adunanze (che non avevano cadenza regolare ma erano comunque frequenti), la prassi e i meccanismi decisionali, i rapporti con altri tribunali e organismi della Curia. Anche se la tematica è complicata e il lettore meno esperto di storia istituzionale può trovarsi in difficoltà, l’esposizione di Brunelli, che si muove attraverso l’analisi di innumerevoli casi citati nella documentazione, è chiara ed esaustiva.

Le aree di intervento del Sacro Consiglio sono illustrate con precisione e rendono conto dell’importanza primaria di questo organo: giustizia amministrativa (casi di resistenza alla giustizia, cioè proteste contro interventi di autorità pubbliche lesive di interessi privati o dispute tra funzionari di diverso grado, contenziosi tributari, rapporti tra ordinamenti militari e popolazione civile etc.), giustizia penale (interventi in tutte le fasi dei procedimenti locali per i vari reati, omicidi, furti, aggressioni, adulteri etc.); giustizia civile (liti su possesso e proprietà di beni, debiti, contratti etc.); giustizia ecclesiastica (questioni beneficiarie; conflitti giurisdizionali tra laici ed ecclesiastici etc.); giustizia inquisitoriale; finanze; governo locale; gestione del personale di governo; problemi di ordine pubblico; approvvigionamenti annonari; lavori pubblici; rapporti con le nunziature; organizzazione militare; rapporti con gli ebrei (e governo delle loro comunità di Roma e Ancona).

A ragione perciò Brunelli sottolinea l’originalità del Sacro Consiglio, evidenziandone le sostanziali differenze rispetto alla congregazione della Consulta istituita nel 1588 (alla quale è stato accostato frettolosamente da alcuni storici), i cui ambiti di intervento erano molto più limitati. Nell’istituzione si riconoscono, secondo Brunelli, le “peculiarità del consiglio principesco della prima età moderna”; lo studioso propone “un’immagine di un papa Carafa che non solo puntava al controllo dell’ortodossia dottrinaria e dell’intera istituzione ecclesiastica […] ma che era capace di progettare, nello scorcio del suo pontificato, un sistema di governo dello Stato ecclesiastico più aderente al rigoroso clima che voleva instaurare” (p. 256) Queste osservazioni di Brunelli paiono molto pertinenti e non vanno intese come di derivazione jediniana o apologetica. Si tratta semplicemente di constatare l’impegno di Paolo IV su questi versanti, ignorato e svalutato peraltro dalla storiografia jediniana (per ragioni ideologiche, trattandosi di un papa che non volle assolutamente valutare l’opzione conciliare), ed ancora una volta la complessità di un personaggio che inganna mefistofelicamente anche lo storico più accorto; come d’altronde ha ingannato la storiografia dei decenni successivi alla sua morte, divisa tra chi lo difendeva considerandolo un “santo” e chi lo bollava come pontefice indegno, anche a causa delle vicende dei nipoti, perseguitati (e nel caso dei due più potenti, Carlo e Giovanni Carafa, condannati a morte) dal suo immediato successore Pio IV.[13]

8. La mancanza di una biografia su Gian Pietro Carafa rappresenta una delle lacune più importanti della storiografia cinquecentesca. La problematicità del personaggio unita alla carenza di fonti su diverse fasi del suo percorso non aiutano. Il libro di Chiara Quaranta su Marcello Cervini può rappresentare un buon modello. L’autrice indaga, efficacemente, un personaggio, egualmente complesso e poco studiato: presidente del concilio di Trento nelle sue prime sessioni – quello stesso concilio in cui Gian Pietro Carafa mai credette – ma anche autorevole membro del Sant’Uffizio. E ne sfata l’immagine agiografica di rigido riformatore, immagine cara alla storiografia di impronta jediniana che insiste sulla “riforma cattolica”, insistendo sulla fermezza con cui Cervini orientò da subito l’assemblea conciliare sulla condanna delle nuove idee religiose (lungi dalle istanze ireniche di altri autorevoli porporati in odore di eresia), sulla sua abilità nello sfruttare l’evoluzione delle tecniche tipografiche in funzione anti-ereticale (si veda in particolare il suo legame con Paolo Manuzio), sul suo ruolo di primo piano all’interno della congregazione del Sant’Uffizio. Eppure da frequentazioni “umanistiche” proveniva anche il Cervini, in giovinezza legato ad intellettuali come Annibal Caro, Giovanni Della Casa e Pietro Bembo, il cardinale “umanista”, maestro di quel Vittore Soranzo processato dal Sant’Uffizio (e quindi dallo stesso Cervini) sin dai tempi di Giulio III.[14] Ma il Carafa stesso aveva frequentato Erasmo! È evidente quindi che bisognerebbe approfondire le ragioni che spinsero a scelte sostanzialmente contrapposte molti esponenti di un’intera generazione di prelati dotti e sensibili alle istanze di rinnovamento della Chiesa: alcuni maturarono convincimenti, per così dire, cripto-protestanti (Contarini, Pole, Morone etc), altri invece si convinsero che la soluzione più efficace fosse dare la priorità a una dura repressione al fine di restaurare l’ordine nella vita della Chiesa (Carafa e il gruppo degli “intransigenti”, nel quale si può dunque annoverare anche il Cervini).

9. Diversi storici si sono interrogati, direttamente o, più frequentemente, indirettamente, su queste tematiche, studiando il Carafa e gli altri “intransigenti” nell’ambito della storia istituzionale dell’Inquisizione o delle lotte interne alla curia romana. Ai lavori di Vanni e di Brunelli va riconosciuto il merito di essersi focalizzati in modo diretto sul Carafa. Ma Vanni, nonostante dichiarazioni ambiziose, concentra di fatto molta della sua attenzione sulla storia “interna” dell’ordine teatino, e forza troppo la mano nel presentarlo come “struttura preinquisitoriale”. Brunelli ha lo scopo dichiarato di concentrarsi unicamente su un aspetto specifico, riguardante solo l’ultimo scorcio del papato carafiano (e lo fa senz’altro magistralmente).

I lavori di Vanni e di Brunelli, insieme alla solida biografia di Cervini di Chiara Quaranta, testimoniano comunque il perdurare dell’interesse su personaggi centrali del Cinquecento religioso italiano su cui ci sarebbe ancora molto da dire e da capire, esplorando magari fonti fino ad oggi assai poco sfruttate: su questi argomenti delicati e appassionanti, più che di sintesi o interpretazioni accattivanti, si ha infatti sempre più bisogno di studi che pongano al centro dell’attenzione la ricca documentazione (processi, decreti, corrispondenze) non ancora adeguatamente esplorata o esaminata.[15]

Note

[1] A. Vanni, “Fare diligente Inquisitione”, p. 11

[2] “Renaissance Quarterly”, 64/1, 2011, 279–81 (p. 281).

[3] A. Aubert, Alle origini della Controriforma: studi e problemi su Paolo IV in “Rivista di storia e letteratura religiosa”, 22, 1986, pp. 303–55; Id., Paolo IV. Politica, Inquisizione e storiografia, Firenze, Le Lettere, 1999 [già Paolo IV nel giudizio dell’età della Controriforma, Città di Castello, Stamperia Tiferno Grafica, 1990]; M. Firpo, Antonio Caracciolo, il Compendium e la storiografia teatina in Inquisizione romana e Controriforma, nuova edizione riveduta e aggiornata, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 537–96 (riedizione di un testo già pubblicato nel 1981 nell’ambito dell’edizione del processo Morone).

[4] A. Vanni, “Fare diligente Inquisitione”, pp. 12–13.

[5] G. M. Monti, Ricerche su papa Paolo IV Carafa, Cooperativa Tipografi Chiostro Santa Sofia, Benevento, 1923.

[6] Per esempio, in Tribunali della coscienza (Torino 1996), Adriano Prosperi sottolinea il fatto che sotto la presidenza del Carafa (dal 1542) e in seguito sotto il suo papato, i cardinali membri della congregazione del Sant’Uffizio furono pochi, oscillanti tra quattro e sei, e questo per esigenze di centralizzazione e di efficienza. Quindi Prosperi collega il numero “ridotto” di cardinali membri del Sant’Uffizio alle dinamiche del suo sviluppo e rafforzamento, aggiungendo: “Fu proprio per ridurre il potere concentrato nella Congregazione che Pio IV ne aumentò i membri fino a sette [...] Con Pio V si tornò ai modelli di papa Carafa” (pp. 140–41). In realtà sotto Paolo IV i membri del Sant'Uffizio, per effetto della sua espansione ed ampliamento di competenze, passarono, in breve tempo, da quattro a quindici (come attestava già il Pastor e attestano molto chiaramente diverse fonti primarie. All’inizio del papato di Paolo IV facevano parte della congregazione del Sant’Uffizio i cardinali Toledo, morto nel 1557, Carpi, Puteo e Verallo, morto nel 1555 (L. von Pastor, , Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, vol. VI, Storia dei Papi nel periodo della Riforma e Restaurazione cattolica. Giulio III, Marcello II e Paolo IV (1550-1559), Roma, Desclée, 1922, pp. 480–81). Nell’autunno del 1556, il numero dei membri del Sant’Uffizio era stato aumentato ad otto, con l’inserimento dei cardinali Medici, Scotti, Rebiba, Reumano e Capizuchi (ibid., p. 482). Infine, nel 1559 il loro numero era salito a quindici: Carpi, Pacheco, Saraceni, Puteo, Scotti, Diomede Carafa, Savelli, Santa Fiora, Rebiba, Reumano, Capizuchi, Rosario, Ghislieri, Olera e Medici (ibid., p. 484 e nota 2 ivi). Dai dispacci di Bernardo Navagero, ambasciatore veneziano a Roma, sappiamo che il cardinal Rosario entrò a far parte del Sant’Uffizio il 3 giugno 1557, allorché Paolo IV lo affiancò ai cardinali Rebiba, Ghislieri e Reumano per istruire il processo contro il cardinal Morone (cfr. D. Santarelli, La corrispondenza di Bernardo Navagero, ambasciatore veneziano a Roma (1555-1558). Dispacci al Senato, 7 settembre 1555 – 6 novembre 1557, Roma, Aracne editrice, 2011, p. 745) e che tra il 14 e il 15 ottobre 1557 Paolo IV nominò membri del Sant’Uffizio i cardinali Diomede Carafa, Trivulzio, Pacheco, Santa Fiora e Savelli (ibid., p. 967).

[7] Ricerche sistematiche di questo tipo aiuterebbero ad esempio a ricostruire adeguatamente profili ed evoluzione del partito degli “intransigenti”. Un utilissimo e poderoso lavoro in questo senso, che può servire da punto di riferimento, è in corso di svolgimento da parte del gruppo di ricerca di Hubert Wolf sulla Congregazione dell’Indice (e di riflesso su quella del Sant’Uffizio). Per il momento il lavoro è limitato ai secoli XVIII e XIX, ma sono previsti volumi riguardanti il Cinquecento e il Seicento: Römische Inquisition und Indexkongregation. Einleitung 1814-1917, herausgegeben von H. Wolf, Schöningh, Paderborn 2005; Römische Bücherverbote. Edition der Bandi von Inquisition und Indexkongregation 1814-1917, auf der Basis von Vorarbeiten von H. H. Schwedt, bearbeitet von J. Schepers und D. Burkard, Schöningh, Paderborn 2005; Systematisches Repertorium zur Buchzenzur 1814-1917. Indexcongregation – Inquisition, bearbeitet von S. Schratz, J. D. Busemann und A. Pietsch, Schöningh, Paderborn 2005; H. H. Schwedt unter Mitarbeit von T. Lagatz, Prosopographie von römischer Inquisition und Indexkongregation 1814-1917, Schöningh, Paderborn 2005. Römische Bücherverbote. Edition der Bandi von Inquisition und Indexkongregation 1701-1813, auf der Basis von Vorarbeiten von H. H. Schwedt bearbeitet von U. Paintner und C. Wiesneth, Schöningh, Paderborn 2009; Systematisches Repertorium zur Buchzensur 1701-1813. Bd. 1: Indexkongregation, bearbeitet von A. Badea, J. D. Busemann und V. Dinkels; Bd. 2: Inquisition, bearbeitet von Bruno Boute, Cecilia Cristellon und V. Dinkels, Schöningh, Paderborn 2009; H. H. Schwedt, Prosopographie von römischer Inquisition und Indexkongregation 1701-1813, Schöningh, Paderborn 2010.

[8] Prosperi ha molto insistito sul rapporto tra inquisitori e confessori, alla ricerca di una specifica “religione italiana” e di una “via italiana” alla modernità, giungendo sino a parlare di “unità inquisitoriale dell’Italia” (Tribunali della coscienza, p. 114). Si vedano anche L’inquisizione romana. Letture e ricerche, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003; Id. Eresie e devozioni: la religione italiana in età moderna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010, 3 voll. Cfr. G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990; Id., Ricerche su confessione dei peccati e inquisizione nell’Italia del Cinquecento, La Città del Sole, Napoli 1997; Id., L’Inquisizione nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 2002.

[9] Vedi A. Aubert, Paolo IV in Enciclopedia dei papi, vol. III, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2000, pp. 128–42; D. Santarelli, Paolo IV in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, Edizioni della Normale, Pisa 2010, vol. 3, pp. 1164–66.

[10] L. Mocenigo, Relazione di Roma [1560] in E. Albèri, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. 2a, vol. IV, Società editrice fiorentina, Firenze 1857, pp. 23–64: 47.

[11] L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, vol. VI, cit., pp. 443–67.

[12] H. Jedin, Storia del concilio di Trento, vol. IV, t. I, Morcelliana, Brescia 1979, pp. 25–34.

[13] Sulla vicenda si segnala M. Pattenden, Pius IV and the Fall of the Carafa: Papal Authority in Counter-Reformation Rome, Oxford University Press, Oxford (pubblicazione annunciata per la primavera del 2013).

[14] M. Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell'Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2006.

[15] E’ molto utile in proposito rinviare al giudizio espresso da Dedieu e Carvacho in una fondamentale rassegna pubblicata ormai dieci anni fa (J.-P. Dedieu, R. Millar Carvacho, Entre histoire et mémoire. L’Inquisition à l’époque moderne: dix ans d’historiographie, in “Annales. Histoire, Sciences sociales”, 57, 2002, 349–72: p. 370) : “Nous l’avons dit, travailler sur l’Inquisition présente un risque. Son histoire, par nature, mobilise l’homme tout entier. En traiter, c’est parler de soi. La fascination qu’exerce A. Prosperi, au-delà de sa valeur scientifique, vient d’une passion à laquelle le lecteur ne peut rester insensible. Le colloque du Vatican a non seulement constitué un événement scientifique, mais suscité une couverture de presse exceptionnelle: ni la qualité des débats – au demeurant élevée – ni l’amour de la science n’étaient seuls en cause. Le séminaire de Montereale Valcellina de 1999, tenu dans l’église même où Menocchio entendait la messe, et pour le quatre-centième anniversaire de sa mort, témoigne non seulement de la science des participants, mais aussi d’un sentiment patrimonial récemment construit autour de la découverte d’un homme que la communauté locale a postérieurement érigé en symbole. Le champ inquisitorial fait l’objet d’un investissement social et idéologique fort, donc d’une demande sociale forte – et variée dans ses formes et ses attentes –, pression à laquelle l’historien ne peut totalement échapper.”