1. Con il
suggestivo titolo Le colonne del
Tempo, quasi un omaggio al pionieristico lavoro di Paolo Rossi del
1979[1], e in una veste grafica decisamente
raffinata, il volume di Luca Ciancio, curatissimo dal punto di vista
iconografico, offre un’inedita quanto approfondita ricostruzione della
storia culturale del cosiddetto Tempio di Serapide, il Macellum di Pozzuoli venuto alla luce
a metà Settecento e subito diventato, «per almeno quattro
generazioni di ricercatori e di “curiosi”, un ideale laboratorio en plain air e soprattutto un luogo in
cui i segni incontrovertibili di un’ampia oscillazione del livello del
mare erano posti sotto gli occhi di
tutti» [2].
Oggetto per quasi un secolo
di una controversia “geologica” che non fu esente
dall’assumere toni anche accesi, la vicenda legata al Tempio costituisce,
secondo lo studioso, l’esempio paradigmatico attraverso il quale è
possibile valutare «il fondamentale contributo conoscitivo e metodologico
offerto dalla scienza antiquaria prima e dall’archeologia poi», utile
altresì a comprendere «non soltanto la genesi di importanti
acquisizioni teoriche, ma anche il mutare delle forme di conoscenza relative
alla natura e alla storia nonché l’interscambio fecondo fra i
saperi»[3].
Non nuovo nel servirsi di
un’analisi storico-scientifica che guarda ai processi storici di sviluppo
della geologia, dell’archeologia e dell’arte, Ciancio intende qui
mettere in luce i diversi “sguardi” che in senso diacronico hanno
fatto di quelle rovine romane d’età imperiale un “oggetto per
pensare”, muovendosi nel solco di una storiografia recente che, a partire
dall’esame delle sue rappresentazioni visive, permette «di
scandagliare le forme assunte dall’interscambio tra gli ambiti della
ricerca artistica, antiquaria e storico-naturale tra il Cinquecento e
l’Ottocento»[4]. Nel volume si
ripercorre perciò la vicenda del monumento – la cui
enigmaticità «era accresciuta dai mutamenti, dovuti
all’intervento dell’uomo e degli agenti vulcanici, che nel corso di
quasi due millenni lo avevano trasformato in una sorta di ibrido
storico-naturale»[5] – seguendo un
percorso insieme cronologico e pluri-tematico che tiene conto, sostanzialmente,
di due differenti approcci: quello architettonico-antiquario e quello
geologico-naturalistico, all’epoca non sempre nettamente distinti e
accomunati dal fatto che dei fenomeni si voleva dare spiegazione razionale senza
fare ricorso a descrizioni religioso-millenaristiche, tenendo piuttosto assieme
l’interpretazione scientifica del fenomeno fisico con quella
storica[6].
2. Nel 1750-1753 alcuni nuovi scavi vicino alla capitale del
Regno di Napoli riportavano alla luce le meravigliose rovine del Tempio di
Serapide, cos ì chiamato per la sua forma esteriore e per il rinvenimento
di una piccola statua raffigurante la divinità alessandrina. La scoperta
richiamò studiosi da tutta Europa: le inedite rovine di Pozzuoli
offrivano la possibilità di studiare sul campo il rapporto tra la storia
del monumento e le vicende della natura. Il nuovo approccio storico tenne
perciò banco nella prima fase del dibattito (1750-1768), la cui dinamica
evidenzia un’articolazione di posizioni presenti nel vasto campo
dell’erudizione e dell’architettura, oltre che della nascente
scienza geologica, che si ritrovano in tutte le successive fasi di studio del
monumento, sino alle acquisizioni teoriche moderne che hanno portato alla
definizione dei concetti di isostasia (Clarence E. Dutton, 1874), di eustatica (Eduard Suess, 1912) e di tettonica a zolle (metà degli
anni Sessanta del Novecento).
Dunque, fin dalla sua scoperta, architetti e
antiquari partenopei, ma soprattutto un crescente numero di studiosi stranieri,
dovettero misurarsi con quelle vestigia classiche dalla difficile decifrazione,
teatro palese – peraltro – di forti oscillazioni del livello del
mare. Come già per Ercolano e Pompei, anche per l’inedita rovina di
Pozzuoli si dava la possibilità di studiare il rapporto tra la storia del
monumento e le vicende della natura; e grazie alla evidente interazione tra
pratiche di ricerca naturalistica e metodi storico-antiquari che lo studio del
monumento esigeva, ci si poteva (forse) impossessare dei segreti della natura.
Non a caso, il confronto già aduso tra architetti e antiquari permise di
cogliere precocemente l’importanza del fenomeno erosivo delle colonne e
anche di intravederne le implicazioni sul piano delle storia
naturale[7].
Al riguardo, Ciancio rileva
l’arretratezza degli eruditi partenopei, nelle cui riflessioni mancava
qualsiasi considerazione di natura propriamente
“geologica”[8]. Furono invece eruditi
e architetti stranieri, violando le prescrizioni di segretezza imposte dal
governo borbonico sulla straordinaria scoperta, i primi a riflettere sul Tempio
di Serapide anche in termini scientifici: il conte di Caylus, O. Guasco, J.J.
Winckelmann e J. Nixon sono gli antesignani di quelle precoci teoriche che
animarono il dibattito scientifico ed erudito per oltre un secolo. E proprio
seguendo i loro ragionamenti è possibile individuare quelle linee di
sviluppo cui sopra facevamo riferimento: la linea architettonico-antiquaria e
quella scientifica.
Dal punto di vista
architettonico-antiquario, il sito fu oggetto di analisi finalizzate dapprima
all’assimilazione dell’edificio nel quadro esistente delle
conoscenze degli antichi (spiegazione dell’origine e della funzione),
quindi alla sua contestualizzazione storica (il monumento era espressione
architettonica di un gusto e di uno stile particolari delle società
antiche). Caylus, ad esempio, propose un’ipotesi orientalistica facendo
riferimento alla civiltà egizia, e tentò di delineare
un’evoluzione storica dell’architettonica antica (che andava dagli
Egiziani ai Romani attraverso Greci ed Etruschi) sulla base delle
modalità costruttive degli edifici, nonché delle somiglianze
esistenti tra ornamenti, strutture, forme. Il ritrovamento della statua di
Serapide gli confermava pertanto la presenza di un culto egizio
nell’antica Puteoli. Guasco, che accoglieva le ipotesi di contesto di
Caylus, introduceva nel suo discorso un nuovo elemento in relazione al palese
fenomeno erosivo subito dalle colonne a causa dei mitili di mare, affermando
l’origine naturale di un fenomeno che non aveva ancora trovato una
spiegazione razionale soddisfacente. Winckelmann, invece, sosteneva una linea
interpretativa filo-ellenica, attenta all’arte edificatoria sondata in
rapporto all’ambiente fisico che, nel caso delle colonne del Tempio,
significava optare per l’ipotesi geologica: per lui era
«incontestabile» il fatto che in un lungo arco di tempo il mare si
fosse più volte alzato e più volte ritirato dal sito. Il che
aggiungeva carattere di ciclicità al mutamento fisico che apriva nuovi
orizzonti sul piano appunto del dibattito scientifico.
«La rilevazione
dei fenomeni di ordine geologico e naturalistico che interessavano il
“Tempio” rientrava nei compiti di una autopsia accurata del sito, ma
era pratica tutt’altro che scontata. Alcuni antiquari, tuttavia, non si
limitarono a rilevare tali fenomeni, ma svilupparono una riflessione sia
filosofico-naturale volta a esplorare le dinamiche del rapporto terre
emerse/bacini oceanici, sia storico-naturale relativa alle cause immediate
dell’erosione delle colonne»[9]. Come
Nixon, il solo che in quel periodo, forte del dibattito interno alla Royal
Society, cercò di affrontare la questione delle cause generali del
fenomeno, sostenendo non soltanto che in passato il mare avesse coperto il sito
e vi avesse soggiornato a lungo sino all’altezza segnata dalla linea di
massima elevazione della corrosione sul fusto delle colonne, ma suggerendo
altresì una spiegazione alternativa che teneva conto della natura
vulcanica del luogo e che attribuiva al movimento del suolo (e non del mare) la
ragione per la quale la fascia mediana delle colonne appariva «scolorita
come se avesse sofferto per una
bruciatura»[10].
Interpretando come moto
apparente l’innalzamento del livello del mare, Nixon non soltanto
introduceva un elemento fortemente innovativo entro le tradizionali concezioni
sulla dinamica terrestre, ma imponeva altresì la necessità di un
allontanamento da antiche o nuove ipotesi diluviali, aprendo così la
strada per le successive conclusioni. Infatti, in quegli stessi anni presero a
circolare anche «i primi tentativi di ricostruzione geostorica,
interpretazioni del mutamento terrestre maggiormente interessate alla
ricostruzione delle trasformazioni reali subite da specifiche regioni del
pianeta nel corso di epoche successive e ben individuate», rispetto alle
quali, nel corso del Settecento, il Tempio di Serapide si rilevò «di
grande interesse soprattutto per le discussioni relative ai modelli
geodinamici», ossia «per iniziare a comprendere i meccanismi generali
e le modalità di trasformazione del globo nel suo
complesso»[11], lungo una dimensione
storico-temporale profonda.
3. Alle
rappresentazioni di carattere vedutistico con prevalente funzione di
documentazione topografica e archeologica (“fenomenismo”), e a
quelle ricostruzioni volutamente immaginative e trasfiguranti
(“pittoresco”) delle rovine di Pozzuoli, Ciancio dedica i capitoli
centrali del libro.
Egli analizza anzitutto l’impianto prospettico,
la resa dei chiaroscuri, i particolari pittorici, delle tavole esistenti, le
quali soddisfano sia le esigenze del “vedutismo scientifico”, sia
quelle del “pittoresco”. Si scopre così che, per
l’iconografia antiquaria e artistica del sito di Pozzuoli, la prima
rappresentazione vedutistica del Tempio che ebbe ampia circolazione a livello
europeo, fu quella di autore ignoto, comparsa nel 1757 nelle Observations di Ch.-N. Cochin e J.-Ch.
Bellicard, edite peraltro a Napoli, presso la tipografia
Gravier[12]. Lo scopo perseguito era
chiaramente quello di fornire una raffigurazione verosimile della più
importante scoperta avvenuta pochi anni innanzi nell’area flegrea.
Operazione che significò violare il monopolio regio sulle scoperte
archeologiche, ribadito nel 1755 con la creazione dell’Accademia
Ercolanense. Il che spiegherebbe le ragioni per le quali non conosciamo il nome
del disegnatore dell’incisione di quella veduta.
Dopo anni di silenzio per
un’attenzione rivolta quasi esclusivamente alle città sepolte del
Vesuvio, quell’operazione editoriale permise il rilancio delle
antichità flegree: infatti, a partire «dalla metà degli anni
Sessanta, le segnalazioni del sito di Pozzuoli si moltiplicarono. Attraverso di
esse si consolidava l’idea della sua magnificenza architettonica e la
centralità delle tre colonne superstiti quale elemento di maggior
interesse dell’edificio»[13].
Tra i molti
“curiosi”, v’era chi lamentava la scarsa attenzione alla
tutela dei resti monumentali da parte delle autorità partenopee; inoltre,
parallelamente al crescere della fama letteraria del sito, procedeva una sua
più attenta valutazione sul piano degli studi naturalistici. In quegli
anni si registra «la pubblicazione dei primi contributi di carattere
prettamente storico-naturale finalizzati a spiegare i fenomeni delle colonne
erose e ad esplorare prudentemente le implicazioni per la filosofia
naturale»[14]. Implicazioni per le quali
le successive produzioni iconografiche del fiorentino Filippo Morghen, ma
più ancora di Peter Fabris, Giambattista Lusieri e Jacob Philipp Hackert,
grazie alla committenza di William Hamilton, furono
fondamentali[15].
Sul piano scientifico la
riflessione riguardava sempre il problema di spiegare l’erosione subita
dalle tre colonne superstiti del Tempio. Ciancio ci racconta le
difficoltà che i naturalisti ebbero nell’affrontare come
spiegazione il tema dell’innalzamento del livello del mare; riferisce in
particolare dell’importanza delle riflessioni dell’astronomo Bengt
Ferner[16], il quale, a seguito di un lungo
tour europeo, potendo osservare le strutture architettoniche romane su un vasto
territorio italiano, nel 1771 stabiliva che «lo sprofondamento di ampi
tratti [del tessuto viario] e la perfetta conservazione di altri “portano
naturalmente a dubitare della forma costante della superficie
terrestre”». Afferma Ciancio al riguardo:
Si trattava di una conclusione assai rilevante, destinata a mutare i termini dell’intera discussione sulle variazioni del livello marino e, soprattutto, capace di stimolare una riflessione sulle dinamiche interne della crosta terrestre che erano la causa probabile del fenomeno [...]. Per la prima volta, dopo la pubblicazione del De’ crostacei di Anton Lazzaro Moro [del 1740], tornava in circolazione un modello fisico in grado di dar conto del carattere oscillatorio dei movimenti del terreno[17]
4. A ciò si
aggiunga che in quello stesso periodo si assisté alla ristampa in
italiano della memoria di Ottaviano Guasco, Dell’edificio di Pozzuoli (1773,
I ed. 1760), nella quale era presentata l’ipotesi di una lunga permanenza
delle colonne sotto il livello del mare; mentre nel 1776 usciva il commento
all’edizione inglese dei Briefe di Ferber ad opera di Rudolf Eric Raspe, il quale «enunciava
l’ipotesi ritenuta più probabile: perché non immaginare che
il suolo si fosse dapprima abbassato e poi innalzato per azione di
“terremoti, fermentazioni sotterranee e fuoco vulcanico” come
avevano suggerito R. Hooke e A.L.
Moro?»[18]. L’affermazione componeva
in quel momento un modello minoritario di spiegazione dei fenomeni del Serapeo
che sarebbe riuscito a imporsi mezzo secolo dopo, grazie alla radicale
riformulazione di Charles Lyell.
Ma, a partire dagli anni
Settanta del Settecento riprendeva pure la rappresentazione visiva del sito di
Pozzuoli, frutto di committenze stavolta ufficialmente autorizzate dai Borboni
che, allo scopo di rinnovare la politica culturale del Regno di Napoli,
esprimevano una nuova volontà di conoscenza e di ricostruzione della
storia regnicola. In questo quadro, con una duplice attenzione al dato
scientifico e storico-artistico insieme, indirizzato prevalentemente al mercato
dei viaggiatori e dei “curiosi”, si impose il lavoro di Morghen, il
quale produsse una veduta del sito di Pozzuoli assai interessante da più
punti di vista: «per l’attenzione posta al dettaglio architettonico
[...] l’immagine rivela quale sua destinazione primaria il pubblico degli
“intendenti” di antichità monumentali. È tuttavia
evidente l’intenzione dell’autore di contemperare le esigenze della
documentazione archeologica e le convenzioni del
“pittoresco”»[19]. Da qui,
l’emergere di una ricerca di equilibrio tra le due tendenze, quella
architettonico-antiquaria e quella naturalistica, frutto del rapporto di
committenza che era stato instaurato da Morghen con Hamilton; rapporto di
committenza che, come accennavamo, ebbe i maggiori risultati con Fabris, Lusieri
e Hackert, dando vita a quel fenomeno culturale di
“antiquario-naturalismo” definito da Maria Toscano «un genere
particolare di studi in cui naturalismo e antiquaria risultavano
indissolubilmente commisti», cioè a dire – spiega Ciancio
– «una modalità di integrazione tra indagine geo-mineralogica
e indagine antiquario-erudita finalizzata alla ricostruzione della storia
“globale” di un
sito»[20].
Innegabile l’importanza
di William Hamilton in questo percorso: coltivatore di interessi al tempo stesso
artistico-antiquari e scientifico-vulcanologici, benché al Tempio non
abbia riservato le maggiori attenzioni, l’ambasciatore britannico comprese
non solo che lo «studio del Vesuvio non poteva prescindere
dall’indagine estesa a tutta l’area circostante, ma che essa aveva
potenzialità teoriche rilevanti poiché in tale area “noi
abbiamo l’opportunità di vedere i vulcani in tutti i loro
stati”»[21]. Contro Buffon, Hamilton
sosteneva che i vulcani erano agenti primari costruttivi della stessa morfologia
della terra, in particolare dei suoi rilievi presenti sulla crosta terrestre. E
gli scavi stratigrafici effettuati nei vari siti avevano fatto chiarezza, a suo
dire, sul carattere esplosivo, cioè improvviso e drammatico,
dell’azione dei “fuochi sotterranei”, che spiegava la dinamica
della creazione di nuove formazioni geologiche come il Monte Nuovo presso
Pozzuoli, sorto in un breve lasso di tempo, mentre i fenomeni del Tempio
venivano letti come un’anomalia, un caso singolare dentro una teoria
generale del vulcanismo geologico.
Ciancio si chiede allora
quali le ragione del sostanziale silenzio di Hamilton verso i fenomeni del
Serapeo, tenuto conto del fatto che il nobile inglese era in possesso di un
busto marmoreo della divinità alessandrina nella sua casa di Posillipo,
ed offre una risposta di natura metodologica analizzando l’unica
raffigurazione del sito che Hamilton decise di inserire nel suo capolavoro
scientifico. Il programma iconografico dei Campi Flegrei era quello di mostrare,
attraverso una sequenza di vedute, gli stadi successivi di formazione dei monti
vulcanici, «suggerendo l’esistenza di un ciclo di costruzione e
demolizione cui sono soggetti “in the long corse of revolving
ages”»[22].
5. L’apporto di Peter
Fabris era quello di offrire una raffigurazione veritiera dei diversi siti,
senza rinunciare al gusto e alle regole della rappresentazione pittorica,
«che anzi andavano tenute in attenta considerazione per motivi di
comunicazione e di mercato»[23]. «La
capacità di coniugare l’effetto visivo e pittorico con le esigenze
di “esattezza” e sobrietà imposte dalla loro funzione
descrittiva fu – dice Ciancio – all’origine della notevole
fortuna che l’immagine realizzata da Fabris sotto la guida di Hamilton
ebbe nei decenni successivi come modello per analoghe produzioni del paesaggismo
napoletano»[24].
Tra coloro che operarono al
servizio di Hamilton, Lusieri occupa un ruolo particolare, essendo la sua
produzione iconografica del sito di Pozzuoli di elevatissima qualità e
piuttosto folta in relazione a quella relativamente esigua di cui fu autore lo
stesso artista romano nell’ultimo quarto del Settecento. Ben quattro sono
infatti le vedute del Tempio sulle quali Ciancio si sofferma per ricordare come,
a fianco della committenza Hamilton (3 vedute), Lusieri ne ebbe una ufficiale da
parte dei sovrani napoletani (anni Ottanta del Settecento). Ma, al di là
di come quelle vedute furono eseguite, lo studioso sottolinea come per tutti gli
artisti in quegli anni il richiamo all’imitazione fedele della natura
fosse terreno comune da cui prendevano avvio espressioni pittoriche molto
diverse. In Lusieri si rileva «una spasmodica, quasi maniacale ricerca
dell’esattezza, dimensionale, prospettica e coloristica per cui alle tre
vedute [commissionate da Hamilton] ben si addice la definizione di
“paesaggi della ragione”. Tuttavia [...] l’accuratezza
esasperata finisce [...] per diventare rappresentazione trasfigurante, quasi
“iperrealistica”»[25], che
arriva ad “eternare” l’attimo fissato sulla carta, mentre il
paesaggio vero è soggetto a continui mutamenti.
Per quanto concerne
l’opera di Hackert, in linea generale anch’essa rientra nel
vedutismo “esatto” della tradizione topografica e antiquaria.
Nondimeno, il suo «sforzo di “verità”» risulta
votato a trasmettere «il senso della magnificenza dei resti monumentali e
della singolare armonia tra le rovine e la vegetazione che le avvolge [...],
comunica [cioè] una percezione delle metamorfosi della natura – e
quindi del tempo – che non si limita alla descrizione distaccata di un
fenomeno, [poiché] Hackert si dimostra in grado di visualizzare una
personale percezione dei luoghi e di renderne partecipe
l’osservatore»[26].
Nel prosieguo del testo,
Ciancio mostra come alle vedute topografiche si giustapposero le cosiddette
vedute “pittoresche”, che avevano l’obiettivo
dell’evocazione simbolica e interiore della temporalità quale
dimensione comune all’uomo e alla natura. Il rapporto tra ambito
storico-antiquario e ambito naturalistico veniva riletto attraverso una
riflessione storico-filosofica, letteraria e scientifica introspettiva. Di
questa, costituisce esempio paradigmatico la grande impresa di Saint-Non: il Voyage pittoresque nel quale, oltre a
proposte di letture di natura scientifica (come il testo di Denon su cui si
sofferma più avanti), troviamo pubblicate le più importanti vedute
pittoresche che nell’ultimo quarto del Settecento ebbero come oggetto il
Tempio. È in tali vedute che si intravede una rappresentazione simbolica
del tempo e della storia che apre a ipotesi fondamentali per la stessa
spiegazione scientifica dei fenomeni del Serapeo, alla quale sono dedicate
pagine importanti in cui ci si sofferma particolarmente sulle teorie elaborate
da John Playfair nel 1802, un anno spartiacque per la riformulazione dei
contenuti e dei metodi della scienza geologica.
Da questo punto di vista,
«la rievocazione pittorico-pittoresca di quanto rimaneva
dell’edificio di Pozzuoli era un modo per evidenziare la
temporalità e la storicità delle realizzazioni umane, del passato
e del presente, nel contesto di una natura soggetta anch’essa a
inarrestabili trasformazioni». Si giungeva così a offrire una
lettura storica che si stava rafforzando anche in campo architettonico, ma
soprattutto in quello delle scienze della terra, la cui perenne ciclica
trasformazione era ora vista come «una sequenza irreversibile di fasi nelle
quali era possibile scorgere una direzionalità
“evolutiva”»; benché solo nella prima metà
dell’Ottocento si poté «assistere alla piena affermazione di
una visione direzionale del mutamento geomorfologico e veder realizzato
l’ambizioso progetto di storicizzazione della natura attraverso
l’applicazione delle tecniche
paleostratigrafiche»[27].
6. Ciancio passa a questo punto alla
descrizione analitica delle vedute “pittoresche”, la più
antica delle quali si deve a C.-J. Vernet, con la particolarità che la
sua produzione di paesaggi non rappresentava luoghi immaginari. Attuando
piuttosto una forte adesione al dato architettonico e alla
“topografia” del sito, Vernet evidenziava il senso di
precarietà e di abbandono del luogo: sontuosa rovina da cui scaturiva la
condizione universale della transitorietà. Diversamente, Ch.-L.
Clérisseau, il quale, attraverso una pur approssimativa descrizione
topografico-architettonica del Tempio, inseriva nella veduta elementi del tutto
arbitrari che richiamavano antichi miti profani, come quello di Bacco, con cui
si voleva accreditare ipotesi percorse in precedenza da Winckelemann. Su di lui
pesava la lezione di Giambattista Piranesi, che nel riprodurre in primo piano e
vistosamente segnate dall’erosione le tre colonne, voleva evidenziare sia
l’imponenza monumentale del sito, sia il primato architettonico dei
Romani, già in precedenza
sostenuto[28].
Come accennavamo prima,
apoteosi del “pittoresco” è l’opera di Jean-Claude de
Saint-Non, nella quale il sito di Pozzuoli è rappresentato da una serie
di vedute di Hubert Robert e di Pierre-Adrien Pâris, che composero
«un vero e proprio dossier relativo al “Tempio”», entro il
quale le loro rappresentazioni artistiche «dialogano con un testo
attribuibile nelle sezioni virgolettate a Dominique Vivant-Denon e allo stesso
Pâris», che aveva appunto sviluppato un Plan géométral accanto
alle sue tavole “pittoresche”[29].
Per quanto concerne Robert, in una prima veduta (1760) egli accentuava il
carattere pittoresco del sito presentandone le rovine in un’atmosfera
indefinita, nella quale prevalgono i contrasti luce/ombre; nelle successive
versioni (1762) troviamo invece nuove accentuazioni del monumento di carattere
idilliaco, dove appare quale elemento arbitrario una statua egiziana utile a
richiamare il vero dato archeologico, quello del ritrovamento del busto di
Serapide. L’interesse per le antichità egizie, che in quel momento
si era risvegliato in tutta Europa, non spiega comunque fino in fondo
l’inserimento di questo «ingrediente compositivo
arbitrario»[30]. Ad ogni modo, nelle
vedute di Robert sono soprattutto le presenze di soggetti popolani a costituire
l’elemento distintivo che crea così un vincolo «tra evocazione
dell’antico e rappresentazione di scene di vita quotidiana e
familiare» per sottolineare la «persistenza del passato, spesso
occultata dalla natura e sommersa dall’oblio, nel vissuto degli uomini del
presente»[31].
Successive visioni sontuose
del Tempio procederanno su questa strada esprimendo «l’essenza stessa
della poetica settecentesca delle rovine». Sebbene Robert non prenda in
considerazione il fenomeno dell’erosione marina delle colonne, «tutti
gli elementi scelti a comporre la scena concorrono a far sì che il
sentimento del tempo la domini e che l’osservatore ne sia a sua volta
dominato»[32]. Invitato a entrare nella
veduta, lo spettatore non può infatti fare a meno di esserne coinvolto e
di provare una insopprimibile sensazione di solitudine e di malinconia, un
sentimento generale di transitorietà delle realizzazioni umane che induce
a meditare sul senso della vita dell’uomo e, dopo la riflessione di Volney
sul significato metaforico delle “rivoluzioni del globo”, anche del
potere.
L’approccio alle rovine
di Pâris, invece, era insieme artistico e naturalistico, ed offriva una
duplice visione del Tempio: di carattere “emotivo” e,
simultaneamente, di tipo “scientifico”. D’altronde, osserva
Ciancio, il tratto distintivo del Voyage era proprio quello di avanzare
una rappresentazione “pittoresca” della realtà sulla base di
un imprescindibile presupposto scientifico, che faceva sì che il problema
della sommersione delle colonne non venisse affatto ignorato, ma anzi fosse
discusso nella parte redatta da Vivant-Denon, il quale, confessando il suo
profondo disorientamento, riteneva comunque «che i fatti osservati
dovessero essere considerati “prove dei movimenti e dei bilanciamenti
[verificatisi] in questa parte del continente” e, nel contempo, una
dimostrazione dell’oscurità in cui il paese era stato abbandonato
per secoli, al punto da essere privo di qualsiasi resoconto dei grandi
avvenimenti naturali che lo avevano
trasformato»[33]. Nel Voyage si attuava insomma una
rivalutazione complessiva del vulcanismo alla luce di riflessioni
storico-artistico-architettoniche e naturalistiche, concependo
l’attività vulcanica quale agente di trasformazione perenne della
morfologia flegrea e campana, senza tuttavia riuscire ancora a chiarire i modi
del suo operare e il significato di tale azione in rapporto alle teorie della
terra[34]. Dentro questo solco, i tre grandi
acquarelli elaborati da Louis Ducros negli anni Novanta del Settecento – i
quali denotano una profonda evoluzione nel senso della rappresentazione
drammatica delle rovine e della natura che le avvolge, con l’inserimento
per la prima volta dell’elemento fittizio dell’acqua che ebbe grande
successo –, possono essere considerati un punto di approdo della ricerca
figurativa suscitata dal sito puteolano nell’ambito della veduta
pittoresca. E tuttavia, il vedutismo “pittoresco” non cessò
di essere utilizzato nel discorso scientifico, data la sua efficacia nella
comunicazione e le sue potenzialità
simboliche[35].
7. Le pubblicazioni relative al Tempio comparse
ai primi del secolo XIX segnano un punto di svolta in quanto alle
interpretazioni geologiche dei fenomeni del sito di Pozzuoli. Una pace durevole
permise infatti il rilancio degli studi sul campo e una ripresa del dibattito
internazionale; l ’età napoleonica, con le sue guerre e i
conseguenti problemi di successione dinastica, che avevano travagliato
soprattutto il Regno di Napoli determinando la repressione e la fuga di elementi
certo politicamente indesiderati ma dal grande valore scientifico e
intellettuale, sembrava essere superata, come si evince anche dal progressivo
«affermarsi di una nuova mentalità della tutela indirizzata non
più ai singoli reperti, ma al complesso architettonico in quanto
tale» [36].
Anno carico di importanti
significati fu in particolare il 1802 per l’uscita dei saggi di
Ermenegildo Pini, Viaggio geologico in alcune
regioni meridionali d’Italia, dove si avanzava la teoria dei moti
del mare, ma soprattutto di John Playfair, Illustrations of the Huttonian theory of the
Earth, con cui si presentava la teoria dei movimenti verticali del suolo.
In essi erano esposte le due concezioni teoriche che si contesero il campo in
ambito geologico nei successivi decenni, l’una evidentemente alternativa
all’altra, e sulle quali si strutturarono le riflessioni seguenti, non
solo di ambito scientifico, ma anche di segno archeologico-architettonico, tese
a dare dell’enigmatica questione dell’erosione delle colonne del
Tempio una spiegazione di carattere generale. Ad avere la meglio ancora fino a
metà Ottocento fu, com’è noto, la prima ipotesi, mentre
quella di Playfair non venne accettata dalla comunità degli studiosi per
una serie di resistenze culturali che rendevano faticosa l’accettazione
dell’idea di una crosta terrestre perpetuamente instabile. Ma anche in
ambito architettonico e archeologico permasero difficoltà di datazione e
di riconoscimento della funzione e della tipologia dell’edificio
addirittura sino agli inizi del XX secolo, quando, grazie all’imponente
monografia di Charles Dubois, si mise fine a tutte le incertezze interpretative
precedenti.
Sul piano iconografico, nel primo quindicennio
dell’Ottocento, la produzione di immagini e testi relativi al Serapeo
subì un forte ridimensionamento, risentendo, oltre che delle
problematiche dell’età napoleonica, anche di fattori nuovi, come
quello dell’abbassamento progressivo del suolo «che determinava una
presenza sempre più invasiva (e “pittoresca”) delle
acque»[37]. Tra di essi, Ciancio cita un
lavoro del 1808 del medico e storico naturalista tedesco J.F. Blumenbach, per il
quale i monumenti antichi fornivano conoscenze non solo naturalistiche (relative
cioè alla flora e alla fauna passate), ma anche informazioni sui
mutamenti geomorfologici e ambientali. Meritevole di citazione, anche un disegno
a penna con inchiostro acquerellato di Luigi Basiletti del 1809, che sottolinea
la serena e solenne compostezza architettonica del Serapeo.
Dopo il 1815, rilevanti
novità concettuali si vennero progressivamente a imporre sia nel campo
della geologia, della chimica e della fisica, sia in quello degli studi
antiquari ed eruditi. Tra questi, il Viaggio
a Pompei (1817) di Domenico Romanelli fornisce per la prima volta ipotesi
relative ai bagni collocati ai lati dell’esedra, affermando che, pur nella
dovizia dei marmi, essi erano delle semplici latrine. Molto importante, poi, la
lettura che del sito dette Andrea De Jorio. Il suo Ricerche sul Tempio di Serapide in
Pozzuoli (1820) rappresenta un punto di approdo di indagini archeologiche
durate oltre un decennio e costituisce una novità negli studi
archeologici per la concretezza dell’approccio che denota una forte
attenzione ai dati architettonici e monumentali riscontrabili sul luogo.
Infatti, sebbene propendesse per l’ipotesi di un Tempio dedicato al culto
di Serapide, nei confronti delle tesi scientifiche De Jorio si spendeva a favore
del progressivo interramento del sito dovuto alle lave che si erano accumulate
nei secoli e al conseguente innalzamento delle acque, evitando però di
discutere le cause dell’eventuale oscillazione del livello marino. Suo
merito particolare fu comunque la metodologia d’indagine con cui, grazie
anche alla frequentazione di ambienti scientifici francesi, fu in grado di
incrociare conoscenze architettoniche e dati stratigrafici, dando importanza
all’osservazione scientifica del manufatto e assumendo il criterio
storico-comparativo quale elemento di analisi. Lo si vede specialmente quando si
sofferma a riflettere sulla veduta più famosa del sito Puteolano, quella
di John Izard Middleton, artista americano che apparteneva al noto
“Circolo di Coppet”, che frequentò De Jorio a Napoli negli
anni precedenti l’uscita del volume del canonico partenopeo, dove troviamo
una delle sue tavole dedicate al Tempio. Peraltro, nel 1830, sempre
l’immagine di Middleton compariva in qualità di frontespizio nei Principles of Geology di Charles
Lyell.
8. Le tesi di De Jorio avevano alcuni testi di riferimento che Ciancio
opportunamente discute. Anzitutto, il lavoro di Giambattista Brocchi,
naturalista veneto, nonché autore del (forse) più originale
contributo dato alle scienze naturali nel primo Ottocento quale fu la Conchiologia fossile subapennina (1814). Favorevole al “nettunismo” di A.G. Werner, Brocchi,
attraverso un’accurata analisi stratigrafica e altrettanto accurati
rilievi topografico-architettonici, ribadiva l’idea di un innalzamento
delle acque, ipotizzando però che nei secoli, per una progressiva
accumulazione di materiali, il sito di Pozzuoli fosse sprofondato nel momento in
cui il livello generale delle acque del Mediterraneo si stava
alzando.
Altro contributo importante per De Jorio, il saggio di J.W.
Goethe, Un problema architettonico e
storico-naturale, uscito nel 1823, nel quale l’autore, per mezzo di
un’ipotetica ricostruzione visiva in sequenza a ritroso nel tempo del
monumento (dalle attuali rovine a come doveva essere in antichità),
dimostrava come i resti del Serapeo costituissero un caso esemplare di
metamorfosi della natura. La sua idea di mutamento era al riguardo ben precisa:
osservando cratere dopo cratere, la topografia dei Campi Flegrei presentava una
successione continua di sollevamento/sprofondamento, tale per cui si poteva
affermare che il suolo lì non era mai stato fermo. «Gli agenti
quotidiani della natura erano sufficienti a spiegare la decadenza del monumento
e il suo occultamento nei secoli dell’età di
mezzo»[38]. Si trattava di un’idea
non violenta e non catastrofica del mutamento naturale.
Terzo lavoro essenziale per
De Jorio fu quello dell’architetto francese Augustin-Nicolas Caristie, il
cui concorso alla conoscenza del sito di Pozzuoli è il più
sistematico e approfondito, anche se la ritardata pubblicazione dei risultati
delle sue analisi sul monumento ne ha limitato l’impatto almeno sino alla
fine dell’Ottocento. Solo nel 1893 uscì infatti una prima raccolta
dei suoi lavori, pubblicati per conto dell’Accademia di Francia della
quale era stato borsista tra il 1815 e il 1820. Recatosi a Pozzuoli quasi al
termine della sua permanenza in Italia, spinto dalla volontà di divulgare
e nel contempo di conservare quanto restava del monumento, soggetto da tempo a
ricorrenti spoliazioni, Caristie intese per prima cosa effettuare una raccolta
sistematica dei dati archeologici, architettonici e topografici mediante
accurate rilevazioni e sondaggi in
situ; quindi raccogliere e vagliare tutte le fonti archivistiche e
bibliografiche esistenti; infine individuare tutti i pezzi mancanti entrati
nelle costruzioni del riuso, utili a studiare quell’enigmatica
architettura. Il suo metodo di lavoro era teso a cogliere le forme antiche nella
loro totalità, comprese quelle paesaggistiche. Per il Tempio, Caristie
ipotizzava variazioni dovute a oscillazioni meccaniche del suolo che nei Flegrei
era costellato – sosteneva – da canali di aspirazione dei vulcani
(Vesuvio compreso), i quali, svuotandosi, producevano un abbassamento del suolo,
viceversa un suo innalzamento.
Al di là di tale spiegazione,
ancorata come si vede a vecchie concezioni organico-meccanicistiche, Caristie
adottava il metodo comparativo nell’intento di dare spiegazione alla
funzione dell’edificio, rivelando con ciò una sensibilità
nei riguardi del rapporto tra forma e funzione, a scapito di interessi per la
ricostruzione diacronica dell’evoluzione del monumento stesso, come
stavano tentando di fare i suoi contemporanei.
9. Le resistenze nei confronti di una
spiegazione dei fenomeni oscillatori del Tempio di Serapide che prendesse in
esame l ’ipotesi della mobilità e flessibilità della crosta
terrestre cominciarono a venire meno, paradossalmente, per opera degli stessi
sostenitori dell’innalzamento del mare. Allievi ed eredi di Werner,
accanitisi in passato contro l’idea dell’esistenza di un agente
igneo attivo in modo permanente nelle profondità del suolo terrestre,
iniziarono a manifestare «l’esigenza di ripensare la questione delle
cause del mutamento strutturale della crosta
terrestre» [39]. Tra loro, fu in
particolare Leopold von Buch a formulare le prime ipotesi di revisione
dell’impianto geognosico werneriano. Il calore venne indicato come fattore
di sollevamento del suolo; ma, avverte Ciancio, una teoria geologica risolutiva
era ancora di là da venire.
Negli stessi anni, Scipione
Breislack aveva ritenuto giusto insistere sull’agente igneo, tanto che nel
1811 aveva dato alle stampe una Introduzione
alla geologia, in cui «delineava una teoria della formazione del
globo da un “fluido igneo” nella quale trovava ampio riconoscimento
l’azione costruttiva dei
vulcani»[40]. Successivamente, nelle Institutions géologiques (1818), «la rinnovata discussione dei fenomeni del “Tempio”
svolgeva la funzione primaria di rafforzare la tesi secondo cui eventuali
mutamenti del livello degli oceani non erano dovuti a una costante diminuzione
del volume d’acqua come aveva sostenuto Werner, ma ad una sua diversa
distribuzione rispetto alle masse
solide»[41]. In tal modo, pur opponendosi
alle teorie di Lyell di cui diremo fra poco, Breislack «era stato il primo
a riconoscere in modo esplicito gli effetti di espansione volumetrica delle
masse rocciose provocati dal
calore»[42].
In ogni caso, benché
la concezione di una costante mobilità della crosta terrestre si stesse
ormai consolidando, rimanevano da stabilire «le cause, i ritmi, i tempi e
gli effetti di tale mobilità»[43],
tanto che ancora per qualche decennio i geologi pensarono che la nascita delle
catene montuose, le grandi inondazioni, le eruzioni vulcaniche, fossero
accadimenti di natura catastrofica.
Propugnatori del
catastrofismo furono, in particolare, gli scienziati britannici. La loro
principale preoccupazione era «la ricostruzione minuziosa delle sequenze
stratigrafiche regionali allo scopo di coordinarle su scala planetaria e farne
la base per una vera e propria storia geopaleontologica della
terra»[44], tanto che i grandi
interrogativi della geodinamica – la nascita delle montagne, la natura del
nucleo interno della terra, i meccanismi di erosione, sedimentazione e
consolidamento – avrebbero trovato solo in seguito valida spiegazione.
Tuttavia, sebbene il dibattito tra “scienza humboldtiana” (raccolta
dei dati quantitativi e individuazione delle relazioni tra sistemi e fenomeni) e
nuova scienza geologica (modelli geodinamici) si fosse manifestato in Gran
Bretagna con toni assai meno accesi di quelli che caratterizzarono nel secondo
Settecento le “teorie della terra” (si pensi allo scontro tra i
cosiddetti “vulcanisti” contro i “nettunisti”), il
confronto fra gli scienziati fu egualmente ricco e vivace.
Ciancio ne propone una
panoramica, soffermandosi in particolare sulle tesi di James David Forbes, il
quale aveva prodotto una ricchissima documentazione relativamente ai fenomeni
vulcanici e indugiato proprio sul Serapeo con una memoria del 1829 – On the Temple of Jupiter Serapis at
Pozzuoli[45] – dove, nonostante la
giovane età, «affrontava con notevole competenza e attenzione
documentaria i problemi irrisolti del sito di
Pozzuoli»[46], giungendo a sostenere che
lì, non solo vi era stato un fenomeno catastrofico come quello
dell’esplosione vulcanica che aveva creato il Monte Nuovo nel 1538, ma vi
era stata anche una progressiva accumulazione di materiale vulcanico a seguito
dell’eruzione della Solfatara nel 1198, che aveva permesso la
conservazione dei marmi e delle colonne così come rinvenute nel 1750;
infine, le acque vi erano potute penetrare per una lieve oscillazione dello
stesso livello marino, dovuta però alla subsidenza del terreno che
risentiva dei processi vulcanici ivi presenti.
10. Con l’obiettivo di contrastare le teorie del
catastrofismo, nel 1830 il geologo scozzese Charles Lyell decideva di rendere
manifesto il suo punto di vista, ritenendo utile concentrare la propria
attenzione sui fenomeni del Tempio. Col suo intervento non voleva
«affermare genericamente una “mobilità” della crosta
attestata ormai in molti luoghi, [ma] dimostrare che il ricorso a eventi di
scala e intensità anomale era
ingiustificato»[47]. Maestro di Charles
Darwin, dal valore scientifico e dalla fama internazionale assoluti, Lyell era
in effetti la figura più importante che emerse dal dibattito pubblico
promosso in quegli anni dalla comunità geologica inglese. Interessato a
«riprendere su basi nuove il confronto con il sapere storico-letterario,
artistico e archeologico senza, con ciò, mettere mai in discussione
l’esigenza di rafforzare l’autonomia disciplinare della
geologia»[48], non fu per caso che scelse
come frontespizio dei suoi Principles of
Geology (1830-1833) l’immagine del Serapeo prodotta da Middleton,
la quale «riassumeva alla perfezione quella visione ciclica della dinamica
terrestre che costituisce il nucleo teorico centrale del [suo] capolavoro
scientifico»[49]. In essa viene in
particolare evidenziato «lo scarto doloroso tra la temporalità del
singolo, quella delle rovine, e il “tempo profondo” della
terra», e compone la rappresentazione esatta della filosofia che guidava
Lyell, la quale – come ha suggerito Virginia Zimmermann – era tesa a
«narrare e leggere la storia del tempo, ossia [a] confrontarsi con il
“tempo profondo” e [a]
“dominarlo”»[50].
Ciancio si sofferma
così sulla ricostruzione del percorso scientifico seguito da Lyell prima
di giungere alle conclusioni che due erano gli agenti ignei responsabili del
mutamento della crosta terrestre: i vulcani e i terremoti; i quali davano
origine a fenomeni di superficie molto diversi, benché spesso tra loro
connessi. Infatti, l’innalzamento del suolo era dovuto alle emissioni
vulcaniche attraverso eruzioni dal basso di materia fusa e della sua
accumulazione progressiva sui bordi e sui fianchi della “bocca”
vulcanica che ne conferivano la forma conica; mentre il sollevamento del terreno
prodotto da forze come i terremoti non comportava alcuna alterazione della
disposizione stratigrafica, ma solo uno spostamento (sollevamento o depressione)
di vasti tratti del territorio. Entro tale quadro, i fenomeni che riguardavano
il Tempio dicevano che il livello relativo del mare e della terra era mutato due
volte: come affermava Forbes, nel 1198, con l’eruzione della Solfatara, e
nel 1538, con la nascita del Monte Nuovo. Tuttavia, secondo
Lyell,
poiché nel Mediterraneo non esistono maree apprezzabili, né si poteva ipotizzare una così sensibile variazione del livello marino nel corso degli ultimi duemila anni perché il mare avrebbe lasciato ampia traccia di sé, si doveva concludere [che] le interminabili controversie che il sito aveva suscitato sino a quel momento derivavano da “un’estrema riluttanza ad ammettere che [fosse] la terra a non il mare ad essere soggetta alternativamente a sollevamento ed abbassamento”. Si trattava – spiega Ciancio – di un “forte pregiudizio” che i geologi contemporanei erano chiamati a superare riconoscendo che il tradizionale attributo della stabilità doveva essere riconosciuto al mare, mentre la terra si avviava a diventare l’emblema dei processi di mutamento inarrestabile che caratterizzavano la natura nel suo insieme[51].
Al sito di Pozzuoli, dunque, Lyell attribuiva un ruolo cruciale: luogo esemplare per le scienze della terra e in particolar modo per la geodinamica, esso rappresentava l’istanza decisiva «a sostegno dell’uniformità (immutabilità nel tempo e intensità costante) dei processi naturali»[52]. Ecco che, anche se il modello idrostatico che stava alla base delle considerazioni di Lyell non s’era rivelato del tutto adeguato alla spiegazione dei processi di oscillazione della crosta terrestre, in quanto, come aveva obiettato Charles Darwin a seguito del suo viaggio americano, terremoti, eruzioni vulcaniche e sollevamenti improvvisi delle linee di costa, osservati ad esempio nel Pacifico, erano «irregolarità d’azione in qualche fenomeno più ampiamente esteso»[53] e altra causa comune doveva esserci a spiegazione di quella varietà di fenomeni, le fondamenta per una teoria compiuta e coerente della stessa mobilità della crosta terrestre erano state definitivamente gettate.
11. Come s’è detto, al
centro dell’ultima fase del confronto intorno al Serapeo stava la teoria
uniformitarista di Lyell, che del monumento di Pozzuoli aveva fatto un prezioso
idrometro e un cronometro naturale con cui misurare direzione, intensità
e ritmo dei moti verticali della crosta terrestre. Il sito puteolano gli si
offriva come uno “strumento per pensare” e, contestualmente, come
un’arma adeguata con cui contrastare le teorie catastrofiste, almeno sino
a quando, negli anni Sessanta dell’Ottocento, la sua importanza
iniziò a scemare per l’affiorare di nuovi controversi fenomeni
geologici in altre località del globo che portavano con loro nuove sfide
intellettuali. Il dibattito sul Tempio proseguì quindi sul piano teorico
intorno a una precisa questione rimasta priva di risposte: capire quali fossero
le reali cause del sollevamento dal basso del suolo. Di tale dibattito i
principali attori furono Antonio Niccolini e Charles Babbage, che Ciancio segue
nei loro ragionamenti servendosi, ancora una volta, delle immagini relative al
Serapeo, le quali, grazie a una progressiva tecnicizzazione del linguaggio e
delle metodologie d’indagine, erano ora delle tavole tecniche di tipo
fisico-matematico, «anche se nell’argomentare dei geologi
continuarono a svolgere un ruolo non trascurabile figure e discorsi di
provenienza storico-naturale e
storico-antiquaria»[54].
Per quanto riguarda Antonio
Niccolini, lo studioso avverte che questi rappresenta un caso del tutto
particolare: architetto interessato al sito puteolano almeno dal 1807, Niccolini
poté studiare a più riprese il monumento dato il ruolo che
ricopriva nell’ambito dell’attività di tutela architettonica
di Napoli. Dal 1824, infatti, aveva assunto la direzione dei lavori di
liberazione del sito dalle acque stagnanti, potendo così non solo cercare
soluzioni efficaci ai crescenti problemi idraulico-ingegneristici posti dal
ristagno delle acque entro il perimetro del monumento, ma anche elaborare una
propria personale teoria. Ostinato difensore dell’antico dogma della
stabilità della terra, ingaggiò una serie di dispute accademiche
dai toni anche accesi con molti scienziati di professione, opponendosi in
particolare alle tesi di Lyell esposte nel primo volume dei Principles.
Contro quel
“pregiudizio atavico” di cui Niccolini era evidentemente portatore,
s’era palesato l’astronomo Ernesto Capocci, direttore
dell’Osservatorio di Capodimonte, attraverso due contributi originali che
ebbero vasta eco sia in Francia che in Germania. Tali scritti, del 1833 e del
1835, nell’assumere valore generale ai fini della ricerca degli agenti
scatenanti il fenomeno orogenetico, riportavano gli eventi del Tempio a un
«presente periodo di calma» dell’attività vulcanica e a
una elasticità particolare della superficie terrestre del sito che
giustificava l’alzarsi/abbassarsi del terreno in maniera non catastrofica,
sebbene pur sempre per diretta o indiretta azione vulcanica e/o
sismica[55]. In Italia, tuttavia, a prevalere
furono sostanzialmente le concezioni tradizionali tese a ridurre i fenomeni di
Pozzuoli a mere eccezioni. Anche in chi, come Leopoldo Pilla, tra i maggiori
vulcanologi napoletani, nonché docente di geologia
all’Università di Pisa, aderendo alla teoria dei crateri di
sollevamento aveva assunto un punto di vista certo più avanzato,
l’idea che la situazione idrostatica di Pozzuoli e dintorni costituisse un
mero fenomeno locale continuò a
persistere[56].
12. Il superamento definitivo
delle tesi di Niccolini che infransero le ultime resistenze tra gli stessi
scienziati italiani, si ebbe, oltre che dalle successive integrazioni apposte da
Lyell ai suoi Principles, soprattutto
dalle indagini di Charles Babbage, il quale, nel 1834, aveva reso pubblica una
memoria epistolare indirizzata a W.H. Fitton, dove, per la prima volta, ci si
serviva sistematicamente degli strumenti concettuali della fisica e della
matematica per mostrare come si formassero le montagne e dare con ciò
spiegazione coerente ai fenomeni dei Campi Flegrei. Si trattava di una
novità importante e decisiva, esposta in seguito a più riprese in
volumi e riviste, che dette luogo a una “geologia dinamica” nella
quale i fenomeni del Tempio trovavano spiegazione entro una teoria generale
della terra.
Lo scienziato inglese si basava su un preciso “modello
termico” imperniato sull’idea che fosse il calore a dilatare le
rocce, le quali, a loro volta, creavano i sollevamenti registrati non soltanto
nel sito di Pozzuoli, ma anche in molte altre parti del globo. Spiega
Ciancio:
il modello termico si fondava [...] su un aumento di volume degli strati resistenti provocato da un aumento della loro temperatura che, a sua volta, si traduceva in una elevazione complessiva della massa più superficiale. L’azione intermittente del calore e il diverso comportamento delle sostanze sottoposte a riscaldamento spiegavano i fenomeni in modo più efficace di quanto consentisse di fare l’azione meccanica di spinta [assicurando] la possibilità teorica di una ciclicità del processo. [Inoltre, grazie al fatto che tale teoria] si basava sui diversi coefficienti di dilatabilità dei materiali rocciosi, il modello si adattava alla composizione litologica di ogni segmento particolare della crosta[57].
Riguardo infine al
Serapeo, le considerazioni di Babbage costituivano anche in tal caso assoluti
elementi di novità, in quanto lo studio delle incrostazioni lasciate
dalle acque sulle strutture murarie interne dell’edificio gli confermavano
l’esistenza di fasi di sommersione rapportabili in modo coerente alle sue
ipotesi di mutamento (la cosiddetta teoria della “variazione secolare
delle superfici isoterme”). E, benché la sua opera non fosse
risolutiva intorno ai fenomeni del Tempio, essa era ormai un punto di svolta
imprescindibile che vinse sulle ostinate tesi di Niccolini.
Ciancio
evidenzia allora come Lyell, il cui “modello idrostatico” usciva
comunque rafforzato da quello “termico” di Babbage, non avesse di
fatto voluto affrontare appieno le conseguenze delle novità introdotte
dall’amico collega, e si fosse invece limitato ad accogliere nei suoi Principles «i principali
contributi di carattere osservativo apparsi dopo il 1830», evitando
«di entrare nel merito delle teorie che erano state avanzate per spiegare
quei fenomeni»[58]. Eppure, le nuove
misurazioni del livello delle acque nel perimetro del Tempio fornitegli da
Arcangelo Scacchi nel 1852, gli confermavano che il sito era soggetto a un lento
e alternativo abbassamento/innalzamento della terra dovuto alle fasi di
restrizione/dilatazione delle rocce sottostanti a causa del calore. Inoltre, gli
elementi distintivi del suo uniformitarismo – gradualità,
differente entità e direzione – corrispondevano ai caratteri
intrinseci dei movimenti oscillatori non soltanto del sito puteolano, ma
altresì di «altre località del Mediterraneo e del
Pacifico», come risultava dagli studi, oltre che di Babbage,
dell’allievo Darwin, dei quali Lyell sposò le argomentazioni,
accogliendo finanche l’ipotesi «di una intrusione sotterranea,
orizzontale o obliqua, di lava fusa tra gli strati preesistenti suggerita da
Darwin»[59].
La vicenda relativa al Tempio
ricostruita da Ciancio con grande dovizia di particolari termina sulla
significativa denuncia operata dal periodico «The Builder» che, in un
articolo redazionale dell’ottobre 1855, criticava la decisione
dell’amministrazione comunale di Pozzuoli di chiudere i canali di
collegamento col mare e di coprire di sabbia il pavimento del Serapeo, dopo aver
rimosso i frammenti di colonne appoggiati sul pavimento stesso. Dietro questo
intervento, teso a bonificare un’area dove le popolazioni erano soggette e
“febbri intermittenti”, v’era un vivace braccio di ferro tra
soprintendenza generale del monumento e autorità locali, le cui ragioni
prevalsero definitivamente nel 1863. «A seguito di tali interventi –
conclude Ciancio – non soltanto scompariva un sensibilissimo strumento di
misurazione dei moti verticali del suolo; ma uno dei più famosi monumenti
dell’area flegrea cambiava radicalmente il suo inconfondibile aspetto
[...]. Uno dei luoghi più celebri dell’immaginario visivo del
secolo XIX aveva mutato di nuovo la sua configurazione; questa volta non per
azione della natura, ma a seguito di interventi invasivi da parte
dell’uomo»[60].
[1] P. Rossi, I segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano, Feltrinelli, 1979 [poi tradotto in inglese e pubblicato per la University of Chicago Press, Chicago-London 1984].
[2] Ciancio, p. 7.
[3] Ciancio, p. 8. È lo stesso Ciancio a sottolineare come, negli anni Novanta del Novecento, «sul piano dei contenuti, una direzione innovativa (in parte anticipata ne I segni del tempo di Paolo Rossi) è costituita dall’attenzione riservata alle relazioni tra la storia naturale e alcuni ambiti della cultura storico-letteraria e artistica. Si pensi al fondamentale processo di superamento della cronologia biblica e di scoperta dell’abisso del tempo geologico, il cui studio ha evidenziato l’intricato rapporto tra la geopaleontologia emergente e discipline quali l’antiquaria, l’erudizione, la storiografia». Cfr. Id., Scienze della vita e scienze della terra nella più recente storiografia italiana della scienza: espansione o ripiegamento?, in Il Settecento negli studi italiani. Problemi e prospettive, a cura di A.M. Rao e A. Postigliola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 239-255: p. 245.
[4] Ciancio, p. 10, nota 14.
[5] Ciancio, p. 8.
[6] Infatti, ricorda Ciancio, «quanti, all’epoca, si occupavano prevalentemente di antichità e di erudizione erano sostanzialmente liberi di discutere anche di questioni di carattere “scientifico”, purché lo facessero sulla base di dati empiricamente fondati e criticamente esaminati», così come «i filosofi naturali [...] non si sentivano in alcun modo costretti a limitare i loro interventi ai soli ambiti disciplinari della “fisica”» (p. 34).
[7] In tale contesto, prosegue l’autore, «i confini tra le scienze dell’antichità e le scienze della natura non soltanto non erano chiaramente definiti, ma tra i due ambiti persisteva una profonda sintonia fondata su approcci condivisi e finalità enciclopediche comuni» (Ciancio, p. 34). Cfr. R. Rappaport, When Geologists were Historians 1665-1750, Ithaca and London, Cornell University Press, 1997, capp. 1 e 3.
[8] Ciancio, pp. 17-18.
[9] Ciancio, p. 44.
[10] Le considerazioni in Ciancio, p. 44; le parole di Nixon sono citate in Ciancio, p. 33.
[11] Ciancio, p. 35.
[12] Si tratta delle Observations sur les Antiquités d’Herculanum, Napoli, J. Gravier, 1757. Sulla tipografia Gravier di Napoli, cfr. A. De Falco, Giovanni e Francesco Gravier, in Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, a cura di A.M. Rao, Napoli, Liguori, 1998, pp. 567-577.
[13] Ciancio, p. 51.
[14] Ciancio, p. 52.
[15] Motore del “fenomenismo” fu senz’altro Sir William Hamilton, la cui attività di committenza nello studio e nelle rappresentazioni del sito ci ha lasciato immagini molto realistiche del Tempio, attraverso le quali è possibile seguire il parallelo dibattito teorico che di tali immagini si servì per proporre nuove ipotesi in campo prettamente geologico, oltre che all’interno del più vasto e generale alveo di storia naturale.
[16] Nella Dissertation lue a l’Académie Royale des Science de Stockholme, in «Observations sur la Physique», I, 1771, pp. 5-29.
[17] Ciancio, p. 55. Il riferimento è a A.L. Moro, De’ Crostacei e degli altri marini corpi che si truovano sui monti, Venezia, Monti, 1740, convinto che nella formazione delle catene montuose un ruolo centrale venisse svolto dalle forze vulcaniche.
[18] Ciancio, p. 56.
[19] Ciancio, p. 62.
[20] Ciancio, p. 63, nota 80.
[21] Ciancio, p. 64.
[22] Ciancio, p. 67.
[23] Ciancio, p. 67.
[24] Ciancio, p. 69.
[25] Ciancio, p. 75.
[26] Ciancio, pp. 76-77.
[27] Ciancio, p. 80.
[28] Cfr. G.B. Piranesi, Della magnificenza ed architettura de’ Romani, Roma 1761; Id., Osservazioni [...] sopra la Lettre de M. Mariette aux Auteurs de la Gazette Littéraire de l’Europe, Roma 1765; Id., Scritti di storia e teoria dell’arte, a cura di P. Panza, Varese, Sugarco, 1994, pp. 216-241.
[29] Ciancio, pp. 90-91.
[30] Ciancio, p. 86.
[31] Ciancio, p. 88.
[32] Ciancio, p. 90.
[33] Ciancio, p. 93.
[34] «Per quanto problematica, l’integrazione tra i saperi storico-antiquari e quelli storico-naturali era al cuore stesso del progetto redazionale di Saint-Non e poteva contare su un solido retroterra condiviso: il metodo autoptico, la priorità attribuita al “monumento”, il rapporto con l’erudizione» (Ciancio, p. 95).
[35] Ciancio, p. 97.
[36] Ciancio, p. 122.
[37] Ciancio, p. 122.
[38] Ciancio, p. 134.
[39] Ciancio, p. 140.
[40] Ciancio, p. 140.
[41] Ciancio, p. 141.
[42] Ciancio, p. 142.
[43] Ciancio, p. 143.
[44] Ciancio, p. 144.
[45] Il titolo completo è: Physical notice of the Bay of Naple. N° 5: On the Temple of Jupiter Serapis at Pozzuoli, and the phenomena witc it exhibit, «Edimburgh Journal of Sciences», II, new series, pp. 260-286, e in trad. fr., «Journal de Géologie», I, 1830, pp. 354-373.
[46] Ciancio, p. 146.
[47] Ciancio, p. 144.
[48] Ciancio, p. 148.
[49] Ciancio, p. 148.
[50] Ciancio, p. 150 e nota 152. Cfr. V. Zimmermann, Excavating Victorians, New York, State University of New York Press, 2008, p. 45.
[51] Ciancio, p. 155.
[52] Ciancio, p. 155. L’uniformitarismo esigeva l’intensità costante dei processi, delle forze e delle leggi che operano il mutamento.
[53] Cito da Ciancio, p. 175.
[54] Ciancio, p. 159. Come lo stesso studioso spiega nell’ultima parte di questo lavoro – che costituisce una riflessione a corollario del discorso condotto nel testo, utile a «mostrare come, attraverso la cultura visiva, la riflessione scientifica abbia subito gli effetti delle dinamiche politico-sociali dell’età delle rivoluzioni e, sul piano delle sensibilità collettive, non sia stata estranea alla formulazione e diffusione di proposte per la trasformazione delle società» (p. 198) –, «l’abitudine ai topoi paesistici del territorio flegreo, rafforzata dalla ripresa dei criteri compositivi e stilistici della produzione pittorica – dapprima attraverso la tecnica litografia e xilografica, poi mediante la fotografia – garantiva una riconoscibilità dei siti e dei monumenti rappresentati che faceva premio sulla ricerca di immagini caratterizzate da una iconicità originale, estranea all’evocazione tardo-romantica del paesaggio e della rovina» (p. 237).
[55] Cfr. E. Capocci, Nuove ricerche sul noto fenomeno delle colonne perforate delle foladi nel Tempio di Serapide in Pozzuoli, in «Il progresso delle scienze, lettere e arti», IV, vol. XI, pp. 66-75.
[56] Esaminando la pubblicistica specializzata e i resoconti dei numerosi consessi scientifici italiani che, a metà Ottocento, presentavano sezioni appositamente dedicate alla geologia, Ciancio mette in evidenza come nessuna delle novità teoriche più recenti vi fosse stata discussa, permanendo ipotesi ormai vetuste sia nel campo della spiegazione dei fenomeni orogenetici, sia in relazione a quelli del Serapeo. Ecco spiegate le ragioni per le quali a Niccolini fu possibile continuare a sostenere la tesi dell’esistenza di fasi marine, ovvero di lente oscillazioni del livello delle acque dovute a ragioni geofisiche, che allagavano periodicamente le rovine del Tempio, benché nella sua riformulazione teorica di quegli anni avesse riconosciuto l’importanza del vulcanismo e delle forze ignee nella trasformazione del territorio campano.
[57] Ciancio, pp. 178-179.
[58] Ciancio, p. 182.
[59] Ciancio, p. 191.
[60] Ciancio, p. 195.