1. Mosso
da un interesse scientifico per la politica, per il diritto e per la storia,
appassionato conoscitore dei classici, Montesquieu (1689-1755) è
senz’altro uno degli autori più studiati, ammirati e discussi
dell’età moderna. Nell’ambito della Storia delle dottrine
politiche, egli è conosciuto e citato soprattutto in virtù
dell’impulso che la sua opera ha dato ai principi del costituzionalismo, e
in generale per le sue idee ispirate al liberalismo, idee che hanno influito
sulle grandi rivoluzioni del XVIII secolo in Europa e negli Stati Uniti, e che
da sempre condizionano profondamente i dibattiti e la riflessione filosofica.
Dato il radicamento e la grande diffusione di tali idee, si rendono
continuamente necessari un loro approfondimento e una loro chiarificazione.
Il
volume raccoglie alcuni significativi scritti su Montesquieu, apparsi negli
ultimi decenni, di autori di diversa provenienza e formazione che in età
contemporanea si sono tutti distinti nel panorama culturale internazionale. Si
tratta di Hannah Arendt, Raymond Aron, Isaiah Berlin, Norberto Bobbio, Federico
Chabod, Sergio Cotta e Jean Starobinski. Tali autori hanno lasciato
un’impronta sulla formazione dello stesso Felice e qui contribuiscono a
far luce su alcuni degli aspetti più importanti dell’opera di
Montesquieu, aspetti che, come il titolo del libro suggerisce, ruotano intorno a
una categoria che in essa è centrale: l’idea di spirito.
L’idea
di spirito in Montesquieu riguarda tanto le società quanto le istituzioni
e le leggi. È un’idea non soltanto sintetica di un certo ordine di
rapporti tra cose, ma anche dinamica, perché dà conto delle
passioni, dei bisogni e degli interessi che agitano i diversi ordinamenti
politici.
A
tale idea si connette quella delle cause
generali – sia fisiche o materiali (quelle legate al mondo naturale) sia morali o
spirituali (tra cui i regimi politici, le leggi, i costumi, gli usi, le
religioni) – che insieme agiscono sulla vita degli ordinamenti e sul corso
della storia. Montesquieu ha combinato in questo senso sia il determinismo che
faceva leva sulle scienze naturali e meccanicistiche del secolo precedente, sia
il riferimento alle nuove scienze sociali e antropologiche, sia il richiamo agli
aspetti propri della riflessione politica classica, esprimendo con ciò la
necessità di una nozione più ampia di razionalità che
avesse come punto di partenza non soltanto la conoscenza della natura umana,
della natura e dello scopo dell’ordine politico, ma anche
l’osservazione e lo studio delle influenze che
l’esprit
général,
complessivamente, esercita sulle scelte e sulle decisioni degli uomini.
2. Del
resto, Montesquieu introduce innovazioni rispetto alla stessa teoria politica
classica, quali una nuova tripartizione delle forme di governo –
repubblica, monarchia, dispotismo – che vede il dispotismo come forma a
sé, separata da quella monarchica; alla luce della categoria di spirito,
egli introduce un’altra innovazione, l’idea di
“principio”, ovvero di un genere particolare di passione
caratteristica di ciascuna forma di governo (la virtù, nel caso della
repubblica; l’onore, in quello della monarchia; la paura, nel dispotismo);
un’ulteriore distinzione, questa volta tra “modi” di
governare, ovvero quella tra «governo moderato» e «governo
dispotico», con la precisazione che la libertà può derivare
soltanto dalla moderazione, ovvero dalla “mistione” democratica,
dalla partecipazione cioè alle decisioni di tutte le forze sociali e
politiche; e, per questa via, Montesquieu reinterpreta i tradizionali concetti
di sovranità e di legge, il cui significato non è più visto
come separato e indipendente né dall’insieme delle azioni umane che
sono alla base della vita politica né dalla stessa struttura della
società.
Anche
la libertà politica, quantunque
nell’Esprit
des lois (1748) sia
definita da Montesquieu come «il diritto di fare tutto quello che le leggi
permettono» (XI, 3), nell’insieme della sua opera, più che
esaurirsi nel principio di legalità, deve essere vista come la risultante
della dialettica politica e sociale nella quale assumono rilievo il valore dei
singoli individui e i molteplici fini che essi perseguono, in una visione
pluralistica del bene umano e del bene comune.
Come
chiarito da Isaiah Berlin nel primo saggio dell’opera (pp. 11-41),
Montesquieu è una sorta di “nuovo Aristotele”, un autore che
ha saputo cogliere molto bene l’importanza del ruolo che le circostanze
giocano sulle scelte e sulle decisioni degli uomini. Quantunque egli non sia un
relativista riguardo al bene, e anzi creda che la giustizia di per se stessa si
configuri come un valore eterno, allo stesso tempo pensa che circostanze
particolari richiedano una giustizia particolare, che la phronesis consista nello stabilire di volta in volta cosa realizzare e come realizzarlo
(la scelta si esercita dunque non solo sui mezzi, ma anche sui fini).
3. Dato
che i fini degli uomini sono molteplici e svariati, non può esistere un
unico sistema di valori, un’unica soluzione per i problemi politici e
sociali.
E
data l’incidenza dei fattori materiali su tali problemi, si renderanno
continuamente necessari l’osservazione e lo studio dei fatti, della
realtà storico-sociale empirica, al fine di comprendere ciò che un
ordinamento concretamente può offrire.
Di
fatto, spiega Berlin, gli organismi politici sono, nella visione di Montesquieu,
molto simili alle specie viventi, giacché hanno una propria struttura
interna, delle leggi che ne regolano il funzionamento. Quando
l’ordinamento rispetta le sue leggi interne, esso raggiunge i propri fini;
allorché tali leggi vengono violate, ecco che la natura si corrompe, e
hanno inizio la corruzione e il declino. Il compito degli amministratori, dei
legislatori, dei giudici, e in generale dei funzionari di Stato, è allora
non soltanto quello di comprendere la struttura particolare che sta alla base di
ciascun ordinamento, ma anche quello di preservarne la salute (p. 23).
Montesquieu
è convinto che le azioni umane abbiano una sorta di preminenza su tutti
gli altri fattori che, in generale, agiscono sul corso della storia. Tuttavia, a
differenza degli altri philosophes dell’Illuminismo settecentesco, egli non nutre una fede accentuata nei
riguardi del progresso che fa leva sulla ragione e sulla conoscenza umane. Per
lui la storia non va in una direzione determinata, e anzi può vedere
l’alternarsi di momenti di grandezza e momenti di decadenza dei governi e
delle società.
Ciò
sembra sposarsi, peraltro, con una particolare visione dell’uomo e del
rapporto che egli intrattiene con gli altri uomini all’interno delle
comunità.
In
tale visione gli esseri umani possono agire ora in modo positivo, assecondando i
principi del diritto naturale, quali la giustizia e l’equità, ora
in modo negativo, rivolgendosi all’egoismo. Come chiarito nel primo libro
dell’Esprit
des lois,
benché per sua natura l’uomo sia un essere pacifico e incline alla
reciprocità, nella società il suo interesse si scontra con quello
degli altri, ed è così che la società diviene il luogo
della disuguaglianza, della violenza e del conflitto. Ciò ha conseguenze
per la stessa vita politica, nella quale si tratta spesso di dover lottare per
l’equilibrio e la pace da un lato e di assecondare le aspirazioni, i
desideri degli individui dall’altro lato. Montesquieu sa che spesso questi
valori sono inconciliabili, e tuttavia, come ribadito più volte dagli
autori qui antologizzati nel corso delle loro analisi, nel suo caso il fine
della libertà degli individui detiene una sorta di primato su tutti gli
altri valori.
4. Riguardo
alla sua natura e al suo significato, la libertà è per Montesquieu
un valore che trascende l’ordine politico, è una condizione
fondamentale della stessa esistenza umana, e tuttavia essa ha bisogno del
politico, delle possibilità che esso offre e dei limiti che esso impone,
per concretizzarsi come bene umano. Potremmo dire che pace e conflitto sono,
nella sua visione, due facce della stessa medaglia, giacché è
soltanto nelle società “agitate”, in cui agli uomini è
dato perseguire una pluralità di fini o scopi, che possono sussistere le
condizioni effettive del consenso e dunque della pace stessa.
Questa
è precisamente l’essenza del governo moderato o misto, per la cui
teorizzazione Montesquieu ha mostrato un grande interesse nella sua opera
già a partire dalle Considérations
sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734), per
arrivare alla trattazione matura dell’argomento
nell’Esprit
des lois,
in particolare nel libro XI. Qui si parla della libertà che dovrebbe
essere garantita dalle lois
fondamentales,
in particolare dal requisito della divisione e distribuzione dei poteri.
Come
spiega Sergio Cotta (pp. 131-161), qui Montesquieu riprende, innovandola, la
tesi della divisione funzionale dei poteri di John Locke
(Second
Treatise of
Government).
In particolare, Montesquieu fa discendere la libertà politica dal
requisito dell’autonomia del potere giudiziario rispetto al legislativo e
all’esecutivo, un elemento, questo, cui Locke sembra non aver prestato
sufficiente
attenzione.
Entrambe
le teorie nascevano dall’osservazione del funzionamento del governo
inglese, ma mentre per Locke esiste una sorta di gerarchia tra poteri che ha al
suo vertice il potere legislativo, per Montesquieu i poteri si trovano in una
condizione di piena parità, dalla quale si origina un contrasto, una
dialettica continua, che dovrebbe tuttavia dar luogo alla convergenza unitaria
dei poteri intorno al fine della libertà e dunque della pace.
5. Nel
libro XII
dell’Esprit
des lois,
Montesquieu definisce la libertà politica anche come quel genere di
sicurezza che dovrebbe derivare ai cittadini dal rapporto con gli altri
cittadini, che egli chiama “libertà di fatto”, distinguendola
dalla prima, la “libertà di diritto”. Per Cotta il
significato della sicurezza cui Montesquieu fa riferimento deve essere ricercato
in un insieme di fattori sia politici sia sociali sia morali (cfr. pp. 152 sgg).
In generale, tale sicurezza dovrebbe nascere dall’incontro tra la
dialettica di cui abbiamo detto sopra, quella che ha luogo tra i poteri
pubblici, e in particolare dal requisito dell’autonomia dei giudici, con
un altro genere di dialettica politica, quella ingenerata
dall’esprit
général (della quale si parla alla fine del libro XIX
dell’Esprit
des lois,
sempre con riferimento all’Inghilterra), la quale è propria di un
intero popolo, e ha per oggetto le sue passioni e i suoi interessi concreti.
Nonché dall’incontro di queste dialettiche con il rispetto di
quella natura umana di cui abbiamo detto, che è definita dai bisogni di
pace, di socialità, di
libertà.
Rifacendoci
all’analisi di Raymond Aron (pp. 43-92), potremmo dire che Montesquieu
è sia un filosofo politico sia un sociologo, nella misura in cui,
attraverso la nozione sintetica di esprit
général,
egli sancisce la connessione imprescindibile tra regime politico e struttura
della società, come mostra il riferimento alla nozione di principio come passion collettiva che fa muovere i governi, o l’analisi che egli fa della natura
delle leggi, come insiemi di rapporti che scaturiscono dalla nature
des choses.
Del resto, se si esamina nel complesso
l’Esprit
des lois,
si nota subito quest’aspirazione dell’autore a tutto comprendere,
tutto esaminare nella sua concretezza: le leggi, le istituzioni e i costumi
particolari delle varie
nazioni.
E
d’altra parte, sottolinea Aron, se c’è un governo che si
sottrae al determinismo storico, e in verità si adatta a tutti i luoghi e
a tutti i tempi, quello è proprio il governo moderato, che, come lo
stesso Montesquieu spiega, può adattarsi a ogni realtà politica e
sociale, trattandosi di una modalità attraverso cui viene esercitato il
potere (pp. 59 sgg).
6. Ciò
è dimostrato, ad esempio, dall’accostamento che Montesquieu fa tra
il gouvernement
d’Angleterre,
il gouvernement
gothique e
l’antica repubblica romana, nel libro XI
dell’Esprit
des lois,
tutti governi che ai suoi occhi avevano realizzato l’ideale della
mescolanza perfetta tra le prerogative di ciascuna classe sociale e conferito al
popolo il suo giusto spazio di decisione. In questo senso, potremmo dire che per
Montesquieu il primo tra tutti i principi di governo rimane in ogni caso la virtù
politica,
la virtù dei cittadini, ovvero
l’amore
per
l’uguaglianza,
che è il presupposto di ogni democrazia.
Anche
nel dispotismo, come ricorda Aron, gli uomini sono tutto sommato uguali, ma tale
uguaglianza si fonda sulla paura e sull’esclusione (p. 53).
Come
abbiamo detto, Montesquieu è stato il primo pensatore politico che ha
riflettuto sulla forma di governo dispotica come forma a sé, separata da
quella monarchica. Già a partire dalle Lettres
persanes (1721) egli
si è soffermato, in particolare, sulla categoria del dispotismo orientale
e sulle differenze che passano tra questo e i regimi europei, differenze che
possono essere ricondotte essenzialmente al binomio libertà (europea) e
servitù (orientale), nonché alla dicotomia tra mutevolezza (dei
regimi europei) e immobilità (dei regimi
orientali).
Di
questi aspetti danno conto gli scritti di Federico Chabod (pp. 93-117) e di
Norberto Bobbio (pp. 119-129), i quali evidenziano come il motivo della
contrapposizione tra libertà degli occidentali e servitù degli
orientali fosse in realtà un motivo molto antico, risalente già al
mondo greco (era stato Aristotele per primo, nella Politica,
a teorizzare una tale contrapposizione), un motivo che riaffiorerà in
età moderna con Machiavelli, che sarà molto diffuso fra i
pensatori e gli scrittori del Settecento, e che favorirà la nascita di
una filosofia della storia fondata su una vera e propria “ideologia
europea”, la quale troverà in filosofi come Hegel uno dei suoi
massimi
esponenti.
7. Una
delle caratteristiche fondamentali dei governi fondati sulla libertà sta,
come dicevamo, nel fatto che in essi assumono rilievo le passioni e le relazioni
interumane, le quali devono essere viste come l’essenza stessa del potere
e come ciò che sta alla base della stessa attività dei
legislatori.
È
questa la “lettura” che Hannah Arendt qui dà dell’opera
di Montesquieu (pp. 181-218), sottolineando in particolare il carattere
“dinamico”, calato nella storia, che il “buon governo”
riveste in tale opera. Per l’autrice il grande merito di Montesquieu
è consistito nello spostare l’attenzione dalla questione della
“natura” o essenza delle forme di governo, sulla quale si erano
fondate le precedenti teorie, al motivo delle azioni umane che mettono in moto
un ordinamento e che servono a trasformarlo (pp. 193-194).
In
questa prospettiva, spiega la Arendt, il potere non può più essere
visto come un possesso personale, bensì esso dovrà essere visto
come una “potenzialità” che concerne ogni singolo individuo,
e precisamente il rapporto che egli intrattiene con gli altri individui, in quel
“processo” incessante che è costituito dalla vita delle
comunità.
E
dal momento che la vita di un buon ordinamento dovrà fondarsi sul
riconoscimento dell’uguaglianza del bene che è proprio di ogni
individuo, il fine delle leggi dovrà essere quello di
“limitare”, moderare le pretese di ognuno, dunque di creare
un’armonia, un equilibrio, che tuttavia non potrà mai essere
definitivo. Dato che non esiste un fine oggettivo degli ordinamenti, le leggi
non potranno essere viste come una sovrastruttura dalla quale scaturiscono linee
di azione determinate per ogni fase della vita delle comunità, ma
soltanto come una cornice che scaturisce dai bisogni e dagli interessi di volta
in volta rilevanti.
8. Da un
lato, dunque, Montesquieu è un giusnaturalista, dal momento che egli
riconosce che vi sono leggi che non dipendono dal tipo di governo o dal tipo di
società, leggi che poggiano sulla stessa “natura umana”, le
quali sono in generale riconducibili ai principi di giustizia. Dall’altro
lato, come evidenziato da Jean Starobinski (pp. 163-180), se in un altro grande
teorico della democrazia come Rousseau la componente giusnaturalistica della
legge risulta particolarmente accentuata, in Montesquieu è presente
un’ambivalenza che alimenta l’intera sua opera – in
particolare,
l’Esprit
des lois –, nonché la stessa concezione che egli ha della libertà
(pp. 176 sgg). L’ambivalenza è appunto quella tra
l’uniformità del diritto naturale e la diversità delle norme
che regolano la vita civile e politica, quest’ultima riconducibile, alla
luce di quanto rilevato, alla categoria stessa di spirito.
La libertà avrà bisogno sia di principi fissi, in un mondo
governato anche da leggi che non appartengono al dominio della volontà
umana, sia di risposte diverse a problemi diversi, della scelta di mezzi sempre
differenti, intorno ai quali si gioca il comportamento e l’agire pratico.
Se,
come abbiamo visto, il regno morale è per Montesquieu il regno
dell’uguaglianza e della pace, non altrettanto si può dire delle
società, che sono invece il luogo della disuguaglianza e del conflitto.
È la storia, in generale, con le sue leggi, che crea tale dissonanza, la
quale non si può in alcun modo eliminare, ma soltanto moderare,
attenuare, attraverso l’intelligenza e la prudenza
umane.