Domenico Felice, a cura di, Lo spirito della politica. Letture di Montesquieu, Milano-Udine, Mimesis, 2011
[ISBN 8857507548; € 24,00]

Lucia Dileo
Università di Bologna

1. Mosso da un interesse scientifico per la politica, per il diritto e per la storia, appassionato conoscitore dei classici, Montesquieu (1689-1755) è senz’altro uno degli autori più studiati, ammirati e discussi dell’età moderna. Nell’ambito della Storia delle dottrine politiche, egli è conosciuto e citato soprattutto in virtù dell’impulso che la sua opera ha dato ai principi del costituzionalismo, e in generale per le sue idee ispirate al liberalismo, idee che hanno influito sulle grandi rivoluzioni del XVIII secolo in Europa e negli Stati Uniti, e che da sempre condizionano profondamente i dibattiti e la riflessione filosofica. Dato il radicamento e la grande diffusione di tali idee, si rendono continuamente necessari un loro approfondimento e una loro chiarificazione.
Il volume raccoglie alcuni significativi scritti su Montesquieu, apparsi negli ultimi decenni, di autori di diversa provenienza e formazione che in età contemporanea si sono tutti distinti nel panorama culturale internazionale. Si tratta di Hannah Arendt, Raymond Aron, Isaiah Berlin, Norberto Bobbio, Federico Chabod, Sergio Cotta e Jean Starobinski. Tali autori hanno lasciato un’impronta sulla formazione dello stesso Felice e qui contribuiscono a far luce su alcuni degli aspetti più importanti dell’opera di Montesquieu, aspetti che, come il titolo del libro suggerisce, ruotano intorno a una categoria che in essa è centrale: l’idea di spirito.
L’idea di spirito in Montesquieu riguarda tanto le società quanto le istituzioni e le leggi. È un’idea non soltanto sintetica di un certo ordine di rapporti tra cose, ma anche dinamica, perché dà conto delle passioni, dei bisogni e degli interessi che agitano i diversi ordinamenti politici.
A tale idea si connette quella delle cause generali – sia fisiche o materiali (quelle legate al mondo naturale) sia morali o spirituali (tra cui i regimi politici, le leggi, i costumi, gli usi, le religioni) – che insieme agiscono sulla vita degli ordinamenti e sul corso della storia. Montesquieu ha combinato in questo senso sia il determinismo che faceva leva sulle scienze naturali e meccanicistiche del secolo precedente, sia il riferimento alle nuove scienze sociali e antropologiche, sia il richiamo agli aspetti propri della riflessione politica classica, esprimendo con ciò la necessità di una nozione più ampia di razionalità che avesse come punto di partenza non soltanto la conoscenza della natura umana, della natura e dello scopo dell’ordine politico, ma anche l’osservazione e lo studio delle influenze che l’esprit général, complessivamente, esercita sulle scelte e sulle decisioni degli uomini.

2. Del resto, Montesquieu introduce innovazioni rispetto alla stessa teoria politica classica, quali una nuova tripartizione delle forme di governo – repubblica, monarchia, dispotismo – che vede il dispotismo come forma a sé, separata da quella monarchica; alla luce della categoria di spirito, egli introduce un’altra innovazione, l’idea di “principio”, ovvero di un genere particolare di passione caratteristica di ciascuna forma di governo (la virtù, nel caso della repubblica; l’onore, in quello della monarchia; la paura, nel dispotismo); un’ulteriore distinzione, questa volta tra “modi” di governare, ovvero quella tra «governo moderato» e «governo dispotico», con la precisazione che la libertà può derivare soltanto dalla moderazione, ovvero dalla “mistione” democratica, dalla partecipazione cioè alle decisioni di tutte le forze sociali e politiche; e, per questa via, Montesquieu reinterpreta i tradizionali concetti di sovranità e di legge, il cui significato non è più visto come separato e indipendente né dall’insieme delle azioni umane che sono alla base della vita politica né dalla stessa struttura della società.
Anche la libertà politica, quantunque nell’Esprit des lois (1748) sia definita da Montesquieu come «il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono» (XI, 3), nell’insieme della sua opera, più che esaurirsi nel principio di legalità, deve essere vista come la risultante della dialettica politica e sociale nella quale assumono rilievo il valore dei singoli individui e i molteplici fini che essi perseguono, in una visione pluralistica del bene umano e del bene comune.
Come chiarito da Isaiah Berlin nel primo saggio dell’opera (pp. 11-41), Montesquieu è una sorta di “nuovo Aristotele”, un autore che ha saputo cogliere molto bene l’importanza del ruolo che le circostanze giocano sulle scelte e sulle decisioni degli uomini. Quantunque egli non sia un relativista riguardo al bene, e anzi creda che la giustizia di per se stessa si configuri come un valore eterno, allo stesso tempo pensa che circostanze particolari richiedano una giustizia particolare, che la phronesis consista nello stabilire di volta in volta cosa realizzare e come realizzarlo (la scelta si esercita dunque non solo sui mezzi, ma anche sui fini).

3. Dato che i fini degli uomini sono molteplici e svariati, non può esistere un unico sistema di valori, un’unica soluzione per i problemi politici e sociali.  E data l’incidenza dei fattori materiali su tali problemi, si renderanno continuamente necessari l’osservazione e lo studio dei fatti, della realtà storico-sociale empirica, al fine di comprendere ciò che un ordinamento concretamente può offrire.
Di fatto, spiega Berlin, gli organismi politici sono, nella visione di Montesquieu, molto simili alle specie viventi, giacché hanno una propria struttura interna, delle leggi che ne regolano il funzionamento. Quando l’ordinamento rispetta le sue leggi interne, esso raggiunge i propri fini; allorché tali leggi vengono violate, ecco che la natura si corrompe, e hanno inizio la corruzione e il declino. Il compito degli amministratori, dei legislatori, dei giudici, e in generale dei funzionari di Stato, è allora non soltanto quello di comprendere la struttura particolare che sta alla base di ciascun ordinamento, ma anche quello di preservarne la salute (p. 23).
Montesquieu è convinto che le azioni umane abbiano una sorta di preminenza su tutti gli altri fattori che, in generale, agiscono sul corso della storia. Tuttavia, a differenza degli altri philosophes dell’Illuminismo settecentesco, egli non nutre una fede accentuata nei riguardi del progresso che fa leva sulla ragione e sulla conoscenza umane. Per lui la storia non va in una direzione determinata, e anzi può vedere l’alternarsi di momenti di grandezza e momenti di decadenza dei governi e delle società.
Ciò sembra sposarsi, peraltro, con una particolare visione dell’uomo e del rapporto che egli intrattiene con gli altri uomini all’interno delle comunità.
In tale visione gli esseri umani possono agire ora in modo positivo, assecondando i principi del diritto naturale, quali la giustizia e l’equità, ora in modo negativo, rivolgendosi all’egoismo. Come chiarito nel primo libro dell’Esprit des lois, benché per sua natura l’uomo sia un essere pacifico e incline alla reciprocità, nella società il suo interesse si scontra con quello degli altri, ed è così che la società diviene il luogo della disuguaglianza, della violenza e del conflitto. Ciò ha conseguenze per la stessa vita politica, nella quale si tratta spesso di dover lottare per l’equilibrio e la pace da un lato e di assecondare le aspirazioni, i desideri degli individui dall’altro lato. Montesquieu sa che spesso questi valori sono inconciliabili, e tuttavia, come ribadito più volte dagli autori qui antologizzati nel corso delle loro analisi, nel suo caso il fine della libertà degli individui detiene una sorta di primato su tutti gli altri valori.

4. Riguardo alla sua natura e al suo significato, la libertà è per Montesquieu un valore che trascende l’ordine politico, è una condizione fondamentale della stessa esistenza umana, e tuttavia essa ha bisogno del politico, delle possibilità che esso offre e dei limiti che esso impone, per concretizzarsi come bene umano. Potremmo dire che pace e conflitto sono, nella sua visione, due facce della stessa medaglia, giacché è soltanto nelle società “agitate”, in cui agli uomini è dato perseguire una pluralità di fini o scopi, che possono sussistere le condizioni effettive del consenso e dunque della pace stessa.
Questa è precisamente l’essenza del governo moderato o misto, per la cui teorizzazione Montesquieu ha mostrato un grande interesse nella sua opera già a partire dalle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734), per arrivare alla trattazione matura dell’argomento nell’Esprit des lois, in particolare nel libro XI. Qui si parla della libertà che dovrebbe essere garantita dalle lois fondamentales, in particolare dal requisito della divisione e distribuzione dei poteri.
Come spiega Sergio Cotta (pp. 131-161), qui Montesquieu riprende, innovandola, la tesi della divisione funzionale dei poteri di John Locke (Second Treatise of Government). In particolare, Montesquieu fa discendere la libertà politica dal requisito dell’autonomia del potere giudiziario rispetto al legislativo e all’esecutivo, un elemento, questo, cui Locke sembra non aver prestato sufficiente attenzione.
Entrambe le teorie nascevano dall’osservazione del funzionamento del governo inglese, ma mentre per Locke esiste una sorta di gerarchia tra poteri che ha al suo vertice il potere legislativo, per Montesquieu i poteri si trovano in una condizione di piena parità, dalla quale si origina un contrasto, una dialettica continua, che dovrebbe tuttavia dar luogo alla convergenza unitaria dei poteri intorno al fine della libertà e dunque della pace.

5. Nel libro XII dell’Esprit des lois, Montesquieu definisce la libertà politica anche come quel genere di sicurezza che dovrebbe derivare ai cittadini dal rapporto con gli altri cittadini, che egli chiama “libertà di fatto”, distinguendola dalla prima, la “libertà di diritto”. Per Cotta il significato della sicurezza cui Montesquieu fa riferimento deve essere ricercato in un insieme di fattori sia politici sia sociali sia morali (cfr. pp. 152 sgg). In generale, tale sicurezza dovrebbe nascere dall’incontro tra la dialettica di cui abbiamo detto sopra, quella che ha luogo tra i poteri pubblici, e in particolare dal requisito dell’autonomia dei giudici, con un altro genere di dialettica politica, quella ingenerata dall’esprit général (della quale si parla alla fine del libro XIX dell’Esprit des lois, sempre con riferimento all’Inghilterra), la quale è propria di un intero popolo, e ha per oggetto le sue passioni e i suoi interessi concreti. Nonché dall’incontro di queste dialettiche con il rispetto di quella natura umana di cui abbiamo detto, che è definita dai bisogni di pace, di socialità, di libertà.
Rifacendoci all’analisi di Raymond Aron (pp. 43-92), potremmo dire che Montesquieu è sia un filosofo politico sia un sociologo, nella misura in cui, attraverso la nozione sintetica di esprit général, egli sancisce la connessione imprescindibile tra regime politico e struttura della società, come mostra il riferimento alla nozione di principio come passion collettiva che fa muovere i governi, o l’analisi che egli fa della natura delle leggi, come insiemi di rapporti che scaturiscono dalla nature des choses. Del resto, se si esamina nel complesso l’Esprit des lois, si nota subito quest’aspirazione dell’autore a tutto comprendere, tutto esaminare nella sua concretezza: le leggi, le istituzioni e i costumi particolari delle varie nazioni.
E d’altra parte, sottolinea Aron, se c’è un governo che si sottrae al determinismo storico, e in verità si adatta a tutti i luoghi e a tutti i tempi, quello è proprio il governo moderato, che, come lo stesso Montesquieu spiega, può adattarsi a ogni realtà politica e sociale, trattandosi di una modalità attraverso cui viene esercitato il potere (pp. 59 sgg).

6. Ciò è dimostrato, ad esempio, dall’accostamento che Montesquieu fa tra il gouvernement d’Angleterre, il gouvernement gothique e l’antica repubblica romana, nel libro XI dell’Esprit des lois, tutti governi che ai suoi occhi avevano realizzato l’ideale della mescolanza perfetta tra le prerogative di ciascuna classe sociale e conferito al popolo il suo giusto spazio di decisione. In questo senso, potremmo dire che per Montesquieu il primo tra tutti i principi di governo rimane in ogni caso la virtù politica, la virtù dei cittadini, ovvero l’amore per l’uguaglianza, che è il presupposto di ogni democrazia.
Anche nel dispotismo, come ricorda Aron, gli uomini sono tutto sommato uguali, ma tale uguaglianza si fonda sulla paura e sull’esclusione (p. 53).
Come abbiamo detto, Montesquieu è stato il primo pensatore politico che ha riflettuto sulla forma di governo dispotica come forma a sé, separata da quella monarchica. Già a partire dalle Lettres persanes (1721) egli si è soffermato, in particolare, sulla categoria del dispotismo orientale e sulle differenze che passano tra questo e i regimi europei, differenze che possono essere ricondotte essenzialmente al binomio libertà (europea) e servitù (orientale), nonché alla dicotomia tra mutevolezza (dei regimi europei) e immobilità (dei regimi orientali).
Di questi aspetti danno conto gli scritti di Federico Chabod (pp. 93-117) e di Norberto Bobbio (pp. 119-129), i quali evidenziano come il motivo della contrapposizione tra libertà degli occidentali e servitù degli orientali fosse in realtà un motivo molto antico, risalente già al mondo greco (era stato Aristotele per primo, nella Politica, a teorizzare una tale contrapposizione), un motivo che riaffiorerà in età moderna con Machiavelli, che sarà molto diffuso fra i pensatori e gli scrittori del Settecento, e che favorirà la nascita di una filosofia della storia fondata su una vera e propria “ideologia europea”, la quale troverà in filosofi come Hegel uno dei suoi massimi esponenti.

7. Una delle caratteristiche fondamentali dei governi fondati sulla libertà sta, come dicevamo, nel fatto che in essi assumono rilievo le passioni e le relazioni interumane, le quali devono essere viste come l’essenza stessa del potere e come ciò che sta alla base della stessa attività dei legislatori.
È questa la “lettura” che Hannah Arendt qui dà dell’opera di Montesquieu (pp. 181-218), sottolineando in particolare il carattere “dinamico”, calato nella storia, che il “buon governo” riveste in tale opera. Per l’autrice il grande merito di Montesquieu è consistito nello spostare l’attenzione dalla questione della “natura” o essenza delle forme di governo, sulla quale si erano fondate le precedenti teorie, al motivo delle azioni umane che mettono in moto un ordinamento e che servono a trasformarlo (pp. 193-194).
In questa prospettiva, spiega la Arendt, il potere non può più essere visto come un possesso personale, bensì esso dovrà essere visto come una “potenzialità” che concerne ogni singolo individuo, e precisamente il rapporto che egli intrattiene con gli altri individui, in quel “processo” incessante che è costituito dalla vita delle comunità.
E dal momento che la vita di un buon ordinamento dovrà fondarsi sul riconoscimento dell’uguaglianza del bene che è proprio di ogni individuo, il fine delle leggi dovrà essere quello di “limitare”, moderare le pretese di ognuno, dunque di creare un’armonia, un equilibrio, che tuttavia non potrà mai essere definitivo. Dato che non esiste un fine oggettivo degli ordinamenti, le leggi non potranno essere viste come una sovrastruttura dalla quale scaturiscono linee di azione determinate per ogni fase della vita delle comunità, ma soltanto come una cornice che scaturisce dai bisogni e dagli interessi di volta in volta rilevanti.

8. Da un lato, dunque, Montesquieu è un giusnaturalista, dal momento che egli riconosce che vi sono leggi che non dipendono dal tipo di governo o dal tipo di società, leggi che poggiano sulla stessa “natura umana”, le quali sono in generale riconducibili ai principi di giustizia. Dall’altro lato, come evidenziato da Jean Starobinski (pp. 163-180), se in un altro grande teorico della democrazia come Rousseau la componente giusnaturalistica della legge risulta particolarmente accentuata, in Montesquieu è presente un’ambivalenza che alimenta l’intera sua opera – in particolare, l’Esprit des lois –, nonché la stessa concezione che egli ha della libertà (pp. 176 sgg). L’ambivalenza è appunto quella tra l’uniformità del diritto naturale e la diversità delle norme che regolano la vita civile e politica, quest’ultima riconducibile, alla luce di quanto rilevato, alla categoria stessa di spirito. La libertà avrà bisogno sia di principi fissi, in un mondo governato anche da leggi che non appartengono al dominio della volontà umana, sia di risposte diverse a problemi diversi, della scelta di mezzi sempre differenti, intorno ai quali si gioca il comportamento e l’agire pratico.
Se, come abbiamo visto, il regno morale è per Montesquieu il regno dell’uguaglianza e della pace, non altrettanto si può dire delle società, che sono invece il luogo della disuguaglianza e del conflitto. È la storia, in generale, con le sue leggi, che crea tale dissonanza, la quale non si può in alcun modo eliminare, ma soltanto moderare, attenuare, attraverso l’intelligenza e la prudenza umane.