Paolo L. Bernardini, Le rive fatali di Keos.
Il suicidio nella storia intellettuale europea da Montaigne a Kant

Torino, Fondazione Ariodante Fabretti, 2009
[ISBN 978-88-902350-4-7; € 20,00]

Diego Lucci
American University in Bulgaria

1. Questo volume, pubblicato dalla “Fondazione Fabretti – Centro di ricerca e documentazione sulla morte e il morire”, raccoglie i più significativi scritti di Paolo Bernardini sul suicidio. La morte volontaria rappresenta uno degli ambiti di ricerca privilegiati di Bernardini, professore di Storia moderna presso l’Università dell’Insubria e già docente e ricercatore presso numerose istituzioni internazionali. Nel corso degli ultimi due decenni, Bernardini si è concentrato in particolare sul tema del suicidio nel pensiero filosofico della prima età moderna, pubblicando, tra l’altro, il saggio bibliografico Literature on Suicide 1516-1815 (Lewiston: Mellen, 1996), risorsa fondamentale per lo studio storico del suicidio, che, come rileva Bernardini, “ha ormai i tratti di una vera area storiografica specifica” (p. 20). Ciò è vero, in particolare, per la prima età moderna, “laboratorio di pensiero straordinario per quel che riguarda (anche) il suicidio” (p. 19). Negli ultimi anni, sono infatti apparsi numerosi e interessanti studi sul tema del suicidio nel periodo tra Rinascimento ed Età dei Lumi. Per quanto riguarda la ricerca sul tema in Italia, la raccolta di saggi di Bernardini segue di poco la pubblicazione del volume Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente (Bologna: Il Mulino, 2009) di Marzio Barbagli, professore di Sociologia presso l’Università di Bologna. Un altro studio particolarmente importante, tra quelli menzionati da Bernardini nella sua introduzione, è il volume curato da Jeffrey R. Watt, From Sin to Insanity: Suicide in Early Modern Europe (Ithaca: Cornell University Press, 2004), il cui titolo è emblematico delle più diffuse concezioni dell’epoca riguardo al suicidio. Sia Watt che Bernardini, nel corso delle loro ricerche sul suicidio, hanno infatti definito lo sviluppo delle interpretazioni europee del suicidio nella prima età moderna attraverso una “triade concettuale” rappresentata da “secolarizzazione, decriminalizzazione, medicalizzazione” (cf. p. 22). L’uso di tali concetti ben dimostra che lo studio storico del suicidio interessa varie aree di ricerca: non soltanto la filosofia e la storia intellettuale, ma anche la storia del pensiero teologico cristiano e la storia del diritto, la storia della medicina e le scienze sociali. Tuttavia, per sua stessa ammissione, il lavoro di Bernardini si pone “nella tradizione della storia intellettuale e non ambisce, se non parzialmente, a essere interdisciplinare (anche se fa spesso uso di strumenti storico-sociali e storico-giuridici)” (p. 22).

2. Bernardini prende in esame lo sviluppo della riflessione sul suicidio nella tradizione intellettuale europea da Montaigne a Kant, riflessione che produsse una graduale “socializzazione del suicidio” a partire dalla fine del Cinquecento. Come per molte altre questioni nell’epoca moderna (e si vedano, al proposito, i significativi saggi pubblicati negli ultimi anni da studiosi quali Jonathan Israel, Biagio De Giovanni, e altri ancora, sul rapporto tra filosofia e “the making of modernity”), fu il pensiero filosofico a stimolare un dibattito sul suicidio più ampio e aperto di quanto non fosse stato in precedenza, portando anche giuristi, medici e scienziati della politica a ripensare la portata etica, giuridica e sociale della morte volontaria. Di conseguenza, la sfera dell’opinione pubblica fu sempre più coinvolta nella discussione sul suicidio, finché, nel Settecento dei philosophes, “il suicidio diviene argomento letterario e di conversazione salottiera, perde il suo carattere tabuizzante e si trasforma in una delle leve, al contrario, per manomettere e distruggere tabù e idoli, come quelli della morale cattolica, divenuti i nemici peggiori dei salon parigini” (p. 30). Il suicidio divenne infine un diffuso tema di conversazione, e non soltanto nei salotti parigini. Un fortunato genere letterario settecentesco, da Deslandes a Christian Heinrich Spiess, fu infatti quello delle biografie dei suicidi, il cui successo contribuì non poco alla fama di Johannes Robeck, dovuta non tanto alla sua complessa e laboriosa difesa del suicidio razionale (scritta in latino e pubblicata postuma, nel 1736, insieme a una breve biografia dell’autore), quanto al fatto che quell’ex gesuita svedese si suicidò per davvero, lasciandosi portare alla deriva dal fiume Weser nei pressi di Brema. E nella seconda metà del Settecento il suicidio divenne anche tema letterario privilegiato per esprimere le frustrazioni di una borghesia in costante ascesa, ma ancora ostacolata nelle sue ambizioni politiche, oppure per manifestare la delusione di popoli privati di libertà e indipendenza: si tratta dei casi, rispettivamente, del Werther di Goethe e dello Ortis di Foscolo. Oramai liberatosi dai vincoli teologici che ne prevenivano un’aperta trattazione, sul finire del secolo il suicidio razionale, meditato, opera di uomini sani e nel pieno delle proprie capacità mentali, divenne quindi strumento estremo di protesta contro condizioni di irrimediabile ingiustizia (fenomeno, questo del suicidio come atto politico e di protesta, che si verificò anche durante il Terrore nella Francia della Rivoluzione).

3. La secolarizzazione del suicidio è dunque pienamente compiuta tra la fine del Settecento e i primi anni del secolo successivo, ed è piuttosto singolare che il suicidio razionale, esentato dai progetti di medicalizzazione che si applicavano al suicidio del “non compos mentis” (ma ancora avversato dalla morale cristiana), riacquistasse, in gran parte dei casi, il nobile significato politico che aveva rivestito nell’etica romana. A tal proposito, non è un caso che, per la copertina del suo volume, Bernardini abbia scelto una celebre immagine dalla Sala dei Giganti a Padova: la figura di Catone l’Uticense, colto nell’atto di togliersi la vita – immagine inoltre commentata da una breve nota di Giulio Bodon, insigne studioso di Umanesimo e Rinascimento. Anche il titolo del volume fa riferimento all’antichità classica: Keos, l’isola più vicina all’Attica tra quelle dell’arcipelago delle Cicladi e “luogo a metà tra immaginario e reale, nella sua lontananza storica”, è infatti passata alla storia “come luogo ove il suicidio fu reso non solo lecito, ma addirittura prescritto dalla legge a una certa età” (p. 16). E nella prima età moderna il mito di Keos ritorna di frequente: ne fanno menzione, tra gli altri, Montaigne e Bayle. Proprio con Montaigne, e con la sua problematizzazione del suicidio dal punto di vista della filosofia morale, comincia l’analisi storica di Bernardini, che prosegue con capitoli dedicati a Robert Burton e la relazione tra suicidio e malinconia, John Donne e la scandalosa tesi secondo cui Cristo commise essenzialmente un suicidio, Federico II di Prussia e la prima depenalizzazione del suicidio nel 1747, le complesse e ambigue riflessioni di Giacomo Casanova sul tema, e infine il suicidio come possibile conseguenza dell’etica kantiana, teoria esposta in un libello anonimo del 1800 e poi confutata da Fichte. La trattazione delle analisi di questi autori e personaggi storici è ben integrata nel contesto storico, politico e sociale in cui essi vissero, agirono e proposero le loro tesi. E’, questo, soprattutto il caso del saggio su Federico II, primo sovrano europeo ad essere condotto dalle dottrine illuministiche (da Montesquieu e Voltaire in primis) verso la depenalizzazione del suicidio. Questo capitolo illustra infatti il dibattito sulla morte volontaria nel pensiero giuridico europeo del Settecento. Bernardini vi prende in esame le teorie di Pufendorf, il quale, pur escludendo (con rare eccezioni) la liceità del suicidio, ne metteva in questione le pene che punivano altri (e cioè i familiari del suicida). Vengono inoltre analizzate le “posizioni ambigue rispetto alla sanzionabilità morale e giuridica del suicida” (p. 123) che emergono da numerose dissertazioni di giuristi tedeschi dell’epoca. E nel dibattito giuridico del Settecento si distinsero in particolare i primi testi che negavano decisamente la natura criminale del suicidio e ne condannavano le leggi che lo perseguivano: la Dissertatio juridica de crimine et poenis propricidii, vulgo Vom Selbstmord, pubblicata nel 1712 da Ephraimus Gerhardus, e le più celebri Lettere persiane di Montesquieu, opere su cui Bernardini si concentra accuratamente.

4. Anche il capitolo su Casanova presenta un’interessante analisi delle discussioni filosofiche sul suicidio nell’Europa del Settecento, con particolare riferimento all’Italia, dove il dibattito coinvolse non soltanto il pensatore veneziano (le cui tesi sul tema, come osserva Bernardini, occupavano una posizione di sostanziale ambiguità tra conservatorismo cattolico e tendenze illuministiche e libertine), ma anche il “libero pensatore” Alberto Radicati (autore di una fortunata Dissertation in inglese, in cui la liceità della morte volontaria era difesa alla luce di dottrine nettamente materialistiche) e il teologo Appiano Buonafede, tra i più celebri rappresentanti delle fazioni conservatrici che consideravano il suicidio come peccato e al contempo crimine. Il saggio su Casanova offre inoltre molti spunti per riflettere sulle diverse logiche che conducevano alla condanna del suicidio razionale o, al contrario, all’affermazione della sua liceità. Altri capitoli che si concentrano in particolare su critiche e giustificazioni filosofiche del suicidio del “compos mentis” sono quello su Montaigne, il cui stile libertino risulta quanto mai complesso ed efficace quando si tratta di questo tema, e quello sul Biathanatos di Donne, in cui il poeta inglese, nella sua difesa del suicidio, prese Cristo come esempio di suicida razionale, piuttosto che di martire (dal momento che Cristo sapeva già della propria morte, e non vi si sottrasse). Ma mentre Donne proponeva la sua tesi di un Cristo suicida, il suo contemporaneo e connazionale Burton, nella ponderosa Anatomy of Melancholy (1621), poneva le basi per il processo di graduale medicalizzazione del suicidio, interpretando la morte volontaria come una delle conseguenze della melanconia. Ed è particolarmente significativo che la prima riflessione sistematica sulla melanconia come patologia sia opera di un inglese: nel corso di tutta l’età moderna, la malinconia venne infatti considerata come caratteristica ineludibile e fondamentale della natura degli inglesi, al punto di essere definita, e non solamente per scherno, la “malattia inglese”. E il suicidio, enumerato tra le possibili conseguenze di tale malattia, veniva visto come “sport” privilegiato in Terra d’Albione – nonostante si trattasse di uno sport che, per ovvie ragioni, poteva essere praticato solo una volta nella vita. Un capitolo che può risultare di grande interesse per la riflessione filosofica è, in particolare, quello sull’etica kantiana e la difesa che ne fece Fichte, tema su cui vale la pena di soffermarsi brevemente. L’autore del suddetto libello anonimo del 1800 sosteneva infatti che, poiché il kantiano regno dei fini non poteva essere concretamente raggiunto in questo mondo, ma soltanto in quel postulato della ragion pratica che è l’aldilà, allora il suicidio poteva essere ritenuto come una via verso uno stato propriamente morale. Ma Fichte ribatté a tale teoria sostenendo che, dal punto di vista dell’etica kantiana e del suo stesso sistema idealistico, il suicidio non è ammissibile, poiché il suicida non fa altro che sottrarsi ai propri doveri morali.

5. In conclusione, il volume di Bernardini, corredato da una bibliografia aggiornata della letteratura critica sul suicidio, è senz’altro un importante strumento per comprendere un tema fondamentale in quel periodo tanto complesso e “rivoluzionario” per la storia europea che è la prima età moderna. La riflessione proto-moderna sul suicidio, che condusse, come si è detto, a significativi sviluppi anche nelle scienze mediche e nel pensiero giuridico e politico, si presenta infatti come “un percorso accidentato, certamente non lineare, comunque diverso da quello di concetti e categorie eminentemente filosofici, contenuti entro il loro alveo teoretico e destinati a precisazioni e anche ad alterazioni di significato in virtù della genesi antiaristotelica della filosofia moderna” (p. 211). E Bernardini porta a compimento, con questo volume, un’opera di ricostruzione di questo percorso accidentato: un’opera che rappresenta un altro, interessante capitolo degli studi sulla storia delle idee nella prima età moderna, con riferimento a un tema specifico e tuttavia esemplare per comprendere gli sviluppi, e le contraddizioni, delle mentalità europee nel corso dei due secoli tra Montaigne e Kant.