Abstract
This essay examines the idea of Europe developed by Guizot in the famous course on the Histoire de la civilization, and its innovations with regards to the framework outlined by the eighteenth century, seeing it as a geopolitcal application of the author’s philosophy of history and "doctrinaire" liberalism. For him, if in European civilization the very essence of progress is achieved - whose meaning is a never-ending tendency to match principles and facts, the ideal and the real -, this is due to the plurality of forces in field, because only by the interplay of different and always relative values the sovereignty of reason establishes itself. In the second part the essay discusses the primacy which Guizot assigned to France as the country that best represents this model of civilization; it shows that in his speech universalism and national particularism still coexist, but opening on very different future scenarios.
1. Nella lunga vicenda da cui ha preso vita l'idea dell'unità europea non c'è dubbio che una tappa importante sia rappresentata dal corso di storia moderna professato da Guizot alla Sorbona tra il 1828 e il 1830. Basterebbe ricordare le parole con cui, nell'aprile 1828, lo storico apriva la sua prima lezione:
È evidente che esiste una civiltà europea; che una certa unità si manifesta nella civiltà dei vari Stati dell'Europa; che essa deriva da fatti pressoché simili, anche se presentano differenze notevoli di tempo, di luogo, di circostanze; che essa si ricollega ai medesimi principi, e tende a produrre quasi dovunque risultati analoghi. Vi è dunque una civiltà europea, e del suo insieme io voglio trattare con voi. D'altra parte, è evidente che questa civiltà non può essere ricercata né la sua storia desunta dalla storia di uno solo degli Stati europei. Se essa ha una certa unità, non meno prodigiosa è la sua varietà; essa non si è mai sviluppata integralmente in un singolo paese. I caratteri della sua fisionomia sono sparsi: occorre ricercare gli elementi della sua storia, ora in Francia, ora in Inghilterra, ora in Germania, ora in Italia o in Spagna[1].
Se
è vero, com'è stato scritto, che gli storici hanno contribuito
più di chiunque altro a definire e a rappresentare quella realtà
non meramente geografica che è l'Europa, perché «l'Europa
è anzitutto un'idea, un
valore, una
civiltà, anzi
un'idea di
civiltà»[2], nessuno fra di
loro ha come Guizot lavorato a quest'impresa. Di più: se l'Europa –
così idealmente tratteggiata – si presenta con un'identità
unitaria e molteplice a un tempo, mai ne è stata data una formulazione
più paradigmatica di quanto abbia egli fatto nelle sue lezioni
d'Histoire de la civilisation en Europe
e d'Histoire de la civilisation en
France, subito raccolte in volume e ripubblicate numerose volte,
soprattutto la prima parte, nel corso del secolo.
Sarebbe
arduo esporre in poche pagine il posto che questo corso, giustamente celebre,
occupa nella storia intellettuale dell'Ottocento. Se si considerano le vicende
della storia della storiografia, esso ci appare come il frutto più
maturo, nella Francia della Restaurazione, di quella grande stagione che si
suole chiamare romantica, in cui s'è assistito alla nascita di una nuova
concezione della storicità; e tuttavia, nella sua complessa tessitura,
quest'opera mostra quanto forti, ancorché sottaciuti, siano i fili che
collegano tale stagione alla storiografia dei Lumi. Se si considera la storia
della cultura politica, lo si può leggere come il tentativo, da parte del
teorico liberale, di trovare una verifica nei “fatti”, ovvero nello
sviluppo storico, alle sue “idee”, vale a dire a delle vedute di
filosofia politica che, ormai da un quindicennio, egli era andato sviluppando
come esponente dei Dottrinari (e che avrebbe cercato, con alterna fortuna, di
realizzare, una volta entrato nell'agone politico). V'è infine il tema
che ci interessa più da vicino. Anche sotto il profilo di una storia
dell'idea di Europa, il Cours d'histoire
moderne di Guizot si colloca, come ho detto, a uno snodo cruciale.
2. Per un verso esso raccoglie l'eredità del secolo precedente. Da
Montesquieu a Voltaire, da Ferguson a Robertson, la cultura dell'età dei
Lumi aveva già formulato l'idea di una civiltà europea, di cui
s'era anche cimentata ad individuare i lineamenti comuni pur nella multiforme
diversità. Come aveva scritto Voltaire, l'Europa si presentava «come
una specie di grande repubblica divisa in più stati, gli uni monarchici,
gli altri misti, quali aristocratici, quali popolari, tutti però in
reciproca comunicazione, con una stessa base religiosa, benché divisi fra
varie sette, con gli stessi principi politici e di diritto pubblico, ignoti
nelle altre parti del mondo»[3]. E di tale
civiltà, il secolo diciottesimo aveva già dato diverse e
concorrenti rappresentazioni, si trattasse di far perno sui sistemi di governo e
sulle istituzioni, sulla cultura e sui costumi, o piuttosto su quella che il
filosofo scozzese Ferguson aveva chiamato la
civil society. Si può dunque
concordare con Federico Chabod che l'idea d'Europa, anche se ha conosciuto una
lunghissima gestazione, sia un prodotto proprio del Settecento: che sia questo
il secolo, come egli scrive, «a cui dobbiamo il sorgere stesso della nostra
coscienza di Europei»[4]; si può
anche concordare con lui che il nostro autore, pur apportandovi alcune
importanti novità, sia insomma un prosecutore e un erede. D'altra parte
Guizot, se giostra agilmente tra l'unità della civiltà in Europa e
i diversi sviluppi storici delle nazioni che la compongono, non si astiene dal
valutare e classificare queste diversità; del tutto immune dagli ardori
nazionalistici che già stanno riscaldando il cuore di tanti dei suoi
contemporanei, egli non nutre però dubbi sul fatto che la Francia, fra
tutte le nazioni, rappresenti il punto più alto, e la quintessenza
stessa, della civiltà europea. Nel suo discorso corrono spunti che, se
non intaccano l'europeismo dell'Histoire de
la civilisation, presto, nel
mutato contesto spirituale dell'Ottocento, si presteranno ad alimentare altre
passioni.
Di quali contenuti si sostanzia l'idea d'Europa tratteggiata
nell'Histoire de la civilisation?
quali novità l'opera in questione introduce nella già ricca
elaborazione del secolo dei Lumi? Per rispondere a queste domande è
necessario, anzitutto, analizzare la categoria di
civilisation, poiché è
questa la vera protagonista della storia di Guizot. Il termine, nel linguaggio
guizotiano, si riferisce in primo luogo, ed essenzialmente, ad un processo
dinamico d'incivilimento, ed è inseparabile dalla nozione settecentesca
di progresso[5]. Esso si riferisce però
anche ad una fenomenologia complessa, che comprende le più svariate
manifestazioni dell'attività umana. Farne la storia – ciò
che è possibile e legittimo, secondo l'autore, perché la
civiltà «è un fatto come un altro, fatto suscettibile, come
ogni altro, d'essere studiato, descritto,
raccontato»[6] – significa assumere
uno sguardo a tutto campo, che guardi al mondo umano come a un oggetto unitario
d'indagine.
V'è unità nella vita di un popolo, nella vita del genere umano, come in quella di un uomo; ma come di fatto tutte le circostanze del destino e dell'attività di un uomo contribuiscono a formare il suo carattere, che è uno ed identico, così l'unità e la storia di un popolo deve avere per base tutta la varietà della sua esistenza, e della sua esistenza integralmente presa[7].
Ne risulta un programma storiografico di grande ampiezza ed audacia, che sembra preannunciare la nostra concezione di storia totale. Anche sotto quest'aspetto, tuttavia, si deve osservare che l'Histoire de la civilisation riprende le intuizioni e i tentativi della storiografia settecentesca. A dire il vero, se Guizot nomina dei predecessori – il Bossuet del Discours sur l'histoire universelle o il Montesquieu dell'Esprit des Lois – è piuttosto per deplorare che essi, malgrado il loro genio, non abbiano saputo considerare tutte le opere dell'attività umana «in una visione unitaria, nella loro unione intima e feconda». Tuttavia, quando dichiara che la storia della civiltà «è il compendio di tutte le storie; [che] abbisogna di tutte come suo materiale, giacché il fatto da essa narrato è il compendio di tutti i fatti»[8], egli non appare troppo lontano da quanto Voltaire aveva inteso fare nell'Essai sur les moeurs, primo tentativo di scrivere una storia capace di mettere in luce l'intrinseca connessione delle attività umane.
3. L'elemento più caratteristico della definizione guizotiana riguarda tuttavia il complesso di contenuti che egli compendia sotto il termine di civilisation. La parola, come ha mirabilmente mostrato Lucien Febvre[9], era relativamente recente, non aveva fatto parte del vocabolario né di Voltaire né di Rousseau, e tuttavia il suo uso era ormai codificato. Guizot così la definisce:
Due fatti sono [...] compresi in questo grande fatto, esso sussiste sotto due condizioni e si rivela attraverso due sintomi: lo sviluppo dell'attività sociale e quello dell'attività individuale, il progresso della società e il progresso dell'umanità. Dovunque la condizione esteriore dell'uomo si estende, si vivifica, migliora, dovunque la natura dell'uomo si mostra con magnificenza, con grandezza, a questi due segni, e spesso nonostante la profonda imperfezione dello stato sociale, il genere umano applaude e proclama la civiltà[10].
Guizot
vede dunque la civiltà comporsi di due sviluppi, lo «sviluppo
sociale» e lo «sviluppo morale», e ne proclama l'intima e
necessaria connessione. È vero che i due sviluppi possono presentarsi
momentaneamente disgiunti, ma l'esperienza della storia, così come
l'opinione comune, – egli afferma – non consentono di dubitare: «tutti i
grandi sviluppi dell'uomo interiore si sono risolti a profitto della
società, tutti i grandi sviluppi dello stato sociale a profitto
dell'umanità»[11]. Frasi notissime,
queste, forse fra le più citate del repertorio storiografico
dell'Ottocento: non sarà inutile però soffermarcisi ancora per un
momento. In questa definizione, ha scritto Lucien Febvre, Guizot componeva in
un'«abile sintesi» due elementi che, nella cultura tedesca a lui
coeva, stavano cominciando a divaricarsi per dar corpo a due diverse categorie,
quella di Civilization e quella di
Kultur[12].
Si dovrebbe ora aggiungere che questa sintesi non è certo un'invenzione
estemporanea, ma che trova invece la sua ragione profonda – e la sua
spiegazione – nella filosofia politica dell'autore, quale egli l'ha
espressa in molti opuscoli dei primi anni della Restaurazione, nel corso tenuto
alla Sorbona nel 1820-1822 sull'Histoire des
origines du gouvernement représentatif en Europe, e soprattutto in
uno scritto ad esso coevo, rimasto inedito fino ai giorni nostri, che porta il
titolo di Philosophie politique: de la
souveraineté.
Dopo
essere stata a lungo scarsamente considerata, diversamente dalla produzione
storiografica tanto letta e ammirata, la filosofia politica guizotiana ha oggi
conquistato l'attenzione della critica, che s'è adoperata a mettere in
luce l'originalità del liberalismo dottrinario nel pur ricchissimo
panorama della cultura politica francese nell'età della
Restaurazione[13]. Il suo tratto più
caratteristico è che, mentre esso propugna i principi di libertà e
giustizia propri della modernità, rifiuta le premesse teoriche su cui li
aveva fondati la cultura rivoluzionaria (e sui quali ancora li fondava il
liberalismo individualista di un Constant): per quanto riguarda la filosofia
politica, rigetta l'ipotesi contrattualista, che aveva fatto delle
volontà individuali l'origine della
sovranità[14]; per quanto riguarda la
concezione gnoseologica, denuncia il disdegno dei “fatti” da cui
tale cultura sarebbe stata affetta, con il corollario che ne era derivato
dell'illusione della tabula rasa[15]. Tuttavia,
se Guizot prende in tal modo le distanze dall'eredità dei
Lumi[16], non è per ricadere in una mera
valorizzazione dell'accaduto, alla stregua dei tradizionalisti. È qui che
appare, anzi, la peculiarità della sua posizione; ed è qui che
s'individua pure l'idea di fondo che alimenta la sua definizione della categoria
di civiltà.
4. «È
l'opera e il capolavoro della civiltà – egli aveva detto nel corso
sulle origini del governo rappresentativo – trarre il diritto dal fatto, e
fare del diritto una potenza che si sostenga, si difenda, si rivendichi di per
se stessa»[17]. Il diritto, lungi
dall'essere contrapposto alla realtà delle diverse situazioni storiche,
appare dunque farne intrinsecamente parte, anche se per lo più vi si
presenta celato allo sguardo. Se ciò avviene, è perché,
secondo il politico dottrinario, la Ragione esiste sparsa e allo stato
frammentario fra gli uomini (e un buon istituto della rappresentanza, egli
aggiunge, ha il compito di farne emergere dalla società la maggior
quantità possibile[18]); e così
pure si può dire del Diritto, che è ciò che è
conforme alla ragione e alla giustizia. «Ve n'è – lo storico
aveva detto nel corso sulle origini del governo rappresentativo – un po',
più o meno, in tutte le epoche della vita delle società umane;
esso non è né completo né puro in nessuna
epoca»[19]. Gli assetti e le istituzioni
sociali si traducono perciò
naturalmente, ai suoi occhi, nella
legittimità politica, o meglio in quel grado di legittimità che
ogni situazione consente di esprimere. Questo è il nocciolo duro della
filosofia di Guizot. E non ci deve ora sfuggire quale sia la posta in gioco
della sua riflessione storica. Il duplice sviluppo che caratterizza il
significato stesso della civiltà – sviluppo della società,
sviluppo dell'uomo – tende a far convergere il diritto e il fatto, e a
farli sempre più coincidere quanto più la civiltà avanza.
Senza che la meta possa ancora dirsi raggiunta, lo storico è propenso a
credere che il suo tempo ne sia molto vicino, poiché, com'egli afferma
nella quarta lezione dell'Histoire de la
civilisation en Europe, è uno dei suoi caratteri, anzi forse il
suo carattere essenziale, «l'inevitabile alleanza della filosofia e della
storia». «Siamo chiamati – così egli dice al suo uditorio
– a far procedere insieme la scienza e la realtà, la teoria e la
pratica, il diritto e il fatto»[20].
Secondo questa cifra interpretativa, si comprende pure perché, proprio
all'inizio di un corso in cui si accinge a ripercorrere il lungo e travagliato
cammino della civiltà in Europa, egli possa esprimere con forza la sua
convinzione «che la civiltà è giovanissima e che il mondo
è ancora ben lontano dall'aver percorso l'intero suo cammino»
[21].
Una volta
definita, nei suoi molteplici ed incrociati significati, la categoria di
civiltà, è solo una logica conseguenza che proprio l'Europa ne sia
stata il luogo d'elezione. Per definire quell'entità, non geografica ma
storica, che è l'Europa, anche Guizot, come i suoi predecessori, procede
per contrasto, opponendola ad altri tipi di civiltà, dove si sono
realizzate altre modalità di sviluppo. Primo termine di confronto,
com'è lecito aspettarsi, è per lui ancora l'Asia: quell'Asia che
era stata per la cultura dei Lumi il paradigma dell'alterità, di una
civiltà immobile in contrapposizione alla storia progressiva
dell'Occidente. Basti pensare a Montesquieu o a Voltaire. Accanto all'Asia,
tuttavia, Guizot chiama a confronto anche il mondo antico, comprese le
civiltà greca e romana. È questa un'innovazione discorsiva
importante – la si ritrova anche in Constant e si può farla
risalire agli
Idéologues[22]
– che segnala una svolta profonda nella sensibilità
storico-politica al passaggio tra Sette ed Ottocento. Già maestri di
civismo e di libertà, e dopo i paludamenti classicheggianti di cui
s'è compiaciuta la Rivoluzione francese, gli Antichi sono ormai
irrimediabilmente separati dai Moderni[23].
Ricco di conseguenze ed implicazioni è poi il criterio che serve da metro
di misura per questo confronto con gli Altri. Da una parte ci sono delle storie
caratterizzate da un principio unico ed uniforme, dall'altra una storia
connotata dalla diversità e dalla varietà: varietà dei
popoli, come s'è già detto, ma soprattutto varietà dei
principi, delle credenze, delle istituzioni.
Quando – dice Guizot[24] – si esaminano le civiltà che hanno preceduto quella dell'Europa moderna, sia in Asia sia altrove, compresa la stessa civiltà greca e romana, è impossibile non essere colpiti dall'unità che vi regna. Sembrano generate da un solo fatto, da una sola idea; si direbbe che la società sia appartenuta ad un principio unico che l'abbia dominata, determinandone le istituzioni, i costumi, le credenze, insomma tutti gli sviluppi.
Ben diversamente si sono svolte le cose in Europa:
Vi coesistono tutte le forme, tutti i principi di organizzazione sociale; i poteri spirituale e temporale, gli elementi teocratico, monarchico, aristocratico, democratico, tutte le classi, tutte le situazioni sociali vi s'intrecciano, vi si accavallano; la libertà, la ricchezza, l'influenza vi si presentano in infinite gradazioni. E queste forze diverse sono tra loro in uno stato di lotta continua, senza che una giunga a soffocare le altre e a prendere da sola possesso della società [...]. Medesima varietà, medesima lotta nelle idee e nei sentimenti dell'Europa. Le credenze teocratiche, monarchiche, aristocratiche, popolari s'incrociano, si combattono, si limitano, si modificano.
5. In poche righe, lo storico annuncia qui il viaggio
che, nelle sue lezioni, compirà attraverso le tumultuose vicende della
storia dell'Europa moderna. È un itinerario frastagliato e che tuttavia
non perde mai di vista la meta; che parte dalla caduta dell'Impero romano e
dalle invasioni barbariche, avanza attraverso la frammentazione dell'età
feudale, segue il costituirsi di nuovi poli d'aggregazione – la Chiesa da
una parte, l'Impero e poi le monarchie nazionali dall'altra – ed arriva
fino all'emergere delle due forze protagoniste del grande moto d'emancipazione
che lo conclude. Forze che, secondo la duplice accezione di sviluppo della
civiltà, sono il popolo (o meglio il Terzo Stato), che ha finito per
coincidere con la classe generale dei cittadini, e il principio del libero
esame, che ha costituito la matrice della libertà moderna. Si deve
però anche osservare che Guizot, se guarda al passato dal punto di vista
di un presente che solo è in grado di dargli un senso, nel suo procedere
è fortemente interessato a ricostruire le specifiche modalità dei
processi storici. È così che egli apporta al quadro tracciato
dalla storiografia dei Lumi una seconda importante innovazione: all'unisono con
la nuova sensibilità romantica, egli assegna infatti un ruolo centrale al
Medioevo, età che, ben lungi dall'essere giudicata di barbarie e di
decadimento, appare qui come una straordinaria fucina di principi ed esperienze
da cui è nata la civiltà
europea[25].
Il quadro
che lo storico traccia è di straordinaria ampiezza e limpidezza. Non se
ne comprenderebbe tuttavia appieno il significato – né si
comprenderebbe il senso più pregnante di quel principio di varietà
che, secondo l'autore, è la caratteristica specifica della civiltà
europea – se, di nuovo, non se ne ricercasse la fonte ispiratrice nella
sua filosofia politica. La particolare formula del liberalismo di Guizot
consiste nell'idea, di evidente derivazione religiosa, che a nessuno sulla terra
debba mai essere attribuito un potere assoluto, perché il mondo umano
è governato dalla fallibilità; che le istituzioni umane
partecipino, in misura maggiore o minore ma sempre relativa, di quella Ragione,
di quella Giustizia, di quel Diritto, che in assoluto sono attributi della
Divinità; e che, quindi, nel concreto della vita politica, la maggior
somma di bene non possa che risultare dalla pluralità delle opzioni e dal
pluralismo delle forze in campo[26]. Ora, se
così è, la civiltà europea, con la sua varietà che
non ha mai consentito che vi prevalesse un principio unico, è quella che
meglio corrisponde all'ordine dell'Universo.
Dimenticando per un istante la civiltà europea, rivolgiamoci al mondo in generale, al corso generale delle cose terrestri. Qual è il suo vero carattere? Come va il mondo? Va per l'appunto con quella diversità, quella varietà di elementi, in preda a quella lotta costante che si è rilevata nella civiltà europea. È evidente che a nessun principio, a nessuna organizzazione particolare, a nessuna idea, a nessuna forza speciale è stato dato di impadronirsi del mondo, di modellarlo una volta per sempre, espellendone ogni altra tendenza e regnandovi esclusivamente.
L'ordine ontologico, peraltro, non diversamente che nella visione tradizionalista di un Bonald, anche per Guizot rispecchia l'ordine metafisico. È per questo che egli può concludere:
La civiltà europea è entrata, se è permesso dirlo, nell'eterna verità, nel piano della Provvidenza; essa procede secondo le vie di Dio. È questo il principio razionale della sua superiorità[27].
6.
Un altro grande storico dell'Ottocento, questa volta tedesco, che va sotto il
nome di Jacob Burckhardt, guardando alla pluralità delle voci che
concorrono a comporre l'armonia della civiltà europea, la chiamerà
una discordia
concors[28]. Non v'è dubbio che,
se avesse usato la stessa metafora, Guizot avrebbe piuttosto parlato di una
concordia discors. Nella sua storia
della civiltà europea gli apporti dei diversi popoli che hanno
contribuito a farne la ricchezza confluiscono infatti senza disarmonie nel fiume
che tutti li raccoglie. Testimonianza, questa, di un'epoca in cui l'Europa si
presenta ancora come un concerto di Stati, tenuti insieme da una concezione
dell'equilibrio di stampo, per così dire, metternichiano: si dovrebbe
soltanto aggiungere, per completare il discorso, che l'Europa di Guizot è
ancora quella “stretta” del
Settecento[29], e che, come ben mostra il passo
con cui si apre il mio saggio, ne resta esclusa la Russia.
Ora, se è pacifico
che tutti i popoli hanno contribuito alla formazione della civiltà
europea, non tutti, secondo Guizot, lo hanno fatto allo stesso modo e,
soprattutto, non tutti hanno mostrato di corrispondere nella stessa misura ai
suoi caratteri fondamentali. Nel discorso europeista del nostro storico
s'introduce così un nuovo snodo che, seppure egli lo argomenti con grande
levità, non va però esente da conclusioni problematiche. Fin dalla
prima lezione – senza dubbio anche perché costretto dalle esigenze
della narrazione a scegliere un filo conduttore – egli afferma infatti che
«la Francia è stata il centro, il focolare della civiltà
dell'Europa». Non che – egli osserva – a seconda delle epoche e
dei campi d'attività presi in considerazione, questo paese non sia mai
stato sopravanzato da altri; tuttavia
le idee, le istituzioni civilizzatrici, se così si può dire, sorte in altri territori, quando hanno voluto trapiantarsi, diventare feconde e generali, agire a vantaggio comune della civiltà europea, le si è viste, in un certo senso, obbligate a subire in Francia una nuova preparazione; ed è dalla Francia, come da una seconda patria, che esse si sono mosse alla conquista dell'Europa. Non v'è quasi nessuna grande idea, nessun grande principio di civiltà che, per potersi diffondere dappertutto, non sia prima passato dalla Francia[30].
In questa prima parte del corso, le ragioni della superiorità della Francia sono dunque indicate nella dote, che essa possiede in forma precipua, della socievolezza. Guizot appare qui ancora fermo a quell'esprit de société di cui avevano parlato gli autori del secolo diciottesimo, e che era qualcosa di più che un tratto mondano; che era piuttosto una dote che si doveva intendere come quella capacità di mediazione e comunicazione grazie alla quale le idee, ovunque fossero state prodotte, diventavano patrimonio comune dell'Europa[31]. Viene alla mente, a proposito di questo quadro, quanto osservava a suo tempo Lucien Febvre: che in fondo l'Europa dell'età dei Lumi, patria degli uomini colti, non fosse stata altro che «un prolungamento, una amplificazione, una promozione, se si vuole, della Francia»[32]. E tale è ancora l'Europa di Guizot. Nella seconda parte del corso, però, il discorso si complica. Volendo ripercorrere nel dettaglio il cammino che ha prima tracciato a grandi linee ed avendo scelto a tale scopo la storia della Francia, lo storico motiva ora diversamente la sua scelta. La Francia viene così presentata come il paese in cui, più che in ogni altro, ha trovato realizzazione il duplice sviluppo di cui, come ormai sappiamo, si compone ai suoi occhi la civiltà.
7. A leggere il confronto che ora egli istituisce tra i diversi popoli europei, potrebbe sembrare, in verità, che egli indulga a delle «formule abbastanza convenzionali». Ed è vero che egli si misura in qualche modo con una tradizione letteraria consolidata che, servendosi della nozione di “carattere”, aveva lungamente lavorato a costruire dei “tipi” nazionali[33]. È così che gli Inglesi, eccellenti nell'applicazione pratica delle idee, interessati al perfezionamento sociale, gli appaiono carenti nell'attività speculativa; mentre il contrario avviene per i Tedeschi, che egli giudica incapaci di far agire sul mondo esterno la loro spiccata attitudine intellettuale. Quanto agli Italiani, il giudizio che Guizot dà sulla loro mancanza di fede nella verità, appare anch'esso largamente diffuso nell'Ottocento (e condiviso, va detto, dagli italiani stessi: basti pensare a De Sanctis); ed è un giudizio che trova probabilmente origine, com'è stato detto[34], nelle invettive di Machiavelli. Mi sia consentito riprodurre per intero il giudizio di Guizot (che suscita in me, lo confesso, un senso di turbamento)[35]:
Intendo qui, per fede, quella fiducia nella verità, che fa sì che non solo la si tenga per vera e l'intelligenza ne sia soddisfatta, ma che si abbia fiducia e nel suo diritto di regnare sul mondo, di governare i fatti, e nella sua potenza per riuscirvi. Ebbene, è proprio questo che in Italia manca quasi generalmente; essa è stata feconda di grandi spiriti, di idee generali; è stata ricoperta di uomini di rara abilità pratica, esperti nell'intelligenza di tutte le condizioni della vita esterna, nell'arte di condurre e di maneggiare la società; ma queste due categorie di uomini e di fatti sono rimaste estranee l'una all'altra. Gli uomini delle idee generali, gli spiriti speculativi non si sono mai creduti incaricati della missione di agire sulla società né forse autorizzati a farlo; pur se fiduciosi nella verità dei loro principi, hanno dubitato della loro potenza. D'altra parte, gli uomini d'affari, i padroni della società non hanno tenuto quasi nessun conto delle idee generali; non hanno quasi mai provato desiderio di regolare, secondo certi principi, i fatti posti sotto la loro giurisdizione. Gli uni e gli altri hanno agito come se la verità non fosse buona che da conoscere, e non avesse nient'altro da domandare e da fare. Questo, nel secolo XV come più tardi, è il lato debole della civiltà italiana; è questo che colpisce di una specie di sterilità e il genio speculativo e la sua abilità pratica; le due potenze non sono vissute in fiducia reciproca, in corrispondenza, in continua azione e reazione.
Per
completare il quadro, bisognerebbe infine ricordare la Spagna. Nella sua
civiltà, scrive Guizot, non sono mancati né le grandi produzioni
dello spirito né i grandi eventi; ma si è trattato di «fatti
isolati, gettati qua e là nella storia spagnola, come palme sulle distese
sabbiose»[36].
Siamo qui di fronte
soltanto a una brillante parata di tipologie nazionali, come potrebbe suggerire
una lettura affrettata? È quanto io non credo. Se è vero che
Guizot s'avvale di stereotipi piuttosto diffusi, ciò che è
veramente degno d'ammirazione è come egli riesca nell'impresa di farli
entrare nel suo sistema di pensiero, ossia in una filosofia politica e in una
filosofia della storia che tendono entrambe a far coincidere, come s'è
detto, il piano dei “principi” e quello dei “fatti”.
Colpisce che egli senta il bisogno di ricordarlo al suo uditorio al momento di
dare inizio alla seconda parte del corso, e che allarghi anzi la portata del suo
discorso, esponendo quello che appare, di tutta evidenza, al tempo stesso un
programma di conoscenza e un programma
d'azione[37].
Alla luce di quel che precede, è d'altra parte agevole cogliere
ora nella sua pienezza il significato di quel primato che lo storico assegna
alla Francia[38].
Alla Francia dunque quest'onore, Signori: più fedelmente di ogni altra, la sua civiltà riproduce il tipo generale, l'idea fondamentale della civiltà. È la più completa, la più vera, la più civilizzata, se così si può dire. Proprio questo le è valso il primo posto nell'opinione europea disinteressata. La Francia si è contemporaneamente mostrata intelligente e potente, ricca di idee e di forze messe al servizio delle idee. Essa si è contemporaneamente rivolta alla mente dei popoli e al loro desiderio di progresso sociale; ha scosso le immaginazioni e le ambizioni; è apparsa capace di scoprire la verità e di realizzarla.
8. Solo un liberale francese,
«e della tempra di Guizot», è stato
scritto[39], avrebbe potuto negli anni venti
dell'Ottocento rinnovare l'idea settecentesca di una comune civiltà
europea e farla coincidere con la «storia di un singolo paese».
È un'affermazione che meriterebbe d'essere approfondita: mi
limiterò a dire che nell'espressione “liberale francese”
contano tanto il sostantivo quanto l'aggettivo. S'è già detto fino
a che punto fosse incentrata sulla Francia l'idea d'Europa elaborata
dall'età dei Lumi, e dunque quanto facile e per così dire naturale
dovesse essere per un francese colto vivere il senso di una duplice
appartenenza. Si può ora aggiungere che, nelle generazioni del primo
Ottocento, l'eredità della Rivoluzione e il credo universalistico dei
suoi principi non hanno potuto che rafforzare – nella mente di chi, come i
liberali, in tali principi si riconosceva – la sovrapposizione tra
l'immagine di una comunità nazionale concepita come esemplare e quella di
un più vasto spazio di comune civiltà. In un discorso più
ampio, si potrebbe sostenere come questa stessa ragione spieghi, d'altra parte,
le difficoltà che le due ideologie che ci appaiono proprie del secolo
diciannovesimo – liberalismo da un lato, nazionalismo dall'altro –
hanno esperito ad incontrarsi. Come si spieghi che un liberale come Guizot
– o, più tardi, come
Tocqueville[40] – siano apparsi
refrattari, per non dire ostili, alle idee nazionali. Se l'uno e l'altro, nella
loro funzione di uomini pubblici, hanno perseguito una politica di grandezza per
il loro paese, è stato nella prospettiva di un'Europa che ancora poggiava
sul felice equilibrio degli Stati, e che dai nuovi particolarismi nazionali non
avrebbe potuto che essere messa a repentaglio.
Del resto, non è che
i loro timori si siano rivelati infondati. È uno dei tratti più
caratteristici della storia del secolo diciannovesimo che l'universalismo
rivoluzionario, presentandosi sotto veste guerriera, abbia finito per suscitare
passioni identitarie suscettibili di volgere – e che hanno in breve volto
– a derive nazionalistiche ed etnicistiche. In Francia, in attesa che il
nazionalismo diventi un appannaggio della Destra dopo la svolta del 1870,
è soprattutto la sinistra “giacobina” che lo alimenta,
continuando a coltivare il mito della guerra
rivoluzionaria[41]. Dall'altra parte del Reno
s'oppone all'idea francese di
civilisation quella di
Kultur e si parla di una
«missione» tedesca. Ed è anche in risposta all'esaltazione del
ruolo della Francia fatta da Guizot che Giuseppe Mazzini lancia l'idea di
un'«iniziativa» spettante ai popoli oppressi e privi di Stato, primo
fra tutti quello italiano, e che Gioberti rivendica il «primato»
dell'Italia. Insomma, ormai la nazione è la nuova fede che accende le
menti e i cuori, la nuova parola d'ordine che trascina all'azione. Ed è
anche, come ha detto Febvre, «lo scoglio su cui va ad infrangersi la nave
delle speranze europee»[42].
Lucien Febvre pronunciava
queste parole in un corso dedicato all'Europa, tenuto al Collège de
France nell'inverno 1944-1945. Allo stesso periodo, e precisamente al 1943-1944,
appartiene il più antico dei corsi universitari professati da Chabod
sull'idea d'Europa, dai quali è stato tratto il libro che porta lo stesso
titolo. Sono date che non hanno bisogno d'essere commentate, e che bastano a
spiegare perché, dopo la catastrofe dei nazionalismi, da una parte e
dall'altra delle Alpi quei due grandi storici ed intellettuali tornassero nei
loro studi a volgere gli sguardi all'Europa.
[1] François Guizot, Storia della civiltà in Europa, Milano, Il Saggiatore, 1973, pp. 106-107. La traduzione italiana, a cura di Armando Saitta (uscita dapprima presso l'editore Einaudi nel 1956), è stata condotta sulla sesta edizione dell'Histoire de la civilisation en Europe, pubblicata nel 1840. Sebbene nella Prefazione di tale edizione l'autore affermi di aver lasciato le sue Lezioni «così come apparvero al tempo della prima pubblicazione, dal 1828 al 1830» (ibid., p. 104), si deve registrare che sono invece intervenute delle modifiche: per quanto riguarda il passo citato, nelle edizioni precedenti mancava il riferimento all'Italia.
[2] Cfr. Marcello Verga, Storie d'Europa. Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci Editore, 2004, p. 9 (corsivo dell'autore).
[3] Voltaire, Il Secolo di Luigi XIV [1751, Torino, Einaudi, 1994, p. 16.
[4] Federico Chabod, Storia dell'idea d'Europa, Roma-Bari, Laterza, 2003 [1961], p.156. Riguardo a Guizot, e al giudizio (implicito) di cui parlo nel testo, si osservi che Chabod tratta dell'Histoire de la civilisation en Europe nel capitolo sesto ed ultimo.
[5] «Io ritengo – lo storico afferma nella sua prima lezione (Storia della civiltà in Europa, cit., p. 114) – che il primo fatto compreso nella parola “civiltà” [...] sia il fatto del progresso, dello sviluppo; esso suscita immediatamente l'idea di un popolo che cammina, non per cambiare posto, ma per cambiare stato; di un popolo la cui condizione si estende e diventa migliore. Mi sembra che l'idea del progresso, dello sviluppo, sia l'idea fondamentale contenuta nella parola “civiltà”».
[6] Ibid., p. 108.
[7] François Guizot, Storia della civiltà in Francia, a cura di Regina Pozzi, Torino, UTET, 1974, p. 739.
[8] Ibid., p. 738.
[9] Lucien Febvre, Civiltà: evoluzione di un termine e di un gruppo di idee, in Studi su Riforma e Rinascimento e altri scritti su problemi di metodo e di geografia storica, Torino, Einaudi, 1966, pp. 387-425. Febvre fa risalire la prima ricorrenza sicura del sostantivo al 1766, e precisamente alla pubblicazione postuma dell'Antiquité dévoilée par ses usages di Boulanger, attribuendone però la paternità agli interventi operati sul testo dal barone D'Holbach.
[10] Storia della civiltà in Europa, cit., pp. 116-117.
[11] Ibid., p. 119.
[12] Febvre, Studi su Riforma e Rinascimento, cit., pp. 418 sgg.
[13] Il saggio di riferimento è naturalmente Pierre Rosanvallon, Le Moment Guizot, Paris, Gallimard, 1985. Alle cure dello stesso si deve anche la pubblicazione, sempre nel 1985, del saggio Philosophie politique (pubblicato in appendice a François Guizot, Histoire de la civilisation en France, présenté par P. Rosanvallon, Hachette, 1985, pp. 307 sgg.). Di quest'operetta è stata pubblicata anche una traduzione italiana: François Guizot, Della sovranità, a cura di M. Mancini, Napoli, Editoriale Scientifica, 1998.
[14] Mi sia consentito rinviare su questo punto al mio studio, Guizot e la critica la principio della maggioranza numerica, in AA.VV. La democrazia tra libertà e tirannide della maggioranza nell'Ottocento, Firenze, Olschki, 2004, pp. 259 sgg.
[15] Bisognerà ricordare la pagina che chiude la lezione quattordicesima ed ultima dell'Histoire de la civilisation en Europe: «Nel secolo XVIII [...], mi sentirei imbarazzato se dovessi dire quali fossero i fatti esterni che lo spirito umano rispettava, e che esercitassero un qualche effetto su di esso: tutto lo stato sociale ne era, infatti, odiato o disprezzato. Esso ne trasse la conclusione che era chiamato a riformare ogni cosa; giunse a considerare se stesso come una specie di creatore: istituzioni, opinioni, costumi, la società e l'uomo stesso, tutto parve da rifare e la ragione umana se ne assunse il compito» (Storia della civiltà in Europa, cit., pp. 428-429).
[16] Per una presa di distanza dalla cultura settecentesca, filtrata attraverso la rievocazione autobiografica della frequentazione giovanile degli ultimi philosophes, si vedano le pagine iniziali dei Mémoires pour servir à l'histoire de mon temps, Paris, Michel Lévy Frères, 1858-1867, I, pp. 4 sgg. e soprattutto la Notice sur Madame de Rumford [1841], pubblicata nei medesimi Mémoires, II, pp. 397 sgg. Sul tema è da leggere il bel saggio di Pierre Bouretz, L'héritage des Lumières, in AA.VV., François Guizot et la culture politique de son temps, textes rassemblé et présentés par Marina Valensise, Paris, Gallimard, 1991, pp. 37-57.
[17]François Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif en Europe, Paris, Didier, 1851, I, p. 260.
[18] «Esiste, in ogni società, – egli aveva scritto (ibid., II, pp. 149-150; corsivo dell'autore) – una certa somma di idee giuste e di volontà legittime sui diritti reciproci degli uomini, sui rapporti sociali e sui loro risultati. Questa somma di idee giuste e di volontà legittime è dispersa negli individui che compongono la società ed inegualmente ripartita tra loro [...]. Il problema è evidentemente di raccogliere ovunque, nella società, i frammenti sparsi ed incompleti di questo potere, di concentrarli e di costituirli in governo. In altre parole, si tratta di scoprire tutti gli elementi di potere legittimo disseminati nella società, e di organizzarli in potere di fatto, ossia di concentrarli, di realizzare la ragione pubblica, la morale pubblica, e di chiamarle al potere. Quel che si chiama rappresentanza non è altro che il mezzo di arrivare a questo risultato. Non è una macchina aritmetica destinata a raccogliere e a contare le volontà individuali. È un procedimento naturale per estrarre dal seno della società la ragione pubblica, che sola ha il diritto di governare».
[19]Ibid., cit., I, p. 256.
[20] Storia della civiltà in Europa, cit., p. 180.
[21] Ibid., p. 124.
[22] A questo proposito si cita sempre la celebre conferenza del 1819 di Benjamin Constant, che s'intitola De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes. Si dovrebbe però ricordare anche il precedente costituito dalle Leçons d'histoire che Volney tenne nel 1795 all'École normale, perché in esse l'idéologue denuncia la viziosa costituzione politica delle repubbliche antiche e deplora l'ammirazione fanatica di cui le si è fatte oggetto in un recente passato. Sul tema, mi permetto di rimandare al mio saggio La storia tra età dei Lumi e età romantica: il “Cours d'études historiques” di Daunou, in Regina Pozzi, Tra storia e politica. Saggi di storia della storiografia, Napoli, Morano, 1796, pp. 13-65.
[23] «Per la prima volta, – scrive Chabod (Storia dell'idea d'Europa, cit., p. 143) – il principio della tirannide abbraccia non solo tutte le civiltà extraeuropee, ma tutto il mondo antico, Grecia e Roma comprese: per la prima volta letteratura arte pensiero dei Greci e dei Romani vengono assimilati a pensiero letteratura arte degli Orientali e divisi invece, per una diversità sostanziale, da pensiero letteratura arte dell'Europa moderna».
[24] Ibid., p. 130, 133. Nella Storia della civiltà in Francia, lo storico, approfondendo e precisando il suo discorso, aggiunge un importante elemento di differenziazione tra la civiltà europea e le altre civiltà, consistente nella mobilità o nell'immobilità sociale: «In ogni paese e ad ogni epoca, qualunque sia il regime politico, in capo a un intervallo più o meno lungo di tempo, le classi superiori si logorano e si fiaccano, per il solo effetto del godimento del potere, della ricchezza, dello sviluppo intellettuale, di tutti i vantaggi sociali; esse hanno bisogno di essere continuamente spronate dall'emulazione e rinnovate dall'immigrazione delle classi che vivono e lavorano al di sotto di esse. Pensate a quello che è avvenuto nell'Europa moderna. Ci sono stati una prodigiosa varietà di condizioni sociali, gradi infiniti nella ricchezza, nella libertà, nei lumi, nell'influenza, nella civiltà. E a tutti i gradini di questa lunga scala un movimento ascendente ha continuamente spinto ogni classe, e tutte le classi le une ad opera delle altre, verso un più grande sviluppo; e nessuna ha potuto restarvi estranea. Di qui la fecondità, l'immortalità quasi della civiltà moderna, continuamente rinnovata nei suoi quadri e ringiovanita» (Storia della civiltà in Francia, cit., pp. 118-119).
[25] Su questo punto cfr. ancora Chabod, Storia dell'idea d'Europa, cit., p. 137 sgg.
[26]Per sostenere questo liberalismo della Ragione Guizot non esita nemmeno a ricorrere all'argomentazione probabilistica. «[La fallibilità della ragione umana] – si legge nella sua operetta di filosofia politica – esige che, su tale questione, il dibattito rimanga sempre aperto, che nessuna forza, maggioranza o altro, si prevalga dell'obbedienza che le è dovuta per sottrarsi all'esame. L'uomo deve obbedienza al potere la cui legittimità è probabile, ma è solo a delle probabilità che obbedisce. Il miglior governo è quello che ne offre di più grandi; nessun sistema di governo può dare niente di più: ed è fondato sulla verità, rispetta e garantisce il diritto, quello soltanto che prende questa condizione dell'uomo per principio fondamentale e non la perde mai di vista sia nelle dottrine che nelle istituzioni» (Philosophie politique, in Histoire de la civilisation en Europe, cit., p. 378).
[27] Storia della civiltà in Europa, cit., pp. 135-136.
[28] «Da una posizione elevata e distante, come dovrebbe essere quella dello storico, – egli scrive, in un abbozzo per una storia dei secoli XVII e XVIII redatto nel 1869 (cit. in Verga, Storie d'Europa, cit., p. 47) – le campane suonano armoniosamente, anche se da vicino il loro suono può apparire più o meno disarmonico: Discordia concors».
[29] Basterà ricordare nella sua completezza il passo, che ho sopra citato, tratto dal Siècle de Louis XIV di Voltaire: «Da un pezzo si poteva considerare l'Europa cristiana (tranne la Russia) come una specie di grande repubblica ecc.».
[30]Storia della civiltà in Europa, cit., p. 107. Mi distacco qui, in qualche tratto, dalla traduzione di Armando Saitta.
[31] Cfr. su questo punto Chabod, Storia dell'idea d'Europa, cit., p. 150.
[32] Cfr. Lucien Febvre, L'Europa. Storia di una civiltà, Roma Donzelli, 1999 [Paris, Perrin, 1999], p. 211. Si tratta, com'è noto, dell'edizione, sul testo ristabilito da Thérèse Charmasson, del corso tenuto da Febvre al Collège de France nell'anno 1944-1945.
[33] Così Verga, Storie d'Europa, cit., p. 14. L'autore
ricorda che fu David Hume ad usare tra i primi, nel saggio del 1748 Of the National Character,
l'espressione «carattere nazionale», «sovrapponendo –
scrive Verga – e, in definitiva, unificando il significato e il valore
nuovo di “nazione”, come comunità culturalmente e
storicamente individuabile e riconosciuta [...] e quella nozione di
“carattere” che era stata, dall'Umanesimo in poi, largamente
adoperata per la descrizione dei diversi “popoli”
europei».
[34] Cfr. Chabod, Storia dell'idea d'Europa, cit., p.
151. Del medesimo è il giudizio, sopra citato, sulle «formule
convenzionali» (ibid., p.
151).
[35] Storia della civiltà in Francia, p. 77.
[36] Ibid., p. 78.
[37] «Siamo incaricati – egli dice
(ibid., p. 86) – di far sempre
più prevalere in campo intellettuale il dominio dei fatti, in campo
sociale il dominio delle idee; di condurre sempre più la nostra ragione
secondo la realtà, la realtà secondo la ragione; di mantenere ad
un tempo il rigore del metodo scientifico e la legittima autorità
dell'intelligenza. Non c'è in questo nulla di contraddittorio,
tutt'altro; al contrario è questo il risultato naturale, necessario,
della situazione dell'uomo come spettatore in mezzo al mondo, e della sua
missione come attore sulla scena del mondo». Alla luce di queste frasi, si
rilegga ora il giudizio che, nei Mémoires, egli dà degli
ultimi illuministi, dei salotti letterari di Mme de Rumford e di Mme Houdetot,
dell'abate Morellet e dei Suard, che aveva frequentato appena arrivato a Parigi
nel 1810: «Essi tenevano alla libertà del pensiero e della parola,
ma non aspiravano affatto al potere; detestavano e criticavano vivamente il
dispotismo, ma senza nulla fare per frenarlo o per rovesciarlo. Era un'opposizione di spettatori illuminati
ed indipendenti che non avevano alcuna possibilità né alcun
desiderio d'intervenire come attori»
(Mémoires pour servir à
l'histoire de mon temps, cit., I, p. 6; il corsivo è
mio).
[38] Storia della civiltà in
Francia, cit., p. 83.
[39] Verga, Storie d'Europa, cit., p. 39.
[40] A proposito del quale si veda Françoise Mélonio, Nations et nationalismes, in «The Tocqueville Review/La Revue Tocqueville». Numéro spécial bicentenaire (1805-2005). Tocqueville et l'esprit de la démocratie, XXVI, n° 1-2005, pp. 337-356.
[41] Cfr. su questo punto Raoul
Girardet, Le Nationalisme français.
1871-1914, Paris, A. Colin, 1966. Per il mito della guerra rivoluzionaria
si veda anche Sergio Luzzatto, La
“Marsigliese” stonata. La Sinistra francese e il problema storico
della guerra giusta (1848-1948), Bari, Dedalo,
1992.
[42] Febvre, L'Europa, cit., p. 220.