José Martí e los indios de Norteamérica:
mediazione culturale e «scontro di civiltà». Una rilettura critica

Alessandro Badella
Università di Genova
Abstract

The Cuban poet José Martí, “Master of the Americas” as pointed out by a famous Italian study by Carlo Batà, was probably the most important South American thinker of the two last decades of the Nineteenth century. This essay deals with the importance of “civilization clash” between US positivism - or WASP-ism - and the last resistances of Native Americans' cultural heritage during his personal experience as an exile in the United States. Martí, in this racial struggle and racist instincts, experienced a dual vision about the “Indian problem” in the Americas. In his first essays he focused on the positivistic view, really common among Latin American cultural élites (from Alberdi to Sarmiento), which depicted the Indian people as the burden of creole and white race in the path toward progress.
On the other hand, as appeared clearly in Escenas americanas, the Cuban analysed more precisely the American struggle between civilization and savagery. In the cultural massacre inflicted to Indian tribes, he saw the real savagery in American civilization. So, this reflection paved the way to a new approach in considering the possibility of importing the Anglo-saxon model of civilization and political structures to the liberated Cuba after the independence (but also to continental Latin America).
This relationship let us understand some interesting features in Martí's huge cultural production. We are introduced to the very essence of his cultural mediation between those two different lifestyles and models of civilization. This mediation would have represented a new way of intending North vs South America struggles or even Western way of life vs different ones, considered “barbarous” from the first.
In our modern times, in which the terms “exporting values” or “civilization clash” seem to be very common in usage, it is really stimulating discover that the same problem was posed by Martí more than one century ago. Even if he did not propose any practical or scientific formul to obtain a real re-flourishing of Indian culture, he was one of the first Latin American thinker to underline the latent “evils” of US society and civilization.
The “Indian problem” in Martí could be a lens with which we can understand his shift from a positivistic (or Western) view of Indios to a more critic position in the struggle towards modernization and economic progress. This ambivalence, these two different focal points let us understand the complexity of Martí's thoughts.

I .“Volví los ojos hacia los pobres indios”

1. Quando Martí mise piede per la seconda volta a New York, il giorno 3 gennaio 1880, gli Stati Uniti, che sarebbero stati la sua dimora per quindici anni, erano in definitiva e rapida trasformazione[1]. Il poeta e rivoluzionario cubano, nei successivi tre lustri, avrebbe imparato ad analizzare la società statunitense, giungendo ad interessanti e controverse conclusioni[2].
Il viaggio martiano negli USA rappresentò una sorta di percorso iniziatico per la imminente guerra necessaria[3] volta alla liberazione di Cuba. L'esperienza del viaggio, principalmente in Francia o in Inghilterra, era una prerogativa nella formazione degli intellettuali latinoamericani della seconda metà dell'Ottocento. L'apertura di nuovi orizzonti, specie verso le nazioni tecnologicamente ed economicamente più sviluppate (nonché culturalmente più vivaci), fungeva da ricerca di una chiave di lettura culturale (ed anche politica) del primo periodo post-indipendenza. In pratica, l'intellettuale latinoamericano ricercava altrove uno strumento pedagogico per permettere all'America Latina di affrancarsi dalla propria condizione “barbara”[4]. Per questo, Martí negli Stati Uniti, così come in Messico ed in Venezuela, si mosse come un fotografo attento nel cogliere i minimi dettagli della società che lo ospitava, al fine di utilizzare tali strumenti per la (ri)fondazione della società cubana. Il tema del viaggio martiano arrivò a fondersi con quello del monito per il futuro della Repubblica cubana: conoscere la realtà latinoamericana (con le sue derive caudilliste) e quella nordamericana avrebbe messo Cuba al riparo dagli stessi “peccati” politico-sociali. Questo Martí lo espresse molto chiaramente in un articolo dell’ottobre 1885: “En lo que peca, en lo que yerra, en lo que tropieza, es necesario estudiar a este pueblo [norteamericano], para no tropezar como él”[5]. Quindi, la conoscenza come arma di difesa contro l’errore altrui “importato” in patria.
Per Martí sicuramente, gli Stati Uniti non rappresentavano un esempio completamente negativo per le Repubbliche latinoamericane, anche perché gran parte del primo periodo newyorkese lo impiegò tessendo le lodi della società anglosassone. Rafael E. Tamargo ha messo in evidenza alcuni interessanti aspetti del “anglosassonismo” in Martí. Il punto focale dell'analisi di Tamargo è il seguente:

Una lectura cuidadosa de “Nuestra América” no justifica la imagen de José Martí como antagonista de Estados Unidos, y revela más antihispanismo que antiamericanismo, a pesar del interés martiano por la América de habla española. El llamado de José Martí a los latinoamericanos en “Nuestra América” no es un rechazo a Estados Unidos y su civilización populista y liberal, sino un llamado a modernizarse y democratizarse; hasta cierto punto, un llamado a americanizarse[6].

2. In effetti, sono decine gli esempi in cui viene preso a mo' di modello la società statunitense: Tamargo cita “Nuestra América” come la massima espressione della devozione martiana nei confronti degli Stati Uniti e l'apice del disprezzo per il “colonizador despótico y avieso”, la Spagna[7]. In questa visione, che sarebbe poi stata mitigata dall'impegno antimperialista martiano, vennero riflesse anche le esperienze culturali di alcuni letterati illustri latinoamericani nell'approccio alla società statunitense. Sia Miranda, con il libro Viaje por los Estados Unidos (1783), che l'argentino Sarmiento, durante il suo primo viaggio in terra statunitense, avevano messo in luce la grandiosità del progetto utopico americano di lasciarsi alle spalle il colonialismo britannico e di rifondare una società sui principi del liberalismo e del progresso scientifico e sociale.
In questa visione idilliaca, le Escenas Norteamericanas martiane infondo nel lettore contemporaneo il dubbio, la tensione spasmodica tra la perfezione dell'assioma statunitense di progresso lineare ed infinito e gli errori, i contrasti e le contraddizioni che la società della Gilded Age stava producendo. Martí ruppe definitivamente l'idillio della società americana, dopo averne subito il fascino ed aver contribuito ad alimentarne (seppur per poco) il mito[8].
Nell'ambito della frizione interna alla società americana, un aspetto marginale, ma sicuramente affascinante, fu quello inerente i rapporti razziali. Così come Tocqueville, anche il poeta cubano vide negli Stati Uniti una società di pari, di eguali, che sfuggiva alla discriminazione e alle vessazioni sociali dell’Europa. Per di più, le Tredici Colonie erano state proprio fondate dai reietti del Vecchio Continente, scampati alle persecuzioni e alla miseria per fondare una nuova società senza nobili né signori. Non solo, questa forma di tolleranza universale aveva fatto sì che gli Stati Uniti aprissero le braccia anche ai meno fortunati della terra. Proprio questo aspetto traspare con chiarezza dall'opera martiana: “Bondadoso pueblo es éste, y el primero que, con generosidad imperturbable, abrió los brazos, y los ha mantenido un siglo abiertos, a los laboriosos y a los tristes de toda la tierra”[9].
Questa mezcla di genti diverse avrebbe potuto essere un buon esempio di convivenza pacifica di popoli diversi, la stessa che si sarebbe dovuta (e potuta) realizzare nella Cuba di fine Ottocento. Da qui l’interesse per l’analisi della prospettiva americana nei rapporti razziali, ma anche la coerente (ma non banale) presa di posizione circa il rampante ultraaguilismo (da aquila, il simbolo della coat of arms statunitense)[10], l’espansionismo americano ed il rapporto tra le componenti etnico culturali delle Americhe.
Il cosiddetto “problema afro-cubano” ed il dibattito sulla cubanidad (riassumibile nella ricerca di un ruolo per la componente africana della popolazione dell’isola) vennero affrontati da Martí partendo proprio delle esperienze nordamericane in materia. Al fine di definire la posizione della rivoluzione nei confronti de los negros, il poeta cubano osservò attentamente la problematica proprio durante l’esilio newyorkese. La posizione anti-razzista dell’articolo Mi raza, il manifesto vero e proprio dell’anti-razzismo della e nella rivoluzione cubana, è infatti una sintesi di immagini, schizzi e annotazioni che affiorarono dalle sue vivide descrizioni della società americana[11].

3. Occorre considerare che gli Stati Uniti in cui Martí visse per quindici anni furono il risultato del superamento, almeno istituzionale, della Guerra Civile, con la quale i neri avevano (formalmente) ottenuto la libertà. Tuttavia, la Gilded Age divenne anche incubatrice di un fittissimo dibattito circa i rapporti razziali e la presunta superiorità della cultura anglosassone[12]. Martí fu testimone del civilization clash tra la cultura progressista e positivista degli Stati Uniti degli anni ottanta dell'Ottocento e tutta una serie di nicchie etnico-culturali (dai neri agli indiani, passando per i migranti europei), che riproducevano, sebbene in scala più ampia, le tensioni sociali e razziali a Cuba e tra Cuba e Stati Uniti[13].
A fine Ottocento, questa problematica nelle relazioni interculturali era pressoché sconosciuta all'interno del dibattito socio-culturale cubano. La popolazione india sull'isola di Cuba era stata totalmente sterminata nel corso del primo secolo di conquista spagnola. Tranne alcune tracce non molto significative, ogni presenza precolombiana era stata (violentemente) espulsa dall'isola, ed infine debellata attraverso l'importazione di schiavi neri dall'Africa[14]. Inoltre, solamente in un periodo successivo, nel corso del Novecento, la storiografia e l'antropologia cubana portarono alla ribalta il tema dell'influenza culturale ed etnica della popolazione india (ormai scomparsa)[15].
Il tema indigenista era passato in secondo piano di fronte all'avanzata demografica e culturale della popolazione africana e al “miraggio americano” che aveva contagiato almeno due generazioni di cubani dalla metà dell'Ottocento[16]. Tranne alcuni sporadici esempi, come il saggio Cuba primitiva, pubblicato da Antonio Bachiller y Morales nel 1880, le testimonianze della presenza indigena sull'isola erano praticamente scomparse, o comunque scarsamente considerate[17]. Questa censura era anche determinata dal dominio coloniale spagnolo, prima, e successivamente dalla sudditanza psicologica e politica nei confronti degli Stati Uniti[18].
Il background culturale di Martí era, quindi, particolarmente asettico nei confronti della problematica indigena. Tuttavia, il rapporto con l'indigeno latinoamericano non era certo ignota agli ambienti culturali in cui Martí si era formato. Il dibattito circa la collocazione sociale e politica degli indios subì, proprio durante la seconda metà dell'Ottocento, un forte mutamento che influenzerà senz'altro il pensiero del cubano sul tema. Infatti, come ha notato la storica Mónica Quijada, nelle democrazie liberali latinoamericane vi fu il concepimento di una “civilized nation”, che ospitasse solamente gli individui con la capacità di mostrare un certo livello di civilizzazione e di adesione alle norme sociali imposte dall'élite creola. Il sogno utopico post-indipendenza, ovvero la creazione di una “civic nation” che ospitasse tutti i cittadini indistintamente, venne definitivamente sconfitto dall'avanzare del positivismo di marca europea e statunitense[19]. Proprio l'impossibilità di inserire gli indigeni latinoamericani all'interno delle strutture socio-economiche creole avrebbe comportato, a partire dagli anni Settanta, il dibattito (soprattutto in repubbliche a forte vocazione bianca, come quelle del Cono Sur) sui requisiti di civilizzazione per l'accesso alla cittadinanza.
I grandi classici europei del pensiero ottocentesco e positivista ebbero una influenza decisiva nella formazione delle élite culturali e politiche latinoamericane della seconda metà del XIX secolo. Da Buffon a Hegel, la scienza umana e la filosofia euro-occidentale, che era la stessa sui cui libri si erano formati intellettuali del calibro di Sarmiento (in Argentina) e José Antonio Saco (a Cuba), aveva decretato la sconfitta delle “razze” tropicali, che, per cause genetiche e ambientali non erano in grado di raggiungere il progresso economico e scientifico europeo. Una condanna severissima dei primi sforzi latinoamericani di costruire una identità propria. Ma, soprattutto, una mistificazione coerente con i sogni di assoggettamento economico e culturale occidentali, proprio nella fase acuta dell'imperialismo globale[20].

4. Difficile, pertanto, immaginare che Martí, attento osservatore e vorace lettore, fosse totalmente estraneo al dibattito sullo status dell'indigeno latinoamericano, ancora di più perché soggiornò in paesi centroamericani dove la condizione degli indigeni si stava lentamente, ma inesorabilmente, degradando.
Fu proprio in Messico (in cui soggiornò nel biennio 1875-77) che Martí se hizo hombre, divenne uomo e soprattutto si formò politicamente nell’impegno di liberare e riformare l’America Latina. Proprio in Messico si aprì mentalmente al Continente, uscendo dal mero rapporto di sudditanza coloniale Cuba-Spagna, riconoscendo nel governo liberale di Lerdo de Tejada (di cui apprezzò particolarmente la riforma dell’istruzione) un possibile modello di sviluppo a cui ispirarsi[21].
Durante il periodo messicano e nordamericano, gli scritti martiani sul mondo indio si moltiplicarono abbastanza velocemente. Dapprima sotto forma di interesse pedagogico. Nel periodo 1875-78, cioè tra la fine dell'esilio in Messico e Guatemala e la sua seconda espulsione da Cuba, si concretizzarono alcune riflessioni sulla condizione indigena negli stati latinoamericani in cui Martí aveva soggiornato.
Sebbene il cronista cubano avesse vissuto per almeno ventidue anni allo scuro di una vera a propria “questione india”, il soggiorno nelle repubbliche centroamericane gli aprì indubbiamente la strada per giungere, nel 1885, ad occuparsi in maniera cosciente del problema indigeno negli Stati Uniti. Il Guatemala fu probabilmente il paese in cui si verificò una esposizione maggiore alla questione indigena. Lo stesso cubano confessò in un lettera del 1887 all'amico Valero Pujol: “Volví los ojos hacía los pobres indios”[22].
Si trattava unicamente di un primo sguardo alla realtà dell'indio, ma certamente non fu un allargamento del filone di analisi anche al suddetto campo. In parte, come ha suggerito Paul Astrade, la scarsità di rapporti sociali diretti con indigeni guatemaltechi o messicani finì per “congelare” sbocchi più proficui dell'indigenismo martiano. Tutt'altro accadde invece per quanto riguarda i rapporti tra bianchi e neri, per i quali è possibile rintracciare spunti di riflessione in tutta l'opera martiana[23].
Nel corso dei primi contatti con la “questione indigena”, non certo aliena alla storiografia ottocentesca latinoamericana, il giovane cubano sembra ricalcare le orme di alcuni letterati e sociologi latinoamericani, tutti impegnati politicamente nelle nuove repubbliche indipendenti di metà Ottocento. Come, ad esempio, non citare lo scrittore e politico cileno José Victorino Lastarría (1817-1888) che, nel saggio La América, evidenziava la possibilità di aumentare il grado di civilizzazione della “América salvaje” sbiancando (attraverso l'immigrazione) e “creolizzando” (attraverso l'educazione e la politica demografica)[24]. Qui appunto l'indigeno appare l'essere antimoderno e antiscientifico per antonomasia, corrotto dal dominio coloniale, prima, e dall'ignoranza della massa, poi[25]. Non molto distanti da questa premessa furono le tesi dell'argentino Carlos Octavio Bunge (1875-1918) che, attraverso una riproposizione degli studi di Le Bon, ma in chiave assolutamente argentina, sanciva l'inferiorità (per cause genetiche, storiche ed ambientali) dei latini nei confronti dei popoli nordeuropei. In particolare, l'America del Sud soffriva la fusione di razze differenti, una babele di popoli inassimilabile, a differenza degli Stati Uniti che erano riusciti a preservare un certo livello di “purezza” del proprio sangue europeo[26]. Bunge, nella sua volontà positivista di avanzamento della civilizzazione, non ha pietà per le sorti delle popolazioni indigene, ridotte già ai margini inospitali della Pampa dalle spedizioni del presidente Sarmiento (1868-74). Gli indios, per natura fatalisti o feroci, sarebbero stati spazzati via dalla civilizzazione (poiché razza passiva e lasciva) o dalla violenza delle armi (tentando di ribellarsi agli eserciti nazionali). Il loro destino sarebbe comunque stato segnato dalla sconfitta[27].

5. Tuttavia, non si può esimersi dall'analizzare alcune posizioni topiche dell'analisi della società latinoamericana ad opera di Juan Bautista Alberdi (1810-1884). Nel suo celeberrimo saggio Bases y punto de partida para la organización política de la República Argentina (1852), vengono toccati da diverse angolazioni i problemi razziali delle Americhe. L'assunto di fondo dell'opera, il riuscitissimo motto (che poi ebbe un successo storiografico clamoroso) “Gobernar es poblar”, secondo Alberdi, valeva unicamente per quegli stati che erano riusciti a popolare il proprio territorio di razze industriose e orientate alla produzione (capitalistica) di benessere e strutture politiche originali. Questa era la distinzione fondamentale tra lo sviluppo nordamericano e la miseria (quella che Bunge avrebbe imputato all'arroganza della razza ispanica[28]). Alberdi ci riporta così questa distinzione: “Gobernar es poblar en el sentido que poblar es educar, mejorar, civilizar, enriquecer y engrandecer espontánea y rápidamente, como ha sucedido en los Estados Unidos”[29]. Al Nord erano riusciti a popolare il proprio territorio con razze più civilizzate ed evolute, mentre al Sud il retaggio coloniale e la presenza di culture barbare indigene frenavano lo sviluppo. La metafora di questo ritardo strutturale e razziale è il “deserto argentino”: la pampa, una sorta di Far West, è la frontiera della barbarie. Anche lo storico argentino Vicente Fidel López considerava l'intera storia argentina come un processo di sfida all'anarchica barbarie di questo deserto interno. La vittoria sulla barbarie sarebbe stata il risultato di una diffusione in ogni angolo del paese della civilizzazione creola ed occidentale[30].
Il grande fardello economico e culturale del continente sudamericano era costituito proprio dalla barbarie degli indios, che potevano essere civilizzati e resi istruiti sino ad una certa soglia[31]. La divisione fondamentale all’interno delle società latinoamericane era costituita dalla dicotomia barbarie\civiltà (proprio come in Sarmiento), che poi non era altro che la separazione netta tra la cultura euro-creola e quella indigena. Per Alberdi questa era l’unica linea di frattura nelle società americane: “En América todo lo que no es europeo es bárbaro: no hay más división que ésta: 1º, el indígena, es decir, el salvaje; 2º, el europeo, es decir, nosotros, los que hemos nacido en América y hablamos español, los que creemos en Jesucristo y no en Pillán (dios de los indígenas). No hay otra división del hombre americano[32]. Tutto quello che non classificabile come “europeo” finiva con l’essere schernito per la sua barbarie. Anche se, come afferma Alberdi, nell’Ottocento la civilizzazione euro-creola aveva decisamente vinto e surclassato la barbarie indigena e pagana. Il selvaggio non ha più posto fisico nel continente, tanto da venir meno la contrapposizione civiltà\barbarie: “Este antagonismo no existe; el salvaje está vencido, en América no tiene dominio ni señorío. Nosotros, europeos de raza y de civilización, somos los dueños de América”[33].
Alla stregua della ricerca scientifica, anche la letteratura, specie quella argentina, diede un impulso significativo e alla formazione delle élite politiche e culturali latinoamericane e al dibattito politico sul tema indigeno. Oltre all’opera di Sarmiento, anche altri scrittori si cimentarono i romanzi di natura gauchesca, in cui l’ambiente della pampa veniva popolato di figure primitive e barbariche, gli indios. Esteban Echeverría, nel romanzo La Cautiva (1837), narra le vicende del rapimento della giovane María e del suo sposo ad opera di bestiali indigeni, mossi al gesto dalla loro barbarie genetica e dal conseguente sentimento di vendetta contro i creoli, cui segue un “turpe placer”[34]. Le immagini dantesche che lo scrittore argentino utilizza caricano di enfasi la bestialità dei rapitori che si nutrono di sangue come vampiri famelici: “Como sedientos vampiros\ Sorben, chupan, saborean\ La sangre, haciendo mormullo”[35].
Anche in Amalia (1844) di José Mármol (1818-1871), romanzo nel complesso molto simile al Facundo di Sarmiento, viene toccato il tema razziale nella Repubblica argentina del caudillo Rosas. All’interno del sanguinario conflitto tra unitarios e federales, questi ultimi, con Rosas in testa, erano descritti come brutali selvaggi ed appoggiati per la maggior parte da indios e neri[36].

6. Questo grande fervore posistivista è anche presente nei primi scritti “indigeni” dell'intellettuale cubano. Negli articoli “Los Indios”, “Algunos jóvenes” e “El proyecto de la instrucción pública”, tutti scritti nel corso del 1875, los indios appaiono in una condizione di “raza muerta”[37], cioè caduta nell'oblio e ostracizzata dalla società bianca. Non solo; già nei primi e abbozzati scritti sul problema indigeno si percepisce la complessità della riflessione martiana. Infatti, da un lato, occorreva salvare, redimere, inserire nuovamente l'indio all'interno della società. “¿Qué ha de redimir a esos hombres?”[38], si chiedeva Martí prendendo in esame la condizione marginale dell'indio ottocentesco. Contemporaneamente, però, il poeta cubano sottolineava la mancanza di armonia tra il progresso della società circostante e le abitudini della popolazione india: “Todo despierta al amanecer, y el indio duerme: hace daño esta grave falta de armonía”[39]. In questo passo, tratto dall'articolo Los Indios, l' “amanecer”, può anche essere visto come l'ineluttabile processo evolutivo dell'umanità, che, per Martí, significava una liberazione pedagogica dall'ignoranza e quindi anche dall'oppressione socio-politica. L. Guerra ha descritto questo processo di inclusione sociale martiana rivolta a tutte le componenti razziali latinoamericane, che può essere riassunta nell'espressione “uplifting the race”[40].
Nei primi scritti martiani circa la condizione indigena traspare la visione “massificata” e atrofizzata della raza india, come se fosse realmente stata disumanizzata dalla storia e dalla conquista, ma soprattutto ridotta a soggetto passivo, anzi, ad oggetto del divenire storico. Paul Estrade utilizza l'espressione masa india per descrivere la privazione totale della singolarità, dell'individualismo, ma, nel contempo, la spersonalizzazione della cultura ad opera dei vincitori[41]. Per il Martí liberale era inconcepibile il mantenimento di queste popolazioni in una condizione ferina, attraverso la cattività in una sorta di limbo culturale, separati dalle attività economiche, sociali e politiche.
Da qui, il “risollevamento” delle sorti della “raza muerta” indigena avrebbe dovuto passare per una graduale affiliazione ai canoni sociali della cultura ottocentesca. Dare un ruolo sociale agli indios significava comunque riportarli alla realtà dell'epoca, strappandoli al primitivismo, trasformarli da “perpetua e impotente crisálida de hombre” in uomo civilizzato[42].Il passaggio dalla crisalide alla farfalla poteva essere effettuato tramite una redenzione poggiata sull'istruzione obbligatoria e sul lavoro ben retribuito. Così Martí evidenziava il suo progetto di trasformazione dell'indio:

¿Qué ha de redimir a esos hombres? La enseñanza obligatoria. ¿Solamente la enseñanza obligatoria, cuyos beneficios no entienden y cuya obra es lenta? No la enseñanza solamente: la misión, el cuidado, el trabajo bien retribuido.[43].

L'opera pedagogica, agli occhi del poeta cubano, avrebbe dovuto e potuto essere la panacea per il reinserimento sociale dell'indio. Nello stesso anno, nel 1875, un nuovo scritto martiano reiterava questa consapevolezza. In “El proyecto del la instrucción pública”, pubblicato per la prima volta su Revista Universal in Messico, veniva ripreso lo stretto rapporto tra l'istruzione delle masse (e soprattutto delle fasce meno abbienti della popolazione) e il buon funzionamento dello stato e della democrazia. L'istruzione obbligatoria, avrebbe potuto produrre un cittadino critico. Critico e quindi partecipativo nell'amministrazione dello stato: “Toda idea se sanciona por sus buenos resultados. Cuando todos los hombres sepan leer, todos los hombres sabrán votar, y, como la ignorancia es la garantía de los extravíos politicos, la conciencia propia y el orgullo de la independencia garantizan el buen ejercicio de la libertad”[44]. Quindi, libertà come partecipazione, ma anche partecipazione come atto conclusivo di un processo di apprendimento, di pedagogia (pedagogia politica, nella fattispecie).

7. Porre l'accento sul ruolo centrale dell'istruzione obbligatoria non era certo una novità nel panorama latinoamericano. Gran parte degli intellettuali post-indipendenza furono impegnati politicamente nelle nuove strutture createsi con la dissoluzione dell'impero coloniale ispanico in America Latina. Molti di essi furono appunto impegnati nella costruzione di accademie ed istituti volti alla formazione della nuova cultura latinoamericana post-coloniale; altri (come il peruviano José Pardo y Barreda e l'argentino José Ingenieros) intravedevano nell'elevazione culturale e nell'alfabetizzazione la possibilità di redimere le masse incolte[45].
L'impostazione pedagogico-democratica martiana era naturalmente estesa anche agli indios. Martí sfruttò per l'appunto una similitudine abbastanza semplice e lampante: “Un indio que sabe leer puede ser Benito Juárez; un indio que no ha ido a la escuela, llvará perpetuamente en cuerpo raquítico un espíritu inútil y dormido. Hasta eatas palabras me parecen inútiles: tan invulnerable y tan útil es para mí la enseñanza obligatoria”[46]. Cioè l'indio non istruito avrebbe mantenuto il proprio rachitismo mentale, in un sonno eterno.
L’esempio di Benito Juárez non è certo una meteora nel vasto panorama degli scritti martiani. Tutt’altro. L’indio Juárez, il Benemerito delle Americhe, fu una costante visione di virtù riformatrice e rivoluzionaria per l’opera martiana di liberazione del Continente latinoamericano. Egli rappresentava agli occhi del cubano non solo la figura romantica del patriota e dell’esule, ma soprattutto la vera forza mestiza della Nuestra América. Fu, in altre parole, il simulacro della lotta al razzismo che spingeva gli indigeni ad una condizione subalterna[47]. Non solo, Juárez, tramite la sua istruzione e l'ingresso nelle società bianca, si era distinto dalla masa india, aveva mostrato la propria individualità.
In questi passi traspare un giudizio abbastanza secco e sprezzante sulla componente indigena della popolazione latinoamericana. Si nota una certa insofferenza per la sua indole fiacca, lenta e rachitica. Qualche anno più tardi, lo stesso Martí avrebbe descritto così alcuni indios guatemaltechi: “Los indios apáticos quejan”[48], mostrando l'insofferenza di alcuni nei confronti della scuola dell'obbligo e delle rispettive regole.
Probabilmente lo zenit dell'atteggiamento stereotipato e pregiudiziale nei confronti degli indios viene raggiunto in un'opera del 1875 apparsa in Messico su Revista Universal. Martí così descrive la condizione indigena:

El hombre inteligente está dormido en el fondo de otro hombre bestial. La raza no .ve más que hoy: nada más que para hoy trabaja; trabaja lo que necesita, hace producir lo que cree que consumirá: su inteligencia es estrecha, estrecho es todo lo que concibe y lo que hace. La raza imbécil: he aquí a nuestro juicio la explicación de la raza miserable. Sufren hambre en distintas comarcas, porque la Naturaleza ha afligido en distintos lugares de la República a la tierra con imprevistas escaseces. Nada había guardado la infeliz hormiga en el granero: ¡cuán sola, cuán abandonada, cuán amarga está siendo en el invierno rudo la existencia de la hormiga mísera![49].

In parte, questo primo confronto con le popolazioni indigene ricalca l'atteggiamento WASP statunitensi nei confronti di alcuni gruppi europei considerati difficilmente integrabili. Nei passi martiani succitati è chiara la funzione pedagogica al fine di inserire la popolazione indigena nella società. Qualche anno più tardi la stessa vis pedagogica della cultura occidentale (ed anglosassone) verrà riproposta nei confronti dell'immigrazione italiana ed irlandese (quindi cattolica) negli Stati Uniti[50].

8. Complessivamente, il primo periodo della prosa martiana è abbastanza particolare, con un lieve cedimento alle tesi positiviste e ultra-razionaliste della seconda metà dell'Ottocento. Fu lo stesso Martí a concentrare in poche righe il riconoscimento di questa nuova frontiera “religiosa” della storia umana:

Los artículos de la fe no han desaparecido: han cambiado de forma. A los del dogma católico han sustituido las enseñanzas de la razón. La enseñanza obligatoria es un artículo de fe del nuevo dogma[51].

In altre parole, chi si poneva fuori dall'istruzione, era automaticamente “scomunicato”, nel senso originario del termine, ovvero posto al di fuori della comunità, poiché non in grado di comunicare con gli altri membri della società, ma soprattutto non utili alla stessa. Questa nuova forma di religione produsse i suoi primissimi e disastrosi effetti proprio nel Messico della riforma scolastica descritto da Martí. Gli “científicos” di Porfirio Diaz (che “regnò” per un trentennio, il Porfiriato, a partire dalla fine del 1877), la crema della società e della cultura messicana, furono proprio la spina dorsale della dittatura e della dipendenza dall'estero[52].
Tuttavia, sarebbe assurdo equiparare i disastri della “dittatura razionalista” di fine Ottocento alla visione martiana circa gli indios. Se da un lato il punto di partenza sembrerebbe comune (la necessità di una elevazione culturale e sociale), i punti di arrivo si sarebbero poi disgiunti in maniera molto marcata. Infatti, anche in questa prima fase tendenzialmente pedagogico-razionalista, non si evince un disprezzo totale dell'indio, bensì un tentativo positivista di porre fine al suo sfruttamento. In un certo senso, a livello culturale (ma non razziale), Martí cadde vittima del preconcetto dei conquistadores spagnoli (poi impiantatosi anche nell'elite liberale ottocentesca): tutto ciò che non rispondeva ai canoni occidentali era un ostacolo “barbaro” alla civilizzazione[53].
Un elemento di distacco apparve proprio nell'articolo “El proyecto del la instrucción pública”, in cui veniva posta tra le righe l'utilità della popolazione indigena, la possibilità che essi costituissero parte attiva e proficua della società: “Los indígenas nos traen un sistema nuevo de vida. Nosotros estudiamos lo que nos traen de Francia; pero ellos nos revelarán lo que tomen de la naturaleza”[54]. Proprio partendo da questa frase si accede alla vera vocazione di Martí, che segnerà la sua opera letteraria così come quella politica, ovvero la mediazione culturale. La stessa mediazione a cui sarebbe stato chiamato nel corso della rivoluzione indipendentista iniziata con il Grito de Yara e mai conclusa.
Ancora, non bisogna dimenticare che, nel corso del biennio messicano, Martí scrisse periodicamente su Revista Universal utilizzando lo pseudonimo di Anáhuac, il nome precolombiano delle coste del Messico[55].
Un ultimo tassello all’interno della tematica indigenista fu segnato da un'annotazione sul taccuino personale, databile attorno al 1878: “Ama a la Naturaleza. Ama a los indios”[56]. Si tratta di un frammento che poi tornerà utile nell’analisi dell’ultimo periodo dell’opera politico-sociale martiana ed è particolarmente significativo, poiché introduce due elementi che contraddistingueranno l’opera del poeta cubano. Da un lato, l’amore per la natura, che avrebbe costituito un elemento importante nella poetica martiana e verrà successivamente posto come alter ego agli eccessi della civilizzazione occidentale e, nella fattispecie, americana. Dall’altro lato, compare un nuovo riferimento agli indios, in quanto privilegiati nel contatto con la Natura e quindi con l'essenza naturale delle cose.
Questa citazione aprirebbe una nuova chiave di lettura dell'opera martiana successiva in un processo di tesi-antitesi-sintesi. Abbastanza evidente appare questo schema evolutivo della posizione di Martí, soprattutto durante il periodo statunitense.

II. Splendori e miserie della riforma indiana. Da Lake Mohonk a Ramona

9. Nel dicembre 1883, Martí scrisse a La Nación circa i festeggiamenti del Natale e per il nuovo anno: “Con la entrada del año ¡qué acopio de sucesos! ¡Si parece panorama mágico, banquete de gigantes, ruido de entrañas de monte, creación de mundo!-Y esto último es: creación de mundo”[57]. Il poeta cubano si trovava inserito in un mondo nuovo ed al tempo stesso reso onnipotente dal progresso tecnico, dalla possibilità di espandere le proprie facoltà scientifiche e conoscitive verso l'infinito.
Si tratta infatti di un mundo nuevo, che aveva accolto da tempo immemore i rifugiati, i meno fortunati costituendosi come “casa de pueblos”[58], una sorta di stato universale di bontà ed accoglienza, dove tutti avrebbero potuto trovare la propria felicità, così come recitava la Dichiarazione di Indipendenza[59].
Alcuni luoghi quotidiani della metropoli, la Fifth Evenue, Central Park, il Ponte di Brooklyn e la Stata della Libertà divennero oggetto privilegiato della meraviglia martiana verso il progresso tecnologico ed il dominio della natura e delle sue leggi. Non solo. Il fatto che la Statua fosse un riconoscimento inviato in omaggio dai francesi rappresentò sicuramente un tributo all'idea stessa di libertà che incarnava la casa de pueblos statunitense. Nella cronaca martiana, questa forte identificazione con il sentimento nazionale americano si cogli nell'espressione: “Todas las lenguas asisten a la ceremonia”[60]. Tutti i popoli assistono alla cerimonia, poiché questa babele linguistica (frutto dell'immigrazione) è attratta in strada dalla celebrazione della grandezza dell'unione libertaria tra Washington e Lafayette, l'origine dell'essenza stessa della Repubblica americana.
La complessità dell'opera politica e sociale di Martí però non poteva fermarsi ad uno stadio prettamente positivista (il “teísmo científico”). Sebbene meravigliato dall'avanzamento culturale, politico ed economico degli Stati Uniti, il poeta cubano giunse ad interrogarsi circa il rapporto tra la cultura americana e quella latinoamericana o indiana.
L'avanzamento del progresso americano portò inevitabilmente la politica, l'economia e la società statunitense a doversi confrontare con culture aliene pian piano avvicinate, incluse e, poi, definitivamente “circondate” dalla civilizzazione americana.
Lo stesso storico della frontiera, Jackson Turner, per comprendere la storia americana era necessario guardare all'Ovest e non solo alle coste del New England[61]. La vera linea di confine (un confine mobile, vista la chiusura della frontiera, come sostenne Turner nel 1897) tra savagery e civilization era il luogo ideale in cui nacque e si forgiò l'americanismo. Come sottolineò lo stesso Turner, nel suo celebre “Significato della frontiera nella storia americana”, del quale diede pubblica lettura nel corso delle celebrazioni colombiane a Chicago, nel 1893. “In this advance the frontier is the outer edge of the wave – the meeting point between savagery and civilization”[62].
Questa dicotomia turneriana est\ovest (ma anche bianchi\indiani nella sua accezione razziale), superata poi dalla più recente storiografia contemporanea, rappresentava un monolitica cultura occidentale, americana e bianca (la civilization) ad un Indian side altrettanto univoco ed unitario. La storica Susanna Delfino ha puntualizzato proprio questa manchevolezza nel discorso di Turner sulla frontiera americana: “L’Ovest si presenta come un campo quanto mai appropriato per ricostruire l’esperienza storica statunitense secondo un approccio non più incentrato sull’universo di valori dei bianchi, ma sull’apprezzamento di sintesi culturali risultate dall’apporto di molteplici componenti.”[63]

10. Le “molteplici componenti”, di cui parla S. Delfino, e l'eclettismo dei movimenti di frontiera non furono effettivamente colti dal fervore culturale di fine Ottocento in nome di una diffusione palese di una visione á la O'Sullivan[64], con una rilettura anche in chiave razziale. Il “superomismo” della Gilded Age avesse influenzato, passando attraverso una rivalutazione in chiave sociale delle tesi di Charles Darwin e dell'eugenetica europea, il rapporto politico con culture e popoli alieni[65].
La possibilità o meno di includere gruppi razziali non omogenei divenne il cruccio principale delle élites politiche di fine Ottocento. A partire dagli Anni Ottanta, la casa de pueblos martiana entra in crisi, per la necessità da parte delle fazioni WASP di eliminare da questo crogiolo di razze tutti quei soggetti che non erano adatti ad essere considerati americani. Il Chinese Exclusion Act (1882) era formalmente una chiusura impietosa nei confronti di una delle componenti etniche più detestate. In sostanza la Fiesta de la Estatua de la Libertad si era idealmente conclusa.
Secondo Lauren L. Basson, l'elevato melting pot che si profilava all'orizzonte (determinato da un’immigrazione non solo europea ed inclusioni più o meno volontarie di nativi americani) minacciava la netta distinzione tra American e un-American. Per questo, la democrazia americana e l'estensione dei rispettivi diritti divennero sempre più selettivi; la razza divenne uno dei principali requisiti, sotto forma di fitness for liberty, per far parte di questo club liberal-democratico. Tuttavia, i criteri di capacità di autogovernarsi non erano ascrittivi, non potevano essere appresi, bensì erano connaturati nel concetto stesso di razza di appartenenza[66].
Ovviamente il livello di restrizione della democrazia americana assumeva connotati diversi a seconda della prospettiva di partenza. Alcuni scrittori politici del periodo, come Henry Cabot Lodge e F. Remington erano assolutamente contrari all’imbastardimento della razza anglosassone e la loro preoccupazione era orientata al mantenimento di un’America pura e senza alcuna contaminazione. Da qui l’esigenza, che vide la sua più virulenta espressione nella fondazione del primo KKK (1865), di prevenire una ulteriore penetrazione dell’immigrazione europea all’interno dei confini razziali della democrazia americana.
Al contrario, Theodore Roosevelt, come ha sottolineato Gary Gerstle, optava per un selettivo melting pot, che rendesse il popolo americano un volk, gente che condivideva lo stesso sangue (preferibilmente euro-americano), lingua e memoria. A molti poteva essere esteso, secondo Roosevelt, il diritto-dovere di diventare americani, ma non a chiunque. Alcuni erano in grado di recepire e comprendere lo spirito nazionale americano, mentre altri (neri, cinesi e indiani) potevano solamente essere “ospitati”, tollerati, ma non inclusi[67]. L’obiettivo di Roosevelt era quello di creare un volk che scaturisse dalle diverse esperienze culturali e dalle componenti razziali sempre meno omogenee. Secondo il futuro eroe della guerra ispano-americana e futuro presidente, il compleanno di Washington, il 4 luglio e le varie festività americane avrebbero dovuto soppiantare, al fine di creare un vera empatia nazionale, un idem sentire ed un bagaglio di memorie condivise[68].

11. Anche Roosevelt, come Turner, dibattendo sul tema dell'espansionismo americano e della nazione americana, dovette affrontare il problema del contatto fortuito con le popolazioni indigene. La prospettiva rooseveltiana era duplice. Da un lato, gli indiani, specie quelli bellicosi delle Grandi Pianure, rappresentavano un esempio di virtù e di strenua lotta contro le avversità naturali, proprio come i pionieri statunitensi. Lo stesso Turner, sebbene avesse collocato gli indiani al di là della frontiera (all'interno della savagery), era conscio del fatto che i backwoodsman ed i pionieri dovettero, al principio della loro marcia, adattarsi alle condizioni di vita degli indiani, vivere come loro, cacciare e sopravvivere come loro[69].
Dall'altro lato, sia nel discorso turneriano che nell'opera The Winning of the West di Roosevelt, ovviamente il pioniere bianco ed anglosassone ha un qualcosa in più dell'indigeno non civilizzato, ovvero la sua spinta a “trasformare la natura”, a piegarla sotto il proprio dominio, cosa che non sarebbe mai riuscita ai nativi. Questa nuova filosofia con contenuti altamente “anglocentrici” fu anche alla base del discorso espansionista degli Stati Uniti al giro di boa del secolo. Lo studio “razziale” sulla politica di Theodore Roosevelt, condotto da Gary Gerstle, ha evidenziato la sua concezione decisamente razzista ed eugenetica del divenire storico. Scrive Gerstle: “If for Karl Marx history was the history of class conflict, for Roosevelt history was the history of the world’s various races struggling for supremacy and power”[70].
Gli indiani divennero nell'ottica rooseveltiana la razza meno assimilabile e potenzialmente la materia prima più scadente per la preparazione di un melting pot che avrebbe potuto elevare la razza americana. Alcuni paesi confinanti, come le Repubbliche latinoamericane avevano tentato di includere gli indiani all'interno della propria struttura sociale, ma il giudizio di Roosevelt fu sprezzante:

The English-speaking peoples now hold more and better land than any other American nationality or set of nationalities. They have in their veins less aboriginal American blood than any of their neighbors. Yet it is noteworthy that the latter have tacitly allowed them to arrogate to themselves the title of “Americans”, whereby to designate their distinctive and individual nationality[71].

Questa prospettiva, largamente condivisa da molti ambienti culturali e politici della Gilded Age, era chiaramente anti-assimilazionista o solo parzialmente inclusiva. Se si considerano solo gli indiani, l'americanizzazione era considerata pressoché impossibile.

12. Per quanto riguarda il rapporto tra il background culturale indigeno e l’avanzamento della frontiera verso ovest, il caso dell’assimilazionismo indiano era del tutto particolare. Sebbene il contatto tra indigeni e bianchi avesse radici secolari, solamente a partire dalla metà del XIX secolo il rapporto si incrinò definitivamente, soprattutto in conseguenza del fatto che la migrazione verso occidente divenne sempre più invasiva. Il “problema indiano”, da una prospettiva geo-economica, la questione esplose in modo più violento proprio nel momento in cui gli spazi di manovra delle due civiltà si restrinsero in maniera sensibile. Al contrario, in Canada, dove l’invasione delle terre “libere” non fu paragonabile per intensità a quella americana, lo scontro tra “razze” fu decisamente meno cruento. Il processo di assimilazione più lento a graduale dello stato canadese ebbe effettivamente più successo, come testimonia anche uno studio di Christine Bolt[72].
Il “problema indiano” fu sicuramente una parte importante nel vasto e complesso panorama delle fratture razziali di fine Ottocento. Sin dall'epoca della prima espansione americana verso occidente, il contatto con le popolazioni indigene aveva posto interrogativi significativi su cosa fare degli indiani d'America. E, per quanto riguarda gli indiani, la sfida assimilazionista divenne particolarmente forte, poiché agli occhi di molti, la “razza” indigena era la più arretrata tra quelle con cui gli americani si stavano confrontando. Ad esempio, Lewis Morgan, uno dei fondatori dell’antropologia contemporanea era fortemente scettico circa la possibilità per gli indios di risalire la china del progresso per raggiungere l’uomo bianco[73].
Nel complesso rapporto razza-nazione-proprietà, gli indiani erano una pericolosa anomalia. Infatti, la società americana si fondava sul diritto di proprietà, un concetto decisamente sconosciuto alla “razza” indiana. La proprietà diventava uno degli elementi più rilevanti per l’ingresso all’interno della civiltà. Infatti, nel saggio Letters from an American Farmer, l’autore sottolineava l’interconnessione tra americanismo e proprietà privata.[74].
La penetrazione americana nelle terre indiane si basava appunto sul principio della terra nullius (già sperimentato dagli spagnoli nelle colonie latinoamericane del XVI secolo), poiché l’Ovest era una immensa distesa di terre “libere”, ovvero “libere da rendita”, cioè non appartenenti a nessun proprietario che le gestiva come proprietà privata, ma semplicemente utilizzate in comune da diverse tribù indigene.
In realtà, già dai primi anni della repubblica, sotto le presidenze si George Washington e Thomas Jefferson, cinque tribù indiane erano state oggetto di un campagna di civilizzazione abbastanza riuscita. Conosciuti collettivamente con il nome di Five Civilized Tribes, Cherokee, Creek, Chickasaw e Choctaws avevano ottenuto risultati apprezzabili dal punto di vista dell’avvicinamento alla cultura americana: molti di loro avevano ricevuto un’istruzione occidentale e quindi erano in grado di leggere e di scrivere. Tuttavia, anche queste tribù, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, furono fortemente coinvolte nel processo di removal ovvero nello spostamento forzoso verso ovest[75].

13. A partire dalla fine della guerra con il Messico (1848), che coincise con la corsa all’oro verso la California, la penetrazione bianca divenne tanto ingente da produrre un contatto sempre più ampio e bellicoso con le popolazioni indiane delle pianure, che risultarono i più combattivi e diedero vita ad una ultima e disperata resistenza negli anni Settanta. Iniziarono così il progressivo sterminio della “nazione indiana”, ma anche la politica della riserva, intesa come strumento per strappare gli indiani allo stadio della barbarie introducendoli in un ambiente pre-civilizzato. Nel 1851, il Congresso approvò l’ Indian Appropriations Act, che fu la premessa per “tutelare” gli indiani dalle migrazioni bianche attraverso la segregazione nelle riserve di competenza del governo di Washington.
Di fronte alle guerre indiane degli anni Sessanta, che furono un reazione delle tribù alle continue rimozioni e all’invasione delle terre tribali ad opera dell’uomo bianco, il presidente Grant diede il via ad una politica più morbida (detta “Peace Policy”), ma sempre improntata sull’ingresso degli indiani nella riserva. Nel suo discorso annuale al Congresso, il 4 dicembre 1871, il presidente Ulysses Grant riassumeva la sua politica di riappacificazione nei confronti degli indiani: la riforma sarebbe stata orientata alla concentrazione in aree (le riserve), al fine di istruirli al lavoro dei campi e, in ultima analisi, per civilizzarli[76].
Negli anni Settanta, indipendentemente dall’ammorbidimento del governo e dagli intenti filantropici ed umanitari di Grant, la politica della riserva era divenuta la triste realtà del confinamento degli indiani verso aree sempre più piccole ed inoffensive. I trattati firmati dagli indiani, con i quali i medesimi accettavano di entrare nelle riserve approntate dal governo e spacciati come il “trionfo” della civilizzazione erano una scelta obbligata.
A partire dal 1871 venne scoperta un ulteriore forma di profitto che avrebbe repentinamente distrutto l’ecosistema e l’economia indiana: lo sfruttamento del bufalo. La scomparsa dei grandi branchi, praticamente sterminati entro il 1875, determinò un drastico mutamento delle abitudini alimentari e culturali degli indiani occidentali. Lo sterminio del bisonte aveva un significato politico: era l’ennesima forma di pressione sulle tribù per spingerle ad entrare nelle riserve. Infatti, la rimozione dalle Grandi Pianure aveva reso le popolazioni indigene molto più nomadi e dipendenti dalla caccia e, successivamente, la mancanza dell’importantissimo animale, costrinse ad una scelta obbligata: o entrare nelle riserve o venire sterminati dalla fame.
In un certo senso, la politica della riserva (e della civilizzazione forzata) serviva per compensare il fatto che gli indiani non venissero (più) riconosciuti come una “nazione”, uno stato nello stato americano. Dal 1871, infatti, il Congresso aveva rifiutato di riconoscere la cosiddetta “nazione indiana” e quindi aveva smontato la pratica (pre-Guerra Civile) di stringere accordi “internazionali” tra il governo di Washington e le tribù dislocate al di là della frontiera. Secondo Thomas Bender, l'unificazione dell'economia statunitense (non più diverse economie regionali, bensì una sola, grande ed in espansione continua) del periodo post-bellico doveva essere supportata da un sistema di governo ed una amministrazione centralizzata e forte. Tutto questo si ripercuoteva anche all'interno dei rapporti con le popolazioni tribali: lo stato americano, superiorem non reconoscens, divenne un'entità superiore a tutto e tutti sul territorio nazionale, dall'Atlantico al Pacifico senza interruzioni. Quindi, da queste premesse era impossibile concepire una “nazione indiana” o addirittura diverse “nazioni”. Gli indiani, a partire dagli anni Settanta, furono catapultati in una sorta di limbo, né popolo impegnato in una guerra convenzionale con gli Stati Uniti, né cittadini americani a tutti gli effetti[77]. Ed una sorta di limbo era anche la riserva stessa, metà “palestra di vita” (per l'ingresso nella società occidentale), metà carcere a cielo aperto. Indubbio aspettarsi una riflessione seria su tale politica.

14. Nei primi anni Ottanta, quando Martí iniziò il proprio soggiorno negli Stai Uniti, la prima parte del problema era stata “risolta”, ovvero la maggioranza delle “guerre indiane” si era conclusa da almeno un lustro. Anche la grande vittoria indiana a Little Bighorn (1876) era solamente un ricordo. Di fatto, lo sterminio era stato completato e si trattava unicamente di organizzare in qualche modo l'inquadramento sociale degli indiani superstiti all'interno dello stato. La riserva era ormai la triste realtà. Non a caso, come poi vedremo, Martí avrà solo modo di commentare alcune scorribande indiane, alcuni piccoli massacri, constatando ormai l'avvenuta prostrazione dei pellerossa.
Una delle prime testimonianze dell'avvenuto contatto tra il poeta cubano e lo scontro di civiltà in atto fu l'ennesima lettera inviata il 16 settembre 1881 a La Opinión Nacional di Caracas:

Quince días han pasado desde que envié a Ud. mi última carta. Los sucesos se amontonan, buscando puesto, en torno de mi pluma; mas aunque los apaches vengativos han dado muerte en la frontera meridional a buena suma de soldados norteamericanos, y amenazan de incendio sus casas, de violencia a sus familias, y de muerte a sus compañeros; aunque con implacable rudeza, en cumplimiento de un tratado leonino, acaba de compeler este Gobierno a una mísera tribu de indios a que abandone para siempre sus risueños poblados, frondosos bosques y valles alegres, de que se despidieron con grandes voces y gemidos, con que pueblan la selva, en busca de nuevos hogares de donde mañana, como de estos ricos de ahora los expulsarán “los hombres blancos[78].

Questo primo contatto con il suddetto scontro tra popoli e civiltà è un primo riferimento all'odio martiano per la barbarie lato sensu. Sebbene la posizione martiana circa il “problema indiano” non fosse certo omogenea, ma poliedrica, questa citazione rappresenta comunque un punto di partenza significativo per il tema qui trattato.
Il contatto con la brutalità di alcune sfumature della civilizzazione americana produsse un'attenzione maggiore nei confronti di forme aliene di espressione culturale. A partire dalla lettera a La Opinión Nacional del settembre 1881, si moltiplicarono gli scritti martiani proprio inerenti il tema indiano, come a testimoniare l'ispirazione fornita dal contatto con gli Stati Uniti d'America. Il riconoscimento e la presa di coscienza di questa problematica è fondamentale nel processo di trasformazione del poeta in líder revolucionario e nella costruzione di tappe fondamentali per l'opera rivoluzionaria, come Nuestra América (1891), che sarà il nostro punto di approdo finale.
Martí si occuperà ancora degli indiani nordamericani nell'aprile 1882, a proposito della possibilità di una sollevazione indiana. Si tratta di un brano decisamente controverso, forse il testo più propositivo circa il “problema indiano” di tutta l'opera martiana: trattasi dell'articolo Los indios de Norteamérica, pubblicato in Venezuela.

15. In due sole facciate, Martí riuscì a concentrare una riflessione abbastanza densa di concetti, portando Jorge Camacho ad elaborare una fitta critica circa il rapporto tra il cronista cubano e il “primitivismo” degli indiani d'America[79]. Da un lato, Martí giunse a criticare molto duramente il comportamento fraudolento del governo americano e soprattutto dei funzionari corrotti. Questa pars destruens rappresenta la prima sezione dell'articolo citato, in cui si legge:

De indios se habla ahora, y se teme su guerra; porque les han reconocido cuando se les han cansado ya los brazos desnudos de pelear por el dominio de los ríos y bosques patrios que los hombres blancos violan, su derecho a ocupar ciertos trozos de tierra, y a alimentarse y vestirse por unos cuantos años, que unas veces son más y otras menos, con los dineros que en pago de las comarcas que hurtó de ellos, paga de buen grado el Gobierno de los blancos. Pero en estas reservas todo es miseria; y hay agentes encargados de distribuir los haberes indios, que parecen los leones de la fábula de Fedro, que toman para sí la mayor parte; y es tal el hambre en algunas agencias, que ya los indios, azuzados de ella, tienen puestas las manos cerca de sus arreos de batallar. Y hay junto a ellos, ganados ricos, y los roban. ¿No han de pagar los ocupadores de su tierra el precio de la tierra a los dueños de quienes la tomaron?[80].

Martí considera il patto tra le autorità americane e gli indiani come quello stipulato tra la vacca, la capretta e la pecora della favola di Fedro. La parte del leone è interpretata dagli Stati Uniti. Il riferimento alla favola di Fedro non era certo casuale, ma rappresentava l'identificazione degli indiani con la preda e delle autorità di Washington con il leone. Per di più, la favola in questione si apre con il motto: “Numquam est fidelis cum potente societas”, mai fare un patto con un prepotente.
In un certo senso, la critica martiana si rivolgeva principalmente alla frode che i bianchi stavano compiendo ai danni degli indiani proprio nelle stesse riserve in cui questi ultimi erano stati ormai relegati: gli emissari del governo intascavano i fondi per la costruzione delle scuole, degli ambulatori, delle infrastrutture. La lamentela del poeta cubano venne proprio indirizzata contro questa frode:

¿Qué es de aquellos cinco pesos y medio que para el vestido de cada indio acordaron los blancos en formal tratado dar cada año? ¿Y de los mil quinientos pesos para la escuela? ¿Y de los seis mil quinientos más para médico, y maestro de cultivo, y carpintero, y herrero, y mecánico? ¿Y de los sesenta y cinco millares más que para carne y harina da el Gobierno?[81]

Sicuramente la critica alle pratiche barbare delle istituzioni fu una componente centrale nell'analisi dei rapporti razziali nordamericani e un punto focale di svolta nel pensiero martiano, sia relativamente agli Stati Uniti, sia a livello latinoamericano. L'articolo citato poco sopra anticipava di alcuni anni importanti riflessioni, che sarebbero state definitivamente sviscerate nella produzione martiana degli anni novanta dell'Ottocento e che comunque avrebbero promosso una svolta critica verso gli Stati Uniti del Apostol.

16. Nei primi scritti martiani sugli indiani statunitensi traspare una attenzione particolare per il trattamento brutale riservato alle popolazioni indigene. Di fatto, il cubano vede nelle riserve la miseria e la fame che affliggeva gli indiani inseriti in queste aree (“en estas reservas todo es miseria”). La descrizione martiana della riserva dei primi anni Ottanta del XIX secolo era abbastanza veritiera. La gestione delle medesime era affidata, dapprima, a funzionari pubblici senza scrupoli, veri e propri sadici amministratori che le aprivano agli interessi commerciali dei profittatori bianchi. La stessa burocrazia era inefficace ed inefficiente: un solo ufficio, il Bureau of Indian Affairs, di stanza a Washington si doveva occupare di 300 mila indiani distribuiti in piccole comunità su tutto il territorio nazionale[82].
Questa politica, molto simile alla reconcentración del generale spagnolo Weyler nella Cuba di fine Ottocento (tanto deprecata dall'opinione pubblica americana), fu decisamente fallimentare perché gli indiani non ottenevano nessun beneficio dall'ingresso in un territorio controllato dai funzionari americani. Tanto che, per citare un esempio concreto, gli Apache entrarono ufficialmente nelle riserve nel 1871 per uscirvi in parecchie occasioni sino alla cattura di Geronimo (4 settembre 1886).
A fronte delle numerose guerre indiane dei primi anni Settanta, che dimostravano l'insuccesso della politica di americanizzazione lasciata nelle mani dei funzionari pubblici e dei militari, il presidente Grant con la “Peace Policy” introdusse la pratica di lasciare ad istituzioni private, come le confessioni religiose, la civilizzazione degli abitanti delle riserve, mentre i militari avrebbero potuto fungere solamente da cordone di sicurezza[83]. Anche in questo caso, la politica presidenziale fu fallimentare,in quanto, sebbene le confessioni religiose fossero armate di un forte spirito filantropico (molto più di quello dei generali della Cavalleria), ben presto scoppiò una lotta intestina per l'accesso (o il dominio) dell'istruzione e dei servizi pubblici nelle diverse riserve. Ed inoltre, molte Chiese erano assolutamente impreparate burocraticamente ad affrontare tale missione.
All'inizio degli anni Ottanta, il fallimento della politica “pacifica” di Grant, aveva aperto la strada ad una riforma seria e duratura del sistema-riserva. Come giustamente ha sottolineato Frederick E. Hoxie: “The central issue of the 1880s was not whether the reservation system would be changed, but when and how[84].
Anche l'analisi martiana del problema indiano rifletteva questa crescente insoddisfazione dello staus quo raggiunto da Grant. La politica leonina degli Stati Uniti, così come descritta nell'articolo “Los indios de Norteamérica”, sembrava anticipare alcuni brani di “Los Indios en los Estados Unidos”, pubblicato nel 1885. In entrambi i casi vi é una profonda critica della politica di sottomissione perpetrata ai danni della popolazione indigena ma, nello stesso tempo, la pars construens si arricchisce di nuovi spunti di analisi, di nuove possibilità concrete di azione. Infatti, man mano, la raccolta di informazioni ed elementi di valutazione spingeva il poeta cubano a forgiare, un modello di comportamento attivo, un reale (e realista) progetto di azione.

17. Già in “Los indios de Norteamérica” apparivano alcuni spunti di riflessione per una concreta azione per elevare la condizione degli indiani:

¡Qué fiesta el primer carro que vieron! Se echaron sobre el carro en tropel, como niños [...] ¡Qué gozo, ver dar vueltas a la rueda! ¡Qué alegre el hombre salvaje, de aquel triunfo sobre la distancia! [...]. ¡Oh, qué maravilla, cuando brotó el maíz! Sentábanse, acurrucados en el suelo, a verlo crecer. [...] Y así viven, ya dueños de sí, y dueños de su tierra, en que han hecho muy lindas haciendas[85].

In questa prospettiva, Martí credeva espressamente nella possibilità, come per gli indios latinoamericani, di inserire gli indiani nordamericani all'interno delle strutture socio-economiche dell'Unione, trasformandoli in cittadini. Il poeta cubano, in questo processo di “assimilazione” si appella alla diffusione presso i pellerossa del sistema di vita dei pionieri e dei loro rudimenti tecnici (il carro, la ruota, i cavalli, il granturco, il rapporto con la terra come fonte di sostentamento), che avrebbero trasformato gli indiani in una popolazione stanziale e quindi più “evoluta”. Così come anticipato nell'articolo Los Indios, del 1875, l'indiano, la “crisalide umana”, avrebbe potuto essere salvato dall'estinzione e dallo sterminio solamente attraverso un inserimento all'interno della cultura occidentale[86].
E’ indubbio che Martí avesse subito l’influenza dell’antropologia riformatrice dei primi anni Ottonta e della Women’s National Indian Association (WNIA), fondata nel 1879. La WNIA, sebbene interessata allo studio delle pratiche sociali indigene e all’affrancamento delle squaw, estese ben presto il proprio interesse all’opera di assimilazione delle tribù indiane. Infatti, la liberazione della donna indigena dalle pratiche sociali primitive e dall’economia che la relegava al mero lavoro domestico, poteva essere il volano per una integrazione piena dell’intera “nazione indiana” all’interno della società bianca[87]. Si trattava di un nuovo slancio riformista ed assimilazionista, incentrato sulla netta contraddizione con le tesi anti-assimilazioniste di Roosevelt. Un membro illustre ed attivissimo della WNIA, l’antropologa Alice Fletcher, si mise a capo di una corrente culturale che ebbe, per tutti gli anni Ottanta, un successo incredibile nella gestione del “problema indiano”. Non a caso, la Fletcher ricoprì anche incarichi pubblici a partire dal 1883.
Occorre evidenziare alcuni tratti della nuova corrente riformista. Nell’ambito dell’assimilazionismo fletcheriano degli anni Ottanta, i nuclei centrali della nuova politica indiana (oltre alla tutela delle donne) erano la proprietà privata e l’educazione ai valori della civiltà occidentale.
L’opera di assimilazione della Fletcher ricalcava l’importanza di introdurre la proprietà privata (come per John de Crèvecoeur) nella vita tribale e comunitaria dei nativi. La proprietà individuale avrebbe potuto spingere all’individualismo e all’affrancamento creato da una divisione primitiva del lavoro, che relegava le donne ad una condizione subalterna[88]. Per far questo, nella riserva di Omaha (Texas), l’antropologa americana si preoccupò personalmente di convincere gli indiani a sottoscrivere contratti di lottizzazione delle terre appartenenti al demanio[89]. Nel contempo, l’ingresso nella società occidentale avrebbe dovuto avvenire tramite una diffusione della religione cristiana, della famiglia monogama e dell’istruzione obbligatoria.
Agli occhi dei riformisti e degli antropologi di fine secolo, gli indiani erano molto simili ai fanciulli che necessitavano di una guida per entrare a pieno titolo nel mondo adulto. Infatti, la Fletcher si presentava proprio come “Madre degli indiani”, poiché cercava di impartire un’educazione materna partendo però da una prospettiva di superiorità culturale. occorreva riportare gli indiani al presente e far avanzare più velocemente le lancette della storia[90].

18. E’ curioso notare come questi progetti assimilazionisti fossero abbastanza accomunabili ai primi scritti martiani sull’argomento. La trasformazione in un individuo pienamente integrato nella società ottocentesca, l’uscita dalla masa india e il trionfo dell’individualismo furono i concetti-chiave di entrambe le impostazioni. E chiaramente, non fu un caso che le politiche di assimilazione e trasformazione dell’antropologia americana influenzassero il pensiero martiano. La scena descritta poc’anzi, l’introduzione delle coltivazioni e del carro, rappresentava un tipico strumento per “sedentarizzare” gli abitanti delle riserve, dando loro un lotto di terra ed i rudimenti minimi per coltivarlo.
Infatti, nel lungo articolo “Los Indios de Norteamérica”, lo scrittore cubano metteva in rilievo la propria adesione ad alcune delle riforme strutturali proposte dalla Fletcher e da altri riformisti che si erano riuniti a Lake Mohonk nell’ottobre 1885. L’istruzione obbligatoria, il processo di trasformazione delle rendite agricole in proprietà privata e, da ultimo, la concessione della cittadinanza, punti fondamentali nella battaglia di Alice Fletcher, erano descritti con molto entusiasmo dal cubano:

Y para que así [los indios] se conviertan en hombres útiles ellos, y en país próspero y pacifico las comarcas que no son hoy más que costosísimas cárceles; cámbiese, dijo la convención, todo el sistema de enseñanza actual y torpe; sustituyase el trabajo de las tierras en común, que ni estimula ni deja ver el premio, por el repartimiento de la tierra en propiedad a cada familia, inalienable por veinticinco años, en relación a las clases de terreno y la extensión de cada casa; [...] admítase. a ciudadania todas las tribus que acepten el repartimiento individual de sus tierras, y los indios que abandonen las tribus que no les aceptasen, para acomodarse a los usos de la civiliiación; césese de arrancar a los indios de las tierras de sus mayores, y de acumularles en centros numerosos bajo la vigilancia interesada de empleados ofensivos y rapaces [...][91].

Martí, che si affilierà anche ad un club assimilazionista, fu animato da uno spirito progressista (a tratti anche positivista), così come gli esponenti del movimento di Lake Mohonk.
La visione occidentalista fu sicuramente il punto di partenza dell’analisi antropologica di fine secolo. La posizione della Fletcher, ma anche di altri esponenti della riforma indiana, era dettata dall’assunzione della civiltà americana come modello di sviluppo e di libertà , in contrapposizione con il modello primitivo e arcaico di società indiana. Il modello per l’assimilazione indiana era quello della middle class americana.
Infatti, il principale punto di contatto, come già accennato, tra Martí e l’antropologia di fine Ottocento, specie circa il problema indiano, fu la Conferenza di Lake Mohonk, a cui lo scrittore cubano ebbe modo di accennare in un articolo apparso a Buenos Aires nel dicembre 1885. Qui, Lake Mohonk, presentato come un “lindo lugar en el Estado de Nueva York”[92], viene descritto come un incontro di personalità illuminate dalla pietà e dall’umanismo verso le popolazioni schiavizzate e piegate dalle violenze dei bianchi, ma anche un meeting estremamente realista. Nelle parole di Martí: “Fue una runión de gente de hecho”[93].

19. L'interpretazione proposta da Camacho soffre di una scarsa rispondenza a quella che effettivamente fu la posizione martiana riguardo al “problema indiano”. Da un lato, è vero che nei suoi scritti è presente il desiderio di superare l'arretratezza scientifica e culturale degli indigeni. Ad esempio, nell'articolo Arte aborigen, il poeta cubano affermò: “O se hace andar al indio, o su peso impedirá la marcha”[94]. Anche in altre occasioni, come afferma anche lo stesso Camacho, Martí sembra legittimare alcuni metodi di imposizione della civiltà, una sorta di civilizzazione forzata, come quando esalta la “vera vittoria” del generale Nelson Miles: “Y el general Miles los venció de veras, porque fue bueno con ellos”[95]. In realtà, il generale Miles non fu solo un persecutore della popolazione indiana, ma soprattutto un feroce assertore di un darwinismo sociale portato all'eccesso. Miles fu un fautore di una strategia totale contro la popolazione indiana che si avventurava al di fuori dei confini della riserva (non a caso combatté contro le scorribande di Geronimo):

A very important commission sent to treat with those Indians a few years before had reported that it would take fifteen thousand soldiers and fifteen million dollars to subdue them. It took much less, but the method of warfare was somewhat changed[...].
During the months of December and January the hostile Indians were constantly harassed by the troops under Col. Nelson A. Miles, Fifth Infantry, whose headquarters were at the mouth of the Tongue River, and who had two sharp engagements with them, one at Red Water and the other near Hanging Woman's Fork, inflicting heavy losses in men, supplies, and animals[96].

Questa sua impostazione bellica derivava direttamente dalla sua concezione razziale:

[...] After nearly four hundred years of conflict between the European and American races for supremacy on this continent, a conflict in which war and peace have alternated almost as frequently as the seasons, we still have presented the question, “What shall be done with the Indian?” Wise men differ in opinion, journalists speculate, divines preach, and statesmen pronounce it still a vexed question [...]. The real issue in the question which is now before the American people is, whether we shall ever begin again the vacillating and expensive policy that has marred our fair name as a nation and a Christian people, or devise some way of still improving the practical and judicious system by which we can govern a quarter of a million of our population, secure and maintain their loyalty, raise them from the darkness of barbarism to the light of civilization, and put an end forever to these interminable and expensive Indian wars[97].

Per Miles il “problema indiano” era sostanzialmente una questione di scontro tra civiltà e barbarie: da una parte vi era l'uomo primitivo nell'età moderna, che doveva essere sconfitto poiché totalmente inadatto, dall'altra il super-uomo americano. Nella lotta spenceriana per la supremazia, era ovvio e lampante il diritto all'oppressione da parte degli americani di origine anglo-sassone e di religione protestante (WASP). Infatti, le guerre indiane condotte da Miles furono presentate dalla stampa dell'epoca come “The Battle of Civilization”[98].

20. Quindi, che posto poteva avere il “buen Miles” nell'opera martiana? O, altresì, Martí era un estimatore delle politiche di “civilizzazione” del generale nordamericano? Occorre sottolineare anzitutto che per gran parte dell’opinione pubblica di fine Ottocento la battaglia contro le scorribande indiane al di fuori delle rispettive riserve era una lotta della civilizzazione contro la barbarie e l’arretratezza. Non a caso, il rapporto con gruppi etnici (e quindi stili di vita e abitudini) differenti produceva immediatamente un caso, un “problema”: il “problema indiano” o “negro” nella fattispecie. In questo scenario, le politiche di Miles, che accompagnavano la repressione militare a qualche forma di “investimento” culturale e sociale, erano in linea con la tolleranza filantropica.
Sicuramente rimane il dubbio se effettivamente Martí conoscesse o meno l’opera di repressione e gli istinti razzisti di Miles e se effettivamente avesse mai avuto accesso ad una riserva indiana. Probabilmente la sua conoscenza del generale Miles si fermava alla notorietà di cui egli godeva sui dei quotidiani dell’epoca. Si trattava comunque di un personaggio alquanto ambiguo, ma certamente non etichettabile come “buono”. In una intervista del 1885 veniva a galla questo trasformismo di Miles. Il generale si preoccupava di migliorare le condizioni di vita della popolazione indiana nelle riserve: “They [the Indians] are in a very starving conditions. [...] It is claimed that the appropriation was insufficient. It is a bad state of affairs, and I have recommended an increase”[99].
Il suo impegno per il miglioramento dei rapporti con la popolazione Indiana passava anche attraverso un progetto di graduale abbandono della politica della riserva: “[...] Gen. Miles said that in his annual report recommended that the reservation scheme be abandoned. His plan is for the Government to deal with individual or families and not with tribes in the distribution of the appropriation and that [...] all the reservation be thrown open to settlers”[100].
Sotto alcuni aspetti, la politica di apertura delle riserve poteva essere correlata anche all'idea martiana di reinserimento (o inserimento) degli indiani all'interno della vita socio-politica ed economia dell'Unione. Anche lo stesso Martí era appunto favorevole all'adozione da parte degli indiani degli strumenti di socializzazione secondaria necessari a districarsi all'interno della società americana.
Tuttavia, la politica di apertura della riserva di Miles nascondeva sostanzialmente un intento genocidario nei confronti della cultura indiana. Nell'intervista citata poco sopra, il giornalista del New York Times concludeva: “Gen. Miles predicts that in 50 years from the present time there will be no pure Indian blood in the country. He says that the race is fast dying out, and that intermarriage is also growing [...]”[101]. Il generale Miles, quindi, voleva in un certo senso una dispersione dell'elemento indiano all'interno della società americana per “diluirlo” e quindi “sbiancarlo”. Egli sosteneva all'incirca le stesse posizioni genetiste di alcuni scienziati sociali e politici cubani che si stavano confrontando (o che si sarebbero confrontati) con “los negros” ed il problema razziale isolano[102].
Mentre Miles proponeva direttamente l'incorporazione delle razze inferiori, Martí, come si evince dagli scritti del periodo statunitense, sembrava propendere per una sintesi culturale, hegeliana in un certo senso. Per Miles, gli indiani sarebbero stati fagocitati e distrutti all'interno delle viscere della cultura americana; per Martí avrebbero dovuto essere cooptati all'interno della società per apportarvi qualcosa di assolutamente nuovo, un'aura di vitalità.

21. Questa volontà di americanizzazione forzata, perseguita (seppur con finalità decisamente filantropiche) con ogni mezzo, fu anche al centro delle discussioni nel corso delle annuali Mohonk Lake Conferences (1883-1916), un importantissimo meeting di personalità di spicco della riforma indiana. Come sottolineava il Reverendo Lyman Abbott, che partecipò alla quinta conferenza, la politica della conversione degli indiani ai dettami della società civile avrebbe dovuto adoperare sia la carota che il bastone:

It is a great mistake to suppose that the red man is hungering for the white man's culture, eager to take it if it is offered to him. The ignorant are never hungry for education, nor the vicious for morality, nor barbarism for civilization; educators have to create the appetite as well as to furnish the food. The right of Government to interfere between parent and child must indeed be exercised with the greatest caution; the parental right is the most sacred of all rights; but a barbaric father has no right to keep his child in barbarism, nor an ignorant father to keep his child in ignorance[103].

Quindi, la coercizione era propedeutica all’educazione. Come insegnava la stessa Fletcher, che in una certa misura permise l’uso della forza (ma non della brutalità) per portare gli indiani a firmare i contratti di proprietà della terra di Omaha, una madre al fine di istruire i propri figli doveva anche ricorrere alle maniere forti.
Martí fu certamente coinvolto idealmente in questa epopea rivolta all'integrazione della componente indigena degli Stati Uniti. Tuttavia, mentre Miles presentava come già segnato l'oblio culturale indiano, Martí, con una serie di articoli, ammirando attonito l'immensa cultura india, arrivava a porsi di fronte allo scontro di civiltà. Articoli come Antigüedades mexicanas (La América, New York, giugno 1883), Arte aborigen (La América, New York, gennaio 1884) e El hobre antiguo de América y sus artes primitivas (La América, New York, aprile 1884), pur essendo resoconti di scoperte archeologiche e antropologiche, giunsero a cogliere perfettamente il problema dell'incontro di due culture.
Un corretto punto di partenza per l'analisi di questa nuova prospettiva è costituito dalla ferrea presa di posizione circa l'epopea della conquista, definita come un “crimen natural”[104]. Questo crimine contro natura, molto simile all'odio razziale che contrapponeva i bianchi ai neri[105], aveva determinato la scomparsa di uno spicchio della vitalità, della positività della (e nella) cultura americana. Per Martí, tutti i popoli possedevano caratteristiche positive:

Unos pueblos buscan, como el germánico; otros construyen, como el sajón; otros entienden, como el francés; colorean otros, como el italiano; [...][106].

Il dramma della conquista stava proprio nella distruzione di un patrimonio umano inestimabile:

¡Rubaron los conquistadores una página al Universo![107]

22. Il primo contatto in carne ed ossa tra Martí e i nativi nordamericani fu assolutamente emblematico, poiché avvenne in un circo alle porte di New York. Il poeta cubano dedica un intero articolo alla rappresentazione di questo spicchio di West e di frontiera, alla grazia e all'eleganza di questa esibizione. Era il settembre 1886. Nel microcosmo di azioni, colori, suoni descritti con puntualità, era impossibile agli occhi di un osservatore come Martí non cogliere il lato drammatico del “magnifico spettacolo” che sta descrivendo. Gli indiani, che rappresentavano se stessi, erano “melancólicas figuras”, figure con lo sguardo vuoto ed oppresso, poiché costretti ad “imitare” la propria vita libera senza poterla effettivamente vivere: “Tienen en la mirada el aire del desierto, el arrebato y algarada de la cacería, la cola ondeante del caballo libre”[108].
Questa chiara presa di posizione fu il punto di partenza della trasformazione del pensiero martiano sul problema indiano. Martí, pur condannando con forza l'eccidio degli indios non ritenne né plausibile, né giustificabile un loro ritorno allo stato naturale, all'epoca pre-colombiana. La profonda stima nei confronti della componente mestiza, fulcro dell'America di Martí, non si abbassa ad una venerazione sterile del passato precolombiano, né una condanna filatropica della schiavitù o del genocidio. Martí superò questo problema, si spinse ben oltre, fissando l'obiettivo di valorizzare l'indio e\o l'indiano nordamericano. La componente (etnica o semplicemente culturale) indigena non poteva essere concepita come una pesante eredità, o “il fardello dell'uomo bianco”, ma rappresentava una risorsa. Nelle parole del poeta: “La inteligencia americana es un penacho indígena”[109].
L'eredità indigena non poteva essere percepita come uno scoglio all'andamento lineare ed infinito del progresso umano. Anzi, nello stesso articolo Autores americanos aborígenes (1884), Martí avanzava una sua prima elucubrazione circa il rapporto tra lo stile di vita “naturale” della civiltà indiana e quello “ultracivilizzato” dell'Occidente:

Bueno es abrir carrales, sembrar escuelas, crear líneas de vapores, ponerse al nivel del propio tiempo, estar del lado de la vanguardia eu la hermosa marcha humana; pero es bueno, para no desmayar en ella por falta de espíritu o alarde de espíritu falso, alimentarse, por el recuerdo y por la admiración, por el estudio justiciero y la amorosa lástima, de ese ferviente espíritu de la naturaleza en que se nace, crecido y avivado por el de los hombres de toda raza que de ella surgen y en ella se sepultan[110].

Con queste parole, Martí arrivava a seppellire – cosa che poi avrebbe fatto anche più platealmente – quel desiderio di superiorità che la civiltà americana WASP mostrava. E' interessante mostrare come la critica martiana agli Stati Uniti partisse proprio da una riflessione filosofica sulla presunta superiorità assoluta di un popolo o di una cultura sull'altra. Il solo ricordo del retaggio indiano degli Stati Uniti avrebbe fatto inorridire un purista WASP di fine Ottocento!

23. Nella parte centrale del soggiorno americano, cioè durante la seconda metà degli anni Ottanta, Martí introdusse alcuni elementi interessanti circa il rapporto tra il mondo civilizzato e la “barbarie”. Il cronista cubano venne effettivamente influenzato, in questo periodo, dall'opera letteraria (ma anche socio-politica) di Helen Hunt Jackson, la scrittrice americana che si occupò direttamente della questione indiana, mettendo in luce la barbarie dell'uomo bianco. Questo invaghimento intellettuale per le opere della Jackson è anche riportato in uno scritto sul Messico del 1887 nel quale la Jackson veniva descritta come la “figlia” delle battaglie di Juárez. Ed infatti, il poeta cubano lanciava un grido amaro nel ricordo della scrittrice: “¡[...] si de los indios norteamericanos hubiese surgido un Juárez!”[111]
L'opera martiana, a partire dal 1887, fece diversi riferimenti alle battaglie culturali della Jackson, con continui riferimenti alla sua immane opera di descrizione dell'incontro\scontro tra due culture. Opere come A Century of Dishonor e Ramona, che fecero la fama della scrittrice americana, non si può dire non avessero avuto un influsso sulla coscienza critica del rivoluzionario cubano durante la permanenza negli Stati Uniti. E questo avvicinamento non sorprende, poiché Martí appronta la traduzione del romanzo Ramona in una fase cruciale (1887-88) dell'evoluzione sia dell'analisi sulla società americana sia del suo modello repubblicano da proporre alla Cuba liberata.
Proprio sul tema indigeno, come ha sottolineato Estrade, la superiorità sociale e tecnica, che Martí aveva attribuito agli anglosassoni giunse a vacillare pericolosamente. Probabilmente una delle cause di questa perdita di “confidenza” nei confronti della missione civilizzatrice fu proprio il contatto con le opere fortemente critiche della H. Hunt Jackson[112].
La Jackson era certamente impegnata nella diffusione della civilizzazione e quindi era animata fortemente dalla volontà di superare la “barbarie” indiana. L'introduzione di A Century of Dishonor (1881) riproponeva molti dei temi antropologici ed assimilazionisti dei riformisti degli anni Ottanta. In particolare, la scrittrice guardava alle confessioni religiose e all'educazione cristiana come strumento, più efficace dell'avviamento alla professioni dei bianchi, per civilizzare gli indiani. Sebbene le due principali opere della scrittrice avessero denunciato le prevaricazioni dei bianchi, la cultura indiana viene posta necessariamente in un secondo piano, con caratteri regressivi rispetto a quella bianca.
Tuttavia, l'antropologa americana, proprio nell'opera succitata, pose un importante interrogativo, raccolto poi in alcune opere martiane: “[...] It is idle to attempt to carry Christian influences to anyone unless we are Christian. The first step, therefore, toward the desire transformation of the Indian is a transformed treatment of him by ourselves”[113]. In sostanza, era possibile sperare che gli indiani si elevassero dalla condizione pre-civilizzata se l'input alla elevazione arrivava da persone persone oltremodo barbare?
Anche il romanzo Ramona (1884) pone l'accento sulle difficoltà incontrate dagli indiani nel processo di inserimento nella società bianca. La storia ruota attorno agli amori e alle miserie di Ramona, ragazza orfana di origini scozzesi e pellerossa, e di Alessandro, figlio di un capo tribù. I due sono vittime (Alessandro viene anche ucciso da un americano) del razzismo della società civilizzata e dei bianchi a causa della loro relazione sentimentale. Sullo sfondo compare il cinismo e la bigotteria delle classi dominanti californiane e degli uomini d'affari americani. Il finale della storia è particolarmente emblematico. Alessandro viene ucciso dopo essersi ribellato alle angherie di alcuni affaristi americani e Ramona si sposa con il fratellastro, Felipe, ed insieme si trasferiscono in Messico.

24. L'immagine del viaggio finale verso il Messico è particolarmente efficace nel rendere l'idea del fallimento del processo di assimilazione statunitense. E, a mio avviso, questo finale contribuì anche alla scelta di Martí di tradurre Ramona per un pubblico latinoamericano.
A contatto con queste nuove sollecitazioni, Martí, nella fase centrale del periodo nordamericano, mitiga progressivamente la sua volontà pedagogica di formare, civilizzare e spingere al Vero e al Bene il barbaro e l'incivile. Già in “Los Indios en los Estados Unidos” (1885), il cronista cubano evidenziava una nota problematica nel porsi di fronte al progetto educativo della Fletcher e della Conferenza di Lake Mohonk: “[...] todo esfuerzo por difundir la instrucción es vano, cuando no se acomoda la enseñanza las necesidades, naturaleza y porvenir del que la recibe.[...] que la escuela le enseñe a bastar a su vida: escuela campesina para la gente del campo”[114].
Questa preoccupazione circa l'educazione degli indiani è un chiaro sintomo di insofferenza nei confronti di una educazione cattedratica che avrebbe privato gli indiani della loro essenza, ovvero il contatto con l'ambiente da cui provenivano, la Natura.
Non solo, sebbene Martí criticasse apertamente la guerra intrapresa da alcune popolazioni indiane ed appoggiasse il loro inserimento nella società americana (come cittadini de iure e de facto), egli ebbe anche modo, proprio pochi mesi prima della Conferenza di Lake Mohonk dell'ottobre 1885, di avallare la tesi che la ribellione indiana era l'ultimo strumento per opporsi alle angherie dei bianchi. La guerra dei Cheyenne venne descritta dal cronista come una guerra necesaria, al pari di quella che i cubani avrebbero dovuto intraprendere per conquistare la propria indipendenza:

[...]¿Cómo no se habían de sublevar los cheyenes, si los agentes del gobierno en las reservas de indios les robaban, los esquilmaban, los sometían a trabajos inicuos, les negaban la medicina y el alimento [...]? ¿Cómo no, si morían uno sobre otro de malaria y semanas enteras había en que no se les daba un medicamento [...]?[115].

A mio avviso, l'approccio con la critica jacksoniana alla progressiva distruzione per mano dei bianchi dei nativi si combinò in maniera peculiare con il crescente interesse martiano per le tematiche razziali e la condizione di sudditanza dell'America Latina.
Questa presa di coscienza fu contemporanea al riscontro di una correlazione tra il crescente imperialismo economico statunitense e la presenza di discriminazioni razziali. Lo studioso cubano Marinello ha così riassunto questa connessione nell'opera martiana.
Martí, analizzando la complessa situazione latinoamericana non può fare a meno di associare la distruzione degli indigeni nordamericani a quella già compiuta per mano degli spagnoli. Non solo, partendo dal mestizaje latinoamericano (di cui il cubano è fautore), occorreva farsi una domanda circa il trattamento riservato dagli americani alle Repubblica latinoamericane al momento del contatto imperiale. Infatti, Martí, in uno dei suoi più famosi articoli, criticava così la nuova politica razzista ed imperiale degli americani:

Creen en la necesidad, en el derecho bárbaro, como único derecho: “esto será nuetro, porque lo necesitamos”. Creen en la superioridad incontrastable de “la raza anglosajona contra la raza latina”. Creen en la bajeza de la raza negra, que esclavizaron ayer y vejan hoy, y de la india, que exterminan. Creen que los pueblos de ispanoamérica están formados, principalmente, de indios y de negros[116].

Visto che negli Stati Uniti in neri erano ancora “imprigionati” dalle barriere razziali e gli indiani venivano sterminati, cosa sarebbe successo ai popoli latinoamericani considerati tutti neri ed indios? Ed ancora, il modello di divisione razziale delle competenze e delle posizioni sociali, così diffuso negli Stati Uniti, era effettivamente una forma di governo libero ed esportabile? A mio avviso, le certezze martiane entrarono in crisi proprio nel momento del confronto delle “fobie” (spesso mascherate come deliri di onnipotenza) WASP americane con le realtà latinoamericane.

25. Una testimonianza di queste crescenti preoccupazioni, con riferimento al tema indigeno, fu la traduzione della novela di Helen Hunt Jackson. Il titolo originale del racconto era Ramona. A Story, ma nella traduzione martiana il tiolo viene mutato, per volontà dello stesso traduttore, in Ramona. Una novela americana. Evidentemente, questa diversione fu un momento di forte coscienza dei massacri che si stavano compiendo nelle Americhe, dalla distruzione della raza india durante la conquista spagnola, al massacro dei nativi nordamericani. Non è neppure assurdo ritenere che Martí vedesse nell'opera della Jackson una specie di prosecuzione del filone indigenista latinoamericano, rilevando appunta una comunanza di problematiche tra gli Stati Uniti e America Latina. Non a caso, il filone “indigenista” latinoamericano produsse, nella seconda metà dell'Ottocento, una fitta serie di scritti di respiro continentale. Uno di questi fu sicuramente il cosiddetto Martín Fierro (anche se la versione originale porta il titolo El gaucho Martín Fierro) dell'argentino José Hernández. In questo romanzo, ad esempio, viene ribaltata la visione manichea di Sarmiento circa il rapporto tra civilizzazione e barbarie: il protagonista, un gaucho della pampa viene spinto ad accettare la “barabrie” degli indios (alla fine Fierro va a vivere materialmente con gli indigeni) poiché la società occidentale rifiuta le sue capacità, non le accetta e le reprime. Per vivere da reietti nella civiltà, tanto meglio starsene nella barbarie: questa la tesi di fondo dell'opera di Hernández[117].
Tuttavia, l'opera che più si avvicina alle tematiche di Ramona è Aves sin nido della scrittrice peruviana Clorinda Matto. Pubblicato nel 1889, il romanzo è sicuramente uno dei primi esempi di novela “indigenista”, apertamente schierata contro la politica di aggressione e schiavismo esercitata dalle élites creole nei confronti della popolazione india; tutto attorno un amore impossibile, un racial-class crossing che sfidava apertamente, come nella Cecilia Valdés del cubano Cirilo Villaverde, i rapporti di classe e di razza che vigevano nella società latinoamericana di fine Ottocento.
Aves sin nido è senza obra di dubbio una novela americana, poiché il tema comune è lo sfruttamento e l'emarginazione dell'indigeno. Infatti, l'autrice mette in bocca ad una coppia di indios la cruda realtà della condizione di sfruttamento a cui era sottoposta la sua gente: “Nacimos indios, esclavos del cura, esclavos del gobernador, esclavos del cacique, esclavos de todos [...]. ¡La muerte es nuestra dulce esperanza de libertad!”[118]. Una tematica decisamente vicina a quella di Ramona, anche se il background è geograficamente differente.

26. Il contatto con le opere della Jackson avvenne in un momento di intenso mutamento nella formazione dell’opinione martiana circa il problema indiano negli Stati Uniti. Un primo sintomo del mutamento circa la politica statunitense si può notare proprio nell’articolo in cui Martí appoggia buona parte delle iniziative di Lake Mohonk. Da alcuni passi si nota che la sua adesione non è né piena né assoluta, poiché egli mette in luce il fallimento dell’opera di civilizzazione forzata: gli indiani vengono costretti a comprare e coltivare cose inutili, vengono obbligati a imparare le norme, le leggi e le usanze linguistiche e culturali dei padroni bianchi. Così Martí denunciava questo problema nell’educazione degli indiani:

El no entra en las ciudades de sus vencedores, él no se sienta en sus escuales, a él no le enseñan sus industrias, a él no le reconocen alma humana: le obligan a ceder su tierra por tratados onerosos; lo sacan de la comarca en que ha nacido, que es como sacar a un árbol las raíces, con lo que pierde el mayor objeto de la vida; lo fuerzan, so pretexto de cultivo, a comprar animales para trabajar una tierra que no es suya; lo compelen, so pretexto de escuela, a que aprenda en lengua extraña, la lengua odiada de sus dueños, libros de texto que le enseñan nociones vagas de letras y de ciencias, cuya utilidad no se explica y cuya aplicación no ve jamás; lo apresan en un espacio estrecho, donde se revuelve entre sus compañeros acorralados, con todo el horizonte lleno de los traficantes que le venden cachivaches relucientes y armas y bebidas en cambio del dinero que en virtud de los tratados reparte entre las reservas el gobierno al año[119].

L’uniformazione coatta alla cultura occidentale avrebbe fallito poiché si stava proponendo la distruzione dell’autenticità e della naturaleza degli indiani del Nordamerica. Proprio come nel romanzo Ramona, l’integrazione degli indiani nella società razzista e anglocentrica degli americani era impossibile. Ma non per i demeriti della raza india.
In questo contesto, alla fine degli anni Ottanta, lo scrittore cubano stava gradualmente riformulando la risposta alla domanda postasi nel 1875 in Guatemala: “¿Qué ha de redimir a esos hombres?”.

III. Civilizzazione occidentale e indigenismo in Martí.

27. Jorge Camacho, come detto, ha messo in luce non solo l'etnocentrismo delle idee di Martí, ma anche il suo razzismo (anti-indiano) di fondo[120]. Questa impostazione è solamente parziale, poiché si ferma solamente sulla prima fase della dialettica martiana, cioè alla tesi. Come abbiamo mostrato nelle prime pagine di questo scritto, il Martí che si accingeva a prendere in esame il tema del confronto tra civiltà era sicuramente conscio del grande livello di sviluppo economico, sociale e scientifico raggiunto dall'Occidente, e, per la sua esperienza personale, dagli Stati Uniti. La missione civilizzatrice nei confronti delle popolazioni indigene parte proprio da un concetto di diffusione umanistica della conoscenza, volta alla partecipazione all'interno delle strutture democratiche dello stato. L'indiano o l'indios avrebbero dovuto essere un elemento positivo della società. Martí arrivò quindi a superare il dicotomico scontro tra modernità e barbarie, prendendo le distanze dalla santificazione della superiorità tecnica come risultanza di una presunta superiorità morale e razziale.
La scrittrice cubana Leyda Oquendo ha offerto una visione “militante” dell'antirazzismo martiano, che lo proiettò a smascherare la menzogna della superiotà di una razza sull'altra, ponendosi come fine la “dignidad plena del hombre”[121]. E questo suo disprezzo dell'odio razziale nacque proprio quando, prigioniero alla miniera di Hanábana (a soli diciotto anni) vede in catene un fanciullo nero di undici anni. Un passo del Presidio político en Cuba, molto toccante, è la prima molecola della militanza martiana nell'antirazzismo:

Tiene once años, y es negro, y es bozal.
¡Once años, y está en presidio!
¡Once años, y es sentenciado político!
¡Bozal, y un consejo de guerra lo ha sentenciado!
¡Bozal, y el Capitán General ha firmado su sentencia!
¡Miserables, miserables! Ni aun tienen la vergüenza necesaria para
ocultar el más bárbaro de sus crímenes[122].

L’impegno martiano nella lotta al razzismo fu un punto centrale dell’analisi della società e della storia degli Stati Uniti. Come ha sottolineato Susan Gillman, lo scrittore cubano, cercò di unificare due movimenti statunitensi che si ignoravano reciprocamente: il movimento anti-segregazionista e quello per la difesa dei pellerossa[123]. Non fu un caso che in “Los Indios en los Estados Unidos” due scrittrici americani impegnate nella difesa dei neri e degli indiani venissero citate l’una accanto all’altra[124].

28. Questa prospettiva universalista (ed antirazzista) mette in crisi una interpretazione prettamente anglosassone del poeta cubano. E proprio l’antirazzismo martiano arrivava a mettere in crisi, a porre il quesito circa l’esclusivismo statunitense.
Il paradigma dell'American exceptionalism era stato utilizzato scientificamente per la prima volta dal francese Alexis de Tocqueville, che, nell'opera La Democrazia in America (1831), constatava stupito: “La posizione degli Americani è perciò davvero eccezionale e si può ritenere che nessun popolo democratico verrà mai a trovarsi in una posizione simile”[125]. Questo assioma americano venne ripreso da più parti nel corso degli ultimi decenni dell'Ottocento. Come ha fatto notare Dorothy Ross in un suo saggio, il paradigma dell'eccezionalismo si concretizzò in tre “fasi” (o meglio “varietà”): l'interpretazione sovrannaturale (la religione civile del “popolo eletto” da Dio); la spiegazione genetica e razziale (ampiamente fornita dalla diffusione dell'eugenetica come sostrato di varie scienze sociali); la spiegazione socio-geografica (come quella turneriana per la “democrazia di frontiera”)[126].
Anche per Martí, il primo approccio con la cultura americana fu decisamente positivo, poiché si trattava di un modello socio-politico appetibile anche per le democrazie del continente meridionale, lacerate ancora dai conflitti intestini tra centro e periferia e tra caudillos antidemocratici e corrotti. Nel 1881, il cubano era pienamente convinto della “missione” americana: “Y es ésta la nación única que tiene el deber absoluto de ser grande. En buena hora que los pueblos que heredamos tormentas, vivamos en ellas. Este pueblo heredó calma y grandeza: en ellas ha de vivir”[127]. La grandezza e a calma statunitense contrapposta al burrascoso presente delle Repubbliche sudamericane.
Questa visione paradisiaca della società statunitense permane anche nei primi scritti circa il problema dell'immigrazione che gli Stati Uniti stavano attirando copiosamente. Nel 1884, nell'articolo “De la inmigración incultas y sus peligros”, Martí scriveva: “En inmigración como en medicina, es necesario prever. No se debe estimular una inmigración que no pueda asimilarse al país”[128].
Tuttavia, le “Escenas norteamericanas”, pur presentando alcune forme di laude nei confronti del paese ospitante, non si abbassano mai ad una captatio benevolentiae. Martí non si trovava negli Stati Uniti per stringere accordi commerciali o per il proprio tornaconto personale e neppure per il gusto dell'esotico. Il poeta e rivoluzionario, dunque, fu un osservatore poliedrico e non compromesso con gli interessi commerciali ed imperialisti (ma anche culturali) dell'eccezionalismo americano. Un “uomo del proprio tempo”, come lo ha definito Rodolfo Sarracino[129]. Ad ogni lode smisurata di quanto stavano facendo (o avevano fatto) gli statunitensi, si apre una finestra critica; ad ogni problema, una possibile soluzione. Ad esempio, nel mezzo delle lodi alla grandezza politica degli Stati Uniti compariva, non di rado, una domanda sibillina che scompaginava le carte. Nel 1882, Martí si schierava apertamente con i lavoratori cinesi espulsi dagli Stati Uniti a causa della loro abilità di lavorare a salari più bassi.
Proprio questa sua sinceridad, questa schiettezza nel descrivere gli Stati Uniti, gli causarono la rottura dei rapporti con la rivista La Opinión Nacional di Caracas, a cui, nell'estate del 1882, smetterà di inviare i propri articoli al Direttore. Come ha sottolineato Carlo Batà, nella sua biografia su Martí, una delle più complete in lingua italiana, la rottura con la rivista venezuelana e il “passaggio” a La Nación, più liberal e meno oppressiva, ci regala un Martí ancora più svincolato da schemi geo-politici, in cui gradualmente la critica al sistema di vita americano si fa strada in maniera straordinaria[130].

29. Quindi, in primo luogo, occorre sfatare una concezione elitista e etnocentrista del pensiero martiano. Sebbene il poeta cubano rappresentasse la crema culturale dell'esilio cubano a New York ed avesse una formazione decisamente occidentale e latina, non è possibile riscontrare nella sua opera una chiara adesione ad una prospettiva unicamente etnocentrica. Questo nuovo elemento ci porta ad analizzare più approfonditamente la posizione critica di Martí nei confronti degli Stati Uniti, ma anche della stessa civiltà occidentale. Il poeta cubano giunge a de-mitizzare il progresso tecnologico a cui il mondo occidentale aspirava. Da qui nasceva la fase dell'antitesi martiana alla modernizzazione americana, alla rivoluzione industriale.
Lo stile di vita americano, in graduale evoluzione durante la gilded age, divenne oggetto di feroci critiche, che abbracciarono anche la presunta superiorità statunitense in relazione al rapporto con culture considerate inferiori.
Dopo il massacro di Haymarket Square (1886), che alcuni autori hanno considerato come un punto di svolta per la produzione politica martiana, la visione della società statunitense venne gradualmente offuscata, nel suo pensiero, dalla dura presa di coscienza delle pecche che gli Stati Uniti nascondevano al proprio interno. Da “casa de pueblos”[131], gli Stati Uniti diventavano “estado pujante, embrionario, no satisfactorio”[132]. Non solo, man mano che il poeta cubano si trasformava in rivoluzionario, avvicinandosi il momento di porre in essere la ribellione a Cuba, venne a contatto con i problemi razziali sia a Cuba che nel resto dell’America.
In alcuni articoli, Martí sembra disgiungere la superiorità tecnica da quella morale. Anche lo spirito utilitaristico della borghesia americana venne progressivamente messo sotto accusa. A questo proposito, Martí annotò su un taccuino di 26x21 cm di cartone verde:

Los norteamericanos posponen a la utilidad el sentimiento. Nosotros posponemos al sentimiento la utilidad. Y si hay esta diferencia de organización, de vida, de ser, si ellos vendían mientras nosotros llorábamos, si nosotros reemplazamos su cabeza fría y calculadora por nuestra cabeza imaginativa, y su corazón de algodón y de buques por un corazón tan especial, tan sensible, tan nuevo que.sólo puede llamarse corazón cubano, ¿cómo queréis que nosotros nos legislemos por las leyes con que ellos se legislan? [...] Las leyes americanas han dado al Norte alto grado de prosperidad, y lo han elevado también al más alto grado de corrupción. Lo han metalificado para hacerlo próspero. ¡Maldita sea la prosperidad a tanta costa![133]

Questo brano, scritto su un notes personale tra il 1885 e la morte a Dos Ríos (quindi in pieno periodo “statunitense”), venne evidenziato un cambiamento di sensibilità nei confronti della civilizzazione nordamericana e soprattutto, di fronte alla regressione democratica degli Stati Uniti, mutò la propria attitudine nei confronti della società statunitense.

30. In un altro brano, si poteva notare con chiarezza un evidente sovvertimento della dicotomia facundiana, che, meno di mezzo secolo prima, Sarmiento aveva messo in luce nella sua opera contro la “barbarie”. La razionalità del progresso americano, per Martí, si stava tramutando in una sfida autoreferenziale che avrebbe sovvertito l'idea stessa di avanzamento culturale e scientifico. A questo proposito il poeta cubano scriveva nel 1885:

Gran pueblo es éste, y el único donde el hombre puede serlo; pero a fuerza de enorgullecerse de su prosperidad y andar siempre alcanzado para mantener sus apetitos, cae en un pigmeísmo moral, en un envenenamiento del juicio, en una culpable adoración de todo éxito. Bondadoso pueblo es éste, y el primero que, con generosidad imperturbable, abrió los brazos, y los ha mantenido un siglo abiertos, a los laboriosos y a los tristes de toda la tierra; pero hay que ver que deseó desenvolverse contra la naturaleza, y estableció leyes restrictivas que permitieron la creación súbita de una colosal riqueza interior, de subsistencia ficticia, que no puede hoy, por su mismo exceso, dar alimento a la masa de hombres que de todas partes de la tierra atrajo. Porque las huelgas, la miseria de los mineros, el asesinato de los chinos, todo viene, aunque no se vea en la superficie, de un hecho capital que se debió prever acá y fuera de acá se ha de anunciar para que se prevea: la producción de un país se debe limitar al consumo probable y natural que el mundo pueda hacer de ella[134].

Il brano qui sopra, tratto da un articolo pubblicato su La Nación (22 ottobre 1885), rappresentò appunto un elemento di contraddizione che Martí ravvisò proprio nell'avanzamento tecnologico americano. Questa sfrenata corsa al successo e al miglioramento (progresso, in una parola) stava man mano disumanizzando il nucleo fondante della società americana. Martí riuscì abilmente a collegare i termini “prosperidad” de “éxito”, connotazioni positive del progresso tecnico con termini chiaramente denigratori come “ culpable adoración” e “apetitos”. La sintesi di questo processo di de-mitizzazione della cultura americana si trova appunto nell'espressione “pigmeísmo moral”, che appunto pone l'accento sulla fugace superiorità del progresso nordamericano. La critica martiana alla società industriale statunitense ebbe un riflesso abbastanza evidente anche nel rapporto con le popolazioni considerate “barbare” o “primitive”.
Se il contatto con gli Stati Uniti, ad inizio anni Ottanta, aveva stimolato un senso di onnipotenza della cultura americana anche negli scritti di Martí, che valuta appunto la civilizzazione democratico-industriale come positiva ed applicabile come antidoto alla barbarie. In una annotazione, databile attorno al 1885, il poeta scriveva: “no la barbarie de los pueblos primitivos, sino la delicadeza y feminidad de las civilizaciones más adelantadas”[135]. Questa presa di coscienza della positività della nuova civilizzazione e del progresso proveniente dall’Europa e Nordamerica (tipica dell’opera dell’argentino Sarmento) venne presto adulterata dal contatto con la barbarie della civilizzazione, cioè l’irrazionalità proveniente dalla degenerazione del sistema socio-politico americano ed europeo.

31. Il tema del rapporto complesso tra barbarie e civiltà, una questione centrale nella Gilded Age di fine Ottocento, non sfugge allo sguardo attento del poeta cubano. Martí, volente o nolente, dovette confrontarsi con alcune delle manifestazioni più evidenti dell’eccezionalismo americano. Una di queste fu proprio il rapporto con le razze considerate inferiori, in modo particolare i nativi.In effetti, in alcuni scritti martiani, veniva affrontato direttamente il problema dell’inferiorità culturale di alcune civiltà, come quella indiana. La grandezza delle libertà civile e politiche della società anglosassone, come ebbe modo di constatare direttamente lo scrittore cubano, stava comunque producendo alcune linee di contrasto con l’eccellenza sociale, economica e politica a cui gli Stati Uniti erano chiamati.
Infatti, il modello statunitense, all’interno delle cronache martiane, non è mai preso in valore assoluto o come pietra miliare non più perfettibile. In un articolo dell’agosto 1885, “Gobierno admirable de los cheroqueses”, giungeva a mettere in dubbio la superiorità economica e sociale dell’uomo bianco. Anche i Cherokee avevano una tendenza naturale a costruire gioiosamente scuole per i propri figli ed alcuni studenti indiani avevano anche avuto modo di prendere parte a lezioni universitarie in prestigiosi atenei “bianchi”. Anche a livello economico, critica non certo comune per l’epoca, Martí non considerava affatto barbaro il sistema di proprietà comune della terra:

Toda la tierra pertenece en común a la tribú; lo que no excluye la propiedad, ni el derecho de traspasarla según las leyes de la tribu; pues la tierra es del que la cultiva eso sí, mientras la trabaje, porque en cuanto el propietario de la tierra no la trabaje, vuelve al común. Mientras la cultiva, es su propiedad absoluta. Cualquier cheroqués puede cultivar cuanta tierra le plazca, con tal de no llegar sino como hasta un cuarto de legua a distancia de los linderos del vecino. Con esto sa impide la acumulación de vecinos en pequeñas comunidades, que a juicio de los cheroqueses favorece la holganza y sus vicios. Y con que la tierra vuelva al común tan pronto como su propietario no la cuhive, se estorba que una misma mano llegue a poseer mucha tierra, y cuanto viene de eso. 70,000 habitantes tiene el país de los cheroqueses: no hay ni un mendigo[136].

Proprio mentre l’economia americana si stava trasformando in un furto finanziario, come notò lo stesso autore cubano in alcuni articoli molto critici sull’economia degli Stati Uniti, e mentre le città ospitavano una massa sempre maggiore di poveri e diseredati (alla fine del XIX secolo nasce la figura del trump, il senzatetto), l’economia del benessere cherokee è in grado di sfamare 70 mila persone senza che nessuno facesse il mendigo, il mendicante[137].
Il processo contro gli attentatori di Haymarket Square, conclusosi nel 1887, veniva descritto come l’autoassoluzione di un sistema economico e politico corrotto dallo sfruttamento, che accusava i proprio sottoprodotti (i poveri e gli sfruttati) di tentare una partecipazione maggiore alla divisione del benessere[138].

32. La comparazione tra la società indigena e quella americana toccava anche il tema della democrazia ed il suo carattere eccezionale e irripetibile, proprio come aveva sottolineato Tocqueville. Nel 1884, Martí metteva in crisi l’eccezionalismo democratico americano, poiché alcune pratiche di discussione e decisione concertata erano presenti anche tra le tribù pellerossa:

Antes de pelear, discuten. Llaman a congreso: todos tienen palabra y voto; el que no piensa como los demás, no tiene obligación de obrar como ellos[139].

Pochi anni più tardi, il cubano avrebbe espresso così l’impossibilità, nella fondazione di una nuova America latina, di copiare ed importare letteralmente i modelli di vita e di civilizzazione statunitensi:

Imitemos. ¡No! Copiemos.¡No! Es bueno, nos dicen. Es americano, decimos. Creemos, porque tenemos necesidad de creer. Nuestra vida no se asemeja a la suya, ni debe en muchos puntos asemejarse. La sensibilidad entre nosotros ca muy vehemente. La inteligencia es menos positiva, las costumbres son más puras ¿cómo con leyes iguales vamos a regir dos pueblos diferentes?[140].

La “barbarie” che contraddistingue le descrizioni degli indiani agli occhi dell’opinione pubblica statunitense (ma anche latinoamericana), per Martí, non è altro che il prodotto di un processo di imbarbarimento, causato dal contatto violento con le pratiche sociali escludenti dei conquistatori. Così come la società americana non è il sistema perfetto, anche la condizione di arretratezza dell’indio non è condizione insita nella sua natura, ma sono le contingenze storiche che lo hanno trasformato in un disadattato ed un “barbaro”.
Durante il periodo guatemalteco, alla fine degli anni Settanta, Martí scrisse un’opera teatrale, Patria y Libertad (Un drama indio), in cui uno dei personaggi pronunciava le seguenti parole:

Indio soy, con disfraz, pues que torrieron
de modo mi infeliz naturaleza
que natural parece la ignominia,
y más c.ara parece la vergüenza.
¡Esa es tu obra, villano![141].

La presenza di questa condanna dell’uomo bianco per aver pervertito la natura buona, affabile e attiva dell’indiano, rimase evidente anche in alcuni passi delle Escenas norteamericanas:

[...] El indio no es así de su natural, sino que asi lo ha traído a ser el sistema de holganza y envilecimiento en que se le tiene desde hace cien años[142].

33. Martí prese posizione nettamente contro l’accusa di “barbarie” e “cannibalismo” avanzata nei confronti delle popolazioni tecnologicamente meno avanzate o razzialmente differenti dallo standard WASP o creolo.
In questa difesa della civilizzazione indigena, l'intellettuale cubano sembrava anticipare alcune tematiche della cultura latino e centroamericana dell'ultima decade del XIX secolo. In particolare, l'analisi della degenerazione dell'indio post-conquista ebbe un successo storiografico notevole sul finire dell'Ottocento proprio nelle società ad elevata demografia indigena.
Il saggio Los indios, su historia y su civilización del guatemalteco Antonio Batres Jáuregui, pubblicato nel 1894, fu un modello abbastanza riuscito di rivalutazione razziale e culturale nell'ambito della riscoperta della civilizzazione indigena, “riletta” alla luce dei secoli bui della conquista e dello sfruttamento coloniale. Come già aveva notato Martí, anche Jáuregui dibatté apertamente il ruolo nefasto della conquista ispanica (senza risparmiare la falsa civilizzazione delle misiones), che represse ogni forma di impulso vitale ed artistico degli indios. Come per il poeta cubano, gli indigeni erano stati ridotti ad una massa informe e prona, pur essendo una componente etnica vitale di tutt'altro che barbara. Lo stesso dicasi, ad esempio, delle opere sociologiche e giuriprudenziali del venezuelano José Gil Fortoul (1861-1943), per cui la conquista delle Americhe segnò un “peccato originale” nei rapporti tra bianchi europei e indigeni[143].
Martí rappresentò un vero e proprio precursore per la diffusione dell’indigenismo che ebbe uno sviluppo completo nel corso degli Anni Venti e Trenta del Novecento, quando molti paesi latinoamericani invertirono la propria tendenza ad innalzare smisuratamente le virtù della razza anglosassone. Nelle prime tre decadi del XX secolo, le opere del cubano José Enrique Varona e della poetessa cilena Gabriela Mistral divennero un aperto tentativo di resistere ad un inesorabile invasione culturale (ma anche politica ed economica) statunitense. L’indigenismo novecentesco fu, come ha evidenziato uno studio recente di Paul R. Spickard, un estremo tentativo di rivendicare un’identità latinoamericana differente e separata da quella nordamericana. Insomma, un movimento di segno decisamente opposto rispetto al positivismo latinoamericano di fine Ottocento[144]. Appare evidente come, in questa prospettiva, Martí fosse un precursore del rifiuto del provincialismo del Sud America.
La presa di posizione martiana sul problema razziale amerindio è abbastanza distante da quelle che sarebbero state le tesi centrali dell'opera “indigenista” del messicano Vasconcelos, La raza cósmica (1925). Se apparentemente la “razza cosmica” essere la continuazione dell'opera martiana Mi raza, vi sono particolari divergenze proprio nell'impostazione di fondo, ovvero nell'interpretazione del divenire storico e sociologico. La raza cósmica, sebbene parta dal mestizaje latinoamericano come concausa positiva del progresso del continente, ma, contemporaneamente, viene riproposta una chiave di lettura razziale della storia. La “quinta era”, “la era de la universalidad y el sentimiento cósmico”[145], per Vasconcelos verrà alla luce grazie al trionfo di una morale universale diretta a tutti gli uomini sulla faccia della terra: il trionfo di una cultura universalista (globalizzata diremmo oggi), socialista e cristiana appianerà tutte le differenze razziali del pianeta[146]. Tuttavia, le basi di partenza della civilizzazione universale sono assolutamente creole, poiché la fase antecedente l'universalismo, la cosiddetta cuarta raza, è rappresentata proprio dagli europei colonizzatori e dai creoli:

La civilización conquistada por los blancos, organizada por nuestra época, ha puesto las bases materiales y morales para la unión de todos los hombres en una quinta raza universal, fruto de las anteriores y superación de todo lo pasado[147].

34. Il modus operandi di Vasconcelos è esattamente quello dei darwinisti di fine Ottocento, pur producendo risultati diametralmente opposti: l'elemento razziale è fondamentale per la formazione della “quinta razza” ed il filo conduttore del divenire storico. Anche in quest'opera, alla stregua della sociologia positivista di Alberdi, l'indio non ha posto nella storia contemporanea latinoamericana, la razza india ha compiuto la sua missione, si è assopita per mai più ridestarsi:

Los mismos indios puros están españolizados, están latinizados, como está latinizado el ambiente. Dígase lo que se quiera, los rojos, los ilustres atlantes de quienes viene el indio, se durmieron hace millares de años para no despertar. [...] El indio no tiene otra puerta hacia el porvenir que la puerta de la cultura moderna, ni otro camino que el camino ya desbrozado de la civilización latina[148].

Anche per Vasconcelos, gli indios, così come i cinesi e i neri, pur vedendosi garantiti i diritti fondamentali, sarebbero stati svuotati della propria essenza e “istruiti” alla nuova cultura universale, sicuramente più vicina al modello occidentale che al proprio.
In un recente studio condotto da Paul Spickard, l'autore fa notare giustamente come l'elemento indigeno in La raza cósmica venga valorizzato per assimilazione alla civilizzazione occidentale o per scomparsa, poiché effettivamente superato e ormai parte della storia e non del presente[149]. Niente di più lontano dalla visione indigenista dell'ultimo Martí, che sancirà la propria indifferenza nei confronti dell'esistenza delle diverse razze. Infatti, nel suo tentativo di dare una dignità propria all’esperimento democratico che stava conducendo per la Cuba libre e alla cultura mestiza, Martí cercava disperatamente di salvare le popolazioni indie dall’accusa di cannibalismo e barbarie[150].
Fernández Retamar, poeta e scrittore cubano, ha sottolineato come per secoli la visione calibanesca (da “Caliban”, il personaggio barbaro de La tempesta di Shakespeare), cioè cannibale e bestiale, degli abitanti delle “Indie”. Con Martí, che sembra anticipare i temi trattati da Rodó nel suo Ariel (1900), il vero Calibán acquisisce i contorni di alcune pratiche sociali e politiche degli Stati Uniti della civilizzazione bianca[151]. E la contrapposizione tra società barbare e civilizzate poteva essere visto come uno strumento delle seconde per schiavizzare e asservire le prime.
All'interno del dibattito razziale intestino agli Stati Uniti, la prosa martiana giunse a mettere in luce il comportamento sprezzante degli americani nei confronti della popolazione indiana, che veniva trattata con il disprezzo riservato alle razze inferiori.
Martí ripropose la dicotomia esistente tra l'immagine che gli americani si erano fatti del popolo indigeno e la realtà in un articolo, “Los indios, los soldados y los agentes del gobierno en el territorio indio”, pubblicato nel 1885:

Sola y abandonada a su desdicha, acurrucada junto a sus caciques anosos, con los ojos puestos en sus ponies y en los pies los bordados ocasines, determinan las tribus indias, agasajadas por los emisarios de Cleveland, no mover la guerra a que les compelian el abuso y maldad de s agentes del gobierno en el territorio indígena. Porque no los miran, al debieran los agentes, como a una rara rudimentaria y simpática, tancada en flor por el choque súbito con la acumulada civilización de los europeos de América; sino que los tienen como a bestias; y los dian; y se gozan en envilecerlos para alegar después que son viles. Ellos tienen sus sabios; sus grandes caudillos; sus diplomáticos cuerdos; os son como pájaros graciosos, irisado el plumaje, húmedos todavía el redaño de la naturaleza. Piden con moderación; sufren con pacencia; aconsejan con juicio; pelean con bravura[152].

In questo passo, il poeta cubano denunciava la grande ipocrisia che si celava dietro la presunta superiorità della civilizzazione americana: gli emissari del governo avevano come obiettivo l'allontanamento dalla società degli indiani per poi poterli accusare di non essere abbastanza attratti dal lifestyle statunitense. In pratica, si trattava della stessa paranoia che Martí avrebbe poi denunciato nella sua opera omnia sul problema razziale, Mi raza. Anche nella Cuba di fine Ottocento, il possibile apporto dei neri alla guerra di indipendenza veniva gradualmente ridotto e scongiurato, mentre li si accusava di anti-patriottismo.

35. Come illustrato in precedenza, questa seconda fase, l'antitesi, si formò nel corso di un processo di de-mitizzazione realistica della società americana, che avrebbe poi portato il rivoluzionario cubano ad avanzare serie perplessità sulla evoluzione (o regressione) delle istituzioni politico-economiche degli Stati Uniti.
Quale sintesi è possibile effettuare tra le due correnti martiane sul problema indigeno nordamericano (e, per riflesso, latinoamericano)?
Circa il problema indiano negli Stati Uniti, Martí sembrava veleggiare tra due poli opposti, ma non antitetici. Da un lato, come dimostrano i primi scritti sull’argomento, veniva rilevata la necessità di estendere alcune pratiche occidentali alle popolazioni storicamente arretrate e tecnologicamente meno avanzate. Da qui, ad esempio, l’impegno pedagogico nell’acculturamento degli analfabeti o la volontà di trasformare il pellerossa in pioniere, piccolo proprietario e colono. Tuttavia, l’innalzamento culturale degli indigeni, il loro “risveglio” (cfr. “Los Indios”, “Algunos jóvenes”, “El proyecto de la instrucción pública”), non possono essere qualificati come mera assimilazione di una cultura recessiva da parte di quella dominante: l’etnocentrismo martiano è un punto di partenza per il suo stesso superamento[153].
La mia analisi ha evidenziato due parametri fondamentali entro cui Martí ha analizzato il rapporto tra la civilizzazione progressista (ma “famelica”) degli uomini bianchi e quella degli indios e degli indiani d'America. Da un lato, negli scritti martiani, comparve con evidenza l'aspetto tecnico-scientifico della civilizzazione. Specie in alcuni primi articoli sul problema dell'istruzione obbligatoria, così come quelli sul problema delle riserve indiane, il poeta cubano si soffermò sulla necessità di elevare culturalmente e tecnicamente la popolazione indigena, attraverso l'istruzione obbligatoria, ad esempio. Dall'altro lato però, venne anche avanzata una “questione morale” nello scontro tra civiltà. Che diritto avevano gli americani (o gli europei) di soggiogare, sottomettere e sfruttare altri popoli in nome della loro presunta superiorità razziale, politica o tecnologica?
Da qui una rivalutazione, nel processo di formazione del Martí rivoluzionario, dell'elemento indigeno, del pluralismo culturale, della cultura mestiza, che avrà il suo trionfo in “Nuestra América”, niente di meno che un “esorcismo” politico che il poeta cubano invocava per scacciare dal futuro latinoamericano le aberrazioni che aveva osservato nel suo peregrinare da esule. Non a caso, la sintesi tra i poli opposti, a mio avviso, avvenne proprio nel corso dei preparativi per la guerra rivoluzionaria.
Si legge nel suo articolo Nuestra América (1891):

Por eso el libro importado ha sido vencido en América por el hombre natural. Los hombres naturales han vencido a los letrados artificiales. El mestizo autóctono ha vencido al criollo exótico. No hay batalla entre la civilización y la barbarie, sino entre la falsa erudición y la naturaleza. El hombre natural es bueno, y acata y premia la inteligencia superior, mientras ésta no se vale de su sumisión para dañarle, o le ofende prescindiendo de él, que es cosa que no perdona el hombre natural, dispuesto a recobrar por la fuerza el respeto de quien le hiere la susceptibilidad o le perjudica el interés[154].

In questo celeberrimo passo, il poeta voleva appunto contrapporre la bontà dell'hombre natural con la malvagità della falsa civilizzazione, la barbarie proveniente dal progresso stesso, spinto alla degenerazione irrazionale. In questo brano, una pietra miliare nel pensiero martiano (e l'ultimo tassello dell'evoluzione della sua weltanschauung), si coglie, potremmo dire “per sottrazione”, un imperativo morale rivolto sia alle repubbliche latinoamericane che agli Stati Uniti (o all'Occidente più in generale).

36. La peculiarità delle istituzioni latinoamericane, che viene descritta nell'articolo, è la stessa degli Stati Uniti nel rapporto con gli indios. Non a caso, di fronte al trattamento riservato dagli americani ai propri indigeni. Martí giunse a rivendicare l'origine ed il futuro mestizo dell'America meridionale e latina: “Estos hijos de nuestra América, que ha de salvarse con sus indios [...]”[155]. Questa frase rappresentava la sconfitta del modello di civilizzazione impositiva applicata dai nordamericani, che avevano perso di vista l'essenzialità del pluralismo della società americana, della multirazzialità, dell'universalismo della “casa de pueblos” che Martí aveva osservato nei primi anni della sua permanenza in territorio newyorkese.
Nella globale ricerca della forma più alta di progresso e di conoscenza, propria della rivoluzione positivista e scientista della Gilded Age, Martí criticava il progressismo americano per essere in difetto di conoscenza, cioè per non aver compreso razionalmente la complessità della propria popolazione, immigrati europei ed indigeni compresi.
Nuestra América, il sogno martiano di una nuova America latina (e la terribile realtà di crudeltà degli Stati Uniti), consacrò l'istinto antirazzista del poeta cubano:

No hay odio de razas, porque no hay razas. Los pensadores canijos, los pensadores de lamparas, enhebran y recalientan las razas de librería, que el viajero justo y el observador cordial buscan en vano en la justicia de la Naturaleza, donde resalta en el amor victorioso y el apetito turbulento, la identidad universal del hombre. El alma emana, igual y Peca contra la Humanidad el que fomente y propague la oposición y el odio de las razas[156].

Nel rapporto con l'indio, quindi con la parte meno progredita economicamente e meno integrata, sarebbe stata necessaria un'apertura, un'autocritica della civiltà dominante (“Los pueblos han de vivir criticándose, porque la critica es la salud; pero con un solo pecho”[157]), poiché incapace di aprire i propri orizzonti nel contatto con una struttura di vita, un impianto di valori e rapporti sociali completamente differente.
In Nuestra América, il grande intellettuale cubano suggeriva anche un antidoto per quelle forme di conflitto tra civiltà, proprio come nel caso del difficile rapporto tra i nordamericani WASP e gli indiani. In questo brano che segue possiamo cogliere la sintesi definitiva del pensiero martiano circa il problema dello scontro di civiltà, che aveva sperimentato negli Stati Uniti, ma che poteva tastare anche nel rapporto cubano-americano:

Se entiende que las formas de gobierno de un país han de acomodarse a sus elementos naturales; que las ideas absolutas, para no caer por un yerro de forma, han de ponerse en formas relativas; que la libertad, para ser viable, tiene que ser sincera y plena; que si la república no abre los brazos a todos y adelanta con todos, muere la república[158].

Anche la democrazia statunitense che avrebbe dovuto essere la base per una espansione dei diritti ed un progresso “con todos”. Le cesure razziste dello scientismo progressista di fine secolo, dai sermoni di Josiah Strong, alle politiche degli científicos messicani, avrebbero impedito il melting pot, la fusione dell'elemento “naturale”, autoctono (“Surgen los estadistas naturales del estudio directo de la Naturaleza”), con quello scientista, con il progresso tecnico- scientifico.

37. Proprio questa mancanza di riconoscimento della positività dell'elemento autoctono, indigeno, rurale del sistema di valori statunitense avrebbe decretato il fallimento dell'inserimento sociale di alcune minoranze, che fossero gli indiani d'America, gli operai di Chicago o i neri dell'Alabama. E, per questo motivo, negli scritti martiani degli anni Novanta, nella futura America, la Nuestra América, i gruppi etnici non creoli occupavano un ruolo decisamente differente.
L’analisi di Juán Blanco è particolarmente illuminante per giungere ad una conclusione coerente con il percorso intellettuale di Martí riguardo la problematica indigena. Sebbene il suo “Modernidad y metamodernidad en el discurso de José Martí soble el indigena” si confronti unicamente con l’esperienza martiana in Centroamerica, si tratta di un testo fondamentale per un’analisi corretta del pensiero del grande scrittore cubano.
Martí, come ben nota Blanco, non fu immune da un cedimento verso le tesi positiviste ed antropologiche di fine Ottocento:

José Martí, al igual que la mayoría de los intelectuales de los siglos XIX y buena parte del XX, será seducido por el paradigma hegemónico cultural de Viejo Mundo[159].

Contemporaneamente, gli stereotipi europei ed occidentali vengono progressivamente abbandonati, mitigati ed, in un certo senso, rifiutati nel corso della maturazione artistica e politica di Martí. Egli si rende conto della natura pervertita dell'indigeno, causata non dalla sua natura, ma dalla dominazione, dalla violenza dei conquistatori: cinquecento anni di schiavitù hanno creato una razza di servi, senza che essa lo fosse realmente.
Il cronista cubano osserva da duplici angolazioni la raza india e ne esalta sempre e comunque, con pietas e bontà, i tratti positivi. Nel 1875, nello stesso scritto in cui definiva “bestial” il comportamento anti-progressista degli indios, egli riusciva ad evidenziare la radice del problema non nella natura bestiale degli indigeni, bensì nei secoli di dominio creolo:

Estos informes confirman lo que de los indígenas se sabe. Son retraídos, tercos, huraños, apegados a sus tradiciones, amigos de sus propiedades, enemigos de todo Estado que cambie sus costumbres. Pero estos mismos defectos, estudiados en su origen, acusan las inapreciables cualidades de los indios. Dedúcese de ellos que son constantes, leales, firmes y severos; que aman profundamente; que rechazan fieramente lo que no creen bueno. ¿Qué no podría hacerse, cuando logremos atraernos a hombres que tienen tales dotes? ¿Cuándo la fidelidad, la lealtad y la constancia fueron en raza alguna, malas condiciones? Si hoy las emplean en rechazar toda mejora, es porque los hombres que pretenden llevar las reformas a sus pueblos, son los mismos que en otro tiempo, de generación en generación, lo han venido engatiando, castigando y burlando; los que aparecen a sus ojos como los hurtadores de sus propiedades, como los seductores de sus mujeres, como los profanadores de sus ritos, como los iconoclastas de su religión. Intereses malévolos los mantienen en estas condíciones[160].

La rottura martiana con la modernità, con i valori tradizionali della società occidentale, germe profondamente radicato nel pensiero del poeta, sboccerà durante la sua permanenza negli Stati Uniti. La forte critica al modello di civiltà (e di civilizzazione) intrapreso dagli statunitensi, che anticipò le perplessità dell'assimilazionismo fletcheriano degli anni Novanta dell'Ottocento, lo porterà ad elaborare un modello “metamoderno” e perciò creativo.
Blanco ha sintetizzato così la parabola martiana nella difesa dell'indio a qualsiasi latitudine:

Una liberación del indígena sólo sería posible si en esa medida no se le asimila a una modernidad nacionalista-etnocéntrica, y por ende monocultural, sino que se le deja crear, ser otro, manifestarse tal como es. [...] Esta preocupación por los resultados de los sustitutos modernos de aquella cruz colonial (las nuevas cruces de la cultura occidental: etnocentrismo nacionalista, racismo evolucionista, mimesis política, homogenización social, etc.) hacen evidente la defensa y protección de lo propio que peligra ser sacrificado en pro de las divinidades absolutistas de la modernidad[161].

Martí, “nelle viscere del Mostro”, negli Stati Uniti, poté constatare il fallimento della mono-cultura WASP, elitista e razzista, nei confronti degli indiani nordamericani, che verranno comunque fisicamente annichiliti e culturalmente sradicati. Questo, a mio avviso, è il grande retaggio, l'illuminazione che los indios de Norteamérica offrirono all'Apostolo: un laboratorio culturale e integrazionista che, nelle opere degli anni Novanta verrà demitizzato e giudicato inapplicabile alla realtà mestiza latinoamericana.

Note

[1] Martí arrivò negli Stati Uniti, in un momento di grandissimo fervore scientifico, tecnologico e culturale, la cosiddetta Gilded Age. Questa “età dorata”, identificabile con il dopo-guerra civile (1865-1901), fu il ricettacolo di una serie impressionante di mutamenti in ogni settore sociale. In primis, l'aspetto economico, che fece propendere sempre di più gli Stati Uniti per avventure coloniali, spostando il confine sempre più verso le Repubbliche dell'America Latina. Sull'acquisizione della mentalità espansionista cfr. Lars Shoultz, Beneath the United States: A History of U.S. Policy Toward Latin America, Harvard University Press, London, 1998, pp.78-90.

[2] Il dibattito sulla visione martiana del rapporto Cuba-Stati Uniti venne ripreso ampiamente nei due tentativi politici (uno in chiave nazionalista ed uno socialista), di Machado e Castro, di giungere ad una revisione dei rapporti di forza tra i due paesi. Soprattutto il castrismo, già dall'opera di Fidel La storia mi assolverà, introdusse un filo diretto tra le idee indipendentiste di Martí e la rivoluzione socialista di Castro. Alcuni autori, di formazione neo-marxista (come Foner e Kirk) hanno evidenziato le spietate critiche rivolte dal poeta cubano alla società statunitense. Una rivisitazione del pensiero martiano nelle relazioni cubano-americane è fornita invece da Carlos Ripoll, José Martí, the United states of America and the Marxist Interpretation of Cuban History, Transaction Books, London, 1984. In questo caso, l’autore denuncia le manipolazioni postume dell’ideale sociale martiano, rivendicando la (ri)lettura di Martí scevra da visioni ideologiche bipolari proprie della Guerra Fredda.

[3] Il termine “guerra necesaria” venne coniato dallo stesso Martí per indicare la rivoluzione armata che Cuba avrebbe dovuto condurre contro la Spagna per liberarsi dal giogo coloniale. Questa dicitura appare per la prima volta nella Carta a J.A. Lucena, datata 9 ottobre 1885 (cfr. José Martí, op. cit., tomo I, p.185), ma anche in un articolo apparso su Patria in cui venivano tessute le lodi del generale Gómez (cfr. José Martí, op. cit., tomo 4, p.447). In generale non si tratta di un neologismo propriamente martiano, ma indica perfettamente il necessario compromesso, instauratosi nella filosofia politica del poeta cubano, tra lo spiccato anti-militarismo e il mezzo violento e rivoluzionario per ottenere la liberazione dell’Isola dall’oppressione coloniale.

[4] Si veda Julio Ramos, Divergent Modernities: Culture and Politics in Nineteenth-Century Latin America, Duke University Press, Durham, 2001, p.152.

[5] Cfr. José Martí, “Los Anglómanos”, op. cit., tomo X, p.299. L’articolo apparve per la prima volta su La Nación, il 22 ottobre 1885.

[6] Rafael E. Tamargo, “El anglosajonismo de Martí”, Revista Encuentro, nn.48/49, p.233.

[7] José Martí, “Nuestra América”, op.cit., tomo VI, p.21.

[8] Julio Ramos, op.cit., p.155.

[9] Ibidem.

[10] Per una definizione approfondita di ultraaguilismo si veda Carlos Ripoll, op.cit., p.11.

[11] Cfr. José Martí, “Mi raza”, op.cit., tomo II, pp.298-300.

[12] Rudyard Kipling, The White Man's Burden, diponibile in versione open source su http://en.wikisource.org/wiki/The_White_Man%27s_Burden e apparso per la prima volta sulla rivista McClure's il 12 febbraio 1899, dopo nemmeno un anno dall'acquisizione dei territori coloniali appartenuti alla Spagna. Il componimento recava il curioso sottotitolo “The United States and the Philippine Islands”.

[13] Cfr. Aline Helg, “Race and Black Mobilization in Colonial and Early Independent Cuba: A Comparative Perspective”, Ethnohistory, tomo 44, n. 1, inverno 1997, pp. 53-74.

[14] Richard Gott, Cuba. A New History, Yale University Press, New York, pp. 21-23.

[15] Cfr. Fernando Ortiz, Cuban Counterpoint: Tobacco and Sugar, Duke University Press, Durham, 1995 (ed.or. 1940), pp. 97-103.

[16] La prima fase del dibattito cubano sul rapporto con gli Stati Uniti, conclusasi con l'inizio della Guerra dei Dieci Anni (1868), fu cartterizzato da un grande fermento intellettuale che venne concretizzandosi nella polemica pubblica tra Cristóbal Madán e José Antonio Saco, un precursore di alcune visioni anti-annessioniste, l'uno favorevole all'annessione agli Stati Uniti e l'altro invece conscio del pericolo di una assimilazione definitiva e della scomparsa delle istituzioni in mano all'oligarchia cubana. Si veda ad esempio, José Antonio Saco, Ideas sobre la incorporacion de Cuba en los Estados-Unidos, Parigi, Impr. de Panckoucke, 1848 e la conseguente risposta annessionista: Cristóbal F. Madán , Contestación a un folleto titulado “Ideas sobre la incorporación de Cuba en los Estados Unidos”, por don José Antonio Saco, New York, Imprenta de “La Verdad”, 1849.

[17] Cfr. Gott, Cuba. A New History, p. 23.

[18] Cfr. Louis A. Pérez, “Incurring a Debt of Gratitude: 1898 and the Moral Sources of United States Hegemony in Cuba”, The American Historical Review, tomo 14, n. 2, aprile 1999, pp. 356-398.

[19] Cfr. Rebecca Earle, The Return of the Native: Indians and Myth-making in Spanish America, 1810-1930, Duke University Press, North Carolina, 2007, pp.171-173.

[20] Jorge Larraín, Identity and Modernity in Latin America, Polity Press, Cambridge, 2000, pp.55-65.

[21] Carlo Batà, “La gestazione dell’idea di Nuestra América: José Martí in Messico (1875-1877)”, Nuestra América, tomo 1-2, 2007, p.41

[22] José Martí, “Carta a Valero Pujol, 27 noviembre de 1877”, op.cit., tomo VII, p. 110.

[23] Paul Estrade, José Martí: Los fundamentos de la democracia en Latinoamérica, Casa Velazquez, Madrid, 2000, p.226.

[24] José Victorino Lastarría, La América, Vanderhaeghen, Gante, 1867, p.210.

[25] Ibidem, p.455.

[26] Carlos Octavio Bunge, Nuestra América, Impr. Henrich, Barcellona, 1903, pp.60, 97.

[27] Ibidem, pp.100-110.

[28] C.O. Bunge, op.cit., p.15.

[29] Juan Bautista Alberdi, Bases y punto de partida para la organización política de la República Argentina, Impr. El Mercurio, Valparaiso, 1852, p.15.

[30] Vicente Fidel López, Historia de la República Argentina, Impr. Kraft, Buenos Aires, 1913, ed.or.1883-93, tomo I, p.IX.

[31] Juan Bautista Alberdi, op.cit., p.223. In questo passo Alberdi guarda con molta diffidenza gli sforzi di istruzione ed elevazione culturale rivolti agli indigeni. Glaciali le parole con cui considera quasi vani questi tentativi: “¿Creéis que un araucano [indigeni situati nell'attuale Cile] sea incapaz de aprender a leer y escribir castellano? ¿Y pensáis que con eso sólo deje de ser salvaje?”.

[32] Ibidem, p.83.

[33] Ibidem, p.86.

[34] Esteban Echeverría, La Cautiva, La Cultura Argentina, Buenos Aires, 1916, ed.or.1837, p.24.

[35] Ibidem, p.30.

[36] José Mármol, Amalia, Macmillan Co., New York, 1920, ed.or.1844.

[37] José Martí, “Los Indios”, op.cit., tomo VI, p. 327.

[38] Ibidem, p. 328.

[39] Ibidem, p. 327

[40] Lillian Guerra, The myth of José Martí: Conflicting Nationalisms in Early Twentieth-Century Cuba, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 2005, p. 33.

[41] Paul Estrade, op.cit., p.226.

[42] José Martí, “Los indios”, op.cit., tomo VI, p. 327.

[43] Ibidem, p. 328.

[44] José Martí, “El proyecto de instrucción pública”, op.cit., tomo VI, p. 351.

[45] Jorge Larraín, op.cit., pp.82-85.

[46] Ibidem, pp. 351-352.

[47] Pedro Pablo Rodríguez, “Benito Juárez in José Martí”, Nuestra América, vol. 2/3, p.30.

[48] José Martí, “Guatemala”, op.cit., tomo VII, p. 140.

[49] José Martí, “Escasez de trabajo”, op.cit., tomo VI, p.283.

[50] Rafael E. Tamargo, op.cit., p.238,

[51] José Martí, “El proyecto de la instrucción pública”, op.cit., tomo VI, p. 352.

[52] Gli “scienziati”, che rappresentavano l'élite culturale della società messicana furono proprio i primi complici del progressivo centralismo del potere politico nelle mani del solo Porfirio e della sua famiglia. La tiranía científica sosteneva l'impreparazione messicana nell'accedere ad una forma di governo democratico per questo si basava su una vasta riforma – pressoché infruttuosa – sociale ed economica imponendola militarmente. Non a caso Diaz era un generale dell'aesercito. Sulla questione della distruzione delle aspirazioni democratiche del Messico, si veda Jaime Suchlicki, Mexico: from Montezuma to the fall of the PRI, Brassey's, Dulles Virginia, 2001, pp. 98-104.

[53] Alvin M. Josephy, The Indian Heritage of America, Knopf, New York, 1968, p.5.

[54] José Martí, “El proyecto de la instrucción pública”, op.cit., tomo 6, p. 352.

[55] Carlo Batà, “La gestazione dell’idea di Nuestra América: José Martí in Messico (1875-1877)”, Nuestra América, tomo 1-2, 2007, p.41

[56] José Martí, “Cuaderno 4”, op.cit., tomo XXI, p. 156.

[57] José Martí, “Galas de año nuevo”, op.cit., tomo IX, p. 337.

[58] José Martí, “Correspondencia particolare de El Partido Liberal”, op.cit., tomo XII, p. 154.

[59] La Dichiarazione di Indipendenza americana (1776), il secondo capoverso contiene la seguente espressione: “We old these Truths to be self-evident, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty, and the pursuit of Happiness”.

[60] Ibidem, p.102.

[61] Cfr. Ferdinando Fasce, “Le frontiere del discorso storico. Rileggendo Jackson Turner”, Ácoma, n. 1, primavera 1994, pp. 40-48.

[62] Ray Allen Billington (a cura di), Frontier And Section Selected Essays Of Frederick Jackson Turner, Prentice Hall Inc., New York, 1961, p.38. Vi si legge: “In this advance the frontier is the outer edge of the wave – the meeting point between savagery and civilization” proprio per sottolineare il grande punto di frizione sociale, politico e culturale rappresentato dalla frontiera, intesa proprio come “muro” tra mondi sostanzialmente differenti.

[63] Susanna Delfino: “L’Ovest e la democrazia: verso una ricostruzione dell’esperienza storica statunitense”, Ácoma, n.6, inverno 1996, p.61.

[64] Cfr. John O'Sullivan, “Annexation”, United States Magazine and Democratic Review, n.1, luglio\agosto 1845, pp. 5-10

[65] Lo stesso Darwin, in The Descent of Mankind, aveva individuato negli americani il risultato di una selezione naturale, di una evoluzione della specie umana: “There is apparently much truth in the belief that the wonderful progress of the United States, as well as the character of the people, are the results of natural selection; for the more energetic, restless, and courageous men from all parts of Europe have emigrated during the last ten or twelve generations to that great country, and have there succeeded best” (C. Darwin, The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, London, John Murray, tomo 1, p. 179). Questa citazione, sebbene asettica, creò sicuramente un seguito abbastanza favorevole all'idea che negli Stati Uniti si fosse creata una razza superiore, quella anglosassone.

[66] Lauren L. Basson, White Enough to Be American? Race Mixing, Indigenous People and the Boundaries of State and Nation, The University of North Carolina Press, Chapel Hill, 2008, pp.21-23.

[67] Gary Gerstle, American Crucible: Race and Nation in the Twentieth Century, Princeton University Press, Princeton, 2002, pp.43-46.

[68] Ibidem, p.53.

[69] Jackson F. Turner, The Frontier in American History, Henry Holt and Company, New York, 1920, p.4.

[70] Gary Gerstle, “Theodore Roosevelt and the Divided Character of American Nationalism”, The Journal of American History, tomo 86, n. 3, dicembre 1999, p. 1283.

[71] Theodore Roosevelt, The Winning of the West, Putnam's, New York, 1896, ed.or. 1889, tomo I, p.12.

[72] Christine Bolt, American Indian Policy and American Reform, Routledge, Folerence, 1989, p.89.

[73] Cfr. Lewis Henry Morgan, Ancient Society. Researches in the Lines of Human Progress from Savagery, Through Barbarism to Civilization, C.H.Kerr, Chicago, 1877.

[74] J. Hector St. John de Crèvecoeur, Letters from an American Farmer, Dent, Londra, 1912, ed.or.1782, p.99. L'autore sottolieava in questo passo il ruolo della proprietà privata nel costruire un soggetto socio-economico utile al progresso dell'intera società: “By their honesty, the vigour of their arms, and the benignity of government, their condition will be greatly improved; they will be well clad, fat, possessed of that manly confidence which property confers; they will become useful citizens”.

[75] Jon Ewbank Manchip White, Everyday Life of the North American Indian, Holmes & Meier Publishers. New York, 1979, p.223.

[76] Ulysses S. Grant, Third Annual Message (4 December, 1871), Mille Centre of Public Affairs, University of Virginia su http://millercenter.org/scripps/archive/speeches/detail/3742. Il presidente affermò la volontà di evitare lo sterminio e di civilizzare le tribù indiane con il seguente passaggio: “The policy pursued toward the Indians has resulted favourably. through the exertions of the various societies of Christians to whom has been entrusted the execution of the policy, and the board of commissioners authorized by the law of April 10, 1869, many tribes of Indians have been induced to settle upon reservations, to cultivate the soil, to perform productive labor of various kinds, and to partially accept civilization. They are being cared for in such a way, it is hoped, as to induce those still pursuing their old habits of life to embrace the only opportunity which is left them to avoid extermination”.

[77] Thomas Bender, A Nation among Nations. America's Place in World History, Hill and Wang, New York, 2006, p.162.

[78] José Martí, “Movimiento general: estado de Garfield”, op.cit., tomo IX, p. 37.

[79] Jorge Camacho, “Etnografía, política y poder: José Martí y los indígenas norteamericanos”, KACIKE: The Journal of Caribbean Amerindian History and Anthropology (online edition), http://www.kacike.org/Camacho.html

[80] José Martí, “Los Indios de Norteamérica”, op.cit., tomo IX, p. 297.

[81] Ibidem.

[82] Christiane Bolt, op.cit., p.72.

[83] Ibidem, p.78.

[84] Frederick E. Hoxie, A Final Promise: The Campaign to Assimilate the Indians, 1880-1920, University of Nebraska Press, Lincoln, 2001, p.43.

[85] Ibidem, pp. 297-298.

[86] Occore notare come l'articolo Los Indios (1875), che si occupa principalmente di indios latinoamericni, e Los Indios de Norteamérica (1882), sebbene con qualche differenza di fondo, reiteravano entrambi l'adesione di queste popolazioni alla società e allo stato come unica forma di salvezza, come ultimo appello della storia per garantire loro una qualche forma di sopravvivenza. I pellerossa erano, agli occhi di Martí, un “carattere regressivo” della società statunitense e quindi ancora più esposti ad un eventuale sradicamento dal tessuto storico americano.

[87] Louise Michele Newman, White Women's Rights: The Racial Origins of Feminism in the United States, Oxford University Press, New York, 1999, p.117.

[88] Alessandra Lorini, “Alice Fletcher and the Search for Women's Public Recognition in Professionalizing American Anthropology”, Cromohs, 8 (2003), pp.1-25, http://www.cromohs.unifi.it/8_2003/lorini.html .

[89] Joan Mark, A Stranger in Her Native Land: Alice Fletcher and the American Indians, Chicago University Press, Chicago, 1988, pp-92-94.

[90] Ibidem.

[91] José Martí, “Los Indios de Norteamérica”, op.cit., tomo X, pp.326-327.

[92] José Martí, “Los Indios de Norteamérica”, tomo X, p.321

[93] Ibidem, p.322.

[94] José Martí, “Arte aborigen” op.cit., tomo VIII, p. 329.

[95] José Martí, “Los Indios de Norteamérica”, op.cit., tomo IX, p. 297.

[96] Nelson A. Miles, Serving the Republic: Memoirs of the Civil and Military Life of Nelson A. Miles, Harper & Brothers, New York, 1911, pp. 163-64.

[97] Nelson A. Miles, Personal Recollections and Observations of General Nelson A. Miles, Werner Company, Chicago, 1896, p. 339.

[98] Cfr. G.W. Baird, “General Miles's Indian Campaigns”, The Century, luglio 1891, p. 351.

[99] “Gen. Miles on the Indians”, New York Times, 27 settembre, 1885, p. 9.

[100] Ibidem.

[101] Ibidem.

[102] Cfr. Gustavo Enrique Mustelier, La extinción del negro :apuntes político sociales, Impr. de Rambla, Bouza y Ca., La Habana, 1912.

[103] Samuel J. Barrows (a cura di), Proceedings of the Sixth Annual Meeting of the Lake Mohonk Conference of Friends of Indian, Lake Mohonk Conference, New York, 1888, pp.13-14.

[104] José Martí, “Autores americanos aborígenes” op.cit., tomo 8, p. 335.

[105] Cfr. José Martí, “Mi raza”, op.cit., tomo 2, pp. 298-300.

[106] José Martí, “Autores americanos aborígenes”, op.cit., tomo 8, p. 334.

[107] Ibidem, p. 335.

[108] José Martí, “¡Magnífico espectáculo!”, op.cit., tomo XI, p.35, apparso per la prima volta su La Nación, Buenos Aires, 25 settembre 1886.

[109] José Martí, “Autores americanos aborígenes”, op.cit., tomo VIII, p. 336.

[110] Ibidem.

[111] José Martí, “México en los Estados Unidos. Sucesos referentes a México”, op.cit., tomo VII, p.56.

[112] Paul Estrade, op.cit., p.242.

[113] Helen Hunt Jackson, A Century of Dishonor: a Sketch of the United States Government's Dealings with some of the Indians Tribes, Roberts Bro., 1885 (ed.or., 1881), p.3.

[114] José Martí, “Los Indios en los Estados Unidos”, op.cit., tomo X, p.327.

[115] José Martí, “Los indios inquietos”, op.cit., tomo X, p.272.

[116] José Martí, “La Conferencia Monetaria de las Repúblicas de América”, op.cit., tomo VI, p.160.

[117] “El que maneja las bolas,\ el que sabe echar un pial\ o sentarse en un bagual\ sin miedo de que lo baje,\ entre los mesmos salvajes\ no puede pasarlo mal”. Cfr. José Hernández, El gaucho Martín Fierro, Impr. Bolivar, Buenos Aires, 1894, ed.or. 1872, p.34. In questo celeberrimo passo, l'incomprensione culturale tra la società borghese creola, con aspirazioni del tutto europeiste, e gli abitanti della pampa (i gauchos) vede nel ritorno alla natura e al contatto con il passato argentino l'unica salvezza per questi ultimi. Questa impostazione verrà poi stravolta dal “sequel” del romanzo, ovvero La vuelta de Martín Fierro (pubblicato cinque anni dopo, nel 1879), che presenterà una tematica opposta. Il Fierro, seccato dalla barbarie indigena, deciderà di tornare alla civiltà con la propria compagna.

[118] Clorinda Matto (de Turner), Aves sin nido, Stockcero, Buenos Aires, 2004, ed.or.1889, p.170.

[119] José Martí, “Los Indios en los Estados Unidos”, op.cit., tomo X, p.323.

[120] Jorge Camacho, op.cit. Il ricercatore cubano-americano sottolinea in più occasioni la superiorità della civilizzazione occidentale agli occhi di Martí, anche se comunque lontana dallo schietto razzismo positivista: “Esta estrategia, formulada con una visión eurocéntrica de la cultura, si bien no puede considerarse “racista,” sí proclamaba firmemente la superioridad de la civilización Occidental sobre la indígena”.

[121] Leyda Oquendo, “José Martí: apuntes sobre su antiracismo militante”, La Jiribilla, La Habana, n.367, pp.5-12.

[122] José Martí, “El presidio político en Cuba”, op.cit., tomo I, p.70.

[123] Susan Gillman, “Ramona in ‘Our America’”, in Jeffrey Belnap, Raúl Fernández, José Martí “Our America”. From National to Hemisferic Cultural Studies, Duke University Press, 1998, pp.91-92.

[124] José Martí, “Los Indios en los Estados Unidos”, op.cit., tomo X, pp.321-322.

[125] Alexis de Tocqueville, Democracy in America, J.&H. G. Langley, New York, 1841 (ed.or. 1831), tomo II, pp.26-27.

[126] Dorothy Ross, The Origins of American Social Science, Cambridge University Press, New York, 1991, pp.22-30.

[127] José Martí, “Mejoría de Garfield”, op.cit, tomo IX, p.27.

[128] José Martí, “De la inmigración incultas y sus peligros”, op.cit., tomo VIII, p.384.

[129] Rodolfo Sarracino, “Seppellire Martí?”, Nuestra América, n.1, 2007, p.104.

[130] Carlo Batà, José Martí. Il Maestro delle due Americhe, Achab, 2002, p.55.

[131] José Martí, “Correspondencia particular de El Partido Liberal, op.cit., tomo XII, p. 154.

[132] José Martí, “Cuaderno n.° 18”, op.cit., tomo XXI, p. 398.

[133] José Martí, “Cuaderno n.°1”, op.cit., tomo XXI, pp. 15-16.

[134] José Martí, “Los anglómanos”, op.cit., tomo X, p. 299.

[135] José Martí, “Fragmentos”, op.cit., tomo XXII , p. 28.

[136] José Martí, “Gobierno admirable de los cheroqueses”, op.cit., tomo X, pp.273-274.

[137] Sulla critica martiana all’economia americana di fine secolo cfr. Carlo Batà, op.cit., pp.61-70.

[138] José Martí, “Día de fiesta y día de trabajo”, op.cit., tomo XI, p.299.

[139] José Martí, “Los Indios de Norteamérica”, op.cit., tomo XIII, p.447.

[140] José Martí, “Cuaderno n°.1”, op.cit., tomo XXI, p. 16.

[141] José Martí, “Patria y Libertad (Un drama indio)”, op.cit., tomo XVIII, p.137.

[142] José Martí, “Los Indios en los Estados Unidos”, op.cit., tomo X, p.322.

[143] Cfr. José Gil Fortoul, Historia constitucional de Venezuela, Heyman, Berlino, 1907, tomo I, p.VII.

[144] Paul Spickard, Race and Nation: Ethnic Systems in the Modern World, Routledge, New York, 2005, pp.59-60.

[145] José Vasconcelos, La raza cósmica, Agencia Mundial de Librería, Barcellona, 1926, ed.or.1925, p.35.

[146] Ibidem, p.39.

[147] Ibidem, p.3

[148] Ibidem, pp.12-13.

[149] Paul Spickard, op.cit., pp.61-64.

[150] Roberto Fernández Retamar, Caliban and Other Essays, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1989, p.4.

[151] Roberto Fernández Retamar, “Calibán. Apunte sobre la historia de Nuestra América”, Calibán. Revista cubana de Pensamiento e Historia, n.1, 2008,

http://www.revistacaliban.cu/articulo.php?Button_DoSearch_x=0&Button_DoSearch_y=0&article_id=15&numero=1

[152] José Martí, “Los indios, los soldados y los agentes del gobierno en el territorio indio”, op.cit., tomo X, p. 287.

[153] José Martí, “Los Indios de Norteamérica”, op.cit., tomo IX, p. 297.

[154] José Martí, “Nuestra América”, op.cit., tomo VI, p. 17.

[155] Ibidem.

[156] Ibidem, p.22.

[157] Ibidem, p. 21.

[158] Ibidem, pp. 20-21.

[159] Juan Blanco, “Modernidad y metamodernidad en el Discurso de José Martí sobre el indigena”, A Parte Rei. Revista de Filosofía, vol.60, novembre 2008, p.3, http://serbal.pntic.mec.es/~cmunoz11/blanco60.pdf

[160] José Martí, “Nuestra América”, op.cit., tomo VI, pp.164-165.

[161] Juan Blanco, op.cit., p.27.