1. Diversamente da quanto saremmo portati a credere dalla lettura del titolo, la ricerca di Giovanni Paoletti, studioso accorto del pensiero di Benjamin Constant[1], non costituisce un nuovo contributo al dibattito storiografico sul liberalismo, bensì un lavoro originale sulle dicotomie concettuali che si incontrano nell’opera intellettuale del “suo” autore, dove il tema della libertà degli antichi rappresenta «une marque de la densité conceptuelle de sa pensée» (p. 14). È lo stesso Paoletti a palesarne lo scopo, sgombrando il campo da ogni tesi preconcetta, per muovere un’analisi a vasto raggio su una particolare vicenda redazionale che intorno a quel tema raccoglie, in un unico corpus, il libro XVI dei Principes de politique (1806), i capitoli VII e VIII, parte II, dell’Ésprit de conquête (1814) e il celebre Discours de la liberté des anciens comparée à celle des modernes, pronunciato nel 1819 e pubblicato l’anno successivo. Precisiamo subito che l’impianto del volume appare oltremodo articolato e il ragionamento, dato il forte intreccio tematico, risulta non sempre agevole da seguire, tanto che – a nostro dire – solo schematicamente è possibile distinguere una prima parte dedicata al modello di libertà degli antichi (Imiter les Anciens?), da una seconda parte, maggiormente innovativa, indirizzata a capire in che modo Constant se ne sia servito (Etudier les Anciens) per fondare una filosofia politica sulla quale gli studiosi ancora oggi si interrogano. Nella nostra nota discuteremo perciò i nessi problematici che Paoletti affronta di volta in volta nel corso della sua riflessione, tenendo presente che, nella produzione teorica constantiana, «la revendication libérale des droits de l’individu cohabite avec une conception démocratique du subjet politique; que le vrai ennemi de la liberté est à ses yeux la cristallisation de l’inégalité sociale; qu’il ne saurait pas y avoir de liberté civile sans liberté politique» (p. 12).
2. Punto di partenza
obbligato, il problema dell’imitazione dei Greci e dei Romani
a seguito
della scelta di Robespierre di assumere a modello le antiche
istituzioni
repubblicane. Un problema a lungo dibattuto durante il XIX secolo (a
partire da
Volney, sino a Marx e oltre), poi assurto a materia propria del
cosiddetto
classicismo rivoluzionario, divenendo l’oggetto di un campo
di studi sulla
Rivoluzione francese dove Benjamin Constant risulta essere, al
contempo, uno dei
principali interpreti e uno dei più accesi
critici[2]. Secondo
Paoletti,
però, nel caso di Constant non si può parlare di
classicismo
rivoluzionario, essendo del tutto atipica la sua valutazione
dell’evento,
rispetto al quale il tema degli antichi è legato a doppio
nodo e ne
evidenzia la sua «spécificité
théorique» (p.
101). Infatti, il confronto concettuale (o metadiscorso) fra la
libertà
degli antichi – intesa quale partecipazione attiva e costante
al potere
collettivo – e la libertà dei moderni –
concepita in termini
di godimento pacifico dell’indipendenza privata –
serviva a Constant
per comprendere contraddizioni e mali emersi dalla traumatica
esperienza
rivoluzionaria, di cui, da un lato, accoglieva i principi (positivi)
dell’Ottantanove, mentre, dall’altro, rigettava il
periodo giacobino
quale momento storico negativo che tuttavia, almeno nelle intenzioni,
aveva
perseguito un fine nobile e generoso.
A differenza di altri pensatori suoi
contemporanei, come ad esempio Necker o M.me de Staël, nella
sua personale
lettura, i giacobini furono spinti dall’idea di poter
superare
l’oppressione di governi abusivi e miserabili attraverso
l’ampliamento delle libertà civili; ma, non
sapendo tradurre i loro
intendimenti in un giusto e praticabile percorso di liberazione, essi
finirono
con il restringere le già ridotte libertà
politiche e restare
così prigionieri di un’illusione. Afferma lo
studioso al riguardo:
«Constant, en effet, tout en exprimant sa ferme critique de
tout projet
d’application intégrale des institutions anciennes
à un Etat
moderne et dévoilant ainsi de
l’extérieur l’illusion
du classicisme des Jacobins, va en même temps à la
recherche de ce
qu’on pourrait appeler les raisons de
cette même
illusion» (p. 96, corsivo nel testo).
La sfasatura temporale nella
quale il filosofo si ritrovava a parlare delle vicende rivoluzionarie
aveva
fatto sì che i giacobini non potessero più essere
il principale
obiettivo polemico, ora semmai incarnato dalla figura di Napoleone
Bonaparte, e
che il tema centrale del suo discorso fosse a questo punto
l’oppressione
politica della quale la dittatura giacobina non costituiva che una
delle
possibili istanze. Con il suo ragionamento, focalizzato sul tema
dell’illusione politica, Constant confrontava antichi e
moderni, rilevando
una costante della realtà comune alle diverse epoche
storiche. Il che
significava «faire passer un thème initialement
polémique et
(au moins en partie) lié aux circonstances, comme la
critique du
classicisme révolutionnaire, sur le plan plus
général de la
philosophie politique, et en même temps conférer
à la
récurrence de l’illusion en politique un statut
d’universalité et de
nécessité irréductible au
statut certes plus rassurant d’un faux pas contingent et
minoritaire de la
raison» (p. 106).
3. Sul tema dell’imitazione giacobina,
Giovanni Paoletti offre – e per questo vale la pena di
illustrarlo almeno
brevemente – un interessante raffronto teorico con Karl Marx,
la cui
analisi del classicismo rivoluzionario, presente in particolare nella Sacra famiglia (1845) e nel 18 Brumaio di Luigi
Napoleone (1852),
è la più ricca dopo quella constantiana.
In entrambe le
opere, il filosofo tedesco indicava l’errore del classicismo,
da un lato,
in un’arbitraria identificazione tra epoche storiche diverse
e forme di
produzione antitetiche (il governo democratico della
comunità antica si
basa sulla schiavitù, mentre lo Stato moderno poggia su una
forma
emancipata di schiavitù definita società civile);
dall’altro, in una rappresentazione idealistica
dell’uomo che in
epoca moderna non poteva tradursi in realtà. Come spiega
Paoletti, per
Marx «la cité antique est démocratique
d’une
manière réaliste parce qu’elle
distribue sans mystifier
citoyens et esclaves en deux univers contradictoires, mais clairement
distincts
et fermés sur eux-mêmes: celui de la politique et
de la
liberté, et celui de l’activité
productive et du manque de
liberté. Pour reprendre les mots de Rousseau, le citoyen y
est
“parfaitement libre”, l’esclave
“extrêmement
esclave”. La constitution de l’Etat moderne, au
contraire, est
“spirituelle”, c’est-à-dire
mystificatrice, dans la
mesure où elle cache, sous le voile du libre contrat e de
l’égalité juridico-politique, la
scission réelle
entre propriétaires et salariés, elle fait passer
l’intérêt de quelques-uns pour le bien
de tous» (p.
111).
L’errore dei moderni imitatori degli antichi non posava
dunque
per Marx sullo scambio – come in Constant – tra la
libertà
nella concezione degli antichi e la libertà nella concezione
dei moderni;
riguardava piuttosto il concetto di democrazia e il rapporto di questa
con il
tema della schiavitù. La nozione di classicismo
rivoluzionario in lui era
perciò dilatata e comprendeva, oltre alla fase giacobina,
anche il
momento Danton-Desmoulins e quello Napoleone. Infatti, diversamente da
Constant,
Marx guardava alla «fonctionnalité
particulière de
l’imitation des anciens dans la dynamique des
révolutions modernes,
dont les protagonistes, anglais et français, furent
obligés de
cacher, sous le voile de l’héroïsme et
des idéaux, le
processus historique peu héroïque et
très réel de
l’instauration de la société
bourgeoise» (p. 115).
Liberarsi dal «travestissement à
l’ancienne» (p. 116),
ossia dall’illusione del classicismo di cui si era alimentata
non solo
l’ideologia giacobina, ma anche l’ideologia
liberale à la Say-Cousin-Guizot e
Constant, significava determinare la possibilità storica di
una
liberazione dall’illusione, significava proiettarsi verso un
futuro non
oppressivo.
Ciò non toglie che tra i due pensatori ci fossero molte
similarità di analisi, peraltro ben rilevate dallo studioso:
«le
trait de ressemblance le plus pertinent pour notre reconstruction
historique
– spiega Paoletti – concerne le statut
épistémologique
que Marx et Constant assignent à l’illusion
jacobine.
L’articulation de leurs analyses en deux passages
(comparaison entre les
anciens et les modernes; explication de la tendance à
l’imitation),
correspond notamment à la distinction entre
l’objet et le processus de l’illusion»
(p. 118). Entrambi
compresero che
l’illusione degli antichi definita nel classicismo
rivoluzionario era
un’auto-illusione e non una frode politica: sebbene Constant
non avesse
dato valutazione morale a giustificazione del Terrore a partire dalle
“buone intenzioni” (individuava invece un senso
soggettivo
dell’illusione, per cui la sensatezza di
un’illusione poteva essere
svincolata dal valore di verità del suo oggetto), mentre
Marx procedesse
su una lettura dell’illusione non-intenzionale (indicava
cioè un
senso oggettivo dell’illusione, per il quale il senso storico
era
esattamente l’opposto di quello che tesero dargli i suoi
protagonisti). Un
cambio di prospettiva, quello di Marx, che radicalizzava la posizione
di
Constant attraverso l’assunzione del punto di vista di un
osservatore
esterno.
4. Il quadro concettuale constantiano fin qui emerso era già in gran parte presente nei pamphlets giovanili, in particolare nel Des réactions politiques (1797)[3], dove il filosofo, ci ricorda Paoletti, indicava altre vittime dell’illusione politica: «la “métaphysique figurée” de Lezay-Marnésia, les gouvernements fondés sur la superstition religieuse [...], mais surtout les réactionnaires comme La Harpe, “êtres d’un jour” qui ne peuvent espérer ralentir le cours de l’histoire, qu’avec l’apparence vide de la tromperie» (p. 124). L’illusione politica corrisponderebbe in tali casi all’«arbitraire», categoria che comprende sia il potere illegittimo e illimitato (cioè non fondato sulla sovranità popolare e privo del diritto), sia il potere fondato sulla forza o sull’apparenza del consenso. E, dal momento che in base a questa seconda accezione, l’arbitrio starebbe nel porre a regole della politica interessi particolari, pregiudizi e passioni, il dispotismo non rappresenterebbe più una forma legittima di governo, bensì potere arbitrario per antonomasia, in quanto nato da una determinata configurazione istituzionale indipendente dalla volontà del despota. A ciò si aggiunga che, venendo esercitato nella società, tale arbitrio-illusione produrrebbe una generale ineguaglianza derivante sostanzialmente dalla passiva accettazione di un mondo che si prende così com’è semplicemente perché ci si è nati e vissuti (processo di «naturalisation» che distrugge la libertà). Dunque, dalla composizione di arbitrio-illusione e illusione-naturalizzazione, scaturiva per Constant una tipologia specifica di oppressione caratteristica del suo tempo, che si manifestava nella illusione di legittimità (un potere apparentemente legittimo ma in realtà arbitrario), vale a dire nella ricerca del consenso popolare al dominio dispotico del governo, tanto più pesante quanto più i cittadini si ritirano nella propria sfera privata. Da qui, la sua esigenza di ripensare la semantica tradizionale della categoria di dispotismo, rispetto alla quale il principale termine di confronto corrispondeva al concetto di dispotismo orientale elaborato da Montesquieu[4]. Constant, partendo dalla teorica montequieuiana del dispotismo, distingueva due tipologie di potere dispotico: una diretta, palese, tirannica, che usa in modo esplicito la forza ed esercita l’oppressione apertamente, senza curarsi dei diritti individuali perché non ha bisogno dell’assenso dei sudditi per opprimerli; l’altra invece indiretta, occulta, che può essere investita del consenso popolare per via rappresentativa e che si avvale del sostegno (vero o apparente) della volontà generale per esercitare un’autorità illimitata. Siamo di fronte a una forma di potere rispetto alla quale la semplice divisione dei poteri non mette affatto al riparo dal dispotismo, dato che nella realtà storica potere legislativo e potere esecutivo spesso si sono coalizzati amplificando l’abuso e dando origine a un dispotismo irreparabile: «Vous aurez beau diviser les pouvoirs: si la somme totale du pouvoir est illimitée, les pouvoirs divisés n’ont qu’à former une coalition, et les dispotisme est sans remèdes»[5]. È un dispotismo che Constant chiamava «superlatif», per quel surplus di oppressione che lo caratterizza dal momento che accampa pretese di legittimità[6]. Con esso, infatti, il ripiegamento nella sfera privata dei cittadini comporta un avvilimento delle intelligenze umane e un ritorno allo stato di minorità che dà ulteriore forza al dispotismo occulto in quanto priva i cittadini del loro primo mezzo di liberazione dall’oppressione. Spiega Paoletti: «Tout comme le gouvernement fondé sur la force ou la monarchie traditionnelle – le despotisme “ancien”, qui opprimait “dans la calme, en détail, sans bruit, sans secousses” – le despotisme indirect ne tolère pas la voix des opposants. Il a besoin de “déserts intellectuels” comme le despotisme oriental a besoin de déserts géographyques. Mais le silence réel est troublé dans son cas par une “apparence de l’esprit publique”, le mutisme des gouvernés voilé par les déclamations des assemblées, par les acclamations des plébiscites, par les proclamations de ce qu’on appellerait aujourd’hui la presse du pouvoir en place. Si la tyrannie n’arrive pas à étouffer dans l’opinion tout principe de résistance, sous un despotisme de ce genre, au contraire, “on souffre et l’on remercie”. Celui-ci paraît donc voué à une dégradation désastreuse, qui risque de reproduire en Occident les ruines d’Egypte [...]. C’est sur cette base que le despotisme indirect, loin de n’être qu’une prérogative de la France sous Bonaparte, apparaît aux yeux de Constant comme une présence permanente dans l’histoire de la nation de 1789 à la Restauration» (pp. 157-159). Si trattava di un dispotismo che Paoletti qualifica come dispotismo dei moderni: legato alla definizione montesquieuiana del dispotismo orientale, se ne differenzia nel rapporto con le forme legali del potere in quanto dipendente da un nuovo concetto di libertà. Non solo, come in Montesquieu (e in Rousseau), libertà nelle leggi, ma anche libertà dalle leggi: nozione più ricca di libertà, propria della concezione liberale che vuole l’individuo indipendente almeno nella sua sfera privata.
5. Ma vediamo allora in che modo, secondo Paoletti, Constant
pensava possibile superare tale forma di oppressione. La soluzione al
quesito
era individuata nel passaggio dall’illusione alla
disillusione, meccanismo
che poteva attuarsi spontaneamente, attraverso l’evidenza dei
fatti (la
verità prima o poi riemerge e trionfa), oppure
soggettivamente, per mezzo
di uno sforzo individuale di liberazione volontaria dal proprio stato
di
minorità, dalla propria illusione. Ed era qui che si
consumava il
confronto con la rousseauiana concezione della libertà, che
per Constant,
pur vera in linea teorica, assumeva effetti deleteri nella pratica,
come aveva
peraltro dimostrato l’erronea imitazione degli antichi nella
quale
incorsero i rivoluzionari francesi e, in specie, i giacobini.
Recuperando
l’idea di volontà generale alla base della teoria
rousseauiana
della sovranità, Constant rigettava il concetto di
«aliénation totale» dei diritti dei
singoli che assegnava
all’autorità un potere illimitato. Per lui,
invece, il potere
doveva poggiare sempre su due criteri
di
legittimità: essere emanazione della
volontà generale e,
soprattutto, essere limitato. La limitatezza era, anzi, la condizione
dell’esercizio del potere. Viceversa, l’alienazione
totale
prospettata da Rousseau, nell’attribuire al potere carattere
di
assolutezza, finiva per degradare la volontà generale a
volontà
dei singoli governanti, annullando l’universale nel
particolare. Il
Ginevrino aveva quindi commesso un errore di astrattezza, frutto di
un’impropria articolazione del rapporto teoria-prassi.
Constant, tuttavia,
gli attribuiva anche quel che possiamo indicare come “difetto
di
teoria”: Rousseau aveva mancato di arricchire teoreticamente
lo stesso
concetto di volontà generale, il cui nodo intrinseco era
rappresentato
dal nesso antinomico interessi-opinione.
«Il y a – scriveva
Constant – cette différence entre les
intérêts et les
opinions, d’abord qu’on cache les uns et
qu’on montre les
autres, parce que ceux-là divisent et que celles-ci
rallient;
secondement, que les intérêts varient dans chaque
individu suivant
sa situation, ses goûts, ses circonstances, au lieu que les
opinions sont
les mêmes ou
paraissent telles dans tous ceux qui agissent ensemble; enfin, que chacun ne peut diriger
que soi
par le calcul de ses intérêts et que,
lorsqu’il veut engager
les autres à le seconder, il est obligé de leur
présenter
une opinion qui leur
fasse illusion sur ses véritables vues»[7]. Ineluttabilmente
radicati nel
particolare, gli interessi impedivano di creare un vero consenso delle
opinioni
senza fare a meno di generare l’illusione. La
volontà generale di
Rousseau altro non era quindi che un’opinione apparentemente
unica e
oggettiva, ma in realtà composta dalla somma di interessi
singoli
mascherati dalla parvenza di un solo volere. Cosicché, per
evitare ogni
possibile fraintendimento tra interessi dei singoli e opinione, tra
volontà di tutti e volontà generale, tra
particolare e universale,
occorreva agire inserendovi un principio intermedio.
«C’est ce que
– chiosa Paoletti – nous avons appelé
une solution
subjectiviste au problème de l’illusion»
(p. 196). A questo
punto, lo studioso torna sul tema dell’imitazione degli
antichi e, alla
luce del rapporto tra universale e particolare, lo analizza al fine di
verificare in che modo, nel pensiero constantiano, avrebbero dovuto
funzionare i
due criteri di legittimità del potere sopra richiamati.
6. Si
è già detto come illusoria fosse per Constant la
pretesa che
interessi e opinioni, nonostante le intrinseche differenze, potessero
essere
«immédiatement commensurables et compatibles entre
eux» (p.
254). Una pretesa che aveva portato i giacobini a imporre le ragioni
dell’universale senza tener conto degli interessi
individuali, creando
un’illusione specularmente opposta a quella rousseauiana, che
invece
prendeva forma dalla affermazione della libertà (moderna)
dei singoli e
dei loro interessi privati, non curandosi del potere pubblico.
Ecco allora
che, nella visione constantiana, dalla stessa modalità di
esercizio del
potere (o della libertà) emergeva la risposta contro il
pericolo di
generare l’illusione e di cadere nel «despotisme
indirect» dei
moderni. Infatti, se la pratica del potere nell’Atene del V
secolo come
nella Roma repubblicana valeva solo quale esempio di pratica della
libertà che non poteva essere sperimentata nel mondo
moderno, in epoca
moderna anche le sue due più importanti innovazioni
politiche, quali la
divisione dei poteri e l’istituto della rappresentanza, non
offrivano
sufficienti garanzie di libertà senza che, da un lato,
insieme alla
rappresentanza del potere prendessero vigore altre espressioni della
sovranità popolare, dall’altro, si rispettasse il
principio della
limitazione dei poteri.
Per quanto concerne il primo criterio, la
libertà di stampa, la vigilanza attiva e costante dei
cittadini
sull’operato dei rappresentanti, nonché la difesa
delle
libertà da parte degli stessi rappresentanti e la mediazione
che questi
devono esercitare tra interessi particolari e interessi generali,
costituivano
per il filosofo ulteriori e importanti forme di esercizio della
libertà
politica entro cui si sviluppava la libertà civile dei
moderni; forme di
esercizio della libertà che impedivano al corpo politico di
cadere in
derive dispotiche. Era la ragione per la quale «le choix des
représentants doit partir du bas,
c’est-à-dire du peuple,
aussi bien comme première initiative (proposition des
candidats), que
comme choix définitif. Le système
représentatif doit
être fondé sur une élection direct et
populaire,
c’est-à-dire sur un acte de liberté
politique par
excellence, sans lequel la représentation [...] risque
d’entrer
dans le nombre des illusions politique» (p. 268). Insomma,
secondo
Constant, «sans l’élection populaire, le
système
représentatif n’est que parodie
misérable ou despotisme
argumentateur»[8];
di conseguenza, le
deliberazioni dei rappresentanti erano la necessaria mediazione
(«transaction»[9])
tra interessi e
opinioni, tra particolare e generale. Come sottolinea Paoletti,
«garantissant la transaction entre universel et particulier,
les
représentants, médiateurs des
intérêts des citoyens,
sont en même temps les défenseurs des leures
libertés»
(p. 270). Ciò
che Constant
proponeva allora quale soluzione contro l’illusione era il
processo stesso
della mediazione, la «transaction» alla
disillusione. Essa
rappresentava infatti il mezzo più adeguato a realizzare un
sistema
politico fondato sulla legge e insieme connesso alla
pluralità e alla
diversità delle sue componenti. Inoltre, la
«transaction»
simboleggiava un potere terzo, posto a garanzia della separazione di
legislativo
ed esecutivo, strumento altresì valido a evitare tanto il
dispotismo
delle fazioni quanto il «dispotismo cavillatore»
sopra citato, che per
il filosofo costituiva il problema politico più grave del
suo
tempo.
La sua nota riflessione sul potere neutro, la cui capacità
di
giudicare gli atti (il particolare) e non
l’autorità
(l’universale) serviva a eliminare le illusioni, si innestava
dunque qui,
dove il paragone tra la libertà degli antichi e quella dei
moderni
prescriveva una nuova definizione di libertà come limite.
Paoletti ce lo
spiega bene, riprendendo la distinzione esistente nel pensiero
constantiano fra
libertà negativa e libertà positiva. Quelle due
libertà non
erano affatto trattate da Constant come alternative l’una
all’altra:
esse erano bensì complementari, poiché
nell’ambito della
vita associata, la prima definisce l’azione del singolo
individuo privato
entro la dimensione normativa (libertà di fare
ciò che le leggi
non proibiscono), mentre la seconda tiene conto
dell’individuo come
cittadino, dunque attiene alla sua volontà di obbedire alla
legge che
egli stesso si è prescritto. Pertanto, per Constant,
«si les lois
ont pour but de garantir la liberté et si la
liberté est absence
de lois, il faut dire que les lois doivent garantir un espace
où elles
seraient elles-mêmes absentes,
c’est-à-dire qu’elles
doivent être sujettes à un principe de limitation
qui les
empêche d’étendre
démesurément leur propre
juridiction» (p. 323). Ma a cosa corrispondeva tale principio
di
limitazione? Alla sfera dell’esistenza individuale che
rimaneva di diritto
«hors de toute compétence
sociale»[10].
Constant completava
perciò in questo modo la definizione di Montesquieu,
affermando che
«la liberté n’est autre chose que ce que
les individus ont le
droit de faire, et ce que la société
n’a pas celui
d’empêcher»[11]. D’altra
parte, in base allo stesso ragionamento, anche il principio
rousseauiano della
sovranità popolare risultava meglio definito proprio grazie
alla
precisazione che la sovranità aveva un limite. Il
rapporto esistente entro
il pensiero constantiano tra le due libertà, da tempo
oggetto di
riflessione storiografica, dimostra a Paoletti come, per Constant, la
libertà positiva fosse al contempo garanzia fattuale della
negativa
– servisse cioè a stabilire il limite del potere,
a contrastare
l’oppressione che può realizzarsi anche
«decorée du nom
de loi»[12] –, e condizione
necessaria. La libertà positiva (o politica) permetterebbe
infatti di
superare il paradosso dello schiavo contento (o della
servitù
volontaria), e di godere pacificamente dell’indifferenza
privata. Del
resto, come insegnavano già gli antichi, che pure non
conoscevano la
libertà negativa (o individuale), la libertà
«peut seule
faire des hommes, toutes les facultés de l’esprit,
toutes les
ressources du talent et du génie, ne se
développent
qu’à l’ombre de la
liberté»[13].
7. Paoletti passa a
questo punto a indagare il problema della servitù volontaria
«que
l’histoire de son temps posait à Constant:
l’oppression
sanctionnée par les symptôme du consensus, une
nation
fatiguée par les convulsions de la liberté et
incline à
croire “que le joug des tyrans seroit
préferable”, la
promesse du bonheur contenue dans le calme des jouissances
privées»
(p. 333). Il filosofo, seguendo ancora la lezione di Montesquieu,
affrontava
questo problema nella sua concretezza storica. Nella realtà,
diceva, la
servitù volontaria può coesistere con
l’istinto della
libertà. Dunque il tema doveva essere indagato al livello
contingente
della realtà politica, dove invece, notoriamente, chi ha
conosciuto la
libertà non può mai rassegnarsi alla
schiavitù. Pertanto,
l’esperienza della libertà corrispondeva per
Constant ai principi
già ricordati della libertà stessa:
sovranità popolare,
limitazione del potere e modalità di esercizio della
deliberazione.
Tuttavia, il tema della servitù volontaria chiamava in causa
l’altro ambito della riflessione constantiana fin qui solo
enunciato da
Paoletti, quello religioso: anch’esso storicamente guardato
da Constant
attraverso l’analisi del rapporto tra credenze e
libertà, o meglio
tra sentimento religioso – che permette all’uomo di
agire in base a
moventi non egoistici – e libertà.
L’oppressione proveniva in
questo caso dalla religione sacerdotale che tiene l’uomo
sottomesso
(dispotismo indiretto): l’alienazione del credente era
pertanto pari
all’illusione in politica.
In quest’ultima parte della sua
ricerca, Paoletti segue dunque il ragionamento storico constantiano
relativo
allo sviluppo delle forme di religione nel corso delle epoche,
soffermandosi in
particolare sul rapporto politeismo-teismo, e individua nella linea di
sviluppo
delle religioni così proposta una «heureuse
exception»: quella
della religione non sacerdotale, perciò indipendente,
dell’età moderna – che Constant definiva
epoca delle
«conventions légales» –, nella
quale tale religione non
sacerdotale era passata dal feticismo primigenio al politeismo greco e
quindi al
romano, per sopravvivere, attraverso la mediazione del teismo mosaico,
nel
cristianesimo. Di contro, Constant assimilava il dispotismo alle
religioni
sacerdotali, che «à partir d’un ensemble
de croyances qui a
surgi spontanéament, le sacerdoce consacre et rende
l’inégalité immoble. Il
élève
l’oppression et l’arbitraire au rang de normes
exclusives des liens
sociaux. Il convertit à son avantage non seulement les
faveurs du climat,
qui permettent un régime économique agricole et
pacifique, mais
aussi les phénomenes irréguliers de la nature, et
les grandes
calamités politique – le “mal
morale” de la tradition
(faim, peste, guerre)» (p. 357).
Recuperando le categorie
montesquieuiane, nel suo pensiero il dispotismo teocratico instaurato
dal
politeismo sacerdotale assumeva i tratti propri del dispotismo
orientale:
immobilità e sottomissione volontaria. Il suo superamento
era dato in
Occidente dalla combinazione di sentimento religioso e
libertà politica.
Scriveva Constant nel suo De
la
religion (1824-1831): «Persuadons-nous bien que
ce n’est point
l’absence de la religion, mais sa présence avec la
liberté
politique et religieuse qu’il fait invoquer comme la source
unique de tous
les progrès intellectuels, aussi bien que de toutes les
vertus»[14]. Il
divenire storico non
perdeva il suo carattere conflittuale. La modernità appariva
perciò segnata dal rapporto conflittuale tra
libertà e
servitù volontaria e non poteva sfuggire al dispotismo senza
fare ricorso
a quello che ora Constant chiamava “sentimento
religioso”, mentre in
altre opere aveva definito “resistenza alla
coercizione”. Ed era qui
che stava, in sostanza, l’esemplarità storica,
ossia la
“felice eccezione” della libertà degli
antichi Greci e
Romani, per i quali, osserva Paoletti, il politeismo
comportò un vero e
proprio perfezionamento morale, dato che la pluralità degli
dèi e
la loro litigiosità garantiva l’assenza di un
potere onnipotente e
di una volontà unanime. Il che, sul piano politico,
permetteva la
possibilità di deliberazioni razionali, esito del giudizio e
della
transazione fra interessi e opinioni.
Dopo aver confrontato esperienza
greca ed esperienza romana, Paoletti ci mostra come
quest’ultima
costituisse comunque un’eccezione un po’ meno
felice di quella del
modello politeismo-libertà attribuito da Constant alla
vicenda greca.
Nella Roma repubblicana il potere sacerdotale era ben presente, ed
erose a poco
a poco la libertà portando alla caduta della repubblica,
permettendo, in
un certo senso, il passaggio storico al teismo. Infatti, se
l’idea di un
Dio unico sembra capace di fondare l’unità del
reale, nel momento
in cui la libertà scompare sotto il potere sacerdotale, essa
scompare
completamente. Ecco perché diventava necessario sciogliere
l’amalgama di religione, politica e morale, separare
cioè la
religione dalla politica, lasciando certo senza risposta il problema
del male,
ma impedendo altresì che l’«illusion
secourable», ovvero
la promessa della provvidenza, potesse cedere «à
l’illusion
politique du dispotisme» (p. 410). Contro il male, contro le
illusioni,
Constant richiamava dunque all’esercizio di una
razionalità
disvelante, l’unico strumento valido affinché la
volontà di
libertà e di uguaglianza degli uomini, la
perfettibilità della
specie, da possibile diventasse reale.
[1] Tra i molti saggi di Giovanni Paoletti dedicati al pensiero constantiano si ricordano: Illusioni e libertà. Benjamin Constant e gli Antichi, Roma, Carocci, 2001; Benjamin Constant e il “dispotismo dei moderni”, in Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico (2 tt.), a cura di D. Felice, Napoli, Liguori, 20042, t. II, pp. 439-462; e La libertà, la politica e la storia. Presenze di Montesquieu nell’opera di Benjamin Constant, in Montesquieu e i suoi interpreti (2 tt.), a cura di D. Felice, Pisa, Ets, 2005, t. I, pp. 479-504. Lo studioso ha inoltre curato in edizione italiana l’opera più famosa di Benjamin Constant, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819): cfr. Id., La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, traduzione e cura di G. Paoletti, con un «Profilo del liberalismo» di P.P. Portinaro, Torino, Einaudi, 2001.
[2] Paoletti ne discute diffusamente nella Partie I, Ch. I: Le vertige du passé, pp. 19-122.
[3] Cfr., in trad. it. a cura di S. Manzoni, Le reazioni politiche, in I. Kant - B. Constant, La verità e la menzogna, Milano, Mondadori, 1996, pp. 155-230.
[4] Per un approfondimento su questo punto, cfr. i saggi di Paoletti ricordati qui alla nota 1. Più in generale, sul problema del dispotismo si rimanda al citato volume collettaneo curato da Domenico Felice, Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico (cfr. ancora la nota 1); mentre per il concetto di dispotismo in Montesquieu, si veda in particolare D. Felice, Oppressione e libertà. Filosofia e anatomia del dispotismo nel pensiero di Montesquieu, Pisa, Ets, 2000.
[5] B. Constant, Principes de politique applicables à tous les gouvernements (1806-1810). Si cita da Paoletti, p. 150.
[6] Cfr. ibid., p. 153: «Les institutions prétendues libres, qui se servent des moyens du despotisme, réunissent tous les malheurs d’une monarchie opprimée par un tyran et tous ceux d’une république déchirée par des factions». Il paradosso che ne segue è che spesso, quei governanti che esercitano tale oppressione occulta, lo fanno in buona fede, credono cioè di farlo nell’interesse di tutti e in nome della giustizia. In tal caso si deve parlare di auto-inganno o auto-illusione, mentre di fronte all’utilizzo consapevole del potere occulto, di frode o inganno politico.
[7] Ancora Constant, Principes de politique, in Paoletti, p. 188.
[8] B. Constant, Fragments d’un ouvrage abandonné sur la possibilité d’une constitution républicaine dans un grand pays (1803-1810). Si cita da Paoletti, p. 268.
[9] Cfr. Constant, Principes de politique: «Qu’est-ce que l’intérêt général, sinon la transaction qui s’opère entre tous les intérêts particuliers?», in Paoletti, p. 269.
[10] Ibid., pp. 323-324.
[11] Ibid., p. 324.
[12] Ibid., p. 327.
[13] B. Constant, De la liberté des anciens comparé à celle des modernes. Discours prononcé à l’Athenée Royal de Paris en 1819 (1820). Si cita da Paoletti, p. 330.
[14] B. Constant, De la religion, considérée dans sa source, ses formes et ses développements (1824-1831). Si cita da Paoletti, p. 360.