Giovanni Paoletti, Benjamin Constant et les Anciens. Politique, religion, histoire 
Traduction de Marie-France Merger, revue par l’auteur, Paris, Honoré Champion Éditeur, 2006 [ISBN 2-7453-1560-9]

Cristina Passetti
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

1. Diversamente da quanto saremmo portati a credere dalla lettura del titolo, la ricerca di Giovanni Paoletti, studioso accorto del pensiero di Benjamin Constant[1], non costituisce un nuovo contributo al dibattito storiografico sul liberalismo, bensì un lavoro originale sulle dicotomie concettuali che si incontrano nell’opera intellettuale del “suo” autore, dove il tema della libertà degli antichi rappresenta «une marque de la densité conceptuelle de sa pensée» (p. 14). È lo stesso Paoletti a palesarne lo scopo, sgombrando il campo da ogni tesi preconcetta, per muovere un’analisi a vasto raggio su una particolare vicenda redazionale che intorno a quel tema raccoglie, in un unico corpus, il libro XVI dei Principes de politique (1806), i capitoli VII e VIII, parte II, dell’Ésprit de conquête (1814) e il celebre Discours de la liberté des anciens comparée à celle des modernes, pronunciato nel 1819 e pubblicato l’anno successivo. Precisiamo subito che l’impianto del volume appare oltremodo articolato e il ragionamento, dato il forte intreccio tematico, risulta non sempre agevole da seguire, tanto che – a nostro dire – solo schematicamente è possibile distinguere una prima parte dedicata al modello di libertà degli antichi (Imiter les Anciens?), da una seconda parte, maggiormente innovativa, indirizzata a capire in che modo Constant se ne sia servito (Etudier les Anciens) per fondare una filosofia politica sulla quale gli studiosi ancora oggi si interrogano. Nella nostra nota discuteremo perciò i nessi problematici che Paoletti affronta di volta in volta nel corso della sua riflessione, tenendo presente che, nella produzione teorica constantiana, «la revendication libérale des droits de l’individu cohabite avec une conception démocratique du subjet politique; que le vrai ennemi de la liberté est à ses yeux la cristallisation de l’inégalité sociale; qu’il ne saurait pas y avoir de liberté civile sans liberté politique» (p. 12).

2. Punto di partenza obbligato, il problema dell’imitazione dei Greci e dei Romani a seguito della scelta di Robespierre di assumere a modello le antiche istituzioni repubblicane. Un problema a lungo dibattuto durante il XIX secolo (a partire da Volney, sino a Marx e oltre), poi assurto a materia propria del cosiddetto classicismo rivoluzionario, divenendo l’oggetto di un campo di studi sulla Rivoluzione francese dove Benjamin Constant risulta essere, al contempo, uno dei principali interpreti e uno dei più accesi critici[2]. Secondo Paoletti, però, nel caso di Constant non si può parlare di classicismo rivoluzionario, essendo del tutto atipica la sua valutazione dell’evento, rispetto al quale il tema degli antichi è legato a doppio nodo e ne evidenzia la sua «spécificité théorique» (p. 101). Infatti, il confronto concettuale (o metadiscorso) fra la libertà degli antichi – intesa quale partecipazione attiva e costante al potere collettivo – e la libertà dei moderni – concepita in termini di godimento pacifico dell’indipendenza privata – serviva a Constant per comprendere contraddizioni e mali emersi dalla traumatica esperienza rivoluzionaria, di cui, da un lato, accoglieva i principi (positivi) dell’Ottantanove, mentre, dall’altro, rigettava il periodo giacobino quale momento storico negativo che tuttavia, almeno nelle intenzioni, aveva perseguito un fine nobile e generoso.
A differenza di altri pensatori suoi contemporanei, come ad esempio Necker o M.me de Staël, nella sua personale lettura, i giacobini furono spinti dall’idea di poter superare l’oppressione di governi abusivi e miserabili attraverso l’ampliamento delle libertà civili; ma, non sapendo tradurre i loro intendimenti in un giusto e praticabile percorso di liberazione, essi finirono con il restringere le già ridotte libertà politiche e restare così prigionieri di un’illusione. Afferma lo studioso al riguardo: «Constant, en effet, tout en exprimant sa ferme critique de tout projet d’application intégrale des institutions anciennes à un Etat moderne et dévoilant ainsi de l’extérieur l’illusion du classicisme des Jacobins, va en même temps à la recherche de ce qu’on pourrait appeler les raisons de cette même illusion» (p. 96, corsivo nel testo).
La sfasatura temporale nella quale il filosofo si ritrovava a parlare delle vicende rivoluzionarie aveva fatto sì che i giacobini non potessero più essere il principale obiettivo polemico, ora semmai incarnato dalla figura di Napoleone Bonaparte, e che il tema centrale del suo discorso fosse a questo punto l’oppressione politica della quale la dittatura giacobina non costituiva che una delle possibili istanze. Con il suo ragionamento, focalizzato sul tema dell’illusione politica, Constant confrontava antichi e moderni, rilevando una costante della realtà comune alle diverse epoche storiche. Il che significava «faire passer un thème initialement polémique et (au moins en partie) lié aux circonstances, comme la critique du classicisme révolutionnaire, sur le plan plus général de la philosophie politique, et en même temps conférer à la récurrence de l’illusion en politique un statut d’universalité et de nécessité irréductible au statut certes plus rassurant d’un faux pas contingent et minoritaire de la raison» (p. 106).

3. Sul tema dell’imitazione giacobina, Giovanni Paoletti offre – e per questo vale la pena di illustrarlo almeno brevemente – un interessante raffronto teorico con Karl Marx, la cui analisi del classicismo rivoluzionario, presente in particolare nella Sacra famiglia (1845) e nel 18 Brumaio di Luigi Napoleone (1852), è la più ricca dopo quella constantiana.
In entrambe le opere, il filosofo tedesco indicava l’errore del classicismo, da un lato, in un’arbitraria identificazione tra epoche storiche diverse e forme di produzione antitetiche (il governo democratico della comunità antica si basa sulla schiavitù, mentre lo Stato moderno poggia su una forma emancipata di schiavitù definita società civile); dall’altro, in una rappresentazione idealistica dell’uomo che in epoca moderna non poteva tradursi in realtà. Come spiega Paoletti, per Marx «la cité antique est démocratique d’une manière réaliste parce qu’elle distribue sans mystifier citoyens et esclaves en deux univers contradictoires, mais clairement distincts et fermés sur eux-mêmes: celui de la politique et de la liberté, et celui de l’activité productive et du manque de liberté. Pour reprendre les mots de Rousseau, le citoyen y est “parfaitement libre”, l’esclave “extrêmement esclave”. La constitution de l’Etat moderne, au contraire, est “spirituelle”, c’est-à-dire mystificatrice, dans la mesure où elle cache, sous le voile du libre contrat e de l’égalité juridico-politique, la scission réelle entre propriétaires et salariés, elle fait passer l’intérêt de quelques-uns pour le bien de tous» (p. 111).
L’errore dei moderni imitatori degli antichi non posava dunque per Marx sullo scambio – come in Constant – tra la libertà nella concezione degli antichi e la libertà nella concezione dei moderni; riguardava piuttosto il concetto di democrazia e il rapporto di questa con il tema della schiavitù. La nozione di classicismo rivoluzionario in lui era perciò dilatata e comprendeva, oltre alla fase giacobina, anche il momento Danton-Desmoulins e quello Napoleone. Infatti, diversamente da Constant, Marx guardava alla «fonctionnalité particulière de l’imitation des anciens dans la dynamique des révolutions modernes, dont les protagonistes, anglais et français, furent obligés de cacher, sous le voile de l’héroïsme et des idéaux, le processus historique peu héroïque et très réel de l’instauration de la société bourgeoise» (p. 115). Liberarsi dal «travestissement à l’ancienne» (p. 116), ossia dall’illusione del classicismo di cui si era alimentata non solo l’ideologia giacobina, ma anche l’ideologia liberale à la Say-Cousin-Guizot e Constant, significava determinare la possibilità storica di una liberazione dall’illusione, significava proiettarsi verso un futuro non oppressivo.
Ciò non toglie che tra i due pensatori ci fossero molte similarità di analisi, peraltro ben rilevate dallo studioso: «le trait de ressemblance le plus pertinent pour notre reconstruction historique – spiega Paoletti – concerne le statut épistémologique que Marx et Constant assignent à l’illusion jacobine. L’articulation de leurs analyses en deux passages (comparaison entre les anciens et les modernes; explication de la tendance à l’imitation), correspond notamment à la distinction entre l’objet et le processus de l’illusion» (p. 118). Entrambi compresero che l’illusione degli antichi definita nel classicismo rivoluzionario era un’auto-illusione e non una frode politica: sebbene Constant non avesse dato valutazione morale a giustificazione del Terrore a partire dalle “buone intenzioni” (individuava invece un senso soggettivo dell’illusione, per cui la sensatezza di un’illusione poteva essere svincolata dal valore di verità del suo oggetto), mentre Marx procedesse su una lettura dell’illusione non-intenzionale (indicava cioè un senso oggettivo dell’illusione, per il quale il senso storico era esattamente l’opposto di quello che tesero dargli i suoi protagonisti). Un cambio di prospettiva, quello di Marx, che radicalizzava la posizione di Constant attraverso l’assunzione del punto di vista di un osservatore esterno.

4. Il quadro concettuale constantiano fin qui emerso era già in gran parte presente nei pamphlets giovanili, in particolare nel Des réactions politiques (1797)[3], dove il filosofo, ci ricorda Paoletti, indicava altre vittime dell’illusione politica: «la “métaphysique figurée” de Lezay-Marnésia, les gouvernements fondés sur la superstition religieuse [...], mais surtout les réactionnaires comme La Harpe, “êtres d’un jour” qui ne peuvent espérer ralentir le cours de l’histoire, qu’avec l’apparence vide de la tromperie» (p. 124). L’illusione politica corrisponderebbe in tali casi all’«arbitraire», categoria che comprende sia il potere illegittimo e illimitato (cioè non fondato sulla sovranità popolare e privo del diritto), sia il potere fondato sulla forza o sull’apparenza del consenso. E, dal momento che in base a questa seconda accezione, l’arbitrio starebbe nel porre a regole della politica interessi particolari, pregiudizi e passioni, il dispotismo non rappresenterebbe più una forma legittima di governo, bensì potere arbitrario per antonomasia, in quanto nato da una determinata configurazione istituzionale indipendente dalla volontà del despota. A ciò si aggiunga che, venendo esercitato nella società, tale arbitrio-illusione produrrebbe una generale ineguaglianza derivante sostanzialmente dalla passiva accettazione di un mondo che si prende così com’è semplicemente perché ci si è nati e vissuti (processo di «naturalisation» che distrugge la libertà). Dunque, dalla composizione di arbitrio-illusione e illusione-naturalizzazione, scaturiva per Constant una tipologia specifica di oppressione caratteristica del suo tempo, che si manifestava nella illusione di legittimità (un potere apparentemente legittimo ma in realtà arbitrario), vale a dire nella ricerca del consenso popolare al dominio dispotico del governo, tanto più pesante quanto più i cittadini si ritirano nella propria sfera privata. Da qui, la sua esigenza di ripensare la semantica tradizionale della categoria di dispotismo, rispetto alla quale il principale termine di confronto corrispondeva al concetto di dispotismo orientale elaborato da Montesquieu[4]. Constant, partendo dalla teorica montequieuiana del dispotismo, distingueva due tipologie di potere dispotico: una diretta, palese, tirannica, che usa in modo esplicito la forza ed esercita l’oppressione apertamente, senza curarsi dei diritti individuali perché non ha bisogno dell’assenso dei sudditi per opprimerli; l’altra invece indiretta, occulta, che può essere investita del consenso popolare per via rappresentativa e che si avvale del sostegno (vero o apparente) della volontà generale per esercitare un’autorità illimitata. Siamo di fronte a una forma di potere rispetto alla quale la semplice divisione dei poteri non mette affatto al riparo dal dispotismo, dato che nella realtà storica potere legislativo e potere esecutivo spesso si sono coalizzati amplificando l’abuso e dando origine a un dispotismo irreparabile: «Vous aurez beau diviser les pouvoirs: si la somme totale du pouvoir est illimitée, les pouvoirs divisés n’ont qu’à former une coalition, et les dispotisme est sans remèdes»[5]. È un dispotismo che Constant chiamava «superlatif», per quel surplus di oppressione che lo caratterizza dal momento che accampa pretese di legittimità[6]. Con esso, infatti, il ripiegamento nella sfera privata dei cittadini comporta un avvilimento delle intelligenze umane e un ritorno allo stato di minorità che dà ulteriore forza al dispotismo occulto in quanto priva i cittadini del loro primo mezzo di liberazione dall’oppressione. Spiega Paoletti: «Tout comme le gouvernement fondé sur la force ou la monarchie traditionnelle – le despotisme “ancien”, qui opprimait “dans la calme, en détail, sans bruit, sans secousses” – le despotisme indirect ne tolère pas la voix des opposants. Il a besoin de “déserts intellectuels” comme le despotisme oriental a besoin de déserts géographyques. Mais le silence réel est troublé dans son cas par une “apparence de l’esprit publique”, le mutisme des gouvernés voilé par les déclamations des assemblées, par les acclamations des plébiscites, par les proclamations de ce qu’on appellerait aujourd’hui la presse du pouvoir en place. Si la tyrannie n’arrive pas à étouffer dans l’opinion tout principe de résistance, sous un despotisme de ce genre, au contraire, “on souffre et l’on remercie”. Celui-ci paraît donc voué à une dégradation désastreuse, qui risque de reproduire en Occident les ruines d’Egypte [...]. C’est sur cette base que le despotisme indirect, loin de n’être qu’une prérogative de la France sous Bonaparte, apparaît aux yeux de Constant comme une présence permanente dans l’histoire de la nation de 1789 à la Restauration» (pp. 157-159). Si trattava di un dispotismo che Paoletti qualifica come dispotismo dei moderni: legato alla definizione montesquieuiana del dispotismo orientale, se ne differenzia nel rapporto con le forme legali del potere in quanto dipendente da un nuovo concetto di libertà. Non solo, come in Montesquieu (e in Rousseau), libertà nelle leggi, ma anche libertà dalle leggi: nozione più ricca di libertà, propria della concezione liberale che vuole l’individuo indipendente almeno nella sua sfera privata.

5. Ma vediamo allora in che modo, secondo Paoletti, Constant pensava possibile superare tale forma di oppressione. La soluzione al quesito era individuata nel passaggio dall’illusione alla disillusione, meccanismo che poteva attuarsi spontaneamente, attraverso l’evidenza dei fatti (la verità prima o poi riemerge e trionfa), oppure soggettivamente, per mezzo di uno sforzo individuale di liberazione volontaria dal proprio stato di minorità, dalla propria illusione. Ed era qui che si consumava il confronto con la rousseauiana concezione della libertà, che per Constant, pur vera in linea teorica, assumeva effetti deleteri nella pratica, come aveva peraltro dimostrato l’erronea imitazione degli antichi nella quale incorsero i rivoluzionari francesi e, in specie, i giacobini.
Recuperando l’idea di volontà generale alla base della teoria rousseauiana della sovranità, Constant rigettava il concetto di «aliénation totale» dei diritti dei singoli che assegnava all’autorità un potere illimitato. Per lui, invece, il potere doveva poggiare sempre su due criteri di legittimità: essere emanazione della volontà generale e, soprattutto, essere limitato. La limitatezza era, anzi, la condizione dell’esercizio del potere. Viceversa, l’alienazione totale prospettata da Rousseau, nell’attribuire al potere carattere di assolutezza, finiva per degradare la volontà generale a volontà dei singoli governanti, annullando l’universale nel particolare. Il Ginevrino aveva quindi commesso un errore di astrattezza, frutto di un’impropria articolazione del rapporto teoria-prassi. Constant, tuttavia, gli attribuiva anche quel che possiamo indicare come “difetto di teoria”: Rousseau aveva mancato di arricchire teoreticamente lo stesso concetto di volontà generale, il cui nodo intrinseco era rappresentato dal nesso antinomico interessi-opinione.
«Il y a – scriveva Constant – cette différence entre les intérêts et les opinions, d’abord qu’on cache les uns et qu’on montre les autres, parce que ceux-là divisent et que celles-ci rallient; secondement, que les intérêts varient dans chaque individu suivant sa situation, ses goûts, ses circonstances, au lieu que les opinions sont les mêmes ou paraissent telles dans tous ceux qui agissent ensemble; enfin, que chacun ne peut diriger que soi par le calcul de ses intérêts et que, lorsqu’il veut engager les autres à le seconder, il est obligé de leur présenter une opinion qui leur fasse illusion sur ses véritables vues»[7]. Ineluttabilmente radicati nel particolare, gli interessi impedivano di creare un vero consenso delle opinioni senza fare a meno di generare l’illusione. La volontà generale di Rousseau altro non era quindi che un’opinione apparentemente unica e oggettiva, ma in realtà composta dalla somma di interessi singoli mascherati dalla parvenza di un solo volere. Cosicché, per evitare ogni possibile fraintendimento tra interessi dei singoli e opinione, tra volontà di tutti e volontà generale, tra particolare e universale, occorreva agire inserendovi un principio intermedio. «C’est ce que – chiosa Paoletti – nous avons appelé une solution subjectiviste au problème de l’illusion» (p. 196). A questo punto, lo studioso torna sul tema dell’imitazione degli antichi e, alla luce del rapporto tra universale e particolare, lo analizza al fine di verificare in che modo, nel pensiero constantiano, avrebbero dovuto funzionare i due criteri di legittimità del potere sopra richiamati.

6. Si è già detto come illusoria fosse per Constant la pretesa che interessi e opinioni, nonostante le intrinseche differenze, potessero essere «immédiatement commensurables et compatibles entre eux» (p. 254). Una pretesa che aveva portato i giacobini a imporre le ragioni dell’universale senza tener conto degli interessi individuali, creando un’illusione specularmente opposta a quella rousseauiana, che invece prendeva forma dalla affermazione della libertà (moderna) dei singoli e dei loro interessi privati, non curandosi del potere pubblico.
Ecco allora che, nella visione constantiana, dalla stessa modalità di esercizio del potere (o della libertà) emergeva la risposta contro il pericolo di generare l’illusione e di cadere nel «despotisme indirect» dei moderni. Infatti, se la pratica del potere nell’Atene del V secolo come nella Roma repubblicana valeva solo quale esempio di pratica della libertà che non poteva essere sperimentata nel mondo moderno, in epoca moderna anche le sue due più importanti innovazioni politiche, quali la divisione dei poteri e l’istituto della rappresentanza, non offrivano sufficienti garanzie di libertà senza che, da un lato, insieme alla rappresentanza del potere prendessero vigore altre espressioni della sovranità popolare, dall’altro, si rispettasse il principio della limitazione dei poteri.
Per quanto concerne il primo criterio, la libertà di stampa, la vigilanza attiva e costante dei cittadini sull’operato dei rappresentanti, nonché la difesa delle libertà da parte degli stessi rappresentanti e la mediazione che questi devono esercitare tra interessi particolari e interessi generali, costituivano per il filosofo ulteriori e importanti forme di esercizio della libertà politica entro cui si sviluppava la libertà civile dei moderni; forme di esercizio della libertà che impedivano al corpo politico di cadere in derive dispotiche. Era la ragione per la quale «le choix des représentants doit partir du bas, c’est-à-dire du peuple, aussi bien comme première initiative (proposition des candidats), que comme choix définitif. Le système représentatif doit être fondé sur une élection direct et populaire, c’est-à-dire sur un acte de liberté politique par excellence, sans lequel la représentation [...] risque d’entrer dans le nombre des illusions politique» (p. 268). Insomma, secondo Constant, «sans l’élection populaire, le système représentatif n’est que parodie misérable ou despotisme argumentateur»[8]; di conseguenza, le deliberazioni dei rappresentanti erano la necessaria mediazione («transaction»[9]) tra interessi e opinioni, tra particolare e generale. Come sottolinea Paoletti, «garantissant la transaction entre universel et particulier, les représentants, médiateurs des intérêts des citoyens, sont en même temps les défenseurs des leures libertés» (p. 270). Ciò che Constant proponeva allora quale soluzione contro l’illusione era il processo stesso della mediazione, la «transaction» alla disillusione. Essa rappresentava infatti il mezzo più adeguato a realizzare un sistema politico fondato sulla legge e insieme connesso alla pluralità e alla diversità delle sue componenti. Inoltre, la «transaction» simboleggiava un potere terzo, posto a garanzia della separazione di legislativo ed esecutivo, strumento altresì valido a evitare tanto il dispotismo delle fazioni quanto il «dispotismo cavillatore» sopra citato, che per il filosofo costituiva il problema politico più grave del suo tempo.
La sua nota riflessione sul potere neutro, la cui capacità di giudicare gli atti (il particolare) e non l’autorità (l’universale) serviva a eliminare le illusioni, si innestava dunque qui, dove il paragone tra la libertà degli antichi e quella dei moderni prescriveva una nuova definizione di libertà come limite. Paoletti ce lo spiega bene, riprendendo la distinzione esistente nel pensiero constantiano fra libertà negativa e libertà positiva. Quelle due libertà non erano affatto trattate da Constant come alternative l’una all’altra: esse erano bensì complementari, poiché nell’ambito della vita associata, la prima definisce l’azione del singolo individuo privato entro la dimensione normativa (libertà di fare ciò che le leggi non proibiscono), mentre la seconda tiene conto dell’individuo come cittadino, dunque attiene alla sua volontà di obbedire alla legge che egli stesso si è prescritto. Pertanto, per Constant, «si les lois ont pour but de garantir la liberté et si la liberté est absence de lois, il faut dire que les lois doivent garantir un espace où elles seraient elles-mêmes absentes, c’est-à-dire qu’elles doivent être sujettes à un principe de limitation qui les empêche d’étendre démesurément leur propre juridiction» (p. 323). Ma a cosa corrispondeva tale principio di limitazione? Alla sfera dell’esistenza individuale che rimaneva di diritto «hors de toute compétence sociale»[10]. Constant completava perciò in questo modo la definizione di Montesquieu, affermando che «la liberté n’est autre chose que ce que les individus ont le droit de faire, et ce que la société n’a pas celui d’empêcher»[11]. D’altra parte, in base allo stesso ragionamento, anche il principio rousseauiano della sovranità popolare risultava meglio definito proprio grazie alla precisazione che la sovranità aveva un limite. Il rapporto esistente entro il pensiero constantiano tra le due libertà, da tempo oggetto di riflessione storiografica, dimostra a Paoletti come, per Constant, la libertà positiva fosse al contempo garanzia fattuale della negativa – servisse cioè a stabilire il limite del potere, a contrastare l’oppressione che può realizzarsi anche «decorée du nom de loi»[12] –, e condizione necessaria. La libertà positiva (o politica) permetterebbe infatti di superare il paradosso dello schiavo contento (o della servitù volontaria), e di godere pacificamente dell’indifferenza privata. Del resto, come insegnavano già gli antichi, che pure non conoscevano la libertà negativa (o individuale), la libertà «peut seule faire des hommes, toutes les facultés de l’esprit, toutes les ressources du talent et du génie, ne se développent qu’à l’ombre de la liberté»[13].

7. Paoletti passa a questo punto a indagare il problema della servitù volontaria «que l’histoire de son temps posait à Constant: l’oppression sanctionnée par les symptôme du consensus, une nation fatiguée par les convulsions de la liberté et incline à croire “que le joug des tyrans seroit préferable”, la promesse du bonheur contenue dans le calme des jouissances privées» (p. 333). Il filosofo, seguendo ancora la lezione di Montesquieu, affrontava questo problema nella sua concretezza storica. Nella realtà, diceva, la servitù volontaria può coesistere con l’istinto della libertà. Dunque il tema doveva essere indagato al livello contingente della realtà politica, dove invece, notoriamente, chi ha conosciuto la libertà non può mai rassegnarsi alla schiavitù. Pertanto, l’esperienza della libertà corrispondeva per Constant ai principi già ricordati della libertà stessa: sovranità popolare, limitazione del potere e modalità di esercizio della deliberazione. Tuttavia, il tema della servitù volontaria chiamava in causa l’altro ambito della riflessione constantiana fin qui solo enunciato da Paoletti, quello religioso: anch’esso storicamente guardato da Constant attraverso l’analisi del rapporto tra credenze e libertà, o meglio tra sentimento religioso – che permette all’uomo di agire in base a moventi non egoistici – e libertà. L’oppressione proveniva in questo caso dalla religione sacerdotale che tiene l’uomo sottomesso (dispotismo indiretto): l’alienazione del credente era pertanto pari all’illusione in politica.
In quest’ultima parte della sua ricerca, Paoletti segue dunque il ragionamento storico constantiano relativo allo sviluppo delle forme di religione nel corso delle epoche, soffermandosi in particolare sul rapporto politeismo-teismo, e individua nella linea di sviluppo delle religioni così proposta una «heureuse exception»: quella della religione non sacerdotale, perciò indipendente, dell’età moderna – che Constant definiva epoca delle «conventions légales» –, nella quale tale religione non sacerdotale era passata dal feticismo primigenio al politeismo greco e quindi al romano, per sopravvivere, attraverso la mediazione del teismo mosaico, nel cristianesimo. Di contro, Constant assimilava il dispotismo alle religioni sacerdotali, che «à partir d’un ensemble de croyances qui a surgi spontanéament, le sacerdoce consacre et rende l’inégalité immoble. Il élève l’oppression et l’arbitraire au rang de normes exclusives des liens sociaux. Il convertit à son avantage non seulement les faveurs du climat, qui permettent un régime économique agricole et pacifique, mais aussi les phénomenes irréguliers de la nature, et les grandes calamités politique – le “mal morale” de la tradition (faim, peste, guerre)» (p. 357).
Recuperando le categorie montesquieuiane, nel suo pensiero il dispotismo teocratico instaurato dal politeismo sacerdotale assumeva i tratti propri del dispotismo orientale: immobilità e sottomissione volontaria. Il suo superamento era dato in Occidente dalla combinazione di sentimento religioso e libertà politica. Scriveva Constant nel suo De la religion (1824-1831): «Persuadons-nous bien que ce n’est point l’absence de la religion, mais sa présence avec la liberté politique et religieuse qu’il fait invoquer comme la source unique de tous les progrès intellectuels, aussi bien que de toutes les vertus»[14]. Il divenire storico non perdeva il suo carattere conflittuale. La modernità appariva perciò segnata dal rapporto conflittuale tra libertà e servitù volontaria e non poteva sfuggire al dispotismo senza fare ricorso a quello che ora Constant chiamava “sentimento religioso”, mentre in altre opere aveva definito “resistenza alla coercizione”. Ed era qui che stava, in sostanza, l’esemplarità storica, ossia la “felice eccezione” della libertà degli antichi Greci e Romani, per i quali, osserva Paoletti, il politeismo comportò un vero e proprio perfezionamento morale, dato che la pluralità degli dèi e la loro litigiosità garantiva l’assenza di un potere onnipotente e di una volontà unanime. Il che, sul piano politico, permetteva la possibilità di deliberazioni razionali, esito del giudizio e della transazione fra interessi e opinioni.
Dopo aver confrontato esperienza greca ed esperienza romana, Paoletti ci mostra come quest’ultima costituisse comunque un’eccezione un po’ meno felice di quella del modello politeismo-libertà attribuito da Constant alla vicenda greca. Nella Roma repubblicana il potere sacerdotale era ben presente, ed erose a poco a poco la libertà portando alla caduta della repubblica, permettendo, in un certo senso, il passaggio storico al teismo. Infatti, se l’idea di un Dio unico sembra capace di fondare l’unità del reale, nel momento in cui la libertà scompare sotto il potere sacerdotale, essa scompare completamente. Ecco perché diventava necessario sciogliere l’amalgama di religione, politica e morale, separare cioè la religione dalla politica, lasciando certo senza risposta il problema del male, ma impedendo altresì che l’«illusion secourable», ovvero la promessa della provvidenza, potesse cedere «à l’illusion politique du dispotisme» (p. 410). Contro il male, contro le illusioni, Constant richiamava dunque all’esercizio di una razionalità disvelante, l’unico strumento valido affinché la volontà di libertà e di uguaglianza degli uomini, la perfettibilità della specie, da possibile diventasse reale.

Note

[1] Tra i molti saggi di Giovanni Paoletti dedicati al pensiero constantiano si ricordano: Illusioni e libertà. Benjamin Constant e gli Antichi, Roma, Carocci, 2001; Benjamin Constant e il “dispotismo dei moderni”, in Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico (2 tt.), a cura di D. Felice, Napoli, Liguori, 20042, t. II, pp. 439-462; e La libertà, la politica e la storia. Presenze di Montesquieu nell’opera di Benjamin Constant, in Montesquieu e i suoi interpreti (2 tt.), a cura di D. Felice, Pisa, Ets, 2005, t. I, pp. 479-504. Lo studioso ha inoltre curato in edizione italiana l’opera più famosa di Benjamin Constant, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819): cfr. Id., La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, traduzione e cura di G. Paoletti, con un «Profilo del liberalismo» di P.P. Portinaro, Torino, Einaudi, 2001.

[2] Paoletti ne discute diffusamente nella Partie I, Ch. I: Le vertige du passé, pp. 19-122.

[3] Cfr., in trad. it. a cura di S. Manzoni, Le reazioni politiche, in I. Kant - B. Constant, La verità e la menzogna, Milano, Mondadori, 1996, pp. 155-230.

[4] Per un approfondimento su questo punto, cfr. i saggi di Paoletti ricordati qui alla nota 1. Più in generale, sul problema del dispotismo si rimanda al citato volume collettaneo curato da Domenico Felice, Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico (cfr. ancora la nota 1); mentre per il concetto di dispotismo in Montesquieu, si veda in particolare D. Felice, Oppressione e libertà. Filosofia e anatomia del dispotismo nel pensiero di Montesquieu, Pisa, Ets, 2000.

[5] B. Constant, Principes de politique applicables à tous les gouvernements (1806-1810). Si cita da Paoletti, p. 150.

[6] Cfr. ibid., p. 153: «Les institutions prétendues libres, qui se servent des moyens du despotisme, réunissent tous les malheurs d’une monarchie opprimée par un tyran et tous ceux d’une république déchirée par des factions». Il paradosso che ne segue è che spesso, quei governanti che esercitano tale oppressione occulta, lo fanno in buona fede, credono cioè di farlo nell’interesse di tutti e in nome della giustizia. In tal caso si deve parlare di auto-inganno o auto-illusione, mentre di fronte all’utilizzo consapevole del potere occulto, di frode o inganno politico.

[7] Ancora Constant, Principes de politique, in Paoletti, p. 188.

[8] B. Constant, Fragments d’un ouvrage abandonné sur la possibilité d’une constitution républicaine dans un grand pays (1803-1810). Si cita da Paoletti, p. 268.

[9] Cfr. Constant, Principes de politique: «Qu’est-ce que l’intérêt général, sinon la transaction qui s’opère entre tous les intérêts particuliers?», in Paoletti, p. 269.

[10] Ibid., pp. 323-324.

[11] Ibid., p. 324.

[12] Ibid., p. 327.

[13] B. Constant, De la liberté des anciens comparé à celle des modernes. Discours prononcé à l’Athenée Royal de Paris en 1819 (1820). Si cita da Paoletti, p. 330.

[14] B. Constant, De la religion, considérée dans sa source, ses formes et ses développements (1824-1831). Si cita da Paoletti, p. 360.