Wayne Hudson, The English Deists: Studies in Early Enlightenment
London/Brookfield, Vt., Pickering & Chatto, 2008
 [ISBN 1851966196 - £ 60.00]

Id., Enlightenment and Modernity: The English Deists and Reform
London/Brookfield, Vt., Pickering & Chatto, 2009
[ISBN 1851966356 - £ 60.00]

Jeffrey Wigelsworth, Deism in Enlightenment England: Theology, Politics, and Newtonian Public Science
Manchester, UK/New York, Manchester University Press, 2009
[ISBN 0719078729 - £ 60.00]

Diego Lucci
American University in Bulgaria
Nota sui recenti studi sul deismo inglese

1. Il deismo inglese è certamente una delle correnti di pensiero dell’epoca moderna che, nel corso del ventesimo secolo, ha maggiormente attratto l’attenzione degli studiosi di storia intellettuale e filosofia dell’Età dei Lumi, e non soltanto nel mondo accademico anglosassone. Dopo le pionieristiche ricerche di storici come Arthur Lovejoy, Fritz Heinemann, Rosalie Colie e altri nel dopoguerra[1], gli anni Settanta hanno visto un rinnovato interesse per i cosiddetti “deisti inglesi”, in particolare, ma non solo, per John Toland: un interesse che, dalla metà di quel decennio ai primi anni di quello successivo, ha prodotto notevoli studi[2]. Ma è soprattutto dalla fine degli anni Ottanta che si assiste a un più profondo e diffuso interesse per il deismo inglese, che ha portato alla pubblicazione di numerose ricerche su singoli autori deisti o sulla corrente in generale, per non dire degli innumerevoli studi sull’Illuminismo che presentano i deisti inglesi tra i massimi protagonisti del pensiero filosofico, religioso e politico nel secondo Seicento e primo Settecento. Il solo biennio 2008-09 ha visto la pubblicazione di ben quattro volumi sul deismo inglese: The English Deists ed Enlightenment and Modernity del filosofo australiano Wayne Hudson, Deism in Enlightenment England dello storico canadese Jeffrey Wigelsworth, e il mio Scripture and Deism, che mi permetto di menzionare pur concentrandomi, in questa sede, sulle opere di Wigelsworth e Hudson[3]. Questi volumi sono inoltre stati preceduti, nel corso dell’ultimo decennio, da numerose monografie su autori quali Blount, Toland, Collins e Tindal[4].
Prima di discutere nel merito le interessanti proposte interpretative di Wayne Hudson e Jeffrey Wigelsworth, è tuttavia necessaria un’analisi delle precedenti teorie tese a contestualizzare il deismo nell’ambito dell’Età dei Lumi: un’analisi che tenga necessariamente in conto le considerazioni dei due studiosi presi qui in questione.

2. Nonostante si tratti di una delle correnti filosofiche dell’epoca moderna maggiormente presenti nella storiografia contemporanea, i tentativi di offrire una definizione univoca del deismo inglese sono stati finora ostacolati da numerose ambiguità che, come sottolineato dallo storico Robert Sullivan, hanno prodotto una sorta di “elusiveness” del deismo[5]. Tali difficoltà nel tentare una definizione del deismo sono dovute non soltanto alla molteplicità di caratteri presentata da questa corrente, ma anche all’emersione di diversi concetti di Illuminismo nel dibattito storiografico contemporaneo. In sostanza, come evidenziato sia da Hudson che da Wigelsworth, nell’ultimo decennio si sono affermate due principali tesi sull’Illuminismo, essenzialmente contrapposte ed esposte nei termini più espliciti da due studiosi di fama internazionale, pur essendo ampiamente in debito con ricerche e interpretazioni precedenti. Da una parte, J.G.A. Pocock ha osservato che l’Illuminismo «si verificò in troppe forme per essere compreso nell’ambito di una singola definizione e di una singola storia», e sarebbe dunque più opportuno parlare di «una famiglia di Illuminismi» invece che di Illuminismo[6]. Secondo Pocock, le varie componenti della «famiglia di Illuminismi» hanno contribuito, seppure in modi differenti, alla costruzione della realtà intellettuale, culturale, politica e sociale della moderna, e complessa, civiltà Occidentale. Dall’altra parte, Jonathan Israel ha sì distinto fra tre correnti principali (Illuminismo radicale, Illuminismo moderato, e Contro-Illuminismo) che caratterizzarono la storia intellettuale del secondo Seicento e del Settecento, ma ha chiaramente individuato l’Illuminismo radicale come «il più importante fattore nella definizione della realtà contemporanea, e di quegli elementi della modernità cui chiunque voglia vivere razionalmente sarebbe felice di offrire sostegno e contributo»[7]. Nel suo più recente volume sull’Illuminismo, Enlightenment Contested (2006), Israel ha dunque attaccato letture “negative” dell’Illuminismo che, ancora sotto l’influsso di tendenze postmoderniste, si concentrano soprattutto sui “lati oscuri” e sulle derive estremiste dell’Età dei Lumi. Egli ha piuttosto dichiarato che i principi fondamentali dell’Illuminismo radicale, cioè «libertà individuale, democrazia, uguaglianza, giustizia, libertà sessuale, e libertà di espressione e di stampa», rimangono «intrinsecamente superiori, sul piano morale, politico e intellettuale, […] a tutte le alternative possibili o fattuali»[8].
In particolare il dibattito sull’Illuminismo inglese ha visto l’emersione di diverse opzioni teoriche, connesse, in modi più o meno espliciti, a queste due tesi, e talvolta precedendole e influenzandole. Come emerge dalle osservazioni di Hudson e Wigelsworth sulla storiografia sul tema, autori quali il già citato Pocock, Roy Porter, Brian Young, Frederick Beiser e, in anni meno recenti, Robert Sullivan hanno sottolineato che, in Inghilterra, le correnti che svilupparono le più interessanti e avanzate proposte su concetti come libertà individuale e politica, tolleranza religiosa, uguaglianza e giustizia, agirono nell’ambito di dibattiti che coinvolsero, attivamente e apertamente, la Chiesa anglicana, e non soltanto nelle sue correnti liberali e moderate come quelle unitariane e latitudinarie[9]. Tali dibattiti si concentravano, infatti, sulla necessità di una riforma nelle dottrine teologiche basilari, e dunque nel ruolo di credenze e istituzioni religiose nella vita politica e sociale, e ricevettero significativi impulsi dall’interno della Chiesa inglese. Per questo motivo, alcuni degli storici menzionati hanno coniato definizioni come “Clerical Enlightenment” (Young), “Protestant Enlightenment” (Pocock) e “Conservative Enlightenment” (Porter).
Dall’altra parte, storici come Margaret Jacob, David Berman e, più recentemente, lo stesso Jonathan Israel hanno sottolineato il carattere radicale dell’Illuminismo inglese, rimarcando le sostanziali differenze tra correnti propriamente illuministiche (cioè appartenenti al cosiddetto “Illuminismo radicale”), tra cui spicca innanzitutto il deismo con i suoi attacchi alla rivelazione giudeo-cristiana, e i movimenti e le tendenze che ancora cercavano di muoversi entro i limiti della religione rivelata: movimenti e tendenze quali latitudinarismo, platonismo di Cambridge, unitarianesimo, la critica biblica di studiosi che, come Henry Dodwell e John Mill, valorizzavano il riferimento ai Padri e alle tradizioni della Chiesa nell’interpretare le Scritture, i modelli epistemologici di Boyle e Locke (caratterizzati dall’accettazione di proposizioni “above reason”), la fisico-teologia boyleana e newtoniana, e l’ermeneutica di stampo arminiano di Locke e Newton. Queste tendenze del pensiero religioso inglese presentarono senz’altro, e per diversi aspetti, dei significativi margini di eterodossia rispetto al dogma anglicano (trinitario e scritturalista); ma i loro caratteri innovativi dimostravano ancora intenti apologetici, in quanto miravano sostanzialmente alla difesa della religione rivelata. Enfatizzando la natura peculiare delle correnti radicali e il loro ruolo nello sviluppo della moderna, secolarizzata civiltà occidentale, storici come Jacob e Israel hanno sostenuto che anche in Inghilterra il “vero” Illuminismo consistette dunque nelle tendenze più radicali, concretizzatesi soprattutto nelle dottrine della religione naturale, nelle demistificanti tesi ermeneutiche e storiografiche e nelle teorie liberali, e perlopiù repubblicane, dei deisti. D’altronde, specialmente nell’interpretazione di Israel, le correnti anglicane moderate e, soprattutto, l’epistemologia lockeana e il newtonianesimo vanno annoverate tra i principali elementi dell’Illuminismo moderato, fondato su ideologie che ricercavano un compromesso tra rivelazione e tradizione cristiana da una parte, e la nuova razionalità fisico-matematica dall’altra. E, secondo Israel, le correnti del “Mainstream Moderate Enlightenment” godettero di ampia fortuna nell’immediato, ma, proprio a causa dei loro tentativi di coniugare rivelazione e razionalità, furono destinate a miserabili fallimenti – e quindi a rivestire una portata storica di gran lunga meno importante rispetto a quella del “Radical Enlightenment”.

3. Prendendo in esame la posizione e il ruolo del deismo nell’ambito dell’Illuminismo inglese, anche in questo caso è possibile individuare, sostanzialmente, due diverse correnti storiografiche, correlate, per molti aspetti, a quelle già esposte riguardo all’Illuminismo e al contesto inglese in particolare.
Da una parte, vari autori si sono soffermati soprattutto sulle radici inglesi del deismo, inserendosi in una tradizione di pensiero che risale almeno alle analisi del ministro presbiteriano John Leland. Alla metà del Settecento, questo avversario dei deisti individuò in Herbert di Cherbury (1583-1648) – il quale presentò la religione naturale come perfettamente comprensibile alla ragione umana a prescindere da qualunque rivelazione, e dunque come universale e sufficiente – il fondatore di un movimento radicalmente razionalistico e fondamentalmente irreligioso, poi continuato, nel tardo Seicento e nei primi decenni del Settecento, dai vari Blount, Toland, Collins e Tindal[10].
Tuttavia, nell’ambito della tesi di un’origine principalmente autoctona del deismo inglese, si possono osservare due diverse correnti di pensiero. Autori come i già citati Porter e Young hanno messo in luce la natura peculiare delle tendenze deistiche nell’ambito dell’Illuminismo inglese. Young ha parlato addirittura di una “radical separateness” del deismo dalle maggiori correnti dell’Illuminismo “clericale” o “conservatore” caratteristico dell’Inghilterra. Da parte sua, Porter, pur sostenendo che l’Illuminismo inglese fu essenzialmente “conservatore”, ha affermato che il deismo ebbe principalmente radici autoctone e godette di ampio successo in Inghilterra – osservazioni che, come evidenziato da S.J. Barnett in The Enlightenment and Religion (2003), sembrano però contraddirsi a vicenda[11]. Studiosi come Sullivan e Beiser, che hanno rimarcato le radici inglesi del deismo ancor prima di Young e Porter, si sono invece discostati dalla linea di pensiero inaugurata da Leland riguardo alla “separatezza” e al carattere essenzialmente antireligioso del movimento. Essi hanno dunque evidenziato il debito di autori come Toland, Collins e Tindal non soltanto nei riguardi di Herbert di Cherbury, delle sue demistificanti analisi della storia religiosa e della sua dottrina della religione naturale (peraltro interpretata come non necessariamente in opposizione alla religione rivelata), ma anche verso le correnti moderate dell’anglicanesimo del secondo Seicento, come latitudinarismo e unitarianesimo – specialmente per quanto concerne le loro dottrine ireniche e la tendenza a valorizzare i caratteri razionali e i principi morali della religione rivelata. Le tesi storiografiche che evidenziano il debito dei deisti nei confronti delle correnti moderate del pensiero religioso inglese del Seicento e del primo Settecento hanno senz’altro il merito di presentare il deismo come «parte di una visione teologica del mondo»[12]. I pensatori deisti tesero infatti a comprendere e proporre la “vera religione”. Ma c’è da dire che i deisti intrapresero questa operazione a partire da premesse ben diverse da quelle su cui si basavano i sostenitori della rivelazione e della tradizione giudaico-cristiana. Di conseguenza, per i deisti «vera religione e ragione divennero la stessa cosa»[13]. Infatti, nel far riferimento a dottrine esegetiche e tesi sulla tolleranza religiosa sviluppate in seno a correnti del razionalismo religioso inglese, i deisti ne accolsero e utilizzarono soprattutto la “pars destruens”, al fine di corrodere varie certezze della religione rivelata, non fondate su un uso della ragione privo di pregiudizi dogmatici. Dunque, interpretazioni che presentano il deismo, innanzitutto e perlopiù, come una componente o una conseguenza dei discorsi e dei dibattiti teologici che caratterizzarono il “pio” Illuminismo inglese non evidenziano abbastanza la specificità del movimento, nonché gli influssi di autori e correnti di pensiero continentali (soprattutto, ma non solo, di Spinoza) sugli autori deisti. Tali interpretazioni sottovalutano quindi la dimensione internazionale in cui il deismo inglese andrebbe invece inquadrato, in merito tanto alle sue origini quanto ai suoi influssi sulle successive generazioni di illuministi.
Un’interpretazione alternativa a quelle che si concentrano sulle radici inglesi del deismo è offerta da storici come i già menzionati Berman, Jacob e Israel, e in anni meno recenti da Peter Gay[14], i quali hanno interpretato il deismo come una fondamentale componente di ciò che Jacob e Israel hanno definito “Illuminismo radicale”. Di conseguenza, questi studiosi hanno visto i deisti, principalmente, come discepoli inglesi di Spinoza, ispirati dalla filosofia classica e dalle correnti razionaliste del Seicento, nonché dall’empirismo di Locke (che però autori come Toland e Collins radicalizzarono e portarono alle estreme conseguenze). Secondo questa corrente storiografica, i deisti tesero dunque a minare le basi della religione rivelata e, in ultima istanza, a raggiungere una netta separazione tra istituzioni politiche e strutture religiose. Se gli influssi continentali, soprattutto di Spinoza e delle correnti radicali olandesi, sul deismo inglese erano già stati evidenziati da Leslie Stephen nell’Ottocento e Rosalie Colie circa mezzo secolo fa[15], ad autori come Jacob e Israel va d’altronde il merito di aver integrato le origini, gli sviluppi e il ruolo del deismo inglese in un più ampio contesto, mettendo in luce la portata internazionale ed epocale del movimento[16]. Tuttavia, questa corrente interpretativa presenta il rischio di proporre letture teleologiche dell’Età dei Lumi e, per quanto riguarda in particolare il deismo inglese, di sottovalutare l’“infrastruttura teologica” dello specifico contesto (quello inglese) in cui i deisti furono principalmente attivi[17]. E i rischi di interpretazioni teleologiche, nelle letture che valorizzano l’Illuminismo radicale alla luce degli sviluppi successivi della mentalità e delle strutture socio-politiche occidentali, vengono stigmatizzati, in particolare ed esplicitamente, sia da Hudson che da Wigelsworth.

4. Nei loro volumi pubblicati nell’ultimo biennio, sia Wayne Hudson che Jeffrey Wigelsworth tentano di risolvere la dicotomia tra le correnti interpretative contrastanti che abbiamo descritto, e che comunque manifestano significativi meriti e contribuiscono alla definizione di una posizione intermedia: una posizione che, integrandone diverse osservazioni ma distanziandosi da entrambe nelle conclusioni, si dimostra particolarmente interessante.
Il libro di Wigelsworth, Deism in Enlightenment England, si apre con una discussione delle principali tesi storiografiche sul deismo, e su ruolo e posizione di questa corrente di pensiero nell’Inghilterra moderna. Wigelsworth dedica poi la maggior parte del suo scritto (quattro capitoli su sei) alla partecipazione di cinque dei maggiori deisti inglesi (Toland, Collins, Tindal, Chubb e Morgan) a dibattiti su questioni politiche contemporanee come il giacobitismo, la rivalità tra Whigs e Tories, i contrasti interni al partito Whig, il problema della successione alla Corona inglese, la Guerra di Successione Spagnola, la controversia di Bangor, e la “bolla finanziaria” che colpì la South Sea Company tra il 1719 e il 1722 (la cosiddetta “South Sea Bubble”). Nei capitoli 3 e 5 del volume, Wigelsworth analizza invece il coinvolgimento dei deisti nei discorsi e dibattiti relativi alla scienza newtoniana.
Nei suoi due volumi, The English Deists ed Enlightenment and Modernity, Wayne Hudson offre invece una trattazione più complessiva del deismo inglese, illustrando i principali contributi dei deisti ai dibattiti politici e religiosi contemporanei, ed evidenziandone la molteplicità di interessi, atteggiamenti e intenti. Hudson inoltre inquadra il deismo inglese in un orizzonte di più ampio respiro e, come appare chiaramente sin dal titolo del secondo volume, svolge un’analisi che coinvolge l’Illuminismo nel suo complesso e nel suo rapporto con la modernità.
Il primo dei due volumi di Hudson esamina le origini e gli sviluppi del deismo inglese, con particolare riferimento agli autori che, in gran parte della storiografia sul tema, vengono considerati come i maggiori rappresentanti di questa corrente: Herbert di Cherbury, che Hudson ritiene un filosofo tardo-rinascimentale con spiccate tendenze ireniche; Charles Blount, scrittore che ha attratto l’attenzione soprattutto di studiosi italiani[18] e il cui pensiero Hudson contestualizza nell’ambito del circolo culturale che si riunì intorno a lui: un circolo che ebbe un altro eminente rappresentante in Charles Gildon e sviluppò tesi eterodosse sulla basi di fonti classiche, dottrine esoteriche della religione naturale e, soprattutto, filosofie panteistiche; infine, Toland, Collins e Tindal, che Hudson presenta come «tre scrittori protestanti dalle varie identità nei loro diversi ruoli sociali» e che d’altronde espressero «molteplici forme di deismo» e «idee filosofiche radicali»[19].
Il secondo volume di Hudson tende a una ancor più esplicita contestualizzazione del deismo nell’ambito dei contributi illuministici alla modernità. Dopo un interessante capitolo introduttivo in cui Hudson chiarisce il proprio intento di ricercare una “via media” per l’interpretazione del deismo inglese e dell’Età dei Lumi in generale, la trattazione si divide in due parti. Nella prima parte, lo studioso australiano analizza, nell’ordine, gli attacchi alla religione rivelata nelle opere di Collins e Tindal degli anni Venti e Trenta del Settecento, le critiche alla storia della Chiesa formulate da Thomas Woolston e Conyers Middleton, e infine i principali aspetti del pensiero di Thomas Chubb e Thomas Morgan – due interessanti autori che utilizzarono le dottrine di Tindal sulla compatibilità della religione naturale con l’originale messaggio cristiano come uno strumento polemico contro le religioni positive, che essi ritenevano non solo superflue ma anche corrotte e dunque dannose all’umanità (una tesi peraltro già presente nell’opera di Blount). La seconda parte del volume discute invece il ruolo dei deisti nella loro epoca, e dunque il loro contributo al ripensamento dei concetti di filosofia e religione. Hudson considera infatti i deisti inglesi come “Agents of Reform”, e si concentra sul concetto di riforma in merito alle loro indagini sulla filosofia naturale e alle differenti forme di religione naturale che essi proposero.

5. Gli studi di Hudson e Wigelsworth hanno molto in comune, anche perché negli ultimi anni i due studiosi hanno instaurato un proficuo scambio di idee. Innanzitutto, Hudson e Wigelsworth rifiutano interpretazioni “estreme”, e contrapposte, del deismo inglese e dell’Età dei Lumi. Hudson infatti dichiara di ricercare «una via media tra coloro, come J.G.A. Pocock, che evidenziano l’esistenza di molteplici Illuminismi, e coloro come Jonathan Israel che propendono per un singolo Illuminismo dall’estensione intercontinentale»[20]. Al proposito, Hudson chiarisce: «Come Pocock, sostengo l’esistenza di diversi Illuminismi, ma, come Jonathan Israel, i cui sforzi hanno riconfigurato la nostra concezione dell’Illuminismo, ammetto che c’è posto anche per una nozione più strutturale dell’Illuminismo. E sono d’accordo con Israel sul fatto che l’emersione della filosofia mondana contribuì a produrre atteggiamenti, pratiche e istituzioni poi associati alla modernità»[21].
Riguardo al deismo, la via media di Hudson si concretizza in un’interpretazione che non trascura i contributi dei deisti inglesi allo sviluppo di nuovi principi filosofici, religiosi e politici, i quali alla fine contribuirono senz’altro alla secolarizzazione della società europea e alla costruzione della modernità. D’altronde, nell’interpretazione di Hudson i deisti vengono presentati come “constellational writers”, cioè come intellettuali interessati a diversi ambiti di ricerca e pensiero, coinvolti a vari livelli in dibattiti eruditi quanto in pubbliche controversie, e capaci di elaborare diverse forme di deismo. Hudson dunque rifiuta interpretazioni del deismo come di una corrente di pensiero omogenea nelle proprie origini, intenzioni e manifestazioni e afferma piuttosto che i più noti autori deisti proposero “molteplici deismi”, cioè diverse forme di religione naturale. Le dottrine filosofiche e religiose dei deisti, tuttavia, erano pur sempre caratterizzate da una razionalità di fondo ben più radicale dei concetti di ragione formulati nell’ambito delle correnti anglicane moderate.
A questo proposito, Wigelsworth sottolinea che «non vi fu mai una religione deista praticata»[22], e d’altronde critica la tesi di David Berman secondo cui Collins, Toland e altri deisti furono essenzialmente atei: una tesi che egli ritiene in debito con la persistente interpretazione “classica” dell’Età dei Lumi come caratterizzata da un “moderno paganesimo” (interpretazione sostenuta e diffusa soprattutto da Peter Gay). Egli afferma inoltre che la tesi di Berman è sostanzialmente basata sull’assunto che «non avere una religione identificabile equivale a non credere in Dio e non avere alcuna teologia»[23]. Wigelsworth sostiene invece che i cinque autori da lui presi in esame (Toland, Collins, Tindal, Morgan e Chubb) in effetti presentarono varie forme di “deist theology”, che alla fine consistettero tutte nel preferire la “potentia dei ordinata” alla “potentia dei absoluta”. Il Dio dei deisti era, in definitiva, il creatore di un mondo ordinato e retto da leggi immutabili e comprensibili alla ragione umana: un Dio che, con la sua creazione, offriva dunque un modello di razionalità anche per la gestione degli affari umani. E le conclusioni di Wigelsworth si collocano, essenzialmente, su una linea di pensiero che va da Rosalie Colie (la quale, analizzando il debito dei deisti inglesi verso Spinoza, negò decisamente l’ipotesi di un loro “ateismo” di fondo) fino agli ottimi studi di Justin Champion (il quale ha evidenziato che questi pensatori intrapresero la ricerca della “vera religione”, e che questa poteva derivare, in sostanza, solo da un uso appropriato della ragione umana). Come osservato da Wigelsworth, a Champion va infatti il merito di aver sottolineato l’attenzione dei deisti per le questioni teologiche e di aver chiarito l’importanza della teologia come “fattore destabilizzante”, giacché politica e religione si intrecciavano nell’Inghilterra e nell’Europa dell’epoca: sarebbe stato dunque impensabile perseguire trasformazioni nella vita politica e sociale senza concentrarsi, innanzitutto, sulla sfera religiosa, e senza proporre alternative teologiche praticabili.
Resta però il fatto che tale “teologia deistica” assunse varie forme. Sussistono infatti notevoli differenze tra le radicalizzazioni dell’ideismo lockeano operate da Toland e Collins e la religione naturale di stampo herbertiano dei vari Tindal, Morgan e Chubb. Non soltanto: se solo si prende in considerazione il più studiato dei deisti inglesi, cioè John Toland, si possono osservare rimarchevoli differenze tra le dottrine chiaramente panteistiche delle sue Lettere a Serena (1704) e l’impostazione tendenzialmente sociniana (sebbene priva dei caratteri apologetici, che il pensiero sociniano ancora presentava, nei riguardi della rivelazione) di scritti quali il giovanile Cristianesimo non misterioso (1696) e il più tardo Nazarenus (composto intorno al 1710, ma pubblicato nel 1718)[24].
Hudson affronta dunque la questione dell’ambiguità e della molteplicità dei livelli espressivi che caratterizzarono l’opera di vari deisti. Egli ritiene che i deisti abbiano assunto “multiple personae” a seconda della natura e del livello dei dibattiti cui contribuirono coi loro scritti, e a seconda del pubblico cui si rivolgevano. E, secondo Hudson, ciò non fu dovuto soltanto all’intento di dissimulare teorie, opinioni e proposte difficilmente digeribili ai più. Secondo lo studioso australiano, autori come Toland, Collins, Tindal e altri si presentarono al più ampio pubblico come intellettuali riformatori protestanti non per prudenza o ipocrisia, ma perché uno dei loro intenti principali era di promuovere una riforma di attitudini, credenze, pratiche e istituzioni nell’Inghilterra del tempo: una riforma in senso razionale, cioè basata sulla necessità di adottare approcci più razionali alla vita politica e sociale quanto all’esistenza individuale. E tale obiettivo, per Hudson, non implicava necessariamente la distruzione della cultura protestante in Inghilterra: esso, piuttosto, coinvolgeva un ripensamento e una rivitalizzazione di tale cultura, la quale rischiava di fossilizzarsi intorno a dogmi che imponevano alla ragione dei limiti che i deisti – anche alla luce dei loro concetti di cristianesimo, centrati intorno al valore meramente morale dell’originale messaggio cristiano – ritenevano ingiustificati.
Hudson afferma infatti che, nonostante nessuno di questi autori fosse particolarmente originale in merito a logica e questioni di metafisica, «essi cercarono di riformare nozioni erronee e superstiziose e di promuovere metodi razionali, che avrebbero reso più semplice per gli esseri umani la comprensione dell’universo naturale, e governato da leggi, in cui vivevano»[25]. A tale proposito, Hudson osserva che molti deisti fecero riferimento anche a dottrine classiche, pre-cristiane o proto-cristiane, e cioè a una sorta di “sapientia veterum”, al fine di riscoprire l’essenza razionale del pensiero filosofico e della sfera religiosa. E in effetti i deisti tesero a decostruire, e ricostruire, la storia religiosa attenendosi a metodologie per l’analisi di testi, fonti e documenti che fossero critiche, razionali e spoglie di pregiudizi dogmatici, al fine di promuovere riforme nella sfera religiosa, politica e sociale del loro tempo.
Il punto tuttavia più interessante, e su cui si può a ragione concordare, della “via media” di Hudson è l’idea che i deisti inglesi poterono proporre le proprie idee “eterodosse” grazie alla particolare atmosfera intellettuale di ciò che Pocock ha definito “Protestant Enlightenment”, e che consistette nella diffusione, dapprima in Olanda e poi, soprattutto dopo la Glorious Revolution, in Inghilterra, di rapporti politici e sociali, e conseguentemente di dibattiti culturali, meno egemonici che altrove. I deisti furono infatti in grado di scuotere “the pillars of priestcraft” (per parafrasare il titolo del noto volume di Champion) grazie al fatto che operavano in un’atmosfera relativamente tollerante, in cui era consentita una circolazione di idee e opere, anche eterodosse o potenzialmente “irreligiose”, impensabile in gran parte del resto d’Europa. Senza tale atmosfera di relativa tolleranza, dinamicità culturale e apertura al dibattito, i deisti non avrebbero mai potuto sviluppare le proprie idee, né attingere a correnti di pensiero radicali del Continente, soprattutto olandesi. In effetti, autori come Toland e Collins non furono esenti da attacchi anche feroci da parte di intellettuali conservatori, e le loro opere diedero spesso vita ad aspri dibattiti; ma l’opposizione alle dottrine ermeneutiche, teologiche e politiche dei deisti, in Inghilterra, portò a persecuzioni e condanne da parte delle autorità solo in rari ed eclatanti casi (ad esempio, nei casi di Thomas Woolston e Peter Annet), e invece si concretizzò, perlopiù, in accese discussioni nei circoli culturali londinesi e sulle pagine di gazzette, pamphlets e volumi eruditi. In questo senso, i deisti inglesi furono certamente, sebbene non esclusivamente, un prodotto del “Protestant Enlightenment”. E questo, piuttosto che come una corrente di pensiero, va inteso propriamente come un’atmosfera culturale, che distinse il contesto inglese anche dalla situazione di paesi limitrofi come la Scozia (dove, ancora nel 1697, lo studente Thomas Aikenhead venne condannato a morte per blasfemia) e l’Irlanda (dove il Cristianesimo non misterioso di Toland fu prontamente messo al rogo, e da cui Toland dovette repentinamente fuggire, temendo di essere arrestato e, forse, di fare la stessa fine del suo libro).
D’altra parte, vorrei rimarcare che gli obiettivi dei deisti andavano ben oltre gli intenti ancora apologetici, nei riguardi della religione rivelata e della tradizione giudaico-cristiana, manifestati da gran parte degli esponenti del “Protestant Enlightenment” inglese, fossero essi latitudinari, anglicani liberali, unitariani, o scienziati influenzati dal razionalismo arminiano. In effetti, nel promuovere una società più libera e tollerante, i deisti (lungi dall’abbandonare tutto a una sorta di pluralismo o, nelle parole di Toland, “indifference of opinion”[26]) cercarono di instaurare una situazione in cui la ragione, o meglio, i loro concetti di ragione avrebbero potuto essere affermati e diffusi – e per i deisti, come ha osservato Justin Champion, «essere razionale significava l’aver raggiunto la condizione più alta dell’esistenza umana»[27]. A questo proposito, Hudson ritiene dunque che i deisti agirono da “catalysts of the Enlightenment”: in altre parole, pur partecipando alla cultura del “Protestant Enlightenment” e, come sostenuto da Wigelsworth, pur non volendo intenzionalmente provocare una “secular revolution”[28], i deisti inglesi finirono col contribuire in modo significativo allo sviluppo della corrente che Jonathan Israel, e Margaret Jacob prima di lui, hanno definito “Radical Enlightenment”, e dunque al processo di secolarizzazione della società occidentale e  alla costruzione della modernità.

6. In conclusione, vorrei sottolineare i meriti dei recenti volumi di Wayne Hudson e Jeffrey Wigelsworth riguardo a origini, ruolo e significato storico del deismo inglese. Le proposte interpretative dei due studiosi, pur differenziandosi riguardo agli specifici temi presi in questione, presentano infatti dei punti in comune di particolare rilevanza. Innanzitutto, sia Hudson che Wigelsworth evidenziano che dottrine deistiche poterono emergere e diffondersi in Inghilterra grazie alla dinamica atmosfera intellettuale e culturale del “Protestant Enlightenment”, e ricevettero significativi stimoli dal contesto dei dibattiti su dottrine teologiche e questioni politiche cui prendevano parte intellettuali anglicani più o meno ortodossi. In secondo luogo, entrambi gli studiosi hanno sottolineato che anche le più “radicali” riflessioni dei deisti su storia umana, religione e politica erano ancora parte di un discorso essenzialmente teologico, centrato intorno alla definizione della “vera religione” (ovviamente naturale, razionale). Ciò fu dovuto principalmente alla mentalità e alla situazione dell’epoca, in cui idee e pratiche politiche e sociali erano ancora connesse, in vari modi e a vari livelli, con concezioni essenzialmente teologiche. A tal proposito, Hudson e Wigelsworth sostengono che i deisti ricercarono essenzialmente una riforma, in senso razionale, della vita religiosa, politica e sociale nel contesto in cui essi agivano. E tale ricerca di una riforma contribuì infine a caratterizzare i deisti come “catalizzatori” dell’Illuminismo, in Inghilterra come sul Continente, dove le opere di autori come Toland, Collins e in seguito il “blasfemo” Annet ebbero significativi influssi (anche se, nel caso di Toland, la sua opera godette di una fortuna soltanto fuggevole, per essere poi riscoperta dalla storiografia novecentesca).
Riecheggiando un grande storico italiano come Franco Venturi[29], le cui opere sono ancora apprezzate e studiate dagli esperti di Illuminismo di tutto il mondo, e di cui lo stesso Hudson si ritiene debitore, potremmo infine sostenere che il deismo inglese ebbe una portata europea ed epocale poiché la relativa sicurezza del contesto culturale e sociale inglese permise ai deisti di conoscere opere e idee, provenienti in gran parte dall’Olanda (ad esempio, le dottrine di Spinoza, ma anche la teologia arminiana e l’ermeneutica di Richard Simon), che altrove sarebbe stato ben più difficile reperire. Inoltre, la dinamicità del “Protestant Enlightenment” inglese consentì ai deisti di prendere parte a dibattiti teologici, politici e culturali di varia natura, e caratterizzati da vari livelli di comunicazione. Lo stesso contesto di tali dibattiti, che non avrebbero potuto aver luogo in una società meno tollerante, offrì ai deisti numerosi stimoli e opportunità di ricerca e pensiero.
Per questi motivi, i deisti inglesi poterono formulare tesi tendenti in gran parte, nell’immediato, a una riforma della società e cultura inglese, ma risultate, sul lungo periodo e alla luce di ulteriori interpretazioni, tra i principali contributi alla formazione della moderna società occidentale: una società sostanzialmente secolarizzata, a dispetto di contraddizioni e dilemmi che ancora persistono, ma la cui persistenza è forse dovuta non tanto a presunti, sebbene non meglio definiti, difetti intrinseci ai valori dell’Illuminismo (valori invece ben descritti da Jonathan Israel, come notato in precedenza), quanto al fatto che i più alti principi dell’Illuminismo non hanno ancora trovato una piena e compiuta applicazione nella realtà odierna.

Note

[1]A. O. Lovejoy, The Parallel of Deism and Classicism, in Id., Essays in the History of Ideas, Baltimore, 1948, pp. 79-88; F.H. Heinemann, John Toland and the Age of Enlightenment, in «Review of English Studies», 20, 1944, pp. 125-146; Id., John Toland, France, Holland and Dr. Williams, in «Review of English Studies», 25, 1949, pp. 346-349; Id., John Toland and the Age of Reason, in «Archiv für Philosophie», 4, 1950, pp. 35-66; R.L. Colie, Spinoza and the Early English Deists, in «Journal of the History of Ideas», 20, 1959, pp. 23-46; Ead., Spinoza in England, 1665-1730, in «Proceedings of the American Philosophical Society», 107, 1963, pp. 183-219.

[2] Vedi soprattutto M.C. Jacob, John Toland and the Newtonian Ideology, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 32, 1969, pp. 301-331; Ead., The Radical Enlightenment: Pantheists, Freemasons, and Republicans, London, 1981; J. O’Higgins, Anthony Collins: The Man and His Works, The Hague, 1970; H.G. Reventlow, Bibelautorität und Geist der Moderne, Göttingen, 1980; R.E. Sullivan, John Toland and the Deist Controversy: A Study in Adaptations, Cambridge (Mass.), 1982. Riguardo alla storiografia italiana del periodo, si vedano soprattutto M. Sina, L’avvento della ragione: “Reason” e “above Reason” dal razionalismo teologico inglese al deismo, Milano, 1976; M. Firpo, John Toland e il deismo inglese, in «Rivista storica italiana», 90, 1978, pp. 327-380; C. Giuntini, Panteismo e ideologia repubblicana: John Toland (1670-1722), Bologna, 1979; M. Iofrida, La filosofia di John Toland. Spinozismo, scienza e religione nella cultura europea fra ‘600 e ‘700, Milano, 1983.

[3] Lucci, Scripture and Deism: The Biblical Criticism of the Eighteenth-Century British Deists, Bern-New York-Oxford, 2008.

[4] P. Taranto, Du déisme à l’athéisme: la libre pensée d’Anthony Collins, Paris, 2000; J. Champion, Republican Learning: John Toland and the Crisis of Christian Culture, 1696-1722, Manchester, 2003; D. Pfanner, Tra scetticismo e libertinismo: Charles Blount (1654-1693) e la cultura del libero pensiero nell’Inghilterra degli ultimi Stuart, Napoli, 2004; S. Lalor, Matthew Tindal, Freethinker: An Eighteenth-century Assault on Religion, London-New York, 2006; D. Fouke, Philosophy and Theology in a Burlesque Mode: John Toland and the Way of Paradox, Amherst, 2007; G. Tarantino, Lo scrittoio di Anthony Collins (1676-1729). I libri e i tempi di un libero pensatore, Milano, 2007. Inoltre, il volume A Political Biography of John Toland di Michael Brown è previsto per il 2011.

[5] R.E. Sullivan, John Toland and the Deist Controversy, cit., pp. 205-234.

[6] J.G.A. Pocock, Barbarism and Religion: The Enlightenments of Edward Gibbon, 1737-1764, Cambridge, 1999, p. 9. Le traduzioni in italiano di passi da opere in inglese sono mie.

[7] J.I. Israel, Enlightenment Contested: Philosophy, Modernity and the Emancipation of Man, 1670-1752, Oxford, 2006, p. V.

[8] Ibid., p. 869. Sui concetti di Illuminismo nella storiografia contemporanea, vedi Id., Radical Enlightenment: Philosophy and the Making of Modernity, 1650-1750, Oxford, 2001; I. Hunter, Rival Enlightenments: Civil and Metaphysical Philosophy in Early Modern Germany, Cambridge, 2001; Graeme Garrard, The Enlightenment and Its Enemies, in «American Behavioral Scientist», 49, 5, 2006, pp. 664-680; G. Ricuperati, In margine al “Radical Enlightenment” di Jonathan I. Israel, in «Rivista Storica Italiana», 115, 1, 2003, pp. 285-239; Id., “Radical” eConservative Enlightenment”: geografia, storia e critica di due concetti di periodizzazione del Settecento, in «Rivista storica italiana», 121, 1, 2009, pp. 229-270.

[9] R.E. Sullivan, John Toland and the Deist Controversy, cit.; F.C. Beiser, The Sovereignty of Reason: The Defense of Rationality in the Early English Enlightenment, Princeton, 1996; B.W. Young, Religion and Enlightenment in Eighteenth-Century England: Theological Debates from Locke to Burke, Oxford, 1998; R. Porter, Enlightenment: Britain and the Creation of the Modern World, London, 2000. Riguardo alle correnti del pensiero anglicano citate nel testo, i latitudinari perseguirono una semplificazione delle dottrine teologiche fondamentali al fine di riaccogliere un ampio numero di protestanti nonconformisti in seno alla Chiesa d’Inghilterra, mentre gli unitariani, il cui leader Stephen Nye era un ministro di culto anglicano, sostennero tesi antitrinitarie con l’intento di influenzare in tal senso la dottrina della Chiesa anglicana.

[10] J. Leland, A View of the Principal Deistical Writers, 2 vols., London, 1757. Su Herbert di Cherbury e la sua importanza storica, vedi R.D. Bedford, The Defence of Truth: Herbert of Cherbury and the Seventeenth Century, Manchester, 1979; J.A. Butler, Lord Herbert of Chirbury (1582-1648): An Intellectual Biography, Lewiston, 1990.

[11] S.J. Barnett, The Enlightenment and Religion: The Myths of Modernity, Manchester, 2003, p. 89.

[12] J. Champion, Deism, in R.H. Popkin (ed.), The Columbia History of Western Philosophy, New York, 1999, pp. 437-445.

[13] Id., The Pillars of Priestcraft Shaken: The Church of England and its Enemies, 1660-1730, Cambridge, 1992, p. 230.

[14] P. Gay, Introduction to P. Gay (ed.), Deism: An Anthology, Princeton, 1963.

[15] L. Stephen, History of English Thought in the Eighteenth Century, London, 1876, vol. I; R.L. Colie, Spinoza and the Early English Deists, cit.; Ead., Spinoza in England, cit.

[16] Sull’importanza storica del deismo inglese, con particolare riferimento ai concetti di religione naturale, vedi anche P. Byrne, Natural Religion and the Nature of Religion: The Legacy of Deism, London, 1989.

[17] J. Champion, Deism, cit., p. 437.

[18] U. Bonanate, Charles Blount: libertinismo e deismo nel Seicento inglese, Firenze, 1972; D. Pfanner, Tra scetticismo e libertinismo, cit.

[19] Hudson, The English Deists, cit., pp. 26-27.

[20] Hudson, Enlightenment and Modernity, cit., p. 23.

[21] Ibid.

[22] Wigelsworth, Deism in Enlightenment England, cit., p. 8.

[23] Ibid.

[24] Sulle diverse strategie retoriche dei deisti, vedi J.A. Herrick, The Radical Rhetoric of the English Deists: The Discourse of Skepticism, 1680-1750, Columbia (S.C.), 1997. Sulla molteplicità di interessi e livelli espressivi che Toland dimostrò sin dalla gioventù, oltre agli studi già citati, vedi S.H. Daniel, John Toland: His Methods, Manners, and Mind, Montreal, 1984; R.R. Evans, Pantheisticon: The Career of John Toland, New York, 1991; G. Brykman (ed.), John Toland (1670-1722) et la crise de la conscience européenne, «Revue de synthèse», 116, 1995; P. McGuinness, A. Harrison and R. Kearney (eds.), John Toland’s Christianity not Mysterious: Text, Associated Works and Critical Essays, Dublin, 1997.

[25] Hudson, Enlightenment and Modernity, p. 120.

[26] J. Toland, Socinianism Truly Stated, London, 1705, p. 7.

[27] J. Champion, The Pillars of Priestcraft Shaken, cit., p. 230.

[28] Wigelsworth, Deism in Enlightenment England, cit., p. 9.

[29] F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino, 1970, cap. 2.