1.
Nella prima edizione di Imagining
the
Balkans, (New York, Oxford University Press, 1997; ed. it., Immaginando
i Balcani,
Lecce, Argo, 2002) Maria Todorova rinunciava a fornire
un’analisi
esaustiva del contesto teorico entro il quale la sua argomentazione si
sarebbe
svolta, sebbene precise linee interpretative e nuove categorie
d’analisi
risultassero già pienamente operative nell’opera.
La storica di
origine bulgara sceglieva di affidare per lo più agli esiti
della sua
stessa ricerca la risoluzione di alcuni nodi problematici: le ragioni
che hanno
determinato la trasformazione di un nome geografico in “una
delle
espressioni più negative nella storia, nelle relazioni
internazionali, in
politologia,e nel discorso intellettuale tout
court”,(updated
edition, p.
7) ; la
difficoltà di ricorrere alla nozione saidiana di
orientalismo per
descrivere adeguatamente i rapporti dei Balcani con
l’Occidente;
l’impossibilità di trasferire in modo rigido le
categorie teoriche
dei postcolonial studies allo studio dei Balcani.
Nell’afterword alla update
edition l’autrice sceglie ora di dar spazio allo sviluppo e
all’approfondimento concettuale delle categorie
d’analisi
precedentemente elaborate e applicate allo studio del balkanism come
“formazione discorsiva” e dei Balcani come realia.
Ciò
che distingue l’approccio della Todorova allo studio della
retorica
balcanista sta nella consapevolezza che Est e Ovest non costituiscano
categorie
assolute, bensì concrete entità storiche, in
quanto tali non
omogenee e stabili nel tempo e nello spazio. Questa prospettiva
metodologica e
interpretativa attraversa e permea l’intero impianto
argomentativo
dell’opera e costituisce il terreno sul quale si svolge il
confronto
critico con Said. La distanza che separa la natura astratta e
impalpabile
dell’ “Oriente” saidiano dai Balcani
viene enunciata sin dal
capitolo iniziale dove l’autrice è intenta a
mostrare come il
“nomen Balkan” (p. 21), a partire dal XVIII secolo,
sia stato
associato ad una concreta entità storico-geografica.
Todorova ripercorre
attraverso lo studio di una vasta letteratura di viaggio la scoperta
dei Balcani
come entità geografica, sociale e culturale a se stante da
parte degli
osservatori europei; tale processo, i cui inizi si collocano alla fine
del
Settecento, corrisponde secondo l’autrice alla formazione di
modelli di
percezione nazionali (tra i quali quello inglese assume forse eccessiva
preponderanza, sebbene giustificata dall’autrice con ragioni
storiche e
culturali). Sotto l’influenza delle rispettive
realtà politiche e
dei discorsi politici e intellettuali correnti, gli osservatori europei
e
americani espressero opinioni differenti sui Balcani, caratterizzate da
una
grande varietà di sfumature
interne.
2. Questo processo di acquisizione e accumulazione di informazioni, che diede all’immagine dei Balcani “un carattere oscillante, generalmente privo di giudizi categorici e dolorosi” (p. 117), termina, secondo l’autrice, agli inizi del XX secolo. Con la nascita della questione macedone, lo scoppio delle guerre balcaniche e soprattutto il regicidio di Gravilo Princip , parallelamente all’emergere di identità europee o occidentali concrete, ha luogo la graduale formazione di un comune stereotipo occidentale dei Balcani: la violenza divenne il connotato essenziale, fino ad allora non dominante, dei Balcani, al quale molti altri se ne sarebbero presto aggiunti (ad esempio l’impurità razziale come fonte di disordine politico). A partire da questo momento l’aggettivo “balcanico”, spesso sovrapposto a “orientale”, viene usato frequentemente per indicare sporcizia, passività, superstizione, crudeltà, rozzezza, instabilità, in contrapposizione ad un’idea di Europa simbolo di ordine, legalità, efficienza. Questo stereotipo, secondo Todorova, avrebbe subito quella che James Clifford chiama una “cristallizzazione discorsiva”[1], diventando la forma persistente entro la quale le conoscenze sui Balcani sono state elaborate e trasmesse. Una delle espressioni più rilevanti di tale fenomeno, definito dalla studiosa bulgara con il termine di “balkanism”, è la nozione di “balcanizzazione”. A questo proposito l’autrice rileva come il termine, usato per indicare “il processo di frammentazione nazionalista di vecchie unità geografiche e politiche in nuovi piccoli stati dall’esistenza fragile” (p. 32), non fu coniato in riferimento alla disintegrazione dell’Impero ottomano, bensì fu introdotto per indicare la proliferazione di piccoli stati provocata dal crollo dell’Impero asburgico e di quello dei Romanov. A tale “decontestualizzazione storica”avrebbe fatto seguito la completa dissociazione del termine dalle sue origini geografiche e la sua trasformazione in sinonimo di “disumanizzazione, perdita dell’estetica, distruzione di civiltà” (p. 36).
3. La retorica balcanista è analizzata dall’autrice non solo nelle sue forme ed espressioni, ma anche negli effetti che essa ha prodotto sul piano dell’autopercezione interna e della concreta prassi politica. Nell’indagine sul “modo in cui i balcanici definiscono se stessi” (p. 38) l’autrice mette in evidenza fino a che punto la screditante visione esterna dei Balcani sia stata interiorizzata nella regione; attraverso la percezione collettiva di essere “un ponte tra culture”, le nazioni balcaniche mostrano di confrontarsi con “qualcosa che si può definire come balcanico” (p. 57), anche se il più delle volte rifiutato o accettato con riluttanza a fronte di una asserita europeicità . L’incarnazione dei Balcani come “altro” rispetto al quale rivendicare la propria appartenenza culturale e politica all’Europa fu una componente centrale anche nella creazione, negli anni ottanta, della nozione di Europa centrale. Ancora una volta l’interesse dell’autrice si focalizza sulla tensione tra invenzione e realtà storica: mentre la categoria di Europa centrale nasce come idea politico-culturale a sostegno di obiettivi politici contingenti (ingresso nella comunità europea), i Balcani, contro ogni riduzionismo, designano una concreta regione storico-geografica. La formazione del balkanism come “mental map “ entro la quale le attitudini e le azioni nei confronti dei Balcani sono state plasmate (p. 192) è spiegata dalla Todorova non soltanto con riferimento alle costruzioni ideali prodotte dal pensiero europeo a partire dal XVIII secolo (evoluzionismo, civiltà, cultura, progresso). Le “geografie simboliche” del continente, soprattutto in seguito alla seconda guerra mondiale e alla fine della guerra fredda, furono tracciate in funzione di configurazioni geopolitiche in costante mutamento (guerre mondiali, guerra fredda, collasso dell’Impero sovietico nell’Europa centrale e orientale, disintegrazione della Jugoslavia, espansione a est della NATO e della UE).
4.
Più di dieci anni dopo la prima apparizione del libro, con
lo sguardo
sempre rivolto alle dinamiche geopolitiche in atto, Todorova constata
la
scomparsa dell’idea di Europa centrale e l’emergere
di una nuova
designazione “politically correct”, Balcani
occidentali, (p. 192)
per indicare una zona ancora problematica, turbolenta, isolata dagli
sviluppi
che hanno investito il resto dei Balcani favorendone
l’ingresso
nell’Unione europea. Il fatto che nel presente quadro
politico
internazionale siano venute meno le ragioni per le quali una retorica
balcanista
si era andata cristallizzando, arrichendosi nel tempo di nuove
componenti
semantiche, non significa tuttavia che essa sia scomparsa. Proprio
dalla
necessità di continuare lo sforzo intellettuale iniziato nel
’97 di
demolizione dei significati che il discorso balcanista ha assunto in
sé,
nasce questa seconda edizione. Nel capitolo finale Todorova indicava
nella
nozione di “ottoman legacy” la chiave metodologica
e interpretativa
per uno studio dei Balcani come realia, come realtà storica in costante mutmento; il ritorno ad una
prospettiva
storica (opposta a quella simbolica e metastorica in cu il discorso sui
Balcani
è rimasto a lungo sommerso) era individuato dalla Todorova
come
necessario per ricostruire una conoscenza storica della regione da
opporre non
solo all’immagine congelata dei Balcani, ma anche ai discorsi
di tipo
nazionalista dominanti nelle storiografie
balcaniche.
Attraverso
l’approfondimento e affinamento teorico di questo concetto la
storica
bulgara ora si confronta, prendendone le distanze, con la proposta
avanzata da
alcuni intellettuali come Gayatri Chakravorty Spivak di studiare la
categoria e
il fenomeno del balkanism all’interno di una prospettiva postcoloniale. Secondo Maria
Todorova, se
un tale approccio può essere con profitto applicato allo
studio del balkanism come “formazione discorsiva”, all’interno
della quali i
Balcani sono assurti a metafora di “regressione al tribale,
al passato, al
primitivo, al barbarico” (p. 3), l’assenza di un
passato coloniale
impedisce altresì di analizzare in questa stessa prospettiva
l’ontologia dei Balcani.
5. Alla base di questa obiezione c’è il rifiuto di considerare l’Impero ottomano come un tardo impero coloniale. A rendere problematica tale identificazione è, secondo l’autrice, innanzitutto il carattere territorialmente organico di un impero privo al suo interno di distinzioni legali tra un centro di potere metropolitano e le sue province; in secondo luogo la mancanza di una missione civilizzatrice da parte di un’entità statale dai confini stabili e l’assenza di una conseguente condizione di egemonia linguistica e culturale da parte dei dominatori sulle popolazioni soggette, riflessa nella loro autopercezione di soggetti non coloniali . Alcuni studiosi, confrontandosi con la categoria saidiana di orientalism, hanno sviluppato il concetto di “colonialismo metaforico” per spiegare le relazioni tra Europa occidentale e i Balcani[2]. Todorova, pur ammettendo la possibilità di analizzare tale rapporto in termini di subalternità culturale (in particolare per lo studio di alcune problematiche relative all’autopercezione e rappresentazione dei soggetti in una particolare fase storica, post-1989). è interessata piuttosto a mettere in discussione il modo in cui la postcolonialità è definita come fenomeno storico. La critica ad un approccio postcoloniale allo studio dei Balcani finisce per coinvolgere così alcuni aspetti della teoria postcoloniale, le scelte metodologiche e la visione della storia ad essa sottesa. Il tentativo di articolare in senso universalista la teoria postcoloniale si scontra, infatti, con i limiti di una riflessione che è nata e si è sviluppata in rapporto a contesti storici particolari, l’Africa e il subcontinente indiano del XIX e XX secolo. Di qui la necessità, sottolineata dalla Todorova, di ricondurre all’analisi storica la definizione delle categorie di colonialismo e imperialismo e di elaborare nuovi strumenti concettuali che concorrano con quelli messi a disposizione dagli studi postcoloniali all’affermazione di interpretazioni della storia alternative a quelle che hanno dominato l’era coloniale, tuttora in gran parte correnti. La nozione di regione storica costituisce così per la Todorova il punto di partenza di una ricerca volta a studiare i Balcani innanzitutto come realia, nella loro concretezza storica e geografica.
6. Già negli anni Sessanta con la raccolta di saggi The Balkans in transition[3] Charles e Barbara Jelavich cercarono di superare le ristrette (campanilistiche) prospettive ideologiche nazionaliste dominanti nella contemporanea storiografia balcanica, focalizzando l’analisi sulla regione come un tutto e sul passato e sull’eredità ottomani come topoi principali da cui nessun’analisi storica dei Balcani può prescindere. Questa impostazione storiografica, che ha portato negli ultimi decenni a risultati importanti[4], viene ora dalla storica bulgara approfondita, forse per la prima volta, nei suoi fondamenti teorici. Con l’introduzione del concetto di eredità storica la Todorova ha inteso individuare un criterio nuovo di definizione delle regioni storiche. Contro un tipo di approccio che ha a lungo posto al centro dell’analisi i confini (con la sua enfasi eccessiva sulla differenza), l’autrice accoglie e sviluppa in senso “storico” la categoria di spazio, elaborata in ambito geografico-antropologico. Ancorando l’analisi della spazialità al tempo, il concetto di eredità storica consente, secondo la studiosa bulgara, di sfuggire al rischio di una sovrapposizione, o identificazione, acritica tra spazio-nazione-etnicità, e nello stesso tempo di restituire allo studio dei luoghi e delle identità tutta la complessità e transitorietà dei processi storici. In una visione in cui ogni regione è individuata dall’interazione tra periodi storici, tradizioni, eredità molteplici che agiscono non come permanenze o fattori identitari stabili, ma si muovono, si sovrappongono e trascorrono nel tempo, è possibile, secondo la Todorova, “liberare” i Balcani, così come l’Europa orientale, dalla ghettizzazione diacronica e spaziale a cui l’atteggiamento intellettuale e politico dominante li ha a lungo relegati.
7.
Studiare i Balcani all’interno di questa
prospettiva significa per
la Todorova affermare che essi “sono
l’eredità
ottomana” (p. 199) e insieme constatare il carattere
transitorio di quella
eredità: la scomparsa del retaggio regionale multietnico e
il subentrare
ad esso di strutture statuali etnicamente omogenee potrebbero essere
interpretabili come il compimento di un processo di europeizzazione
della
regione. Alla storica bulgara non interessa tanto la discussione sulla
nazione
come potente costruzione retorica sulla quale l’occidente
avrebbe fondato
lo stereotipo della sua superiorità
culturale[5]. Suggerendo
la
possibilità di studiare il nazionalismo
all’interno di una
prospettiva temporale di longue
durée (in cui la
natura dialogica degli eventi e dei processi storici, non
più descritti
semplicemente in termini di consecutività lineare, possa
essere
enfatizzata, coinvolgendo i Balcani in un comune processo di lungo
termine)[6],
Todorova propone di
considerare l’Europa come lo spazio di intersezione di
formazioni
regionali differenti (non gerarchiche), attraversato e delimitato da
frontiere
instabili e porose. Se al concetto di eredità storica vanno
riconosciute
le qualità euristiche ad esso attribuite dalla Todorova,
alcuni dubbi
possono essere avanzati sull’identificazione dei Balcani con
l’eredità ottomana. Sebbene riconosca la
pluralità delle
eredità politiche che hanno plasmato la penisola nei secoli
(romana,
bizantina, ottomana, comunista), affermando che i Balcani sono
l’eredità ottomana la studiosa bulgara finisce per
appiattire
l’analisi storica sul presente. Soffermarsi
sull’importanza
dell’eredità ottomana è indispensabile
per restituire alla
regione la sua unità storica e culturale, conseguenza non
del controllo
egemonico di una potenza coloniale straniera sui territori ad essa
soggetti,
bensì della complessa simbiosi tra tradizioni turche,
islamiche e
bizantine.
8.
Tuttavia, assumendo tale identificazione tra Balcani e
eredità ottomana
come centrale, il rischio è di considerare
l’Europa come la somma
di culture e storie regionali a se stanti, piuttosto che come spazio
fatto di
intersezioni, stratificazioni, convivenze. Inoltre, è forse
semplicistico
interpretare l’ “europeizzazione finale”
dei Balcani come lo
stadio avanzato della sua storia millenaria, coincidente con la fine
stessa dei
Balcani e quindi dell’eredità ottomana;
l’imporsi dello
stato-nazione come modello naturale di sviluppo politico costituisce
forse solo
l’esito finale e più rilevante di un processo
più lungo e
complesso. Questi rilievi nascono dalla convinzione delle
potenzialità di
sviluppo e della validità che l’approccio
metodologico proposto
dalla Todorova può avere al fine di
“de-provincializzare”
l’Europa – per usare le parole della storica
bulgara – e di
reintegrare la storia balcanica in quella dell’intero
continente.
Facendo
del concetto di eredità storica la componente preliminare
per uno studio
empirico, ma teoricamente consapevole, dei Balcani, Todorova ha con
grande acume
compreso come lo smantellamento delle astratte dicotomie e del sistema
di
generalizzazioni in cui non solo il discorso pubblico ma anche quello
accademico
restano spesso intrappolati, non può esaurirsi in uno sforzo
puramente
decostruzionista. L’elaborazione di innovativi strumenti
concettuali in
grado di aprire nuove prospettive nell’indagine storica stricto
sensu, potrebbe
risultare euristicamente più feconda per liberare la
conoscenza dal peso
delle cristallizzazioni discorsive o delle geografie simboliche e
metastoriche.
[1] J. Clifford, “On Orientalism”, in The Predicament of Culture: Twentieth Century Ethnography, Literature, and Art, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1988.
[2] Vesna Goldsworthy, Inventing Ruritania: The Imperialism of the Imagination , New Haven (Ct), Yale University Press, 1998; Olga Augustinos, French Odysseys: Greece in French Travel Literature from the Renaissance to the Romantic Era, Baltimore, Johns Hopkins University Press,1994; Artemis Leontis, Topographies of Hellenism: Mapping the Homeland , Ithaca and London, Cornell University Press, 1995.
[3] The Balkans in transition. Esseys on the development of the Balkan life and politics since tne eighteenth century. Edited by Charles and Barbara Jelavich, Barkeley and Los Angeles, University of California Press, 1963.
[4] Il retaggio ottomano, nel periodo successivo all’indipendenza, di una struttura fondiaria e produttiva basata sulla libera proprietà contadina e sul conseguente annientamento delle aristocrazie indigene, è stata una delle scoperte più rilevanti compiute all’interno del rinnovamento degli studi sull’area balcanica.
[5] Chatterjee P. , The Nation and its Fragments, Colonial and Postcolonial Histories, Princeton University Press,1993.
[6] M. Todorova, The trap of Backwardness: Modernity, Temporality, and the Study of Eastern European Nationalism, «Slavic Review», vol. 64, n. 1, Spring, 2005, pp. 140-164.