La censura ecclesiastica nel Settecento

Patrizia Delpiano
Università di Torino

1. Nell’affrontare il problema della censura ecclesiastica nel Settecento attraverso le pagine del volume di Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia (Milano, Oscar Mondadori, 2006), va innanzi tutto sottolineato che gli studi non abbondavano prima della pubblicazione dell’opera, e non abbondano ora, benché negli ultimi due anni siano usciti alcuni lavori, frutto di scavi compiuti presso l’Archivio della congregazione per la dottrina della fede. In effetti, la storia del controllo librario nel XVIII secolo è stata a lungo ricostruita privilegiando l’organizzazione, in vari contesti italiani, di apparati censori di Stato, la cui nascita rappresentò senza dubbio un momento di rottura rispetto al passato in quanto espressione della battaglia giurisdizionalistica diretta a ridurre il monopolio ecclesiastico in fatto di stampa e letture [1]. Scarso appare invece l’interesse per la censura ecclesiastica così come, del resto, per l’Inquisizione più in generale, secondo l’ipotesi che il sistema di divieti ideato in epoca controriformistica fosse in piena decadenza nell’età della ragione, sottoposto al duplice e vincente attacco della politica anticuriale da un lato e del movimento illuminista dall’altro. Non che prima del 2006 mancassero contributi su aspetti specifici. Basti pensare ai saggi di Mario Rosa sulla censura dell’Esprit des lois e dell’Encyclopédie [2] e alle successive ricerche che, sollecitate anche dall’apertura dell’Archivio romano nel 1998, hanno portato alla luce tempi e motivi della messa all’Indice di vari testi [3]. A mancare era, però, un tentativo di ricostruzione complessiva dell’istituzione; ed è questo sforzo, in primo luogo, a caratterizzare il libro di Del Col.
La questione della censura costituisce naturalmente soltanto uno dei molteplici fili conduttori dell’imponente volume che contempla ben dieci secoli di storia; d’altra parte, al XVIII secolo è dedicato un centinaio di pagine (il 10% circa del totale), mentre il cuore si trova nel Cinquecento, soprattutto nel secondo Cinquecento, esaminato in dettaglio nei diversi contesti geografici e mediante le vicende di numerosi personaggi. Muovendo dalla cronologia, l’analisi relativa al Settecento risulta divisa in due periodi. Il primo è compreso in un arco temporale che va dal 1644 (è la fine del pontificato di Urbano VIII) per giungere al 1740, anno di ascesa al soglio pontificio di Benedetto XIV, e coincide con una fase di «azione ordinaria dell’Inquisizione romana» (parte III, cap. III), proiettata più verso il Seicento, in realtà. Il secondo periodo, tra il 1740 e il 1814, è segnato dall’«opposizione della Chiesa all’Illuminismo e [dalla] chiusura delle sedi inquisitoriali periferiche» (ivi, cap. IV). Emerge insomma un secolo scisso fra le continuità che lo legano a un passato di procedure consolidate (si veda in tal senso anche il quinto capitolo sulle strutture dell’Inquisizione tra Cinquecento e Settecento) e i mutamenti che lo connettono al futuro: un futuro che è rappresentato, da un lato, dall’Illuminismo, volto a rivendicare la centralità della ragione sulla rivelazione e, dall’altro, dalla crisi dell’apparato post-tridentino.

2. La censura ecclesiastica settecentesca, analizzata nella sua dimensione non preventiva, bensì repressiva – e di cui continuavano a occuparsi sia la congregazione dell’Indice sia il tribunale del Sant’Ufficio –, è restituita dall’autore richiamandosi a casi celebri di letterati processati e morti in prigione nella prima metà del secolo: dal giurisdizionalista Pietro Giannone, la cui Istoria civile del Regno di Napoli era stata proibita nello stesso anno di pubblicazione (1723) e che finì la sua vita nelle carceri sabaude, al poeta massone Tommaso Crudeli, arrestato nel 1739 dopo la bolla papale contro la massoneria (1738). Per il resto, si ricordano interventi tesi a censurare libri e non a condannare uomini. Compaiono così, tra gli altri, divieti di manuali di esorcismo, di testi relativi alla teoria eliocentrica e alla massoneria, ma il nucleo dell’epoca si trova nell’attacco all’Illuminismo e al giansenismo. Riguardo al rapporto tra cattolicesimo ufficiale e Lumi, Del Col condivide l’idea di una Chiesa dapprima cautamente aperta all’«Illuminismo moderato» (p. 711). Ne sarebbe testimonianza, secondo una tesi consolidata, il papato di Benedetto XIV (1740-58), ben disposto a stipulare concordati con gli Stati e ad accogliere esponenti di questo Illuminismo: esemplare la vicenda di Ludovico Antonio Muratori, la cui opera Della regolata divozion de’ cristiani (1747), intrisa di una «religiosità sobria ed essenziale» (p. 711), pur denunciata dai gesuiti, sfuggì alla proscrizione. Soltanto in seguito, nel corso degli anni Cinquanta, papa Lambertini avrebbe attuato una «svolta conservatrice» ripiegando su «scelte severe e integraliste» (pp. 699-700) di fronte a un movimento che si era nel frattempo radicalizzato. «L’aspro scontro fra Chiesa cattolica e Illuminismo», per riprendere le parole dell’autore (pp. 711 e sgg.), è quindi delineato con attenzione in primo luogo ai numerosi decreti che nei decenni successivi colpirono la cultura philosophique francese: la produzione di Voltaire, De l’esprit des e poi le Lettres persanes di Montesquieu, il Contrat social e l’Émile di Rousseau e testi di d’Holbach, per ricordare soltanto alcuni dei letterati banditi. Il percorso prosegue con quelle che l’autore definisce «le poche condanne in Italia» e che, a ben vedere, non furono così poche: da Dei delitti e delle di Cesare Beccaria a La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti di Cosimo Amidei, da Di una riforma ’Italia alle Riflessioni di un italiano sopra la Chiesa di Carlantonio Pilati; accanto a quelle citate, altre se ne potrebbero aggiungere, tra cui la doppia censura della Scienza di Gaetano Filangieri (nel 1784 e nel 1826), per esempio, e quella delle Lezioni di commercio di Antonio Genovesi nel 1817. Quanto al giansenismo, esso fu arginato più che duramente represso, secondo quanto sottolinea giustamente Del Col, ché alla proibizione di libri (di Pietro Tamburini, tra gli altri) non fecero seguito ritorsioni contro i rappresentanti del movimento. Non che il giansenismo facesse meno paura, come pure riflette l’autore. Vero è semmai che la Chiesa doveva restare compatta contro il mondo dei Lumi e, non a caso, i seguaci di Giansenio furono in prima fila tra i protagonisti della messa al bando della philosophie.
A contraddistinguere il Settecento fu senza dubbio la nascita di censure di Stato in vari spazi della penisola. Si trattò di una svolta capace di porre fine all’alleanza di lungo periodo che i troni avevano tacitamente stipulato con l’altare in nome della stabilità interna e dell’uniformità religiosa. Questa svolta si verificò in tempi diversi nei differenti contesti geografici, ma furono gli anni Quaranta (nel granducato di Toscana e nel regno sabaudo) a costituire il momento d’avvio di un processo che portò a rapporti sempre più difficili tra Stati e Chiesa: dalla delimitazione del ruolo dei tribunali inquisitoriali, progressivamente sottoposti a controlli statali, fino alla loro soppressione. Fu un processo lento e variegato, che si snodò in altri contesti italiani soprattutto dagli anni Settanta del Settecento al 1806. Scarsi, comunque, appaiono gli interventi censori da parte delle inquisizioni locali già prima della loro formale chiusura.

3. Il libro di Del Col non ha soltanto il pregio di offrire un tentativo di sistematizzazione che ingloba anche il Settecento a partire da una rilettura critica dei dati disponibili e dalla lettura di alcune nuove fonti. In merito alla storia dell’Inquisizione in generale, l’autore si interroga criticamente sull’effettivo declino dell’azione inquisitoriale e in tal senso fa affiorare le permanenze rispetto al passato: in alcune sedi periferiche (a Modena, Malta e Siena) l’attività non soltanto continuò, ma addirittura aumentò. Un certo dinamismo caratterizzò pure il tribunale romano, come si deduce dagli inventari dell’Archivio centrale, malgrado l’assenza dei processi risalenti all’ultimo trentennio del Settecento, scomparsi con il fondo finito a Parigi all’inizio dell’Ottocento. È questa una riflessione importante, che non era emersa nelle sintesi precedenti, ove trattando del Settecento si era tenuto conto di un numero minore di tribunali periferici [4], e che trova del resto conferma nei contemporanei lavori di Elena Brambilla [5]. In materia di censura, invece, viene alla luce un Settecento del mutamento, legato al sorgere di censure di Stato capaci di ostacolare, quando non di impedire, le procedure censorie della Chiesa. Sarebbe questo il tratto saliente del Settecento, vale a dire la politica giurisdizionalistica che finì con l’erodere il potere delle inquisizioni locali e che – occorre evidenziarlo – si configura come mutamento esterno, e non interno, alla Chiesa.
Due osservazioni generali si impongono utilizzando anche gli spunti e i dati emersi dalle ricerche successive. La prima riguarda la periodizzazione proposta, centrata sullo spartiacque del 1740, come si è accennato. Tale periodizzazione è spiegata con il fatto che da allora, e fino all’inizio dell’Ottocento, la Chiesa visse una fase di assediamento di fronte allo sviluppo del giurisdizionalismo e al timore «della convergenza di giansenisti, deisti, massoni e seguaci del febronianesimo»: in quel periodo «la gerarchia reagì chiamando a raccolta le proprie forze migliori, soprattutto quelle dei vescovi, e mise in moto una vasta campagna a difesa della fede contro le nuove ideologie e le pretese degli Stati» (pp. 626-627). Proprio perché la periodizzazione scelta e le ragioni della scelta sono pienamente condivisibili, sorgono interrogativi in merito all’interpretazione del pontificato di Benedetto XIV: esso, infatti, da un lato risulta pienamente inserito in questa fase di progressiva chiusura al mondo moderno da parte delle gerarchie vaticane, mentre dall’altro, almeno nel suo primo periodo, appare disponibile a un dialogo con la cultura dell’Illuminismo. In realtà, benché l’autore condivida l’idea di un pontificato dapprima cautamente aperto ai Lumi e solo in seguito duramente schierato contro il movimento, nel testo prevale nettamente la ricostruzione dello scontro e non della mediazione. E se la periodizzazione è sempre interpretazione, non è un forse un caso che tutti gli anni del pontificato di papa Lambertini siano confluiti nella parte consacrata alla campagna in difesa della tradizione contro i novatores. Del tutto convincenti sono del resto le pagine dedicate al significato complessivo della riorganizzazione della censura attuata da Benedetto XIV con la bolla Sollecita ac provvida (1753) e sfociata nel nuovo Indice del 1758. Questa riforma, che vari studiosi hanno letto quale espressione di una politica di tolleranza, sembra piuttosto la spia di un tentativo di proporre rinnovate strategie volte a incoraggiare, tra i letterati, la pratica dell’autocensura e a creare uno strumento aggiornato e così adeguato a combattere gli errori contemporanei. Gli elementi innovativi vanno dunque ridimensionati, come è confermato anche dal recente volume di Elisa Rebellato, La fabbrica dei divieti (2008), che scorge nell’Indice di papa Lambertini l’esito di uno sforzo di sistematizzazione più che di innovazione [6].

4. La seconda osservazione concerne l’ipotesi di una sostanziale inefficacia della censura ecclesiastica nel secondo Settecento, quando il controllo dottrinale, secondo l’autore, si sarebbe ridotto (p. 700). In proposito va però sottolineato che, se inquadriamo la storia dell’Inquisizione nel più ampio contesto culturale, la crisi dell’Inquisizione non comportò affatto la fine dello sforzo di sorveglianza sulla circolazione libraria da parte delle gerarchie vaticane. In risposta allo svuotamento dei suoi poteri in periferia, il Sant’Ufficio romano puntò infatti sulle armi della persuasione e fece appello ai vescovi sia in terra papale sia nel resto della penisola attraverso lettere circolari con cui tentò di organizzare una campagna volta ad arrestare il flusso di testi proibiti; e il papato, dal canto suo, chiamò a raccolta pastori e fedeli contro le letture pericolose mediante l’uso di encicliche (si ricordino la Christianae reipublicae. De novis noxiis libris emanata nel 1766 da Clemente XIII e la Inscrutabile divinae sapientiae pubblicata nel 1775 da Pio VI). Inoltre, spostando definitivamente il baricentro dalle tecniche repressive a quelle persuasive, i vertici cattolici rilanciarono una vera e propria guerra dei libri contro il diffondersi dei Lumi: una guerra che fu combattuta, nell’ambito dei rapporti di committenza ecclesiastica, grazie alla pubblicazione di confutazioni di testi all’Indice, di traduzioni di opere antiphilosophiques e di recensioni edite su periodici legati alla Santa Sede, dirette a stroncare la produzione proibita. In tal senso, nel Settecento affondano dunque le radici nuovi sistemi di orientamento del pubblico dei lettori [7].

5. Sfogliando i contributi pubblicati dopo l’uscita del volume di Del Col o, comunque, negli ultimi anni, si può osservare che essi hanno seguito tre direzioni principali. In primo luogo, sono state analizzate le strategie complessive messe in atto dalla Chiesa settecentesca al fine di governare stampa e cultura, evidenziando come la censura abbia costituito soltanto una di queste strategie. Ne è emerso un duplice aspetto: da un lato – a confermare il quadro delineato da Del Col – la grande difficoltà incontrata da parte ecclesiastica nell’arginare la circolazione dei libri proibiti anche per il mutare delle politiche attuate dai poteri civili; dall’altro, però, la continuità dello sforzo repressivo laddove si poteva, ossia all’interno dello Stato pontificio, e nel contempo il moltiplicarsi, in tutta la penisola, degli strumenti utilizzati per educare i fedeli nei loro percorsi di lettura (dalle prediche ai catechismi ai manuali di comportamento). Chiara è inoltre la progressiva severità delle gerarchie sul piano delle intenzioni. E basti in proposito pensare che nel corso del secolo fu messa all’Indice gran parte dei classici dell’Illuminismo italiano ed europeo e che vi fu un crescente rigore nella scelta di escludere dalle licenze di lettura alcuni testi, quando non di condannarli al rogo. Si è così colmata, almeno in parte, una lacuna segnalata da Del Col, che lamentava proprio l’assenza di studi sulla risposta ecclesiastica di fronte al sorgere di apparati censori di Stato (p. 730) [8]. In secondo luogo, soprattutto da parte degli storici della cultura, si è fatta luce sui censori coinvolti e sui tempi e i motivi delle condanne analizzando pareri di censura più o meno noti nell’intento di studiare le reazioni della Chiesa, e delle sue correnti interne, al mondo dei Lumi per affrontare sostanzialmente l’annoso e centrale problema del rapporto tra cattolicesimo e Illuminismo: si può ricordare la dettagliata analisi della vicenda dell’Encyclopédie offerta da Catherine Maire nel 2007 e volta tra l’altro a ricostruire il ruolo dei giansenisti [9]. In terzo luogo, presso gli studiosi di storia del libro e della lettura, la censura è stata ricondotta alla storia della circolazione libraria. Le ricerche in tal senso hanno portato a sottolineare, in generale, che la censura non funzionava affatto in un’epoca caratterizzata da un’ampia diffusione delle opere proibite. Significativo, in questa direzione, è il volume di Stefania Valeri, Libri nuovi scendon l’Alpi (2006), che lavorando sulla produzione francese all’Indice ha sostenuto (e non è la sola) che i divieti non facevano che incrementare il piacere delle letture proibite [10].

6. Tentando un bilancio complessivo, occorre osservare che la Chiesa appare tutt’altro che immobile nel corso del Settecento e, anzi, sembra essere stata capace di opporsi alle nuove correnti di pensiero (in particolare alla cultura philosophique), seppure con grande lentezza e a dispetto di orientamenti non del tutto uniformi al suo interno. La decadenza del sistema inquisitoriale per quanto riguarda la censura non significò affatto la rinuncia, da parte dello stesso Sant’Ufficio e delle gerarchie, al controllo dottrinale su stampa e lettura. Se le politiche giurisdizionalistiche posero in crisi il potere ecclesiastico, non bisogna d’altra parte dimenticare che la nascita di una censura di Stato in alcuni contesti, come quello sabaudo, finì per costituire un rafforzamento dell’alleanza fra trono e altare, al di là poi dei circuiti clandestini del libro [11]. Il rapporto tra censura ecclesiastica e censura laica va insomma ulteriormente approfondito nei suoi esiti concreti, contestualizzandolo nei vari spazi della penisola ed elaborando così una geografia che tenga conto di elementi comuni e differenze, secondo la strada percorsa da Milena Sabato nel volume Poteri censori (2007), ove, per il Regno di Napoli tra Settecento e Ottocento, si mostra l’alternanza di momenti di antagonismo e di intesa tra Stato e Chiesa [12].
Molto resta da fare, anche se la prossima uscita del Dizionario storico dell’Inquisizione, a cura di Adriano Prosperi e John Tedeschi (Pisa, Edizioni della Normale, in corso di stampa) potrà colmare lacune in merito alla censura di autori e movimenti. Lo sforzo dovrebbe essere quello di intrecciare storia della censura e storia della lettura, due prospettive che finora hanno spesso costituito universi separati, domandandosi non soltanto se la censura ecclesiastica funzionasse o non funzionasse in generale, ma soprattutto presso quali gruppi e individui continuasse ad agire: un interrogativo duplice, questo, perché coinvolge sia i lettori sia gli autori. Riguardo ai lettori, sono molti gli studiosi a condividere l’idea che nel Settecento la censura ecclesiastica avesse ormai perso il suo ruolo e che l’Indice non fosse che uno strumento di pubblicità gratuita per gli editori. È un problema che si pone particolarmente per il Settecento (ma non solo) quando – come sottolinea lo stesso Del Col – la presenza di diversi sistemi censori in ogni Stato della penisola finì con l’erodere l’efficacia dei controlli. Vero è inoltre che nel XVIII secolo, in certi settori culturali, iniziò a manifestarsi (quanto timidamente resta da comprendere) un’opinione pubblica critica verso le istituzioni religiose e politiche e favorevole alla libertà di stampa. Occorre, però, ancora interrogarsi sulla questione non tanto estendendo l’indagine all’attività delle sedi periferiche (difficile ipotizzare la presenza di un’alacre azione censoria), quanto piuttosto lavorando sulle differenze tra élite e ceti popolari e tra libro e libro [13]. Fondamentale appare poi valutare il peso non solo delle condanne all’Indice, ma anche della funzione svolta sulle coscienze dei fedeli da parroci, predicatori e confessori pronti a mettere in guardia dai pericoli dei libri proibiti. Senza contare poi che l’Indice, come si è accennato, dettava le linee della politica editoriale ecclesiastica. Riguardo agli autori, nulla o poco sappiamo della pratica dell’autocensura, su cui varrebbe la pena di indagare. Del Col, tra gli altri, offre uno spunto più generale sugli esiti della censura sulla storia della cultura italiana osservando che i divieti delle opere illuministe «non fermarono comunque gli sviluppi del pensiero in Europa, anche se contribuirono a limitarne l’influsso nei paesi cattolici» (p. 713). Quanto lo abbiano limitato è un aspetto che resta ancora da chiarire, se si pensa che l’Illuminismo ha costituito un bersaglio polemico di ben lungo periodo per una parte del mondo ecclesiastico. L’attuale crisi della laicità spinge insomma a volgersi all’età della ragione e al difficile incontro tra Chiesa e Lumi con nuovi interrogativi.

Note

[1] Si ricordano qui, tra gli altri, per i contesti veneto, piemontese e toscano, M. Infelise, L’editoria veneziana nel ‘700, Milano, Franco Angeli, 19912 (I ed. 1989), pp. 99 e sgg.; L. Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Firenze, Olschki, 1995, pp. 73-140; S. Landi, Il governo delle opinioni. Censura e formazione del consenso nella Toscana del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 75 e sgg.

[2] M. Rosa, Sulla condanna dell’Esprit des lois e sulla fortuna di Montesquieu in Italia, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XIV, 1960, pp. 411-428, ampliato in Cattolicesimo e «lumi»: la condanna romana dell’«Esprit des lois», in Id., Riformatori e ribelli nel ‘700 religioso italiano, Bari, Dedalo, 1969; Id., Encyclopédie, «Lumières» et tradition au 18e siècle en Italie, «Dix-huitième siècle», 1972, 4, pp. 109-168.

[3] L. Macé, Les premières censures romaines de Voltaire, «Revue d’histoire littéraire de la France», XCVIII, 1998, 4, pp. 531-551; Ead., Les Lumières françaises au tribunal de l’Index et du Saint-Office, «Dix-huitième siècle», 34, 2002, pp. 13-25; Ead., Les lettres persanes devant l’Index: une censure ‘posthume’, in Montesquieu en 2005, a cura di C. Volpilhac-Auger, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 2005, 5, pp. 48-59; C. Maire, La censure différée de l’Esprit des lois par Mgr. Bottari, «Rivista di storia e letteratura religiosa», XLI, 2005, pp. 175-191.

[4] Si veda G. Romeo, LInquisizione nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2002.

[5] E. Brambilla, I poteri giudiziari dei tribunali ecclesiastici nell’Italia centro-settentrionale e la loro secolarizzazione, in C. Donati e H. Flachenecker, a cura di, Le secolarizzazioni nel Sacro romano impero e negli antichi Stati italiani: premesse, confronti, conseguenze, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 2005; Ead., La giustizia intollerante. Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma, Carocci, 2006.

[6] E. Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto XIV, Milano, Sylvestre Bonnard, 2008.

[7] Su questi temi si rinvia a P. Delpiano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2007.

[8] Ivi.

[9] C. Maire, L’entrée des «Lumières» à l’Index. Le tournant de la double censure de l’Encyclopédie en 1759, in «Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie», 2007, 42, pp. 107-139. Tra gli altri contributi, si segnala G. Imbruglia, La censura romana di “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Arch. della Congregazione dell’Indice, Acta et documenta, 1763-1767), «Studi settecenteschi», 25-26, 2005-2006, pp. 119-161.

[10] S. Valeri, Libri nuovi scendon l’Alpi. Venti anni di relazioni franco-italiane negli archivi della Société typographique de Neuchâtel (1769-1789), Macerata, Eum, 2006. In questo filone rientra la tesi di dottorato di Laurence Macé sulla circolazione di Voltaire in Italia, una parte della quale esamina le censure delle opere volterriane: Lecture et censure au siècle des Lumières. Voltaire en Italie (1734-1815), sous la direction de S. Menant, Paris Sorbonne-Paris IV, dicembre 2007.

[11] Braida, Il commercio delle idee.

[12] M. Sabato, Poteri censori. Disciplina e circolazione libraria nel Regno di Napoli fra ‘700 e ‘800, Galatina, Congedo Editore, 2007.

[13] Basti pensare che di un classico del materialismo settecentesco, ovvero del Système de la nature (1770) di d’Holbach, condannato dal Sant’Ufficio nello stesso anno della sua pubblicazione ed escluso dalle licenze di letture (censurato, del resto, anche da autorità statali in tutta Europa), furono ordinate in tutta la penisola solo novanta copie tra il 1771 e il 1788: Valeri, Libri nuovi scendon l’Alpi, p. 47.