1.
Nell’affrontare il problema della censura ecclesiastica nel
Settecento
attraverso le pagine del volume di Andrea Del Col, L’Inquisizione
in Italia (Milano,
Oscar Mondadori, 2006), va innanzi tutto sottolineato che gli studi non
abbondavano prima della pubblicazione dell’opera, e non
abbondano ora,
benché negli ultimi due anni siano usciti alcuni lavori,
frutto di scavi
compiuti presso l’Archivio della congregazione per la
dottrina della
fede.
In
effetti, la
storia del controllo librario nel XVIII secolo è stata a
lungo
ricostruita privilegiando l’organizzazione, in vari contesti
italiani, di
apparati censori di Stato, la cui nascita rappresentò senza
dubbio un
momento di rottura rispetto al passato in quanto espressione della
battaglia
giurisdizionalistica diretta a ridurre il monopolio ecclesiastico in
fatto di
stampa e
letture
[1].
Scarso appare invece l’interesse per la censura ecclesiastica
così
come, del resto, per l’Inquisizione più in
generale, secondo
l’ipotesi che il sistema di divieti ideato in epoca
controriformistica
fosse in piena decadenza nell’età della ragione,
sottoposto al
duplice e vincente attacco della politica anticuriale da un lato e del
movimento
illuminista dall’altro. Non che prima del 2006 mancassero
contributi su
aspetti specifici. Basti pensare ai saggi di Mario Rosa sulla censura
dell’Esprit
des lois e
dell’Encyclopédie
[2]
e
alle successive
ricerche che, sollecitate anche dall’apertura
dell’Archivio romano
nel 1998, hanno portato alla luce tempi e motivi della messa
all’Indice di
vari
testi
[3].
A mancare era, però, un tentativo di ricostruzione
complessiva
dell’istituzione; ed è questo sforzo, in primo
luogo, a
caratterizzare il libro di Del
Col.
La
questione della censura costituisce naturalmente soltanto uno dei
molteplici
fili conduttori dell’imponente volume che contempla ben dieci
secoli di
storia; d’altra parte, al XVIII secolo è dedicato
un centinaio di
pagine (il 10% circa del totale), mentre il cuore si trova nel
Cinquecento,
soprattutto nel secondo Cinquecento, esaminato in dettaglio nei diversi
contesti
geografici e mediante le vicende di numerosi personaggi. Muovendo dalla
cronologia, l’analisi relativa al Settecento risulta divisa
in due
periodi. Il primo è compreso in un arco temporale che va dal
1644
(è la fine del pontificato di Urbano VIII) per giungere al
1740, anno di
ascesa al soglio pontificio di Benedetto XIV, e coincide con una fase
di
«azione ordinaria dell’Inquisizione
romana» (parte III, cap.
III), proiettata più verso il Seicento, in
realtà. Il secondo
periodo, tra il 1740 e il 1814, è segnato
dall’«opposizione
della Chiesa all’Illuminismo e [dalla] chiusura delle sedi
inquisitoriali
periferiche»
(ivi,
cap. IV). Emerge insomma un secolo scisso fra le continuità
che lo legano
a un passato di procedure consolidate (si veda in tal senso anche il
quinto
capitolo sulle strutture dell’Inquisizione tra Cinquecento e
Settecento) e
i mutamenti che lo connettono al futuro: un futuro che è
rappresentato,
da un lato, dall’Illuminismo, volto a rivendicare la
centralità
della ragione sulla rivelazione e, dall’altro, dalla crisi
dell’apparato post-tridentino.
2. La
censura ecclesiastica settecentesca, analizzata nella sua dimensione
non
preventiva, bensì repressiva – e di cui
continuavano a occuparsi
sia la congregazione dell’Indice sia il tribunale del
Sant’Ufficio
–, è restituita dall’autore
richiamandosi a casi celebri di
letterati processati e morti in prigione nella prima metà
del secolo: dal
giurisdizionalista Pietro Giannone, la cui Istoria
civile del Regno di Napoli
era
stata proibita
nello stesso anno di pubblicazione (1723) e che finì la sua
vita nelle
carceri sabaude, al poeta massone Tommaso Crudeli, arrestato nel 1739
dopo la
bolla papale contro la massoneria (1738). Per il resto, si ricordano
interventi
tesi a censurare libri e non a condannare uomini. Compaiono
così, tra gli
altri, divieti di manuali di esorcismo, di testi relativi alla teoria
eliocentrica e alla massoneria, ma il nucleo dell’epoca si
trova
nell’attacco all’Illuminismo e al giansenismo.
Riguardo al rapporto
tra cattolicesimo ufficiale e Lumi, Del Col condivide l’idea
di una Chiesa
dapprima cautamente aperta all’«Illuminismo
moderato» (p. 711).
Ne sarebbe testimonianza, secondo una tesi consolidata, il papato di
Benedetto
XIV (1740-58), ben disposto a stipulare concordati con gli Stati e ad
accogliere
esponenti di questo Illuminismo: esemplare la vicenda di Ludovico
Antonio
Muratori, la cui
opera Della regolata divozion de’ cristiani (1747),
intrisa di
una «religiosità sobria ed essenziale»
(p. 711), pur denunciata
dai gesuiti, sfuggì alla proscrizione. Soltanto in seguito,
nel corso
degli anni Cinquanta, papa Lambertini avrebbe attuato una
«svolta
conservatrice» ripiegando su «scelte severe e
integraliste» (pp.
699-700) di fronte a
un
movimento
che si
era nel frattempo radicalizzato. «L’aspro scontro
fra Chiesa
cattolica e Illuminismo», per riprendere le parole
dell’autore (pp.
711 e sgg.), è quindi delineato con attenzione in primo
luogo ai numerosi
decreti che nei decenni successivi colpirono la cultura philosophique
francese: la produzione di Voltaire,
De
l’esprit des
e poi le
Lettres
persanes di
Montesquieu, il
Contrat
social e
l’Émile di Rousseau e testi di d’Holbach, per ricordare soltanto
alcuni dei
letterati banditi. Il percorso prosegue con quelle che
l’autore definisce
«le poche condanne in Italia» e che, a ben vedere,
non furono
così poche: da Dei
delitti e delle
di Cesare
Beccaria a
La
Chiesa e la repubblica dentro i loro
limiti di Cosimo
Amidei, da
Di
una riforma
’Italia
alle
Riflessioni
di un italiano sopra la
Chiesa di
Carlantonio Pilati; accanto a quelle citate, altre se ne potrebbero
aggiungere,
tra cui la doppia censura della
Scienza
di Gaetano Filangieri (nel 1784 e nel 1826), per esempio, e quella
delle
Lezioni
di commercio di
Antonio Genovesi nel 1817. Quanto al giansenismo, esso fu arginato
più
che duramente represso, secondo quanto sottolinea giustamente Del Col,
ché alla proibizione di libri (di Pietro Tamburini, tra gli
altri) non
fecero seguito ritorsioni contro i rappresentanti del movimento. Non
che il
giansenismo facesse meno paura, come pure riflette l’autore.
Vero è
semmai che la Chiesa doveva restare compatta contro il mondo dei Lumi
e, non a
caso, i seguaci di Giansenio furono in prima fila tra i protagonisti
della messa
al bando della philosophie.
A
contraddistinguere il Settecento fu senza dubbio la nascita di censure
di Stato
in vari spazi della penisola. Si trattò di una svolta capace
di porre
fine all’alleanza di lungo periodo che i troni avevano
tacitamente
stipulato con l’altare in nome della stabilità
interna e
dell’uniformità religiosa. Questa svolta si
verificò in
tempi diversi nei differenti contesti geografici, ma furono gli anni
Quaranta
(nel granducato di Toscana e nel regno sabaudo) a costituire il momento
d’avvio di un processo che portò a rapporti sempre
più
difficili tra Stati e Chiesa: dalla delimitazione del ruolo dei
tribunali
inquisitoriali, progressivamente sottoposti a controlli statali, fino
alla loro
soppressione. Fu un processo lento e variegato, che si snodò
in altri
contesti italiani soprattutto dagli anni Settanta del Settecento al
1806.
Scarsi, comunque, appaiono gli interventi censori da parte delle
inquisizioni
locali già prima della loro formale chiusura.
3. Il libro di Del Col non ha soltanto il pregio di offrire un
tentativo di
sistematizzazione che ingloba anche il Settecento a partire da una
rilettura
critica dei dati disponibili e dalla lettura di alcune nuove fonti. In
merito
alla storia dell’Inquisizione in generale, l’autore
si interroga
criticamente sull’effettivo declino dell’azione
inquisitoriale e in
tal senso fa affiorare le permanenze rispetto al passato: in alcune
sedi
periferiche (a Modena, Malta e Siena) l’attività
non soltanto
continuò, ma addirittura aumentò. Un certo
dinamismo
caratterizzò pure il tribunale romano, come si deduce dagli
inventari
dell’Archivio centrale, malgrado l’assenza dei
processi risalenti
all’ultimo trentennio del Settecento, scomparsi con il fondo
finito a
Parigi all’inizio dell’Ottocento. È
questa una riflessione
importante, che non era emersa nelle sintesi precedenti, ove trattando
del
Settecento si era tenuto conto di un numero minore di tribunali
periferici
[4],
e che trova del resto conferma nei contemporanei lavori di Elena
Brambilla
[5].
In materia di censura, invece, viene alla luce un Settecento del
mutamento,
legato al sorgere di censure di Stato capaci di ostacolare, quando non
di
impedire, le procedure censorie della Chiesa. Sarebbe questo il tratto
saliente
del Settecento, vale a dire la politica giurisdizionalistica che
finì con
l’erodere il potere delle inquisizioni locali e che
– occorre
evidenziarlo – si configura come mutamento esterno, e non
interno, alla
Chiesa.
Due
osservazioni generali si impongono utilizzando anche gli spunti e i
dati emersi
dalle ricerche successive. La prima riguarda la periodizzazione
proposta,
centrata sullo spartiacque del 1740, come si è accennato.
Tale
periodizzazione è spiegata con il fatto che da allora, e
fino
all’inizio dell’Ottocento, la Chiesa visse una fase
di assediamento
di fronte allo sviluppo del giurisdizionalismo e al timore
«della
convergenza di giansenisti, deisti, massoni e seguaci del
febronianesimo»:
in quel periodo «la gerarchia reagì chiamando a
raccolta le proprie
forze migliori, soprattutto quelle dei vescovi, e mise in moto una
vasta
campagna a difesa della fede contro le nuove ideologie e le pretese
degli
Stati» (pp. 626-627). Proprio perché la
periodizzazione scelta e le
ragioni della scelta sono pienamente condivisibili, sorgono
interrogativi in
merito all’interpretazione del pontificato di Benedetto XIV:
esso,
infatti, da un lato risulta pienamente inserito in questa fase di
progressiva
chiusura al mondo moderno da parte delle gerarchie vaticane, mentre
dall’altro, almeno nel suo primo periodo, appare disponibile
a un dialogo
con la cultura dell’Illuminismo. In realtà,
benché
l’autore condivida l’idea di un pontificato
dapprima cautamente
aperto ai Lumi e solo in seguito duramente schierato contro il
movimento, nel
testo prevale nettamente la ricostruzione dello scontro e non della
mediazione.
E se la periodizzazione è sempre interpretazione, non
è un forse
un caso che tutti gli anni del pontificato di papa Lambertini siano
confluiti
nella parte consacrata alla campagna in difesa della tradizione contro
i novatores.
Del tutto convincenti sono del resto le pagine dedicate al significato
complessivo della riorganizzazione della censura attuata da Benedetto
XIV con la
bolla
Sollecita
ac
provvida (1753) e sfociata nel nuovo Indice del 1758. Questa riforma, che vari
studiosi
hanno letto quale espressione di una politica di tolleranza, sembra
piuttosto la
spia di un tentativo di proporre rinnovate strategie volte a
incoraggiare, tra i
letterati, la pratica dell’autocensura e a creare uno
strumento aggiornato
e così adeguato a combattere gli errori contemporanei. Gli
elementi
innovativi vanno dunque ridimensionati, come è confermato
anche dal
recente volume di Elisa Rebellato, La
fabbrica dei
divieti
(2008),
che
scorge
nell’Indice di papa Lambertini l’esito di uno
sforzo di
sistematizzazione più che di
innovazione
[6].
4. La seconda osservazione concerne l’ipotesi di una sostanziale inefficacia della censura ecclesiastica nel secondo Settecento, quando il controllo dottrinale, secondo l’autore, si sarebbe ridotto (p. 700). In proposito va però sottolineato che, se inquadriamo la storia dell’Inquisizione nel più ampio contesto culturale, la crisi dell’Inquisizione non comportò affatto la fine dello sforzo di sorveglianza sulla circolazione libraria da parte delle gerarchie vaticane. In risposta allo svuotamento dei suoi poteri in periferia, il Sant’Ufficio romano puntò infatti sulle armi della persuasione e fece appello ai vescovi sia in terra papale sia nel resto della penisola attraverso lettere circolari con cui tentò di organizzare una campagna volta ad arrestare il flusso di testi proibiti; e il papato, dal canto suo, chiamò a raccolta pastori e fedeli contro le letture pericolose mediante l’uso di encicliche (si ricordino la Christianae reipublicae. De novis noxiis libris emanata nel 1766 da Clemente XIII e la Inscrutabile divinae sapientiae pubblicata nel 1775 da Pio VI). Inoltre, spostando definitivamente il baricentro dalle tecniche repressive a quelle persuasive, i vertici cattolici rilanciarono una vera e propria guerra dei libri contro il diffondersi dei Lumi: una guerra che fu combattuta, nell’ambito dei rapporti di committenza ecclesiastica, grazie alla pubblicazione di confutazioni di testi all’Indice, di traduzioni di opere antiphilosophiques e di recensioni edite su periodici legati alla Santa Sede, dirette a stroncare la produzione proibita. In tal senso, nel Settecento affondano dunque le radici nuovi sistemi di orientamento del pubblico dei lettori [7].
5. Sfogliando i contributi pubblicati dopo l’uscita del volume di Del Col o, comunque, negli ultimi anni, si può osservare che essi hanno seguito tre direzioni principali. In primo luogo, sono state analizzate le strategie complessive messe in atto dalla Chiesa settecentesca al fine di governare stampa e cultura, evidenziando come la censura abbia costituito soltanto una di queste strategie. Ne è emerso un duplice aspetto: da un lato – a confermare il quadro delineato da Del Col – la grande difficoltà incontrata da parte ecclesiastica nell’arginare la circolazione dei libri proibiti anche per il mutare delle politiche attuate dai poteri civili; dall’altro, però, la continuità dello sforzo repressivo laddove si poteva, ossia all’interno dello Stato pontificio, e nel contempo il moltiplicarsi, in tutta la penisola, degli strumenti utilizzati per educare i fedeli nei loro percorsi di lettura (dalle prediche ai catechismi ai manuali di comportamento). Chiara è inoltre la progressiva severità delle gerarchie sul piano delle intenzioni. E basti in proposito pensare che nel corso del secolo fu messa all’Indice gran parte dei classici dell’Illuminismo italiano ed europeo e che vi fu un crescente rigore nella scelta di escludere dalle licenze di lettura alcuni testi, quando non di condannarli al rogo. Si è così colmata, almeno in parte, una lacuna segnalata da Del Col, che lamentava proprio l’assenza di studi sulla risposta ecclesiastica di fronte al sorgere di apparati censori di Stato (p. 730) [8]. In secondo luogo, soprattutto da parte degli storici della cultura, si è fatta luce sui censori coinvolti e sui tempi e i motivi delle condanne analizzando pareri di censura più o meno noti nell’intento di studiare le reazioni della Chiesa, e delle sue correnti interne, al mondo dei Lumi per affrontare sostanzialmente l’annoso e centrale problema del rapporto tra cattolicesimo e Illuminismo: si può ricordare la dettagliata analisi della vicenda dell’Encyclopédie offerta da Catherine Maire nel 2007 e volta tra l’altro a ricostruire il ruolo dei giansenisti [9]. In terzo luogo, presso gli studiosi di storia del libro e della lettura, la censura è stata ricondotta alla storia della circolazione libraria. Le ricerche in tal senso hanno portato a sottolineare, in generale, che la censura non funzionava affatto in un’epoca caratterizzata da un’ampia diffusione delle opere proibite. Significativo, in questa direzione, è il volume di Stefania Valeri, Libri nuovi scendon l’Alpi (2006), che lavorando sulla produzione francese all’Indice ha sostenuto (e non è la sola) che i divieti non facevano che incrementare il piacere delle letture proibite [10].
6.
Tentando un bilancio complessivo, occorre osservare che la Chiesa
appare
tutt’altro che immobile nel corso del Settecento e, anzi,
sembra essere
stata capace di opporsi alle nuove correnti di pensiero (in particolare
alla
cultura philosophique),
seppure con grande lentezza e a dispetto di orientamenti non del tutto
uniformi
al suo interno. La decadenza del sistema inquisitoriale per quanto
riguarda la
censura non significò affatto la rinuncia, da parte dello
stesso
Sant’Ufficio e delle gerarchie, al controllo
dottrinale
su
stampa e
lettura. Se le politiche giurisdizionalistiche posero in crisi il
potere
ecclesiastico, non bisogna d’altra parte dimenticare che la
nascita di una
censura di Stato in alcuni contesti, come quello sabaudo,
finì per
costituire un rafforzamento dell’alleanza fra trono e altare,
al di
là poi dei circuiti clandestini del
libro
[11].
Il rapporto tra censura ecclesiastica e censura laica va insomma
ulteriormente
approfondito nei suoi esiti concreti, contestualizzandolo nei vari
spazi della
penisola ed elaborando così una geografia che tenga conto di
elementi
comuni e differenze, secondo la strada percorsa da Milena Sabato nel
volume Poteri
censori (2007),
ove, per il Regno di Napoli tra Settecento e Ottocento, si mostra
l’alternanza di momenti di antagonismo e di intesa tra Stato
e
Chiesa
[12].
Molto
resta da fare, anche se la prossima uscita del
Dizionario
storico
dell’Inquisizione,
a cura di Adriano Prosperi e John Tedeschi (Pisa, Edizioni della
Normale, in
corso di stampa) potrà colmare lacune in merito alla censura
di autori e
movimenti. Lo sforzo dovrebbe essere quello di intrecciare storia della
censura
e storia della lettura, due prospettive che finora hanno spesso
costituito
universi separati, domandandosi non soltanto se la censura
ecclesiastica
funzionasse o non funzionasse in generale, ma soprattutto presso quali
gruppi e
individui continuasse ad agire: un interrogativo duplice, questo,
perché
coinvolge sia i lettori sia gli autori. Riguardo ai lettori, sono molti
gli
studiosi a condividere l’idea che nel Settecento la censura
ecclesiastica
avesse ormai perso il suo ruolo e che l’Indice non fosse che
uno strumento
di pubblicità gratuita per gli editori. È un
problema che si pone
particolarmente per il Settecento (ma non solo) quando – come
sottolinea
lo stesso Del Col – la presenza di diversi sistemi censori in
ogni Stato
della penisola finì con l’erodere
l’efficacia dei
controlli.
Vero
è
inoltre che nel XVIII secolo, in certi settori culturali,
iniziò a
manifestarsi (quanto timidamente resta da comprendere)
un’opinione
pubblica critica verso le istituzioni religiose e politiche e
favorevole alla
libertà di stampa. Occorre, però, ancora
interrogarsi sulla
questione non tanto estendendo l’indagine
all’attività delle
sedi periferiche (difficile ipotizzare la presenza di
un’alacre azione
censoria),
quanto
piuttosto
lavorando
sulle
differenze
tra
élite e ceti popolari e tra libro e
libro
[13].
Fondamentale appare poi valutare il peso non solo delle condanne
all’Indice, ma anche della funzione svolta sulle coscienze
dei fedeli da
parroci, predicatori e confessori pronti a mettere in guardia dai
pericoli dei
libri proibiti. Senza contare poi che l’Indice, come si
è
accennato, dettava le linee della politica editoriale ecclesiastica.
Riguardo
agli autori, nulla o poco sappiamo della pratica
dell’autocensura, su cui
varrebbe la pena di indagare. Del Col, tra gli altri, offre uno spunto
più generale sugli esiti della censura sulla storia della
cultura
italiana osservando che i divieti delle opere illuministe
«non fermarono
comunque gli sviluppi del pensiero in Europa, anche se contribuirono a
limitarne
l’influsso nei paesi cattolici» (p. 713). Quanto lo
abbiano limitato
è un aspetto che resta ancora da chiarire, se si pensa che
l’Illuminismo ha costituito un bersaglio polemico di ben
lungo periodo per
una parte del mondo ecclesiastico. L’attuale crisi della
laicità
spinge insomma a volgersi all’età della ragione e
al difficile
incontro tra Chiesa e Lumi con nuovi interrogativi.
[1] Si ricordano qui, tra gli altri, per i contesti veneto, piemontese e toscano, M. Infelise, L’editoria veneziana nel ‘700, Milano, Franco Angeli, 19912 (I ed. 1989), pp. 99 e sgg.; L. Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Firenze, Olschki, 1995, pp. 73-140; S. Landi, Il governo delle opinioni. Censura e formazione del consenso nella Toscana del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 75 e sgg.
[2] M. Rosa, Sulla condanna dell’Esprit des lois e sulla fortuna di Montesquieu in Italia, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XIV, 1960, pp. 411-428, ampliato in Cattolicesimo e «lumi»: la condanna romana dell’«Esprit des lois», in Id., Riformatori e ribelli nel ‘700 religioso italiano, Bari, Dedalo, 1969; Id., Encyclopédie, «Lumières» et tradition au 18e siècle en Italie, «Dix-huitième siècle», 1972, 4, pp. 109-168.
[3] L. Macé, Les premières censures romaines de Voltaire, «Revue d’histoire littéraire de la France», XCVIII, 1998, 4, pp. 531-551; Ead., Les Lumières françaises au tribunal de l’Index et du Saint-Office, «Dix-huitième siècle», 34, 2002, pp. 13-25; Ead., Les lettres persanes devant l’Index: une censure ‘posthume’, in Montesquieu en 2005, a cura di C. Volpilhac-Auger, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 2005, 5, pp. 48-59; C. Maire, La censure différée de l’Esprit des lois par Mgr. Bottari, «Rivista di storia e letteratura religiosa», XLI, 2005, pp. 175-191.
[4] Si veda G. Romeo, L’Inquisizione nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2002.
[5] E. Brambilla, I poteri giudiziari dei tribunali ecclesiastici nell’Italia centro-settentrionale e la loro secolarizzazione, in C. Donati e H. Flachenecker, a cura di, Le secolarizzazioni nel Sacro romano impero e negli antichi Stati italiani: premesse, confronti, conseguenze, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 2005; Ead., La giustizia intollerante. Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma, Carocci, 2006.
[6] E. Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto XIV, Milano, Sylvestre Bonnard, 2008.
[7] Su questi temi si rinvia a P. Delpiano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2007.
[8] Ivi.
[9] C. Maire, L’entrée des «Lumières» à l’Index. Le tournant de la double censure de l’Encyclopédie en 1759, in «Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie», 2007, 42, pp. 107-139. Tra gli altri contributi, si segnala G. Imbruglia, La censura romana di “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Arch. della Congregazione dell’Indice, Acta et documenta, 1763-1767), «Studi settecenteschi», 25-26, 2005-2006, pp. 119-161.
[10] S. Valeri, Libri nuovi scendon l’Alpi. Venti anni di relazioni franco-italiane negli archivi della Société typographique de Neuchâtel (1769-1789), Macerata, Eum, 2006. In questo filone rientra la tesi di dottorato di Laurence Macé sulla circolazione di Voltaire in Italia, una parte della quale esamina le censure delle opere volterriane: Lecture et censure au siècle des Lumières. Voltaire en Italie (1734-1815), sous la direction de S. Menant, Paris Sorbonne-Paris IV, dicembre 2007.
[11] Braida, Il commercio delle idee.
[12] M. Sabato, Poteri censori. Disciplina e circolazione libraria nel Regno di Napoli fra ‘700 e ‘800, Galatina, Congedo Editore, 2007.
[13] Basti pensare che di un classico del materialismo settecentesco, ovvero del Système de la nature (1770) di d’Holbach, condannato dal Sant’Ufficio nello stesso anno della sua pubblicazione ed escluso dalle licenze di letture (censurato, del resto, anche da autorità statali in tutta Europa), furono ordinate in tutta la penisola solo novanta copie tra il 1771 e il 1788: Valeri, Libri nuovi scendon l’Alpi, p. 47.