1. A
quasi dieci anni dall’apertura dell’archivio della
Congregazione per la dottrina della fede, dove sono stati celati per
secoli i documenti del Sant’Uffizio, l’ampia opera
di Andrea Del Col qui discussa offre al lettore anche non specialista
una sintesi completa ed efficace della ricca storiografia dedicata
all’argomento e, allo stesso tempo, testimonia il lavoro
pluridecennale di uno storico che ha dedicato la sua vita di studioso
alla Inquisizione romana. In più di novecento pagine, sempre
chiare e dettagliate, sono ripercorse le complesse vicende di
un’istituzione che ha esercitato un potere difficilmente
sottostimabile nella storia della Chiesa e della Penisola italiana a
partire dai suoi inizi medievali fino alla riforma attuata dopo il
Concilio Vaticano II.
In
questa storia di lunghissimo periodo indiscutibile punto di svolta fu
la nascita della Congregazione dell’Inquisizione nel 1542,
nuovo organismo centralizzato, che veniva a sostituire
l’inquisizione di età medievale. Come mostra il
volume, in breve tempo la nuova Congregazione, inserendosi nel
più generale processo di rafforzamento del potere
pontificio, riuscì ad ampliare progressivamente la sua sfera
d’influenza a molti aspetti della vita religiosa al di fuori
dell’eterodossia propriamente detta. Anche se ufficialmente
compito precipuo degli inquisitori restò sempre quello di
indagare sull’eresia, con il tempo vennero fatti rientrare
nel novero dei crimini perseguibili dai tribunali
dell’Inquisizione anche bestemmia, bigamia, sollecitazione in
confessionale, considerati nell’ottica giudiziaria del
sospetto di eresia. La stampa, fomite per eccellenza della
“eresia luterana”, fu posta sotto il controllo del
Sant’Uffizio fin dalla bolla di fondazione e, nonostante che
nel 1572 fosse stata creata la Congregazione dell’Indice con
specifici compiti di censura, libri e stampa rimasero sempre ambito di
interesse particolare per gli inquisitori. Tuttavia, la presenza di
istituzioni espressamente rivolte a sorvegliare la circolazione
libraria – si ricordi che la Congregazione
dell’Indice era affiancata anche dal Maestro del Sacro
Palazzo – ebbe l’effetto di relegare la censura ad
una posizione quasi marginale nell’attività
complessiva del Sant’Uffizio romano, che mantenne comunque
una supremazia di fatto e di diritto anche su questa delicata materia.
La storia dell’Inquisizione di Del Col riflette una tale
situazione e si occupa pertanto di censura solo in modo tangenziale,
concentrandosi sull’aspetto più peculiare della
politica censoria della Chiesa cattolica: la formazione degli Indici
dei libri proibiti [1].
2. Dopo
aver esaminato la convulsa fase cinquecentesca, durante la quale
all’interno delle gerarchie ecclesiastiche furono stabilite
le regole
della pratica censoria, Del Col si sofferma più ampiamente
sulla nascita
dell’Indice clementino del 1596, il caposaldo della censura
romana per il
successivo secolo e mezzo della sua attività, e sulla sua
applicazione.
Rifacendosi ai numerosi studi disponibili sul tema, Del Col
dà conto
della persecuzione di cui furono fatte oggetto le volgarizzazioni
bibliche e del
fallimento del grandioso progetto espurgatorio, che prevedeva una
pressoché completa riscrittura della letteratura italiana
dei secoli
precedenti. Tuttavia, secondo l’impostazione generale del
libro, che si
interessa all’intera Penisola, Del Col non si arresta alla
descrizione
dell’Italia continentale, ma allarga lo sguardo anche alle
vicende di
Sicilia e Sardegna, soggette all’Inquisizione spagnola, in
cui i bandi di
libri decisi a Roma ebbero corso, seppure con molte limitazioni. La
constatazione dell’influenza degli Indici romani in Sicilia e
Sardegna
risulta assai interessante in quanto consente di osservare la
peculiarità
del regime censorio qui in vigore rispetto alla norma prescritta per la
Spagna e
a valutare il potere effettivo del Papato sull’Italia
intera
a
dispetto dei
limiti giurisdizionali posti all’Inquisizione romana. Nelle
due isole, per
esempio, la censura preventiva rimase quasi sempre nelle mani dei
vescovi e non
fu invece esercitata dagli ufficiali regi, come previsto dalla
prammatica reale
del 1554 e come accadeva negli altri territori degli Asburgo spagnoli.
Inoltre,
in qualche caso anche noto, come quello sorto dalla controversia
storica sulla
lettera della Madonna ai Messinesi studiata da Maria Pia
Fantini
[2],
le dispute librarie siciliane venivano risolte a Roma e non a Madrid,
come ci si
sarebbe potuti aspettare.
Alla
puntuale disamina dei passaggi fondamentali occorsi nella storia della
censura
in Italia nei decenni che seguirono la promulgazione
dell’Indice
clementino segue una sezione dedicata più specificamente ad
uno degli
aspetti più importanti dell’azione della Chiesa
cattolica in
età moderna, ovvero alla sistematica lotta ingaggiata
dall’Inquisizione romana contro le nuove correnti di pensiero
che tra
Cinque e Seicento si stavano affacciando in Italia. La discussione di
carattere
più generale cede qui il passo ad una rassegna minuta delle
cause celebri
di Telesio, Patrizi da Cherso, Della Porta, Pucci, Bruno, Campanella,
Cremonini,
Vanini e dei libertini eruditi, silloge che trova il suo naturale
culmine col
processo per antonomasia contro la scienza moderna, quello di Galileo
Galilei
[3].
In quasi tutte queste vicende la repressione delle voci dissenzienti
passò per la proibizione di opere scientifiche o filosofiche
e pertanto
riguarda, almeno in parte, la storia della censura. Il preciso
resoconto fornito
da Del Col permette non solo di cogliere la portata repressiva della
macchina
censoria sulla cultura dell’epoca, ma anche di comprendere la
molteplicità degli atteggiamenti possibili nel nuovo clima
della
Controriforma: il racconto delle singole vicende biografiche, oltre ad
aprire
uno scorcio sulle vittime in un’opera che parla spesso di
persecutori o di
istituzioni repressive, informa anche delle strategie messe in atto
dagli uomini
del tempo per poter continuare a scrivere, sebbene sotto la paterna
tutela della
Chiesa, o, più semplicemente, per sopravvivere. Quasi sempre
le uniche
vie percorribili, anche se incerte e talvolta inadeguate ai loro scopi,
erano
quelle della dissimulazione e dell’autocensura. Telesio,
Patrizi da Cherso
e soprattutto il geniale Campanella si servirono di queste armi per
salvare le
loro opere e la loro vita dalla persecuzione; uomini come Cremonini e i
libertini eruditi basarono la loro stessa esistenza intellettuale sulla
distinzione tra
l’intus
della libera speculazione e il
foris
di un adeguamento formale alla religione dominante.
3. Con la persecuzione inquisitoriale della nuova filosofia, come si esprime lo stesso Del Col, si conclude quasi completamente il discorso sulla censura della prima età moderna sviluppato nel volume [4]: l’autore, sempre attentissimo ai più recenti sviluppi della ricerca storica, si deve infatti fermare di fronte al parziale silenzio della storiografia sulle vicende della censura in età successive all’epoca della redazione degli Indici romani. Il Seicento e il Settecento, che conobbero la piena affermazione del progetto culturale e religioso postridentino, non hanno finora goduto delle stesse attenzioni con cui si è sceverata la storia della censura cinquecentesca, anche se le lacune stanno venendo rapidamente colmate da una ricca messe di ottimi studi, come quello di Elisa Rebellato sulla formazione degli Indici nel Sei-Settecento e il lavoro di Patrizia Delpiano sul XVIII secolo [5]. Tuttavia, a ben vedere, la dettagliata storia dell’Inquisizione di Del Col offre un contributo specifico a chiarire anche il periodo meno noto della storia della censura, dal momento che, leggendo le pagine del volume dedicate al Sant’Uffizio, si evince con chiarezza come le vicende del controllo sulla stampa si esemplarono spesso su quelle dell’Inquisizione romana, non soltanto perché la struttura della Congregazione dell’Indice si fondò sulla rete degli inquisitori, ma per la stessa evoluzione interna delle due istituzioni. Come il Sant’Uffizio, anche la censura subì una spinta centralizzatrice nei primi decenni del Seicento, quando il Maestro del Sacro Palazzo fu di fatto relegato ai margini in favore della Congregazione dell’Indice, che dal 1613 fino agli anni Cinquanta del Seicento detenne l’esclusiva nella promulgazione dei decreti proibitori in materia libraria. Molte delle decisioni prima delegate alla periferia furono allora avocate dal potere centrale: le licenze di leggere libri proibiti furono decise da Roma, le espurgazioni divennero materia riservata alla Congregazione dell’Indice e anche la censura preventiva, di norma lasciata alle cure degli inquisitori locali, fu sempre più sottoposta al controllo romano. Da quest’ultimo punto di vista la Congregazione dell’Indice si dimostrò interessata a registrare chi fossero i revisori dei libri nelle varie città italiane e gli stessi inquisitori preferirono rivolgersi ai loro superiori per avere indicazioni su come comportarsi con determinate opere e autori. In parallelo a questa svolta dirigistica delle congregazioni vaticane si sviluppò inevitabilmente anche un processo di burocratizzazione del lavoro dei censori: il centro decisionale, per poter essere efficiente ed esercitare un effettivo potere sulla periferia, ha bisogno di formare una rete informativa stabile e capace. La Congregazione dell’Indice iniziò quindi a domandare che le fossero costantemente spediti tutti i frontespizi delle opere stampate nelle numerose tipografie italiane e, più in generale, vi fu un tentativo di fissare una prassi precisa per tutte le pratiche della censura [6]. Nel caso della Congregazione dell’Indice non è tuttavia chiaro se questa tendenza all’accentramento abbia veramente sortito i risultati auspicati: di fatto, nell’archivio della Congregazione non si trova tutto il materiale che fu richiesto alle sedi periferiche, mentre si incontrano di frequente lettere circolari in cui di anno in anno si rinnovano i medesimi ordini.
4. Mutatis mutandis, si può discernere un’equiparazione tra l’Inquisizione e la Congregazione dell’Indice anche per quanto riguarda i metodi impiegati: in entrambe le istituzioni si fece strada sempre più il ricorso a sistemi, per così dire, ‘penitenziali’. Nel caso della censura, si passò dalle condanne senz’appello alla possibilità, concessa con sempre maggiore frequenza, di correggere le proprie opere. Del Col è consapevole di queste conseguenze della repressione censoria e nel suo libro cita gli esempi celebri di Giovanni Battista Gelli e di Torquato Tasso, anche se gli sfuggono forse l’ampiezza del fenomeno e i suoi sviluppi secenteschi [7]. Nel XVII secolo divenne infatti quasi una consuetudine che gli autori si rivolgessero a Roma per chiedere venia delle proprie colpe e per ottenere il permesso di correggere, secondo i suggerimenti della Congregazione dell’Indice, il proprio testo, giudicato non del tutto idoneo dalla censura. L’autore in qualche modo chiedeva di sostituire il censore romano, applicando da sé le modifiche impostegli. Poi, a correzione conclusa, prima di ristampare il proprio scritto, l’autore doveva di nuovo rivolgersi agli organi dell’Indice per ottenere l’approvazione finale. Solo dopo che il consultore delegato dalla Congregazione aveva preso visione della versione corretta e l’aveva trovata soddisfacente, veniva concesso il permesso di ristampare l’opera. Da Roma si sottolineava però quasi sempre che lo scritto così espurgato non doveva contenere alcun riferimento all’intervento di controllo della Congregazione dell’Indice: una dichiarazione ufficiale avrebbe significato implicitamente un avallo della nuova versione, che invece doveva apparire come il frutto della resipiscenza dello scrittore. Talvolta, nei casi considerati irredimibili, gli autori potevano giungere al rinnegamento stesso della propria opera messa all’Indice attraverso uno scritto di pentimento: così Francesco Pona, romanziere libertino e medico veronese, pubblicò a distanza di anni un’Antilucerna per poter cancellare la macchia di infamia derivatagli dalla pubblicazione in gioventù del romanzo proibito La lucerna.
5.
Come per il resto dell’attività
dell’Inquisizione romana, il
baricentro degli interessi della Chiesa, anche nel caso della censura,
si volse
nel Seicento verso l’interno del mondo cattolico. Nella
raggiunta
consapevolezza della separazione ormai attuata tra l’Europa
cattolica e
l’Europa della Riforma, gli scritti dei protestanti facevano
sempre meno
paura, mentre erano tenuti sotto stretta sorveglianza le opere dei
cattolici.
Non a caso in questo periodo la Chiesa è attraversata da
accese dispute
di carattere teologico-giuridico, che dividono tra loro i principali
ordini
religiosi della Controriforma. Da qui nasce lo scrupoloso controllo dei
censori
sui manuali di teologia e di casistica, alla ricerca di proposizioni
troppo
lasse o troppe rigorose o di dottrine, come quella della Immacolata
concezione,
non ancora universalmente accettate e prive dell’ufficiale
approvazione
pontificia. Dello zelo di solerti censori fece le spese anche qualche
futuro
santo della Chiesa cattolica, allora ancora in attesa di
canonizzazione, che fu
privato degli altisonanti elogi che la retorica devota gli voleva
riservare. In
questo clima prende avvio anche la battaglia della censura contro
alcune
dottrine, sospettate di eterodossia, nate nel grembo stesso della
Chiesa, come
il giansenismo e il quietismo: la seconda metà del Seicento
e gli inizi
del secolo successivo furono infatti costellati dalle ricorrenti
pronunce romane
contro queste correnti della teologia e della spiritualità
cattolica e
contro i libri che le propugnavano. D’altra parte la censura
si trasforma
anche in uno strumento politico: nel momento del massimo sforzo teorico
e
concettuale di giuristi e filosofi nel tentativo di costruire un nuovo
diritto
pubblico e nuovi modelli costituzionali, il Papato, potere spirituale e
temporale insieme, usò la censura per contrastare la
circolazione di
tutte quelle opere che in più modi mettevano in discussione
le
prerogative giurisdizionali e la supremazia temporale della Chiesa di
Roma.
Più di ogni altro argomento testimonia al meglio
l’avanzata della
censura romana nel campo politico l’esempio della Venezia
secentesca: la
patria di Paolo Sarpi riuscì a pubblicare nel corso del
secolo ogni
genere di scritto libertino, ma non ospitò nessuna
riedizione delle opere
del Servita dopo la sua
morte
[8].
In
conclusione, al lettore che sappia cercare tra la ponderosa mole di
materiale,
l’importante libro di Andrea Del Col fornisce uno scenario
generale e di
grande interesse sulla censura romana della prima età
moderna. Tuttavia,
quello che mi pare il pregio maggiore del lavoro di Del Col
è la sua
capacità di coniugare la visione d’insieme con
l’indagine
minuziosa anche delle sedi periferiche del Sant’Uffizio.
Costituisce
infatti un risultato in assoluto originale di questa storia
dell’Inquisizione la raccolta di dati, anche statistici, sui
processi
dell’Inquisizione, uno sforzo di analisi quantitativa che
nell’ambito degli studi della censura riveste una certa
rilevanza per
comprendere quale fosse l’attenzione prestata dagli
inquisitori locali
alla lettura e alla stampa di libri proibiti. Del Col tratta
soprattutto dei
tribunali operanti nell’area della Repubblica veneta, un
campione
circoscritto, da cui tuttavia si possono ricavare alcune informazioni
sull’interesse ben vivo nel XVII secolo per le pratiche di
lettura
proibita. Le strutture della repressione ecclesiastica restarono sempre
consapevoli dei rischi che potevano sorgere dai libri e, al momento
opportuno,
seppero riaffermare con forza la loro autorità contro
lettori imprudenti:
è quello che accadde con l’inquisitore di Aquileia
e Concordia
Giulio Missini, che ancora alla metà del Seicento
occupò
più di un quarto delle sue energie investigative nel
perseguire il
possesso e la lettura di libri
proibiti
[9].
L’esempio dell’inquisitore friulano, seppur del
tutto particolare
nel panorama “pacificato” del pieno Seicento,
tradisce ancora una
volta l’importanza avuta dalla censura libraria nelle
strategie di
controllo religioso messe in opera dalla Chiesa cattolica
nell’Italia
della prima età moderna.
[1] Per la sezione dedicata alla censura nella prima età moderna si veda A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Milano, Oscar Mondadori, 2006, pp. 527-565.
[2] Cfr. M. P. Fantini, La lettera della Madonna ai messinesi: apocrifa, vera o verisimile? Il dibattito tra il 1562 e il 1632, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero, cultura, società. Atti del Convegno internazionale di studi. Siena, 27-30 giugno 2001, a cura di M. Sangalli, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2003, pp. 523-555; Ead., Pouvoir des images, pouvoir sur les images. Rites de dévotion et stratégies de censure par l’Inquisition romaine (XVIe-XVIIe siècle), in Inquisition et pouvoir, a cura di G. Audisio, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 2004, pp. 269- 286.
[3] Sulla lotta alla nuova filosofia si veda ora S. Ricci, Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma, Roma, Salerno, 2008.
[4] Non mancano però cenni sparsi nel resto del volume: sugli indici secenteschi si veda pp. 639-640 e sulla censura di testi mistici p. 677.
[5] Cfr. E. Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli Indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto XIV, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2008, e P. Delpiano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2007.
[6] Si sottolineano alcuni aspetti di questo processo di burocratizzazione dell’attività censoria in G. Fragnito, Un archivio conteso: le «carte» dell’Indice tra Congregazione e Maestro del Sacro Palazzo, in «Rivista storica italiana», CXIX, 2007, pp. 1276-1318.
[7] Del Col, L’Inquisizione, p. 531.
[8] M. Infelise, Ricerche sulla fortuna editoriale di Paolo Sarpi (1619-1799), in Ripensando Paolo Sarpi. Atti del Convegno Internazionale di Studi nel 450° anniversario della nascita di Paolo Sarpi, a cura di C. Pin, Venezia, Ateneo Veneto, 2006, pp. 519-546, in particolare p. 527.
[9] Sull’attività di Missini si veda ora D. Visintin, L’attività dell’inquisitore fra Giulio Missini in Friuli (1645-1653): l’efficienza della normalità, Trieste-Montereale Valcellina, Edizioni Università di Trieste-Circolo Culturale Menocchio 2008.