1.
Nelle
librerie di tutt’Italia si trovano oramai molti libri
sull’Inquisizione rivolti al grande pubblico. Alcuni di essi
propongono
rivalutazioni e rivisitazioni in chiave cattolico-integralista e
addirittura si
sforzano di rivendicare una identità nazionale andata
perduta in seguito
ai processi storici di secolarizzazione e soprattutto con la
Rivoluzione
francese e il Risorgimento. In tal modo, alla leggenda
‘nera’
dell’Inquisizione è stata sostituita una leggenda
‘rosa’ – anzi
‘bianca’ – che spesso si
avvale delle nuove indagini avviate dagli storici di mestiere,
distorcendole in
maniera strumentale. Il volume di Andrea del Col costituisce un utile
correttivo, ma ci si domanda fino a quale punto esso riesca ad
incontrare le
attuali richieste di un pubblico abituato alle fiction
televisive,
alle
semplificazioni giornalistiche e alle logiche di mercato – o
peggio
ideologiche – che tendono a costruire discorsi
sensazionalisti o
immediatamente
politici
[1].Ridimensionare
numeri di condanne a morte, stabilire con precisione ambiti di
giurisdizione, procedure e pene non significa offrire né
autorizza edulcorazioni e interpretazioni apologetiche. Questa
notazione, fatta da Adriano Prosperi fin dalla fase iniziale delle
nuove ricerche sul tema, va ricordata nel momento in cui i nostri studi
sono stati strumentalizzati, per far dire loro il contrario, dalle
correnti più reazionarie e fondamentaliste della militanza
cattolica, dalle evidenti motivazioni politiche e ideologiche. Studiosi
che hanno cercato di cogliere in profondità il funzionamento
di una istituzione come l’Inquisizione sono presentati,
proprio perché definiti «insospettabili»
di filocattolicesimo, come autorevoli fonti del revisionismo e anzi del
negazionismo. È ciò che avviene ad esempio nel
recente volume di R. Cammilleri, La
vera storia dell’Inquisizione, con
prefazione di F. Cardini (Casale Monferrato, Piemme, 2001, ristampato
fino al 2007, ma già uscito senza la prefazione nel 1997 con
il titolo meno ammiccante di Storia
dell’Inquisizione, Roma,
Tascabili economici Newton).
In realtà, l’immagine effettivamente nuova dell’Inquisizione emersa dai recenti studi non autorizza affatto temerari salti logici come il seguente: se gli storici veri studiano l’Inquisizione, ne precisano tecniche e funzionamento, revisionano il numero dei condannati a morte, allora significa che l’Inquisizione è buona e moderna. È questo il falso sillogismo adottato da un drappello di divulgatori della storia, spiegata attraverso miracoli, prodigi e lotta apocalittica tra laici e cattolici, che conduce la sua battaglia ideologica anche con la rivalutazione delle Inquisizioni europee, del loro ruolo e metodi, attraverso un processo di minimizzazione che viene definito «sfatare miti e leggende». Sono libri che trovano un amplissimo successo nel pubblico ignaro e nei media, anche se nessuno storico serio li prenderebbe mai in considerazione. Non varrebbe la pena di occuparsi di tale cattiva divulgazione apologetica se non per il fatto che proprio iniziative di tal fatta contribuiscono a far circolare nell’opinione dei non addetti ai lavori stereotipi e vere e proprie operazioni di propaganda e falsificazione che incidono sul ‘senso comune’ e lo orientano assai più profondamente di quanto possano fare rigorose ricerche storiche: come dimostrano appunto sia l’eco che tali libri, argomenti e rispettivi autori trovano così facilmente sui media e sulle pagine culturali dei giornali più importanti, che con la loro autorevolezza li accreditano, sia l’insistenza di numerose trasmissioni televisive anche del servizio pubblico imperniate su presunti misteri, profezie, segreti, complotti e paccottiglia similare. Non sembra piccola cosa che la fatica di Del Col abbia costruito anche un antidoto a questi veleni.
2. Il libro
non si propone come una sintesi della storia secolare
dell’Inquisizione romana, sia pure aggiornata, ma come un
vero volume di studio e ricerca, non semplicemente descrittivo delle
indagini più recenti, ma anche, a partire da quelle,
interpretativo. Rispetto ad altre storie dell’Inquisizione il
volume riesce a tenere insieme livelli e ottiche diverse – di
storia culturale e delle rappresentazioni, di storia economica e
quantitativo-demografica, di storia del diritto e delle procedure, di
storia comparativa – per i raffronti costanti che vengono
fatti con le Inquisizioni iberiche – e di storia della
storiografia. Riesce inoltre a far interagire molte tematiche che in
genere sono affrontate separatamente
dagli
studi: l’Inquisizione romana rispetto agli aderenti alla
Riforma, innanzi tutto, ma anche le vicende delle minoranze religiose
(valdesi, ebrei, musulmani, cristiani ortodossi), i delitti di sodomia
e poligamia, di magia e stregoneria, le correnti teologiche eterodosse
interne al cattolicesimo (quietismo, giansenismo, modernismo). Tali
tematiche si incrociano nella trattazione e, soprattutto, chiariscono
una serie di problemi tra loro connessi che gettano a loro volta nuova
luce su questioni assai più ampie rispetto alla storia dei
tribunali della repressione e alla storia religiosa, questioni che
riguardano la storia generale tout
court e la stessa
storia politica. Sembrerebbe una ovvietà, ma non lo
è in un panorama storiografico nel quale solo intempi
relativamente recenti gli studiosi dell’età
moderna e contemporanea hanno incominciato ad accorgersi della rilevanza della storia
religiosa e delle istituzioni ecclesiastiche per la ricostruzione
globale di una società e non semplicemente come storia
aggiuntiva.
Non
intendo fare qui una sintesi del contenuto del ponderoso volume che
affronta
settecento anni di vicende, dall’Inquisizione medievale, con
il problema
centrale dell’eresia catara, fino all’altro ieri,
cioè alla
richiesta di perdono delle colpe degli «uomini della
Chiesa» del
passato formulata da Giovanni Paolo II in occasione del giubileo del
2000.
Quelli che vorrei qui evidenziare sono alcuni nodi che mi paiono
particolarmente
interessanti e che emergono con una nuova luce dalla infaticabile e
imponente
ricerca, aprendo ulteriori possibili percorsi di
indagine.
3.
Innanzi
tutto, il volume insiste su aspetti della storia
dell’Inquisizione che
sono rimasti a lungo in ombra rispetto al tema di gran lunga
predominante della
repressione antiprotestante, e dunque della fase cronologica
cinquecentesca. In
secondo luogo, e in conseguenza di tale scelta contenutistica, esso
propone una
periodizzazione che, all’interno di una lunghissima durata,
contempla
scansioni e rotture che acquistano senso proprio nella lunga spanna;
soprattutto, la scansione cronologica scelta ingloba epoche –
come il
Settecento, l’Ottocento e il Novecento – che sono
le meno indagate
fino ad oggi e che tuttavia presentano non solo la documentazione
più
ricca ma anche la maggiore articolazione di problematiche e di
argomenti. Ma su
questa novità, pur importante, della periodizzazione non mi
soffermo.
Quanto
all’approfondimento di argomenti nuovi, Del Col si fa
portavoce di una
proposta interpretativa che attribuisce alle vicende delle minoranze
religiose,
e in particolare alla questione ebraica, un ruolo niente affatto
secondario
nelle dinamiche inquisitoriali. Tale interesse, tanto degli inquisitori
quanto
degli storici oggi, si spiega anche con il fatto che le vicende delle
minoranze
riescono a chiarire tematiche, come quelle matrimoniali, ereditarie o
relative
alla patria
potestas sui figli,
che riguardano ampiamente anche la società cristiana e le
cui
impostazioni quanto alla ‘diversità’
religiosa possono
fungere da cartina di tornasole per capire le trasformazioni della
società maggioritaria. Ad esempio, la questione –
con relativa
discussione in Congregazione – degli scioglimenti del
matrimonio sulla
base del favor
fidei e dei
cosiddetti privilegi paolino e petrino, e dunque della
possibilità di un
secondo matrimonio, non riguardò solo ebrei, islamici e
schiavi africani
battezzati, ma si applicava anche ai cristiani.
Non
si può non notare la sensibilità storiografica
che Del Col dimostra in particolare verso il mondo ebraico e la storia
del mutamento dei comportamenti e delle rappresentazioni cristiani di
tale mondo, dal momento che recenti sintesi o studi più
generali della storia dell’Inquisizione in Italia non
trattano affatto o trattano solo molto velocemente della questione.
Mentre nei lavori spagnoli, portoghesi e francesi
l’importanza di tale tematica è assolutamente
evidente – anche al di là della
specificità dei contesti e non solo per il dato procedurale
e delle competenze inquisitoriali sugli ebrei e i convertiti
–, a me sembra che essa sia stata rimossa dalla storiografia
italiana che l’ha relegata nella nicchia della semplice e
tutta interna, separata, ‘storia degli ebrei’. In
fin dei conti, essa è rimasta soffocata dalla carenza
di autoriflessione e di consapevolezza della storiografia italiana
sulle radici storiche dell’antiebraismo novecentesco. Non si
sono ancora fatti i conti con il problema ebraico, in Italia, specie
con i suoi esiti più vicini, e dunque gli ebrei non sono
ancora entrati a pieno titolo nelle ricostruzioni storiche, anche se
l’evidenza della documentazione inquisitoriale dovrebbe
suggerirci un ben diverso interesse.
4. Ma
nel libro di Del Col l’esame della problematica
dell’alterità religiosa ebraica è
condotto in parallelo con lo spazio dedicato agli altri
‘infedeli’ e agli aderenti all’Islam,
all’interno dei capitoli dedicati all’uniformazione
religiosa degli Stati iberici e dell’Italia. Così
facendo egli, di fatto, mette in luce, con corretta intuizione, i
differenti atteggiamenti che il tribunale tenne nei confronti di ebrei
e di islamici, ad esempio sul piano del valore dato alle loro
conversioni, o alle apostasie o ai matrimoni misti, e sul piano delle
modalità di repressione e controllo. È una storia
comparativa delle strategie del Sant’Uffizio verso le due
diversità che oggi si è avviata e che merita di
essere approfondita, superando il tradizionale interesse per i soli
rinnegati e le loro vicende, per entrare invece nel territorio poco
noto delle mescolanze degli islamici con i cristiani attraverso
battesimi e matrimoni. È una storia, infatti, che dalle
prime ricerche condotte sui fondi del Sant’Uffizio sui dubia
de baptismo e sui
dubia de matrimonio, dubia varia, matrimonia
mixta e decreta, rivela
profonde differenze tra versante ebraico e quello islamico, dal punto
di vista dei loro rapporti con il cattolicesimo.
Ho
già trattato le questioni e i dubbi relativi ai battesimi e
ai matrimoni sollevati in terre dell’Est europeo a
dominazione ottomana in un recente convegno ai cui atti in corso di
pubblicazione rinvio [2]. Tralascio
qui il tema dei battesimi e sottolineo invece alcuni aspetti inediti e
significativi della problematica matrimoniale che non ebbi modo di
approfondire allora e che costituisce uno dei punti nodali della
differenza di strategie adottate. Il primo aspetto è
relativo alla questione della validità del matrimonio tra
cattolici contratto davanti al Kadì turco,
cioè al giudice – il potere civile – o
perfino al prete turco, il Koggià –
l’autorità religiosa. Il secondo è
quello relativo ai matrimoni misti tra cattolici e maomettani,
tutt’altro che infrequenti, e alle prospettive di
coniugazione di culture diverse e di appartenenze multiple che essi
sottendono. Naturalmente, la situazione in Europa orientale e nei
Balcani era molto complicata, quanto ai cattolici presenti in
loco e alle loro missioni, dal fatto che si trattava della parte
dell’Europa che da molto tempo, e ben prima della conquista
turca, era scismatica ortodossa. Il che significava una
possibilità duplice, per i cristiani, di matrimoni misti e
di rituali in comune: con islamici, ma anche con cristiani ortodossi,
davanti al prete turco o davanti al prete scismatico. Una situazione
complessa e imbrogliata, dunque, che presenta particolare interesse per
lo storico sia quanto ai quesiti che sollevava che per le soluzioni
adottate, nello stesso tempo di natura politica e religiosa, ma anche
relativamente all’attualità a cui reca il
messaggio positivo della forza della ragione, della possibile reciproca
accettazione e perfino della interazione culturale.
In
questo senso, mi pare corretto ribadire che il nostro lavoro di ricerca
sull’Inquisizione del passato assume anche grande significato
oggi, quando assistiamo al ritorno di tante paure nei confronti del
‘diverso’.
5. Quanto alla prima questione – il matrimonio di cattolici contratto davanti ad autorità turche –, tali matrimoni erano frequenti e dettati da diversi motivi, ed è da notare sul piano istituzionale come vi fossero coinvolti tre organismi centrali dell’organizzazione curiale post tridentina: la congregazione di Propaganda Fide – da cui provenivano i dubbi da risolvere –, la congregazione del Concilio e in ultima e definitiva istanza, a Roma, il Sant’ Uffizio. Il ruolo intrecciato delle tre istituzioni – e in particolare della congregazione del Concilio – derivava dal fatto che la risposta circa la validità del matrimonio tra cattolici contratto davanti al prete o al giudice turco, cioè «legalizzato alla maniera turchesca», specie quando in zona non esistevano sacerdoti o missionari cattolici, dipendeva anzi tutto dall’accertamento se fossero stati o meno pubblicati e continuativamente osservati in loco i decreti sul matrimonio emessi dal concilio di Trento, che imponevano la presenza del parroco e dei due testimoni e vietavano i matrimoni clandestini. Sorgeva così tra le tre congregazioni una discussione e una ricerca archivistica sui precedenti e sui decreti, specie quelli emanati dalla congregazione del Concilio, prodotti in altre epoche e per altri territori, europei e non (ad esempio, per Polonia, Malabar e Goa), allo scopo di assodare la pubblicazione e l’osservanza del concilio e, in caso negativo, per decidere cosa fare. La sinergia che si riscontra nei dossier ci offre notizie inedite sia sulla collaborazione dei tre dicasteri – anche se l’ultima parola spettava all’Inquisizione romana – sia sulla diffusione in terra di missione dei decreti tridentini, matrimoniali e non, nonché sui problemi che la mancata pubblicazione e conoscenza del concilio poteva suscitare sul piano normativo e pratico, determinando una serie di concessioni, di eccezioni tollerate e di soluzioni imprevedibili, molto intriganti per lo storico. E soprattutto ci conferma che, nell’affrontare le varie questioni, in particolare quelle relative ai sacramenti, non ci si può limitare nelle ricerche ai pur molto appetibili fascicoli dell’Inquisizione, ma che occorre allargare la prospettiva alle altre istanze istituzionali e giudiziarie coinvolte. E anche questo è un suggerimento presente, almeno di fatto, nel libro di Andrea Del Col.
6. Il collegamento con la questione essenziale dell’osservanza del concilio si riscontra ad esempio in Bulgaria, annessa già alla fine del XIV secolo all’impero ottomano, dove, ancora a metà Settecento, l’arcivescovo di Sofia chiedeva lumi sulle questioni matrimoniali. In Inquisizione venne discussa la mancata pubblicazione sia dei decreti tridentini sia della stessa enciclica di Benedetto XIV Inter omnigenas del 1744, indirizzata al clero e ai fedeli dei paesi sottoposti al «durissimo turcarum jugo» [3]. Nell’enciclica il pontefice dichiarava senza mezzi termini che gli sposalizi espletati da autorità turche erano irriti e nulli, che avevano soltanto un valore civile e naturale, ma costituivano per la Chiesa cattolica un illecito concubinato che escludeva dai sacramenti [4]. Ma dieci anni dopo la concretezza delle situazioni imponeva altre posizioni. Un grosso fascicolo del 1755-1758, intestato: «Sofia: Circa Matrimoni de’ Cattolici, contratti avanti il Prete Turco o sia Koggià», presenta i pareri di tre autorevoli personaggi destinati a fortunate carriere: Giuseppe Assemani, Giuseppe Maria Castelli e Lorenzo Ganganelli, futuro Clemente XIV, tutti e tre estremamente possibilisti. Essi concordavano sulla validità civile di tali matrimoni contratti davanti alle autorità turche e al giudice in particolare, pur essendo illeciti quelli contratti davanti al ministro religioso – ma, appunto, non quelli davanti al giudice civile – e concordavano sulla ammissione dei coniugi ai sacramenti. Anzi, Assemani andava oltre sostenendo che anche il matrimonio contratto davanti al Koggià turco «non contiene professione di Fede maomettana, né veruna superstizione, ma è l’istesso, che fare un contratto civile avanti un Magistrato pubblico» [5]. Emerge qui una sorta di tacito permesso di matrimonio clandestino: i giovani cattolici che intendevano sposarsi contro la volontà dei genitori contraevano «maliziosamente» matrimonio davanti al Kadì turco e poi chiedevano la dispensa matrimoniale [6]. In realtà, tali sposalizi, benché contratti non osservando le norme del concilio di Trento – di cui si dubitava a ragione che fossero mai giunte e pubblicate in Bulgaria: e anche su ciò ampia fu la discussione in Congregazione – vennero perciò considerati illeciti ma validi, nonostante e all’opposto dei decreti benedettini. E se questo può non stupire, è forse però più strano che si giudicasse cosa non prudente pubblicare ora il concilio e obbligare da quel momento alla sua osservanza. Vale a dire, appariva inopportuno ai cardinali, ai consultori ma perfino allo stesso pontefice rovesciare del tutto usi e consuetudini locali invalsi da tempo e provocare gravi instabilità anche politiche nei territori sotto dominio turco [7].
7. Nello stesso fascicolo relativo a Sofia, il caso del cattolico raguseo Matteo Milosevich, che aveva sposato «alla turchesca» una greca scismatica e che non venne né privato dei sacramenti né in alcun modo molestato, se non ingiungendogli il precetto di educare la prole nella fede cattolica e di tentare di convertire la moglie (dunque matrimonio valido, anche se illecito) introduce la seconda questione, quella dei matrimoni misti, cioè tra coniugi di differente fede. Nei fascicoli inquisitoriali abbondano soprattutto due tipologie: quella dei matrimoni di infedeli, non battezzati, che divengono «misti» per la conversione al cristianesimo di uno dei coniugi e quella che, al contrario, vede la conversione all’Islam di uno dei coniugi cristiani. In queste vicende interviene un’altra istanza istituzionale, la Sacra Penitenzieria, per la facoltà di concedere dispense «in disparitate Cultus»: ad esempio, nei casi di infedeli convertiti che non volessero avvalersi del cosiddetto privilegio paolino ma intendessero mantenere l’unione con la moglie o il marito non convertiti né battezzati, sostenendo che non sussistesse il cosiddetto ‘pericolo della perversione’ [8]. Il privilegio paolino – in vigore ancora oggi nel codice di diritto canonico – autorizzava lo scioglimento del contratto naturale di matrimonio di due coniugi infedeli, con l’argomento del favor fidei, nel caso in cui uno di essi si fosse battezzato e il coniuge non cristiano non consentisse all’altro le pratiche della fede e non ci fosse speranza della sua conversione; tale possibilità non sussisteva però quando il coniuge infedele consentiva a continuare pacificamente la coabitazione sine iniuria Creatoris. Di conseguenza, in tale eventualità, il coniuge divenuto cristiano non poteva per effetto della nuova fede prendere alcuna iniziativa di scioglimento del matrimonio. Se, al contrario, il coniuge infedele non consentiva la continuazione della vita coniugale e si voleva separare, il vincolo matrimoniale era sciolto anche per il coniuge divenuto cristiano, che poteva passare a nuove nozze. Naturalmente, nei casi di proseguimento del matrimonio tra coniuge infedele e coniuge convertito la speranza era che quest’ultimo riuscisse a condurre alla vera fede e alla salvezza il primo e che i figli nati dal matrimonio fossero educati cristianamente. Quanto al concilio di Trento, non diceva nulla sul privilegio stesso che non era, d’altronde, respinto dai protestanti: e ciò rendeva ancor più difficile agli inquisitori stabilire quali decisioni prendere. D’altro canto, nelle terre ottomane era molto frequente un’altra tipologia di matrimoni misti, quella derivante dal fatto che all’interno di una coppia cristiana si fosse verificata la conversione all’Islam – per svariati motivi, per lo più di opportunità – da parte del marito, ma non della moglie. Perciò era frequente anche la richiesta alle autorità cattoliche che tale evento, implicante l’apostasia, non producesse la rottura e la permanenza nel celibato di lei fino alla morte del coniuge apostata, ma consentisse la continuazione dell’unione e della coabitazione.
8. Le risposte oscillanti del Sant’Uffizio, che tentava di porre delle condizioni (ad esempio, l’educazione cristiana dei figli), comprovano l’esistenza di situazioni di fatto difficilmente estirpabili o dottrinalmente risolvibili, tanto meno con il suggerimento, frequente ma di impossibile realizzazione, della fuga della donna. In questi casi, tuttavia, le leggi erano chiare e non ammettevano eccezioni: infatti, non si trattava di contratto matrimoniale tra un infedele e un neocattolico, che ricadeva sotto il privilegio paolino e dunque implicava la possibilità di risoluzione, ma di sposalizio tra due battezzati uno dei quali apostatava ed era sì passibile di scomunica, ma restava battezzato. Era appunto il battesimo a influire sull’istituzione del matrimonio cristiano e a costituire la base della sua indissolubilità. Secondo i principi generali del diritto canonico, il matrimonio tra due battezzati restava sempre indissolubile non tanto come contratto naturale, ma come sacramento, perché il battesimo è un sacramento che imprime un carattere indelebile e quindi la conversione all’Islam non lo cancella. Questo principio non ammette eccezioni. Tuttavia, se, come nei casi sopra riferiti, mancano precise e univoche indicazioni al riguardo nei documenti romani che davano evidentemente per scontata la dottrina cattolica, nella pratica potevano verificarsi la separazione di fatto o il progetto della fuga della donna restata cattolica, ma in ogni caso non un suo nuovo matrimonio. Ella, però, avrebbe dovuto venir ammessa ai sacramenti, perché l’apostasia era del coniuge [9].Ma vi era anche un’ulteriore casistica, quella di donne cattoliche date a – o prese da – turchi in moglie. Le questioni centrali in discussione nella Congregazione, oltre alla validità di tali unioni miste, erano quelle relative all’assoluzione in confessione e al conferimento dei sacramenti e se fosse doveroso imporre – e come – alle cattoliche unite a un turco la separazione [10]. La Inter omnigenas infatti escludeva dai sacramenti le donne conviventi con turchi. È da notare come la maggioranza dei casi – se non la totalità – riguardasse apostasie maschili e fedeltà femminili: le donne vogliono mantenere la loro identità religiosa, soprattutto per il loro ruolo di educatrici dei figli che intendono allevare nella fede cristiana.
9. Così,
in seguito alla discussione e alle divisioni avvenute in Congregazione,
nel 1756-1757 si decise di inviare un questionario con lettera
ufficiale ai vari vescovi di Albania e Macedonia per ottenere
informazioni su sette punti cruciali e in particolare sulle
modalità con cui erano contratti tali matrimoni. I quesiti
erano i seguenti:
1.
Quali erano le modalità formali e rituali con cui le donne
cattoliche
contraevano matrimoni con turchi?
2.
Tali donne
avevano la libertà di vivere
cattolicamente?
3.
Potevano ottenere dai mariti infedeli la libertà di educare
la prole
nella fede cattolica?
4. I
mariti
turchi che sposavano
donne
cattoliche
tenevano
anche altre mogli secondo la loro
legge?
5. In
questi matrimoni con turchi le donne cattoliche potevano essere
moralmente certe di convivere sine
contumelia Creatoris e senza
pericolo di perversione ?
6.
Tali matrimoni offrivano motivo di scandalo ai cattolici?
7. Le
mogli
cattoliche potevano avere speranza di convertire il coniuge infedele?
Ovviamente,
l’ultimo punto era quello cruciale. Le risposte che ci sono
pervenute
offrono un quadro preciso della situazione nei domini ottomani
dell’Est
europeo, quadro dal quale emerge soprattutto come questi matrimoni,
peraltro
frequenti, fossero visti quali occasioni di conversione del coniuge e
dei futuri
figli, attraverso il ruolo cristianizzatore delle donne. Risulta
evidente dai
temi del questionario la mancata applicazione dell’enciclica
di Benedetto
XIV di soli pochi anni prima. Ma risulta anche il forte timore che
tanto le
donne unite a turchi quanto i genitori che le avevano date in spose,
nel caso
fossero loro rifiutati i sacramenti,
apostatassero
[11].
Era proprio tale timore a determinare un addolcimento progressivo della
rigorosa
normativa benedettina e una interpretazione sempre più
‘benignista’ della
stessa
[12].
10. I casi
numerosi, dal Seicento all’Ottocento, di concubinato,
relazioni sessuali e matrimoni tra cattolici/che e maomettani/e (e
scismatici), che danno vita a dubbi, interrogazioni e soluzioni spesso
molto diverse sul piano del rigore e talvolta estremamente flessibili e
aperte rivelano un atteggiamento delle autorità cattoliche
nei confronti del mondo maomettano (ma anche viceversa) per molti versi
inaspettato per gli storici e soprattutto incomparabilmente meno rigido
di quello tenuto nei confronti degli ebrei sulle analoghe questioni
relative al matrimonio e alle relazioni sessuali con cristiani,
rigorosamente vietate. Le pratiche permesse tra cattolici e musulmani,
accompagnate da una dettagliata conoscenza e descrizione degli usi, in
particolare matrimoniali, degli ottomani (i matrimoni «alla
turchesca»), dedotte dall’osservazione diretta ma
anche dalla lettura e dalla citazione di libri, trattati e diari di
viaggi nell’Impero turco, indussero i pontefici ad emanare
una normativa che, soprattutto nel Settecento, da un lato condannava
severamente commistioni e dissimulazioni di fede da parte dei cristiani
conviventi con musulmani, dall’altro doveva anche tenere
conto delle condizioni particolari e spesso pericolose e di emergenza
in cui vivevano e operavano missionari e fedeli all’interno
del potente impero ottomano, anche in situazioni in cui i cattolici non
erano necessariamente
in minoranza sul piano demografico. Il riconoscimento di usi e
comportamenti locali radicati, in materia matrimoniale e la
consapevolezza dei problemi politici da affrontare, se si fossero
ignorati, inducevano a superare le norme canoniche, specialmente se si
poteva ritenere che i decreti tridentini non fossero mai giunti.
È ovvio, infatti, che tali questioni rinviavano alla
normativa tridentina sui sacramenti e alla possibilità di
renderla meno rigida in situazioni di emergenza o là dove si
poteva legittimamente sospettare che il concilio non fosse stato mai
Di
conseguenza, l’interesse di queste vicende e delle
discussioni da esse suscitate sta, per lo
storico di oggi, nella delineazione di pratiche di convivenza e di
‘adattamento’ delle rispettive dottrine e usi da
parte di cattolici e maomettani – a cui occorre aggiungere i
cristiani ortodossi –, pratiche che delineano spesso una
doppia appartenenza religiosa e culturale e che configurano relazioni
tra gruppi diversi più in chiave di contaminazione che di
affermazione di identità fisse e impenetrabili, di
‘differenze’ e
‘alterità’. Postulare opposizioni
binarie e polarità irriducibili impedisce di cogliere le
reti interrelate dei rapporti di dominio e di guerra e di quelli di
scambio, con i legami che essi creano [13]. La duratura
presenza turca nell’Est europeo e nei Balcani, dove peraltro
le comunità islamiche non erano quantitativamente in
maggioranza rispetto alle cristiane, ortodosse e cattoliche, non
soltanto non provocò dunque un cataclisma per i cristiani,
come ha osservato G. Veinstein [14], ma si
declinò in interazione e osmosi che solo retrospettivamente
le storiografie e i nazionalismi avrebbero negato. Elementi di
riflessione, questi, che potrebbero dire oggi qualcosa sugli
irrigidimenti attuali delle due parti.
[1] Su questi temi rinvio a Vero e falso. L’uso politico della storia, a cura di M. Caffiero e M. Procaccia, Roma, Donzelli, 2008, e all’intervento dello stesso Del Col, La divulgazione della storia inquisitoriale tra approssimazione e serietà professionale, ivi, pp. 83-102.
[2] A dieci anni dall’apertura dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede: storia e archivi dell’Inquisizione, Roma, 21-23 febbraio 2008, Atti in corso di stampa a cura dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
[3] Il fascicolo sulla Bulgaria si trova in Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (d’ora in poi ACDF), Sant’Ufficio, Stanza Storica, DM IV (1755-175)8, fasc. IX.
[4] Benedictus XIV, Inter omnigenas, Romae, apud Sanctam Mariam Majorem, 1744, in Sanctissimi domini nostri Benedicti Papae XIV Bullarium. Tomus I, pp. 304-308, in particolare p. 304.
[5] ACDF, Sant’Ufficio, Stanza Storica, DM IV (1755-1758), fasc. IX., cc. n.n.
[6] Ivi, fasc. VII: «Bosnia ottomana», cc. n.n.
[7] Ivi, fasc. IX., «Sofia», cc. n.n.: si veda qui la decisione finale del pontefice, che era ancora Benedetto XIV, presa dopo sentita la Congregazione e inviata al vescovo di Sofia; in essa si confermano validi, anche se illeciti, anche i matrimoni contratti davanti al Koggià turco e si asserva che «codesti Fedeli non abbiano a inquietarsi per li matrimonj di già contratti nella medesima maniera». Andavano solamente imposte ai coniugi le “penitenze salutari” previste (Feria V, 31 agosto 1758). Nello stesso fascicolo, un Ristretto di Riflessioni sopra li Dubbj de’ matrimoni formati sopra l’istanza dell’Arcivescovo di Sofia (anonimo, segnatura B), riporta l’opinione per cui era necessario riflettere se sospendere il rescritto emanato in proposito da Benedetto XIV e chiedere ai vescovi locali se non fosse il caso di muoversi con circospezione prima di introdurre la forma prescritta dal concilio di Trento, come peraltro suggeriva lo stesso vescovo di Sofia.
[8] Abbondantissima è la letteratura sul privilegio paolino. Mi limito a citare: A. Bride, Privilège paulin, in Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1903-1950; P. Palazzani, Privilegio paolino, in Enciclopedia Cattolica, vol. X, coll. 49/56, Città del Vaticano 1953. Il privilegio paolino (nel nuovo Codice di diritto canonico ai can. 1143-1150), riguarda le cause di scioglimento del vincolo matrimoniale ed è così denominato perché trae origine da una lettera di san Paolo: I Cor. 7, 12-16. In base ad esso, i matrimoni legittimi sono sciolti, in favore della fede (favor fidei, che, nel dubbio, prevale sul favor matrimonii) quando uno dei coniugi sposati senza essere battezzati successivamente riceva il battesimo e l’altro coniuge si rifiuti di continuare la convivenza o non voglia coabitare pacificamente, «senza offesa al Creatore». In tal caso la parte battezzata, interpellata l’altra parte per conoscere la sua eventuale disponibilità al battesimo o almeno alla pacifica convivenza, ove l’esito sia negativo, acquista il diritto di contrarre un nuovo matrimonio con altra parte cattolica in favorem fidei ed, eventualmente, per grave causa e con dispensa del vescovo, anche con una parte non cattolica, battezzata o non. Il passo paolino a cui si fa riferimento dice: «Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie. Agli altri dico io, non il Signore: se un nostro fratello ha la moglie non credente e questa consente a rimanere con lui, non la ripudi; e una donna che abbia il marito non credente, se questi consente a rimanere con lei, non lo ripudi: perché il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, mentre invece sono santi. Ma se il non credente vuol separarsi, si separi; in queste circostanze il fratello o la sorella non sono soggetti a servitù; Dio vi ha chiamati alla pace! E che sai tu, donna, se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai la moglie?».
[9] Ringrazio Andrea del Col, con cui ho discusso di queste complesse questioni canonistiche, per i suggerimenti.
[10] Cfr. casi in ACDF, Sant’Ufficio, Stanza Storica, M5 -h, Tibet.
[11] L’inchiesta con le risposte al questionario Ivi, DM IV (1755-1758), Antivari in Albania, cc. 416r-428v.
[12] Ivi, D. V, fasc. VIII, Albania, 1806, voto di mons. Marco Negri, cc. n.n.
[13] N. Zemon Davis, La doppia vita Leone l’Africano, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 12.
[14] G. Veinstein, L’Islam ottomano nei Balcani e nel Mediterraneo, in Storia d’Europa. Vol. IV. L’età moderna (secoli XVI-XVIII), Torino, Einaudi, 1995, p.82.