Bernard Mandeville e l’economia politica: commercio, lusso e libertà[*]

Daniele Francesconi
Fondazione Collegio San Carlo di Modena
Abstract

In this paper I deal with Bernard Mandeville's views on political economy, in order to reconstruct his overall perspectives on individual moral psychology and on the topic of luxury. First, I discuss Mandeville's views on labour, wages, political management and the balance of trade against the background of contemporary paradigms of 'mercantilism' and 'free trade'. I argue that he freely moved between these categories, and I also contend that they can not be taken as a rigid orthodoxy, which would prevent a real historical recovery of their meaning. Then I turn to his discussion of luxury. I maintain that this aspect of Mandeville's thought can not be reduced to a paradoxical provocation (however brilliant), but must be reconstructed along a three-dimensional framework, because Mandeville elaborated the relative difference between needs and desires in three contexts. This framework was not explicitly stated by Mandeville, but can be recosntructed through a close reading of his writings: first, an international context, in which certain countries specialised in exporting, whereas others in consuming, luxury goods; secondly, a social context, in which the differentiation between luxuries and wants mirrors a social hierarchy; and finally an evolutionary dimension, in which the consumption of luxury goods helps spread benefits to all social ranks in the next generations. In a final section I reconsider the classic question of Mandeville's role in the growth of political economy and his alledged theory of 'possessive individualism' coupled with classical liberalism. I disagree with those reconstructions that take for granted the attendant rise of free trade, individualism and liberalism. Mandeville is a crucial case in point for showing how economic arguments were still strictly interwoven with insights in moral psychology, party politics and social criticism.


1. Bernard Mandeville non era un economista in senso proprio, perché utilizzava i ragionamenti economici prevalentemente per illustrare aspetti della psicologia morale degli individui e per finalità satiriche. Da questo punto di vista tuttavia egli è un autore particolarmente significativo perché, in un contesto storico nel quale le categorie dell’economico, del politico e del morale non si erano ancora autonomizzate, il suo discorso, che in ogni caso non ambiva a fondare una sfera economica separata dalle altre, mostrava con notevole efficacia i paradossi, i limiti e le potenzialità dell’analisi della ricchezza[1].  Pertanto, pur essendo spesso fragili e contraddittorie se esaminate alla luce della logica dell’economia in via di “stabilizzazione concettuale”, le posizioni di Mandeville risultano ugualmente significative dal punto di vista storico, proprio perché indicano come all’interno del medesimo spazio discorsivo potessero convivere elaborazioni teoriche coerenti e mosse altamente provocatorie. Per essere provocatorio o satirico, del resto, un linguaggio politico non può che istituire un rapporto con le forme più diffuse e condivise di argomentazione, perché solo parodiando il noto si è in grado di rivelarne anche gli aspetti più soggetti alla satira. È dunque ragionevole ipotizzare che Mandeville abbia fatto riferimento a concetti e schieramenti facilmente riconoscibili nel discorso pubblico del periodo cosiddetto augusteo.
Ciò è evidente se si prende in considerazione il suo pamphlet A Modest Defence of Publick Stews, pubblicato nel 1724. In quest’operetta Mandeville si proponeva di mostrare che la prostituzione pubblica è preferibile a quella privata perché, mentre quest’ultima è rischiosa e nociva, la prima è benefica per la società: i bordelli pubblici permettono infatti agli uomini di soddisfare i loro desideri naturali senza molestare donne comuni, avendo al contrario a disposizione prostitute professioniste sacrificate per il bene della maggioranza. Una politica del genere avrebbe tutelato il matrimonio e protetto la distinzione dei ranghi, mentre la sicurezza sociale e igienica di case pubbliche di piacere rigorosamente controllate e regolamentate indicava la preferibilità di un regime mercantilistico dello scambio sessuale rispetto alle inefficienze dell’iniziativa privata[2]. Nonostante A Modest Defence of Publick Stews sia un caso estremo, esso rivela con chiarezza un tratto saliente della satira mandevilliana: pur dilungandosi in modo parodistico sugli aspetti maggiormente ridicoli della effettiva realtà sociale (in questo caso il disciplinamento parossistico del mercantilismo, con il suo controllo ossessivo di turni di lavoro, numero delle professioniste, regolarità dei controlli, gestione dei flussi, e così via), il messaggio satirico contiene un elemento di verisimiglianza, perché davvero secondo Mandeville un sistema protetto di prostituzione pubblica avrebbe conseguenze benefiche per la società. Il divorzio tra motivazioni etiche e risultati sociali è infatti tema centrale dell’intera riflessione politica mandevilliana. Anche nei commenti più seri all’economia politica egli ha adottato un procedimento argomentativo non dissimile da quello appena ricordato. Pur sottolineando certi esiti paradossali della logica mercantilistica, egli si è mosso comunque nell’orizzonte teorico del pensiero mercantilistico, sfruttandone le potenzialità più che respingendolo.
In questo lavoro ci si propone di esaminare dapprima l’oscillazione mandevilliana tra “mercantilismo” e libero mercato, indicando come essa compaia già nella Fable of the Bees pubblicata nel 1714 e si mantenga stabile fino agli scritti più tardi. Successivamente ci si volgerà all’analisi mandevilliana del lusso per discuterne le diverse dimensioni, rispettivamente legate all’economia internazionale, alla distinzione dei ranghi e alla storia congetturale della società.

2. Mandeville ha sostenuto a più riprese la necessità di mantenere una favorevole bilancia commerciale, evitando che il totale delle importazioni superi quello delle esportazioni (F, I.116: trad. it., 74). Seguendo l’ortodossia mercantilistica ha sottolineato inoltre che il compito di gestire una tale politica economica spetta al potere legislativo, il quale deve avere cura di tutelare l’interesse nazionale in ogni affare economico (F, I.249: trad. it., 168; I.358: trad. it., 257). Il potere politico, secondo Mandeville, deve sempre anteporre il più piccolo beneficio pubblico al più grande vantaggio privato e dirigere la società «come se si trattasse di un sol uomo» (F, I.319: trad. it., 224; I.347: trad. it., 248). L’assunzione di responsabilità economiche da parte del governo rende inoltre possibile un relativo consumo interno di beni di lusso stranieri. A compromettere la bilancia commerciale di un paese non è infatti il lusso di per sé, bensì la sproporzione tra importazione ed esportazione. Il lusso non può trascinare alla rovina la costituzione e la ricchezza di una nazione a meno che ciò non dipenda dalla follia, dalla cattiva politica, dalla negligenza e dall’incapacità amministrativa dei dirigenti politici (F, I. 115: trad. it., 73; I.117: trad. it., 75; I.304: trad. it., 213). Secondo Mandeville, pertanto, «spetta al potere politico sopperire ai difetti della società e occuparsi prima di tutto di ciò che è trascurato dai privati» (F, I.321: trad. it., 225): assorbiti dalle loro passioni e dall’interesse privato, gli individui non potrebbero farsi un’idea adeguata dell’interesse comune, la cui protezione deve venire affidata al ceto politico, l’unico soggetto in grado di dosare le varie e competitive tensioni tra individui. In questo modo «i vizi privati, attraverso l’accorta amministrazione di un abile politico, possono divenire benefìci pubblici» (F, I.369: trad. it., 267; II.319: trad. it., 216).
Nel suo scritto più tardo, A Letter to Dion (pubblicato per rispondere alle accuse mossegli da George Berkeley in Alciphron), Mandeville scrisse che l’espressione «vizi privati, benefìci pubblici» acquista un significato grammaticale compiuto solo se vi si aggiunge almeno un verbo: e fu esplicito nel precisare che i vizi privati potrebbero divenire benefìci pubblici solo con l’ausilio amministrativo e l’abilità di un politico[3]. Questa precisazione dal tono polemico può valere come prova dell’orientamento mercantilistico di Mandeville, fondato sull’indispensabilità dell’azione politica nelle materie economiche. In questo senso, si tratterebbe comunque di una sorta di truismo, perché in effetti nessun ragionamento di politica economica elaborato nel XVIII secolo avrebbe potuto prendere le mosse da una visione dogmatica dell’autosufficienza del mercato. Gli intrecci tra meccanismi legislativi, concessioni di charters e azione economica erano infatti un dato di fatto incancellabile[4].
Non a caso la discussione sul mercantilismo si è storicamente intrecciata con le dispute intorno alle strategie della Compagnia inglese delle Indie Orientali, perché la politica economica praticata dalla Compagnia veniva da più parti considerata come una grave anomalia del sistema mercantile. Essa infatti, essendo fondata sull’esportazione di denaro in cambio di beni concorrenziali con quelli inglesi - soprattutto prodotti tessili - non solo sembrava violare i princìpi della bilancia commerciale, ma anche mettere in crisi lo stesso mercato interno del lavoro, perché i prezzi delle merci indiane erano più bassi rispetto a quelle inglesi. Le contese ideologiche intorno alla politica della Compagnia delle Indie Orientali rispecchiavano pertanto un conflitto sociale e uno scontro di interessi tra il ceto manifatturiero e quello mercantile. Allarmati dalla concorrenza delle merci d’oltre oceano, i fabbricanti di stoffe sottolineavano la necessità di proteggere la produzione inglese e di limitare le importazioni[5]. I mercanti e i portavoce della Compagnia (come per esempio Charles Davenant e Henry Martyn), d’altra parte, si schierarono a favore di una politica del libero commercio, sostenendo che la politica mercantilistica del costo del lavoro era sbagliata. Da questo punto di vista essi rilevavano che l’importazione di merci indiane, benché facesse abbassare i prezzi delle manifatture inglesi, poteva rivelarsi benefica per altri settori produttivi. Anche se un certo numero di lavoratori avesse dovuto lasciare il comparto tessile, essi avrebbero comunque fatto crescere la competizione in altri settori, determinando la riduzione del costo del lavoro e del prezzo di altri prodotti inglesi. Sul fronte del consumo, il risparmio ottenuto comprando manufatti indiani avrebbe consentito ulteriori acquisti o investimenti[6]. Vi è qui un evidente segno di propaganda, in quanto il vero tema discusso dagli avversari della Compagnia riguardava non tanto la contrapposizione tra politiche protezionistiche e princìpi del libero mercato, quanto la posizione oggettivamente monopolistica di cui godeva la Compagnia, che escludeva i concorrenti dalle proprie rotte commerciali e precludeva ad altri attori economici inglesi l’accesso ai mercati orientali[7].
È impossibile valutare quanto Mandeville fosse informato su questi dibattiti, di cui certamente non resta più che una flebile traccia nei suoi scritti. Ciò non toglie che, sia pure in forma estremamente banalizzata, i termini complessivi di queste polemiche sembrino risuonare anche in alcuni passi degli scritti mandevilliani. Indipendentemente da queste ipotesi, la dimensione entro cui contestualizzare le argomentazioni di Mandeville è comunque un’altra, avente a che fare con la satira e con la psicologia morale. In questa prospettiva, non si deve trascurare che i politici mandevilliani (fossero essi membri del Parlamento, ministri del Governo o dirigenti delle grandi chartered companies soggette a concessione pubblica) erano altrettanto cinici, ambiziosi e vanagloriosi degli individui con cui trattavano e che in questi personaggi si deve scorgere la caricatura del ceto politico whig dell’Inghilterra augustea[8].
Il principale tra i compiti economici del governo è per Mandeville la proporzionata distribuzione di forza-lavoro nei vari settori produttivi, con lo scopo di mantenere i rami del commercio e delle manifatture sempre aperti a nuova occupazione, per creare una continua concorrenza tra i lavoratori, tenere basso il costo del lavoro e rendere dunque le merci inglesi competitive sul mercato. Se ciò non accadesse, e i vari segmenti produttivi si saturassero, ciò non potrebbe che essere dovuto a un «errore nella direzione dell’intera società» (F, I.197: trad. it., 131; I.301-02: trad. it., 210).

3. Una delle pi ù comuni tesi “mercantilistiche” prevedeva che la prosperità di un paese si fondasse sulla povertà dei suoi abitanti presi singolarmente, o meglio che la ricchezza della nazione riposasse sulle capacità produttive di una classe lavoratrice mantenuta in condizioni misere di vita[9]. Mandeville riprese questo concetto scrivendo che «in una nazione libera dove non è permesso tenere schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una moltitudine di poveri laboriosi» (F, I.287: trad. it., 199). Senza il lavoro dei non-proprietari, infatti, gli interessi dei proprietari non potrebbero venire adeguatamente valorizzati: i poveri vennero perciò considerati da Mandeville una risorsa produttiva fondamentale che dimostrava il valore sociale del lavoro.
Secondo Mandeville i poveri dovevano venire occupati a un salario il pi ù basso possibile (F, I.192-93: trad. it., 128-129; I.247: trad. it., 167). Due strategie rendevano possibile una politica dei bassi salari: da una parte il sostegno all’incremento demografico, che avrebbe determinato una maggiore offerta di forza-lavoro e un calo dei suoi costi; dall’altra il costante impiego della maggior parte dei poveri nel processo produttivo, anche in questo caso con il risultato di rendere maggiore la concorrenza tra lavoratori e minori le spese dei proprietari (F, I.302: trad. it., 211; I.317: trad. it., 223; I.355-56: trad. it., 255). Da redditi dei lavoratori mantenuti modesti Mandeville si attendeva inoltre due conseguenze economiche: primo, un vantaggio per i prodotti inglesi nella competizione internazionale; secondo, una costante disponibilità di forza-lavoro. Un ulteriore vantaggio dei bassi salari era secondo Mandeville rappresentato dalla necessità per i poveri di accettare ogni tipo di lavoro, così da contrastare quella «inclinazione per l’ozio e il piacere» che prevarrebbe non appena i lavoratori fossero messi in condizioni anche di poco superiori a quelle di sussistenza[10].
Si deve usare una certa cautela nel classificare come senz ’altro mercantilistica questa difesa dei bassi salari. Anche nella letteratura cosiddetta mercantilistica sono infatti rintracciabili argomentazioni a favore di un alto livello delle retribuzioni. La teoria dei bassi salari non fu affatto unanime e, per quanto siano stati eccezioni, autori come North e Defoe furono inequivocabilmente difensori dei salari alti. A partire dal 1715 la difesa di un alto livello di retribuzione del lavoro divenne un elemento tipico della politica economica di orientamento mercantilistico[11]. In particolare la scelta tra alti e bassi salari rispondeva alla preferenza accordata rispettivamente agli incentivi per il consumo o alla tutela della produzione nella vita economica. Nel caso di Mandeville, per le ragioni già esposte, è dunque evidente che egli, esclusivamente con riferimento alla classe lavoratrice, antepose gli interessi della produzione a quelli del consumo[12]. Anche in questo caso, tuttavia, le finalità dell’argomentazione di Mandeville non sembrano tanto “economiche”, quanto satirico-politiche. Ciò che egli aveva di mira era l’atteggiamento a suo giudizio ipocrita di coloro che nel contesto storico dell’Inghilterra augustea intendevano tutelare al contempo il progresso economico e le protezioni sociali. Vedremo più oltre come per Mandeville ciò fosse contraddittorio e segno di cattiva coscienza morale.

4. La cooperazione economica tra due paesi non potrebbe durare se non fosse reciproca e interdipendente (F, I.251: trad. it., 170). Secondo la koinè mercantilistica, le nazioni si arricchivano vendendo i propri prodotti a caro prezzo e, nel caso di paesi privi di miniere e di riserve naturali di metalli preziosi, comprando pochi beni all’estero: il denaro liquido ricevuto in cambio dei propri prodotti costituiva così un guadagno effettivo. Nel tardo mercantilismo inglese tuttavia argomenti di questo genere erano stati relativizzati, portando a una rivalutazione dell’importanza del commercio estero nella bilancia commerciale. Dudley North, per esempio, aveva riconosciuto che i limiti nazionali non si applicavano alla politica economica («in questioni commerciali, il mondo vale come una nazione o un popolo»). Da questo punto di vista, e ribaltando le opinioni del mercantilismo “volgare”, North (che era stato tesoriere della Compagnia per la Turchia) arrivò a dichiarare che «il denaro esportato nel commercio costituisce un incremento per la ricchezza della nazione»[13]. Molti autori solitamente classificati come mercantilistici riconobbero la reciprocità di importazione ed esportazione di beni[14]. In altri termini, non tutto il mercantilismo fu contrassegnato dall’idea che il guadagno di una nazione comportasse la perdita di un’altra. D.C. Coleman ha mostrato che questa concezione del commercio come di un gioco a somma zero fu bilanciata dalla consapevolezza che commerciare con una nazione ricca era vantaggioso e che l’acquisto di beni stranieri recava una utilità relativa[15].
Mandeville si inserì nel solco di questo orientamento. Ciò è evidente nell’esempio da lui portato dei rapporti commerciali tra Inghilterra e Turchia. Supponendo che l’Inghilterra esportasse in Turchia prodotti per un valore di un milione di sterline all’anno e importasse merci per un valore di un milione e duecentomila sterline, da consumare tutte sul mercato interno, la conclusione dei mercantilisti sarebbe stata, secondo Mandeville, che non ci fosse alcun guadagno. Ho detto mercantilisti, ma non è questa l’espressione usata da Mandeville, a riprova del fatto che le sue opinioni economiche non si sono formate attorno a paradigmi pre-costituiti come quello del “mercantilismo”. L’espressione cui Mandeville ricorre per designare coloro che nella storiografia verranno definiti, appunto, «mercantilisti» è imbevuta di satira. Sono infatti «Men of much better Understanding than my self» (F, I.109: trad. it., 71) coloro cui Mandeville si rivolge per dimostrare, a dispetto di tale loro grande intelligenza, che hanno torto marcio. Senza formalizzarsi intorno all’uso di etichette, che peraltro talvolta sono utili per semplificare e intendersi, giova notare come, per Mandeville, da un punto di vista “mercantilistico” i consumi di beni esteri dovevano venire limitati a un ammontare pari, per esempio, a seicentomila sterline, costringendo la Turchia a pagare il resto dei manufatti inglesi in denaro contante (F, I.109: trad. it., 71). Secondo Mandeville questo tipo di rapporto commerciale sarebbe impraticabile. Fermo restando che i turchi avessero sempre bisogno della stessa quantità di manufatti inglesi, in breve tempo essi si metterebbero alla ricerca di nuovi partner commerciali con cui scambiare beni, riducendo al minimo le spese monetarie. Per Mandeville infatti «comprare significa barattare, e nessuna nazione può comprare i beni delle altre, se non ne ha di propri con cui pagarli» (F, I.111: trad. it., 71-72).
La proposta mercantilistica di limitare i consumi interni per trarne un guadagno monetario era per Mandeville incoerente e nociva sotto almeno due punti di vista. In primo luogo, costringendo i propri partner a ritirare dal mercato i prodotti non venduti agli inglesi, avrebbe determinato un calo nel prezzo di queste merci, di cui avrebbero approfittato proprio i rivali commerciali dell’Inghilterra. In secondo luogo, se l’Inghilterra avesse avviato un commercio di redistribuzione, le spese di lavorazione e di trasporto, aggiunte alle difficoltà di vendere le merci su mercati già riforniti, erano destinate a superare i profitti (F, I.112-13: trad. it., 72-73). Il punto cruciale dell’argomentazione di Mandeville era dunque che non fosse vantaggioso promuovere la frugalità nazionale, nella misura in cui ciò si ripercuotesse sull’interdipendenza delle relazioni commerciali.
Mandeville evidenziò inoltre la relazione tra consumo di beni esteri e incremento occupazionale per i «lavoratori poveri», perché a suo giudizio i consumi dei membri della classe agiata innescano un ciclo produttivo i cui benefìci vengono condivisi dai poveri. Produrre una stoffa scarlatta o un tessuto cremisi – sostenne Mandeville in una pagina di grande efficacia – richiede una divisone sociale e internazionale del lavoro di proporzioni spesso stupefacenti. Non solo perché questa manifattura impiegherebbe soggetti diversi come i pettinatori di lana, i filatori, i tessitori, i tagliatori di stoffe, gli smacchiatori, i tintori, i follatori, i disegnatori e gli imballatori, ma anche un gran numero di altri apparentemente estranei e invece necessari per produrre strumenti o utensili indispensabili alla lavorazione delle stoffe. Inoltre, in molti casi è frequente che si realizzino collaborazioni tra vari paesi, o per incaricarsi delle varie fasi della lavorazione o per eseguire compiti di trasporto e di distribuzione (F, I.356: trad. it., 256). Sottolineando le potenzialità insite nello scomporre in varie parti il processo lavorativo, Mandeville esprimeva con chiarezza i vantaggi di una divisione sociale del lavoro[16] (F, I.356: trad. it., 256; II.142: trad. it., 95; II.284: trad. it., 193; II.325: trad. it., 220-21).
Il punto cruciale del suo discorso era che, mentre una tale divisione del lavoro è al servizio dei desideri dei più ricchi, essa nondimeno procura occupazione e sopravvivenza anche ai più poveri. Nessun commercio dimostrava a suo parere questa tesi meglio di quello marittimo: errori di rotta, venti, pirati, tempeste mettevano a repentaglio l’incolumità non solo del carico, ma anche della nave e dell’equipaggio. Tuttavia i «lavoratori poveri» impiegati nella costruzione dei bastimenti o nella produzione e nel carico delle merci trasportate non sarebbero mai stati danneggiati da questi eventuali inconvenienti, anzi sarebbero stati avvantaggiati dalla sventura dei mercanti. Se le spedizioni fossero giunte a destinazione sempre sane e salve, commentava Mandeville con cinismo, sarebbe stato necessario forse usare un quinto delle navi impiegate fino allora, con una conseguente perdita di occupazione sia nel settore manifatturiero, che in quello marittimo (F, I.359-65: trad. it., 258-63).
Non c’è dubbio che l’opinione di Mandeville sacrifichi alla logica quel che guadagna nella satira: è evidente infatti che le perdite dei mercanti, in un sistema mercantile integrato, si ripercuoterebbero anche su lavoratori e marinai, spingendo gli armatori verso il fallimento e i lavoratori verso la disoccupazione. Quel che rimane interessante da notare è però il fatto che, secondo Mandeville, nessun paese potrebbe sopravvivere e assicurare occupazione costante alla moltitudine dei suoi poveri senza inserirsi nel sistema dello scambio commerciale internazionale. In questa prospettiva la tesi “volgare” della bilancia commerciale, consistente in una limitazione delle importazioni e in un accumulo di ricchezza monetaria, cedeva il posto a un equilibrio di importazione ed esportazione fondato sulla mutua dipendenza per l’acquisto di beni e servizi[17].

5. Secondo alcuni interpreti questa posizione consentirebbe di classificare Mandeville tra i sostenitori del laissez-faire e dell’individualismo economico[18]. Questi lettori sono confortati tra l’altro dall’affermazione di Mandeville che la suddivisione dei compiti e il popolamento dei vari settori produttivi «non si mantiene mai così bene come quando nessuno si immischia o interferisce con essa»[19] (F, I.299: trad. it., 209; II.353: trad. it., 237). Facendo perno su queste parole, Friedrich von Hayek e Nathan Rosenberg hanno supposto che Mandeville sia stato il primo autore a riconoscere nel mercato un meccanismo impersonale capace di generare un’interazione tra azioni individuali e risultati pubblici, non programmabile ma perfettamente coerente con le motivazioni e gli interessi dei singoli. In questa prospettiva, Mandeville avrebbe sottoscritto opinioni mercantilistiche solo per spiegare le fasi primitive della formazione di un sistema economico e legale, quando le decisioni governative devono sopperire all’ancora insufficiente tasso di causalità retroattiva tra comportamenti individuali e benefìci collettivi. Una volta che questo meccanismo abbia raggiunto un pieno stadio evolutivo, e ciò sarebbe accaduto secondo Mandeville nel contesto della rivoluzione commerciale del tardo Seicento, l’autoregolazione del mercato funzionerebbe senza alcun vincolo legislativo[20]. La figura dell’abile politico andrebbe pertanto presa come una formula metaforica, non più indicante un’istituzione politica o un ceto dirigente, bensì l’insieme delle norme impersonali, non-intezionalmente prodotte da attori motivati da puro interesse personale razionale[21].
Per quanto questa interpretazione spieghi alcuni elementi teorici del discorso di Mandeville, essa non sembra coglierne il significato storico. In primo luogo essa trascura il fatto che il principale soggetto economico discusso da Mandeville, cioè la classe dei lavoratori poveri, non si configura in alcun modo come un attore economico razionale. In secondo luogo, come si vedrà più oltre, ciò vale anche per la classe dei consumatori ricchi. Infine non tiene debito conto del fatto che, come si è visto, il ruolo dei legislatori in economia resta tema mandevilliano fino ai suoi ultimi scritti.
Mandeville ha ribadito a più riprese che per mantenere i poveri obbedienti e rendere il loro lavoro produttivo era indispensabile privarli di ogni nozione culturale non inerente al loro compito produttivo, riducendo al minimo il loro tasso di razionalità. Perché i poveri siano efficaci strumenti produttivi si dovrebbe privarli della conoscenza stessa del loro interesse: «c’è molto lavoro duro e sporco da fare e c’è bisogno di gente che si sottometta ad una vita difficile: dove trovare una riserva migliore per questa necessità se non tra i figli dei poveri? Nessun altro potrebbe essere più a portata di mano o più adatto» (F, I.311: trad. it., 218). La forza produttiva dei poveri era dunque legata per Mandeville alla loro totale ignoranza e al vincolo di sopravvivenza che li legava al padrone. Tale rapporto di dipendenza aveva ancora nel primo Settecento la forma di ciò che Edward P. Thompson ha definito “paternalismo”, ossia la subordinazione socioculturale di una larghissima maggioranza plebea a una piccola minoranza patrizia[22]. È difficile dunque credere che nel sistema sociopolitico oligarchico dell’Inghilterra augustea se ne potesse ricavare evidenza storica per una teoria del mercato autoregolato.
Il punto che comunque viene indubbiamente colto dagli interpreti del laissez-faire mandevilliano è che nella Fable of the Bees non si propone un modello di sistema economico bloccato. Sarebbe però storicamente fuorviante impantanarsi nell’opposizione tra un non meglio precisato liberismo a un altrettanto poco qualificato mercantilismo. Quel che si può dire è che le argomentazioni economiche mandevilliane si fondavano sulla netta separazione di produttori e consumatori. I lavoratori poveri vennero discussi da Mandeville esclusivamente come fattori di produzione e inseriti in una discussione delle strategie per ridurre i costi e potenziare le esportazioni, secondo un orientamento riconducibile alla teoria della bilancia commerciale. La politica dei consumi, d’altra parte, divenne parte integrante di una concezione del sistema economico imperniata sull’interdipendenza dei mercati e sui benefìci legati all’espansione di una economia del libero scambio, contraddistinta dalla crescente incidenza del consumo di beni di lusso.

6. Come ha ricordato Albert O. Hirschman, la passione del lusso fu quella di cui Mandeville si occupò più da vicino, cosicché lo stesso motto «vizi privati, benefìci pubblici» prende il suo significato soprattutto da essa[23].
Per evitare di ridurre la discussione mandevilliana del lusso a un espediente per riparare a un’ambiguità o a una semplice provocazione satirica, dobbiamo considerare quanto essa riflettesse un processo storico in corso nella società inglese del Settecento. Durante questo periodo il mercato interno inglese andò incontro a notevoli cambiamenti e a un diffuso incremento nel consumo[24]. Beninteso, non tutte le classi sociali furono beneficate nello stesso modo dalla rivoluzione commerciale: mentre per esempio si crearono nuove opportunità per i fittavoli, i piccoli proprietari terrieri furono messi in seria difficoltà dall’estensione del mercato e dagli investimenti di capitale che essa comportava. Se i nuovi mercanti ebbero la possibilità di diventare ricchi, lo stesso non si può dire per la classe lavoratrice, perché il sistema del lavoro era ancora instabile, la disoccupazione diffusa e le condizioni di vita variabili a seconda delle regioni. Charles Wilson non deve quindi essere molto lontano dalla verità quando scrive che i veri beneficiari della rivoluzione commerciale furono quelli che erano già ricchi e avevano accesso al mercato. La vera novità per questi pochi privilegiati – proprietari terrieri e mercanti – fu semmai che per la prima volta si potevano permettere il lusso di spendere molto senza rischiare il fallimento[25].
Tuttavia, anche se la gerarchia sociale non fu sostanzialmente trasformata, è vero che si creò una più estesa classe di consumatori, per effetto di una complessiva crescita dei redditi familiari. L’effetto più notevole di questa rivoluzione nei consumi fu la trasformazione di alcune gerarchie tra necessario e superfluo. Prodotti come i tessuti esotici e il tè, in passato considerati beni di lusso, divennero accessibili a un maggior numero di persone e finirono per entrare nelle abitudini di diversi ceti sociali[26]. Il superiore livello di prosperità consentì un ricambio periodico di generi di lusso e di status symbol, modificando in modo decisivo le strutture materiali e discorsive del foro pubblico attraverso proliferazione delle scelte e standardizzazione del mercato, sia nel contesto britannico che in quello americano[27]. Per ricostruire il significato della teoria mandevilliana del lusso dobbiamo perciò considerare che egli visse durante la fase di gestazione di questo processo di commercializzazione. Mandeville deve dunque essere incluso in quel tirocinio ideologico e intellettuale che a partire dal 1690 preluse al definitivo trionfo della società commerciale[28].
Sul piano teorico già Nicholas Barbon aveva “sdoganato” l’importanza dei desideri nei processi produttivi ed economici. Soffermandosi sulle diversi classi di beni economici nel suo Discourse of Trade del 1690, Barbon aveva mostrato come, accanto ai beni riconducibili ai «bisogni corporei» (tutti quelli necessari al sostentamento della vita), ve ne fossero anche di riconducibili ai «bisogni mentali», ossia legati alla soddisfazione di desideri per propria natura infiniti e illimitati. Lungi dal costituire un intralcio alla ricchezza, questo secondo tipo di beni legati alla ricerca di «pompa» e «distinzione» ne erano invece la molla[29].
L’apologia mandevilliana del lusso va letta sullo sfondo di tendenze sociali e intellettuali come quelle appena accennate. Inoltre non va letta in modo indifferenziato, come segno di semplice spregiudicatezza morale. Come abbiamo già visto, infatti, Mandeville fu sempre dell’opinione che il consumo cospicuo e lussuoso dei pochi dovesse essere compensato dalla frugalità e perfino dall’indigenza dei molti. Mandeville sosteneva che il lusso non potrebbe essere definito isolatamente senza cadere nel paradosso, perché ogni cosa al mondo potrebbe risultare non necessaria e oltre la soglia della mera sopravvivenza (F, I.107: trad. it., 70; I.247: trad. it., 167). Per questo motivo cercò quindi di dimostrare che il lusso era in ogni caso un elemento relativo. La reciprocità che Mandeville attribuì al lusso e al necessario può essere messa convenientemente in evidenza isolandone tre dimensioni presenti nella Fable. Essa poteva infatti avere una struttura internazionale, quando certi paesi si specializzano nella produzione di generi di lusso mantenendo un consumo interno basso, mentre altri paesi ricchi si specializzano nel consumo di lusso. Altrimenti poteva avere una struttura sincronica intraculturale, perché in una società stratificata e gerarchica certi beni sono necessari per i ricchi e superflui per i poveri. Infine poteva avere una struttura diacronica, nella quale quel che era superfluo per una generazione diviene necessario per la generazione successiva.

7. La prima dimensione del nesso tra lusso e frugalità emerge dalla comparazione mandevilliana tra il commercio olandese e quello inglese. Il caso olandese aveva suscitato l’interesse di molti scrittori economici inglesi per il risultato straordinario di una nazione assai povera di materie prime che era riuscita a imporsi come potenza commerciale di rango mondiale. Ricevendo in concessione la lavorazione di materie prime straniere e incaricandosi della loro redistribuzione, l’Olanda era divenuta il magazzino generale d’Europa, fornendo il mercato internazionale del più avanzato sistema di trasporto marittimo. Il controllo esercitato sui prodotti di altre nazioni, aggiunto al basso tasso di interesse praticato dagli istituti olandesi di credito e alla limitazione della spesa interna, era considerato dagli osservatori britannici come il fondamento della ricchezza olandese[30].
Mandeville – egli stesso nativo dell’Olanda trapiantato in Inghilterra – dissentì dalle spiegazioni più abituali del successo economico olandese disponibili nella pubblicistica anglofona. Nel fare questo mise in discussione uno dei punti essenziali dell’analisi del sistema economico olandese compiuta da William Temple[31]. Nelle sue Observations upon the United Provinces of the Netherlands (1668), probabilmente lo scritto più influente tra i molti commenti alla politica economica olandese, Temple sostenne che la forza dell’Olanda consisteva nella sua grande frugalità nazionale: «la loro ricchezza comune sta nel fatto che ciascuno possiede più di quanto spende», scrisse Temple, rilevando poi che «nessuna nazione ha mai commerciato così tanto e consumato così poco»[32]. Potendo vendere a prezzi bassi e competitivi, gli olandesi si erano assicurati una leadership commerciale fondata sul fatto che essi, nelle parole di Temple, «forniscono lusso infinito senza mai farne uso»[33]. Nella cultura mercantilistica la vendita di beni all’estero era sempre considerata come un’inequivocabile fonte di guadagno, mentre il commercio interno era piuttosto concepito come un semplice trasferimento di beni o servizi da un suddito all’altro[34]. Mentre Davenant dichiarò che «ogni consumo estero è un profitto chiaro e certo», Temple basò la sua analisi dell’economia olandese su una misura del tutto analoga[35]. Come mostrato da Istvan Hont, Temple non condivise la retorica civico-umanistica secondo la quale il lusso era di per sé un fattore di corruzione morale e una causa di fallimento economico. Tuttavia egli reputava che, per realizzare obiettivi di espansione economica, la frugalità nazionale e il risparmio fossero strumenti molto più congeniali del consumo e del lusso. Il caso olandese confermava ai suoi occhi l’idea che la potenza commerciale può venire acquistata solo conquistando i mercati, fornendo abbondanza ai propri vicini e mantenendo la frugalità nei propri confini nazionali[36].
Secondo Mandeville l’analisi di Temple era viziata dal mancato riconoscimento che la frugalità nazionale olandese era conseguenza di una scelta di interesse e non di virtù[37]. Una nazione estremamente povera di materie prime e di terra coltivabile, incapace di provvedere autonomamente al sostentamento di più di un decimo dei suoi abitanti, oltretutto a lungo sconvolta da guerre di religione, non avrebbe potuto scegliere  una politica diversa da quella del risparmio senza condannarsi all’estinzione (F, I.186: trad. it., 124). Per questo motivo gli olandesi avevano avuto il merito di specializzarsi nel traffico di generi di lusso, divenendo i fornitori dei paesi più ricchi e realizzando una sia pur breve egemonia commerciale.
Tutt’altro discorso per Mandeville doveva essere fatto a proposito dell’Inghilterra, il cui sviluppo economico era legato all’incremento della produzione. Se l’Inghilterra avesse limitato i suoi consumi interni, gli effetti sarebbero stati secondo Mandeville piuttosto negativi che benefici (F, I.191-96: trad. it., 128-30). Un ipotetico risparmio del 20% sulla spesa annua, a meno di una svalutazione della moneta, avrebbe portato lavoratori di ogni genere ad accumulare una liquidità notevole, che avrebbe fatto peggiorare il loro rendimento sul lavoro: solo se pressati dal bisogno e dalla scarsità gli uomini possono infatti secondo Mandeville garantire produttività (F, I.192-93: trad. it., 128-29). Per mantenere una spesa annua proporzionale alla produzione, era dunque necessario promuovere o almeno non impedire un certo consumo di beni di lusso.
Esaminati comparativamente, i casi dell’Olanda e dell’Inghilterra dimostravano come i vantaggi e gli svantaggi del lusso fossero relativi al tipo di sistema economico in cui esso veniva introdotto. Se l’Olanda avesse permesso un forte consumo domestico di beni di lusso, si sarebbe impoverita con danno anche di altri paesi; lo stesso sarebbe invece accaduto all’Inghilterra se vi avesse rinunciato. Secondo Mandeville ciò rappresentava  una forza per l’intero sistema commerciale in quanto, distribuendo i compiti del circuito economico tra vari paesi, poteva consentire una crescita differenziata e cooperativa[38].

8. Come non era vantaggioso che il lusso si diffondesse in modo univoco in tutti i paesi, altrettanto accadeva al loro interno. Discutendo di società stratificate, Mandeville riconosceva di non avere mai pensato che «il lusso potesse diventare generale, in ogni parte di un regno» (F, I.249: trad. it., 168). In una società commerciale caratterizzata da una struttura gerarchica, la classificazione tra beni di lusso e beni necessari poteva secondo Mandeville essere compresa «soltanto se siamo al corrente delle condizioni sociali ed economiche delle persone che ne fanno uso» (F, I.247: trad. it., 167). Così i ricchi potrebbero considerare come assolutamente necessario quel che per i poveri sarebbe del tutto superfluo, e forse in certi casi viceversa, dal momento che la percezione dei vari tipi di bisogno muta al mutare della classe sociale di appartenenza. In un esempio che sarebbe stato ripreso da Adam Smith, Mandeville scrisse che «se uno che è costretto ad andare a piedi invidia un uomo importante che mantiene una carrozza e sei cavalli non è mai con molta violenza, e non prova la sofferenza che può provare un uomo che, a sua volta, mantiene una carrozza, ma può permettersi solo quattro cavalli»[39] (F, I.136: trad. it., 88).
La presenza di un ceto dai bisogni e desideri estremamente limitati era del resto necessaria alla sopravvivenza del sistema mercantile, perché senza una classe di lavoratori poveri e ignoranti, come si è già visto, non sarebbe possibile produrre manufatti a basso costo (F, I.286: trad. it., 198). Per questo tipo di soggetti la cultura e l’istruzione sarebbero nocive, perché ritarderebbero unicamente l’ingresso dei giovani nelle manifatture, rendendo più costoso un lavoro che deve invece venire remunerato il meno possibile (F, I.288: trad. it., 200).
Per questa ragione Mandeville sferrò una pesante offensiva satirica contro le Scuole di Carità: nate da una costola delle Società per la Riforma dei Costumi, queste istituzioni educative erano finalizzate a garantire istruzione professionale e morale ai figli dei poveri, promuovendo al contempo una politica assistenzialistica che, secondo Mandeville, avrebbe presto provocato un insieme di effetti perversi. La carità verso i poveri avrebbe infatti generato pigrizia e indolenza, spingendoli a quell’ozio per il quale tutti gli uomini hanno predisposizione e allontanandoli dal lavoro (F, I.267: trad. it., 182; I.271: trad. it., 185). Usando un argomento analogo a quelli di Locke e Defoe, Mandeville sostenne che la politica assistenzialistica, invece di soccorrere i poveri, avrebbe finito per generare nuova povertà, causata dalla mancanza di industriosità[40]. Dal punto di vista mandevilliano ogni tentativo di intervento umanitario avrebbe ostacolato lo sviluppo produttivo e si sarebbe quindi dimostrato controproducente.
Secondo Mandeville era invece indispensabile mantenere il maggior numero possibile di poveri nella condizione di dover lavorare, facendo sì che essi spendessero sempre tutto quel che guadagnavano. Benché questa possa sembrare una concessione alla politica consumistica anche nei confronti dei poveri, si deve comunque sempre tenere presente che Mandeville si espresse a favore dei bassi salari: ed è un evidente truismo che, in una società monetizzata, con poco denaro si possono consumare poche cose. Raccomandare che i poveri fossero sempre obbligati a lavorare significava dimostrare i benefìci che sarebbero derivati dalla preservazione della gerarchia sociale. In uno dei passi più disincantati e politicamente conservatori della sua intera opera, Mandeville esprimeva preoccupazioni per le crescenti pretese dei poveri e dei servitori, i quali, a suo giudizio, avrebbero finito per usurpare i diritti dei padroni e dei ricchi (F, I.306: trad. it., 214). Non risuona qui alcun accento satirico, né Mandeville gioca a posare da orco misantropo e conservatore per rivelare indirettamente le iniquità della realtà sociale, come per certi versi ha fatto Swift. Il tono qui adottato da Mandeville è perfettamente serio e realistico, in quanto egli pensava che, se un tale processo egualitario e livellante avesse avuto successo, ne sarebbe derivato l’impoverimento generale del paese. La ricchezza nazionale si fondava infatti a suo giudizio sull’ineguaglianza di status tra poveri e ricchi, con la conseguente divisione del lavoro tra produttori e consumatori di lusso[41]. Nella società moderna perciò il lusso doveva essere prerogativa dei ceti ricchi, il cui consumo peraltro avrebbe avuto effetti benefici per l’intera società, creando occupazione per i poveri.
L’esigenza di oggetti di lusso aumenta secondo Mandeville salendo la scala sociale. Il consumo di beni apparentemente superflui è infatti provocato dal desiderio di migliorare la propria condizione: orgoglio, vanità e invidia rivestono un significato di primo piano in questo processo. In questa prospettiva gli oggetti, come per esempio i capi di abbigliamento, perdono la loro semplice funzione di utilità per divenire mezzi di ostentazione rivolti alla conservazione non più dell’esistenza fisica, bensì della reputazione degli individui[42] (F, I.127: trad. it., 82). Secondo Mandeville certi beni di consumo rappresentano l’opportunità materiale di celare la propria posizione sociale e di sopperire così ai propri scarsi meriti. L’emulazione che spinge a imitare i propri superiori corre lungo tutta la scala sociale «finché alla fine le grandi favorite del principe e le donne di più alto rango, non avendo altro per superare alcune delle inferiori, sono costrette a spendere immense fortune in equipaggi pomposi, arredi magnifici, giardini sontuosi e palazzi principeschi» (F, I.129-30: trad. it., 84). A far scattare questo meccanismo agonistico sono l’amor proprio e la vanità, responsabili anche delle cicliche innovazioni merceologiche introdotte come correttivo ai ricorrenti livellamenti prodotti dall’emulazione sociale[43]. In questa inarrestabile spinta al lusso giace il principale elemento della ricchezza: «se gli uomini si contentassero delle pure necessità», aveva scritto Dudley North, «avremmo un mondo povero»[44]. A queste parole faceva eco l’affermazione di Barbon secondo cui «la prodigalità è un vizio pregiudizievole per gli individui, ma non per il commercio»[45]. Mandeville condivise questo riconoscimento della forza rivoluzionaria giocata da passioni come orgoglio e vanità nell’economia di mercato[46]. Tra i fattori della crescita economica molti economisti augustei, tra i quali Mandeville, inserirono dunque anche il fenomeno oggi denominato “effetto Veblen”: essi si resero cioè conto che l’ostentazione di ricchezza, comportamento avente di per sé cause psicologiche, recava benefìci all’intero sistema produttivo, per cui i consumi della classe agiata irradiavano vantaggi a tutti i ranghi.

9. Questa forza propulsiva della vanità permise a Mandeville di spiegare i cambiamenti del lusso anche nella terza dimensione da lui esplorata, cioè quella diacronica. Mentre infatti la vanità e l’ostentazione realizzavano l’indispensabile separazione stratificata tra poveri e ricchi, esse avevano anche reso possibile un miglioramento generale delle condizioni di vita nel corso del tempo. Anche in questo caso Mandeville sottolineò come si fosse verificata una ridefinizione delle gerarchie tra necessario e superfluo per la quale anche i più poveri, per effetto di quell’emulazione livellante di cui si è detto prima, potevano considerare necessarie cose che per i loro antenati sarebbero state assolutamente superflue.
Siamo di fronte a quel che è stato battezzato “paradosso della società commerciale”, ossia il fenomeno per il quale i lavoratori produttivi divengono capaci di sopportare il peso di un gran numero di lavoratori improduttivi, rimanendo tuttavia in grado di soddisfare adeguatamente i propri bisogni e compensando la notevole ineguaglianza della proprietà con un miglioramento assoluto, anche se non relativo, delle proprie condizioni di vita[47]. Mandeville espresse questo fenomeno osservando che «se seguiamo le nazioni più fiorenti fino alla loro origine, troveremo che nei lontani inizi di ogni società, gli uomini più ricchi e importanti mancarono per lungo tempo di moltissime di quelle comodità della vita di cui ora godono gli ultimi e più umili poveracci; così che molte cose, che un tempo erano considerate dei ritrovati di lusso, oggi sono consentite perfino a coloro che sono tanto poveri da essere oggetto di carità pubblica; e, anzi, sono considerate tanto necessarie, che pensiamo che nessuna creatura umana dovrebbe esserne priva»[48] (F, I.169: trad. it., 112). Indumenti di lino, birra, pane, abitazioni in muratura, tutti oggetti un tempo scarsi e riservati ai pochi erano divenuti comuni e indispensabili per tutti. Il processo di commercializzazione tipico della società moderna aveva dunque innescato secondo Mandeville una catena di benefìci che, partendo dai desideri consumistici dei più ricchi e passando attraverso la competenza amministrativa dei legislatori, aveva raggiunto anche gli strati più bassi e poveri.
Si manifesta in questo aspetto del discorso economico mandevilliano una sorta di temporalizzazione delle differenze sociali non priva d’importanza per il carattere evoluzionistico del suo pensiero politico in generale. Il riconoscimento dell’irradiazione cumulativa ed esponenziale di vantaggi materiali all’intera struttura sociale ha infatti non solo una valenza storica, ma anche una pregnanza logica, nella misura in cui indica un processo naturale caratteristico delle istituzioni sociali in quanto tali. Spogliata dalle sue concrezioni storiche, l’idea mandevilliana di diffusione diacronica del lusso (non a caso parzialmente anticipata da un pensatore giusnaturalistico come Locke) vale come prova dell’instabilità della condizione “selvaggia” e dei benefìci recati dall’ingresso nello stato civile.
Per quanto riguarda la genesi del pensiero politico mandevilliano è significativo osservare che tale argomentazione sia già formata e articolata in un testo del 1714, dunque ben prima della più ampia e sistematica svolta evoluzionistica consumatasi nei dialoghi del 1728.

10. L’idea mandevilliana del successo storico della società moderna e commerciale, con le sue istituzioni economiche e politiche legate ai benefìci del lusso e del sistema creditizio, deve ora in conclusione venire spiegata dal punto di vista ideologico, per capire quale sia stata la posizione di Mandeville nel processo di formazione dell’economia politica[49]. Per Joyce Appleby, ad esempio, la posizione di Mandeville assume una chiara connotazione ideologica, in quanto egli avrebbe fatto proprie alcune tesi appartenenti a ciascuno dei due schieramenti in cui secondo la storica americana si divise il pensiero economico augusteo[50]. Le prove a sostegno di questa tesi starebbero nel fatto che Mandeville ha sottolineato gli elementi di libero mercato presenti nella cultura mercantilistica, discutendo con favore l’interdipendenza dei mercati e il sistema monetario, senza però mai abbandonare l’orizzonte intellettuale della bilancia commerciale. Si deve tuttavia notare che lo schema della Appleby, pur essendo utile per catturare e classificare alcuni aspetti del pensiero economico di Mandeville, si rivela però insufficiente per formularne un’adeguata interpretazione storica. Il giudizio sotteso alla ricostruzione della Appleby, cioè che un’economia capitalistica e libero-scambista della società moderna si sia contrapposta a un sistema mercantile dell’antico regime, è fuorviante se riferito a Mandeville, e probabilmente è troppo rigido in quanto tale[51].
Donald Winch ha fatto notare come la Appleby abbia usato ogni premura per escludere Mandeville dalla sua ricostruzione del discorso politico-economico liberale[52]. Secondo chi scrive ciò è del tutto comprensibile se si considera quanto difficile sarebbe stato classificare Mandeville in questo paradigma storico. Mentre la Appleby ritiene che formazione dell’economia politica, individualismo possessivo e sviluppo del liberalismo siano andati di pari passo, Mandeville è la prova di come questa sequenza di discorsi fosse soggetta a cortocircuiti storici. D’altronde egli non potrebbe essere definito un autore liberale, soprattutto se si assumono gli usi prevalenti nel contesto storico in cui operò Mandeville.
Infatti, anche volendo ammettere l’idea anacronistica che il concetto di “liberale” sia stato politicamente intelligibile a soggetti parlanti e scriventi nell’Inghilterra del primo Settecento, Mandeville non può venire collocato all’interno dello schieramento che la storiografia whig ha voluto riconoscere come il primo liberale[53]. Sul piano costituzionale Mandeville sposò la concezione moderata dei parlamentari che spiegarono la rivoluzione del 1689 come un’abdicazione, respingendo dunque le argomentazioni a partire dal diritto di resistenza formulate dai whig “liberali”[54]. Sul piano economico, invece, il fatto che Mandeville si sia spesso pronunciato a favore del libero commercio non può bastare a farne un liberale, considerata la moltitudine di argomenti del tutto simili portata avanti dalle più diverse posizioni politiche: attribuire retrospettivamente un significato “teorico” o “ideologico” a quelli che prevalentemente erano orientamenti di politica economica ispirati da considerazioni pragmatiche rischia di essere altamente fuorviante[55]. Sarebbe inoltre arduo sostenere che Mandeville abbia espresso una presunta fiducia nella razionalità economica fondata su un modello individualistico, egualitario e astratto (quello spesso ascritto ai pensatori “liberali”): al contrario, egli contribuì a dimostrare che i comportamenti economici si fondano su orgoglio e vanità, sull’amore per la superiorità e per il dominio, su passioni volubili e imprevedibili, su di un’intemperanza connaturata all’uomo e in nessun caso su una logica uniforme, invariabile e calcolabile a priori, quale sarebbe quella fondata sull’interesse privato. Come abbiamo visto, poi, Mandeville non fu affatto un egualitarista, ma assunse una posizione gerarchica per la quale gli individui venivano raggruppati in classi di consumo, a seconda che fossero «lavoratori poveri» o membri dei ceti ricchi.

11. J.G.A. Pocock ha mostrato che il carattere volatile e instabile del sistema creditizio e commerciale fu oggetto di analisi preoccupate nel corso dei primi due decenni del ‘700. Secondo gli autori della tradizione civica lo sviluppo di un interesse monetario avrebbe portato alla crisi del sistema economico agrario. Ciò avrebbe avuto conseguenze negative sulla personalità politica degli individui, perché li avrebbe allontanati dalla partecipazione politica e dalla cura dell’interesse pubblico su cui si fondava il modo classico di concepire il governo e la politica[56].
Sottolineando i benefìci del lusso e dello scambio internazionale Mandeville esprimeva la propria assoluta estraneità a questa retorica della corruzione come effetto del commercio. Secondo Mandeville i vantaggi portati dal processo di commercializzazione - la maggiore opportunità di consumo e la diffusione di maggiore ricchezza in tutti i ranghi della società - compensavano nettamente i rischi legati alla minore devozione degli individui per la virtù civile e all’introduzione di costumi e modi di vita meno austeri che in passato. Qualunque ne fosse la valutazione morale - e Mandeville fu un maestro nel camuffare le proprie opinioni rivestendole continuamente di paradossi - l’origine della società commerciale portava con sé la constatazione che una certa dose di vizi e di mali le fosse connaturata e che, in ogni caso, essa fosse irriformabile. L’uso dell’economia politica si univa pertanto alla vena satirica tipica del discorso di Mandeville. Servendosi di ragionamenti economici che dimostravano i benefìci determinati dalla spesa in generi superflui d’importazione, Mandeville intendeva screditare tutte quelle teorie che esprimevano timori nei confronti del commercio, fossero esse l’estremismo mercantilista, l’umanesimo civile o il progetto di riforma dei costumi delle società religiose.
Nell’Inghilterra in cui comparve la Fable of the Bees, non toccò però al sostenitore del lusso, Bernard Mandeville, esaminare la società commerciale come espressione di un processo storico di trasformazione dei bisogni umani, dei modi del loro soddisfacimento e delle organizzazioni sociopolitiche: questa fu invece preoccupazione saliente di un gran numero di autori neoharringtoniani impegnati a spiegare e giudicare il cambiamento dei valori civici nell’età moderna[57]. Da parte sua Mandeville aggirò qualsiasi discussione storica sulle origini della società commerciale e dell’economia politica. L’analisi del capitalismo da lui condotta, mentre costituisce un importante contrappunto avant la lettre alle interpretazioni religiose e culturali delle origini dell’economia moderna, è tutta impregnata di senso della contingenza e intenti satirici[58]. Diversamente da altri nuclei tematici della sua opera (come la teoria della sociabilità, l’analisi delle passioni naturali o la critica della politeness), il filo dei ragionamenti economici mandevilliani sembra aver mantenuto una sostanziale stabilità: come si è già detto, la svolta evoluzionistica segnata dai dialoghi del 1728 non ha inciso su questo aspetto del discorso mandevilliano con altrettanta forza che nei casi appena ricordati, forse proprio perché l’impasto di “mercantilismo” e “libero mercato”, di analisi comparativa e ipotesi congetturali, era già presente almeno a partire dalle Remarks del 1714.
Dalla Fable sono assenti, eccezion fatta per il lusso, tutti i principali temi che concorsero a formare il discorso politico-economico settecentesco: il passaggio dalla prudenza antica a quella moderna e dal feudalesimo al capitalismo commerciale, la professionalizzazione della vita militare e di quella pubblica in generale, il prevalere degli interessi settoriali e del clientelismo politico, il rapporto tra forme di governo, forme della società e successo commerciale, le strategie deliberative della spesa pubblica e la questione del debito, per citare solo i più evidenti. In mancanza di tutto questo, non è un caso che la Fable non sia riuscita a conquistare una posizione “rispettabile” nel dibattito politico post-mandevilliano: perfino la trattazione del concetto di lusso, che come abbiamo visto era nel suo insieme assai articolata, fu invece respinta come incoerente e frutto di semplice provocazione morale[59]. Tuttavia, se anche Mandeville non formulò nessuna teoria economica o della società capitalistica destinata a durare nel tempo, il modo in cui seppe estrarre argomenti consumistici dal linguaggio mercantilistico, unito alla sua correlazione di linguaggio economico e psicologia morale, rimane un momento storico significativo nella formazione dell’economia politica.

Note

[*] Ringrazio Maria Luisa Pesante per i suoi commenti a una precedente versione di questo saggio. Le citazioni dalla Fable of the Bees sono riportate nel testo con l’abbreviazione F seguita da numero di volume e di pagina e dal numero di pagina dell’edizione italiana. L’edizione critica utilizzata è The Fable of the Bees. Or Private Vices, Publick Benefits, edited by F.B. Kaye, 2 voll., Clarendon Press, Oxford, 1924 (trad. it. del primo volume, La favola delle api, a cura di T. Magri, Laterza, Roma-Bari, 1987; trad. it. del secondo volume, Dialoghi tra Cleomene e Orazio, a cura di C. Belgioioso, Milella, Lecce, 1978). Dove non altrimenti indicato le traduzioni sono mie.

[1] Su un piano di ricostruzione storica trovo difficile condividere la posizione di Louis Dumont, per il quale Mandeville avrebbe segnato la separazione dell’economico dal morale. Si tratta di categorie ricostruite in modo prevalentemente retrospettivo, mentre i processi intellettuali in atto tra il tardo Seicento e il primo Settecento, come spero emergerà anche da questo lavoro, lungi dall’indicare una differenziazione, manifestavano un complesso intreccio tra fattori che solo in seguito abbiamo imparato a distinguere nel modo in cui dice Dumont: cfr. L. Dumont, Homo aequalis, I. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, trad. it., Adelphi, Milano, 1984, in part. pp. 107-33. Lo storico non può trascurare che i linguaggi politici ed economici si sono costituiti con lentezza nel corso del tempo, anzi deve assumere tale lento costituirsi a proprio oggetto di ricerca. [2] Cfr. B. Mandeville, A Modest Defence of Publick Stews, printed by A. Moore, London, 1724, passim (trad. it.: Una modesta difesa delle case pubbliche di piacere, a cura di D. Castiglione, Sellerio, Palermo, 1989). Di bordelli pubblici Mandeville aveva già discusso in F, I.96-100: trad. it., 63-65.

[3] Cfr. B. Mandeville, A Letter to Dion (1732), Augustan Reprint Society Publication, Los Angeles, 1953, pp. 36-37. Si condensava in questa pagina mandevilliana un tema risalente già ai suoi interventi sul Female Tatler del 1709, dove era formulata la questione del «cunning Management» dei politici: mi permetto di rimandare alla mia Introduzione a B. Mandeville, Sociabilità. Vizi privati, benefìci pubblici. Scritti scelti, a cura di D. Francesconi, Liberilibri, Macerata, 2004, pp. XIII-XIV. Non mi pare condivisibile la tesi di Maria Emanuela Scribano, che ravvisa una progressiva marginalizzazione della figura dei legislatori e conseguentemente un passaggio di Mandeville da posizioni originariamente mercantilistiche a quelle più marcatamente libero-scambiste che avrebbe assunto negli scritti più tardi: cfr. M.E. Scribano, Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 184-208. Mi pare al contrario che l’oscillazione tra i due poli permanga fino proprio all’ultimo scritto mandevilliano.

[4] Si pensi a come, sul piano politico-legislativo, gli imperativi della bilancia commerciale abbiano condotto a un innalzamento dei livelli di controllo sedimentati nella politica dei Navigation Act e si siano incarnati in un vero e proprio sistema di protezione dell’industria nazionale, causato dalle continue iniziative belliche e dalla volontà di far corrispondere dominio militare e predominio marittimo: è a questo contesto che va ricondotta l’istituzione nel 1696 del Board of Trade, con la sua definitiva crescita a partire dal secondo decennio del XVIII secolo. Su questo insieme di processi politici, economici e legislativi si vedano alcuni studi ormai classici: C. Wilson, England’s Apprenticeship, 1603-1763, Longmans, Green & Co., London, 1965, in part. pp. 269, 281-87; R. Davis, The rise of protection in England, 1689-1786, in «Economic History Review», second series, XIX, 1966, pp. 306-17; P. Laslett, John Locke, the Great Recoinage, and the origins of the Board of Trade, 1695-1698, in John Locke. Problems and Perspectives, edited by J. Yolton, Cambridge University Press, Cambridge, 1969, pp. 137-64. Sullo sviluppo dello «Stato fiscal-militare», che ben documenta come lo Stato si sia configurato come il principale attore economico in questa fase della storia britannica e come i meccanismi di concentrazione economica abbiano avuto una dimensione eminentemente pubblica, si veda J. Brewer, The Sinews of Power. War, Money, and the English State, 1688-1783, Allen and Unwin, London, 1989.

[5] Cfr. J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologia nell’Inghilterra del XVII secolo, trad. it., il Mulino, Bologna, 1983, pp. 179-83. Sulle richieste in senso protezionistico dei produttori tessili inglesi cfr. anche il classico P.J. Thomas, Mercantilism and the East India Trade, King & Son, London, 1926, pp. 8, 24, 37, 51. Cfr. inoltre I. Hont, Free trade and the economic limits to national politics: neo-Machiavellian political economy reconsidered, in The Economic Limits to National Politics, edited by J. Dunn, Cambridge, 1990, pp. 41-120; e, sempre del medesimo autore, la ripresa di questi temi in Id., Jealousy of Trade. International Competition and the Nation-State in Historical Perspective, Belknap Press, Cambridge, Mass., 2005, in part. pp. 59-62. Per una discussione complessiva del paradigma “mercantilistico” in rapporto al commercio della Compagnia cfr. inoltre L. Magnusson, Mercantilism. The Shaping of an Economic Language, Routledge, London, 1994, pp. 60-88.

[6] Nel suo Essay on the East-India Trade (1696), per esempio, Davenant, muovendo dall’asserzione di principio che «il commercio è libero per sua natura», sosteneva che «l’unico modo benefico per l’Inghilterra di produrre lana a prezzi vantaggiosi è di tenere basso il costo del lavoro (to have it manufactured cheaply)». In questo senso, se si fosse imposta una proibizione all’importazione di manufatti tessili dall’India, il guadagno di breve termine dei produttori inglesi di stoffe si sarebbe accompagnato a una perdita di forza concorrenziale dell’Inghilterra nel lungo periodo: cfr. C. Davenant, An Essay on the East-India Trade, in Id., The Political and Commercial Works, 5 voll., edited by Sir C. Whitworth, printed for R. Horsfield, T. Becket and P.A. De Hondt, T. Cadell and T. Evans, London, 1771, vol. I, pp. 98-100, 112. Per argomentazioni analoghe cfr. anche [H. Martyn], Considerations on the East-India Trade (1701), in Early English Tracts on Commerce, edited by J. McCulloch, Political Economy Club, London, 1856, pp. 559-68. Per un ampio inquadramento biografico di Charles Davenant e per il suo ruolo di propagandista della Compagnia cfr. J. Hoppit, Davenant Charles (1656-1714), in Oxford Dictionary of National Biography, Oxford University Press, September 2004, online edition, May 2006 [http://www.oxforddnb.com/view/article/7195, accessed 15 Aug 2007].

[7] È opportuno ricordare che solo nel 1813 il governo britannico abrogò il monopolio commerciale concesso alla Compagnia, in un contesto completamente mutato, con la Compagnia che ormai esercitava una forma di sovranità su ampi territori indiani, per cui la funzione di autorità era addirittura prevalente su quella commerciale. Sulle prime fasi della Compagnia cfr. il classico K.N. Chaudhuri, The Trading World of Asia and the English East India Company, 1600-1760, Cambridge University Press, Cambridge, 1978. In un’ottica non limitata alla Compagnia inglese si veda invece G. Abbattista, L’espansione europea in Asia (secc. XV-XVIII), Carocci, Roma, 2002 (sulla East India Company in part. pp. 78-95, 121-25).

[8] Cfr. H. Landreth, The economic thought of Bernard Mandeville, in «History of Political Economy», VII, 1975, p. 205. Sull’utilitarismo dei legislatori cfr. J.C. Maxwell, Ethics and politics in Mandeville, in «Philosophy», XXVI, 1951, pp. 250-51. Sulle prospettive satiriche di Mandeville riguardo alla figura dei legislatori cfr. M.M. Goldsmith, Private Vices, Public Benefits. Bernard Mandeville’s Social and Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge, 1985, p. 53.

[9] Cfr.: E.F. Heckscher, Mercantilism, authorized translation by M. Shapiro, revised edition edited by E.F. Söderlund, 2 voll., Allen and Unwin, London, 1955, vol. II, pp. 153, 166, 327-29; T. Horne, The Social Thought of Bernard Mandeville, Macmillan, London, 1978, p. 63.

[10] La più nota formulazione di questo principio di politica economica e di questa visione della società nel pensiero economico anglofono tardo-seicentesco era quella di William Petty, il quale aveva sostenuto che, pur di non lasciare i poveri disoccupati e quindi preda di ozio e indolenza, sarebbe stato opportuno fargli «costruire un’inutile piramide sulla piana di Salisbury» o «portare le pietre di Stonehenge sulla collina della Torre»: cfr. W. Petty, A Treatise of Taxes and Contributions (1662), in The Economic Writings of Sir William Petty, edited by C.H. Hull, 2 voll., Cambridge University Press, Cambridge, 1899, vol. I, p. 31.

[11] Su North e Defoe cfr. D.C. Coleman, Labour in the English economy of the seventeenth century, in «Economic History Review», second series, VIII, 1956, p. 281. Sull’ipotesi di periodizzazione cfr.: C. Wilson, England’s Apprenticeship, cit., p. 234, nota 1; R.C. Wiles, The theory of wages in later English mercantilism, in «Economic History Review», second series, XXI, 1968, pp. 113-26.

[12] Sul carattere classista della politica di Mandeville cfr. T. Horne, The Social Thought of Bernard Mandeville, cit. pp. 70-71.

[13] Cfr. D. North, Discourses upon Trade (1691), in Commerce, Culture, and Liberty. Readings on Capitalism Before Adam Smith, edited by H.C. Clark, Liberty Press, Indianapolis, 2003, pp. 107, 108.

[14] Cfr. E.F. Heckscher, Mercantilism, cit., vol. II, pp. 112-30, 194.

[15] Cfr. D.C. Coleman, Mercantilism revisited, in «Historical Journal», XXIII, 1980, p. 783

.[16] Benché non sia sistematica, la concezione mandevilliana della divisione del lavoro anticipò le più mature formulazioni settecentesche. F.A. Hayek ricorda che Dugald Stewart aveva già sostenuto che Mandeville «chiaramente suggerì ad Adam Smith uno dei più bei passi della Ricchezza delle nazioni»: cfr. F.A. Hayek, Dr. Bernard Mandeville, in Id., New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Routledge, London, 1978, p. 258 (già in «Proceedings of the British Academy», LII, 1966, pp. 125-41). Lo stesso Marx sostenne che il capitolo sulla divisione del lavoro nella Wealth of Nations era copiato quasi parola per parola dalle Remarks di Mandeville: cfr. K. Marx, Il capitale, trad. it., a cura di D. Cantimori, 3 voll, Editori Riuniti, Roma, 1964, libro I, cap. XII, nota 57, vol. I, p. 398.

[17] Non a caso, proprio osservando la struttura delle osservazioni mandevilliane sul commercio internazionale, Terence Hutchison ha sostenuto che non vi era necessariamente contraddizione nel proporre politiche “libero-scambiste” in un settore e “mercantilistiche” in un altro: cfr. T. Hutchison, Before Adam Smith. The Emergence of Political Economy, 1662-1776, Basil Blackwell, Oxford, 1988, p. 125.

[18] A. Schatz, nel suo L’individualisme economique et social, Armand Colin, Paris, 1907, p. 62, parla della Fable of the Bees, come dell’«opera capitale in cui si trovano i germi essenziali della filosofia economica e sociale dell’individualismo». Secondo F.B. Kaye, Mandeville avrebbe elaborato una «autentica filosofia per l’individualismo in economia», trasformando le intuizioni rapsodiche dei suoi predecessori in una visione sistematica destinata a divenire «una delle principali fonti letterarie della dottrina del laissez faire»: cfr. F.B. Kaye, Introduction, in The Fable of the Bees, cit., pp. XCVIII-CIII, CXXXIX-CXLI. Last, but not least, F.A. Hayek ha salutato Mandeville come il fondatore del vero individualismo e si è compiaciuto di includerlo tra i precursori della sua teoria: cfr. F.A. Hayek, Individualism: true and false, in Id., Individualism and Economic Order, Routledge, London, 1949, p. 4.

[19] È interessante ricordare in questo contesto l’osservazione di Albert O. Hirschman per cui nel Settecento il verbo to meddle ha subìto uno slittamento semantico, passando da un’accezione neutra a una sostanzialmente dispregiativa: cfr. A.O. Hirschman, L’economia politica come scienza morale e sociale, trad. it., Liguori, Napoli, 1987, pp. 57-58.

[20] Cfr. F.A. Hayek, Dr. Bernard Mandeville, cit.; N. Rosenberg, Mandeville and laissez-faire, in «Journal of the History of Ideas», XXIV, 1963, pp. 183-96. Cfr. inoltre M. Bianchi, How to learn sociality: true and false solutions to Mandeville’s problem, in «History of Political Economy», XXV, 1993, pp. 209-40. Per una valutazione critica cfr. C. Petsoulas, Hayek’s Liberalism and Its Origins. His Idea of Spontaneous Order and the Scottish Enlightenment, Routledge, London, 2001.

[21] Cfr. D. Taranto, Abilità del politico e meccanismo economico. Saggio sulla “Favola delle api”, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1982, p. 139. Secondo M.M. Goldsmith la figura degli «abili politici» è servita a Mandeville per spiegare i meccanismi sociali sostituendo una spiegazione funzionale a una più complessa spiegazione genetica: cfr. il suo Private Vices, Public Benefits, cit., p. 64. Considerazioni analoghe anche in R. Hamowy, The Scottish Enlightenment and the Theory of Spontaneous Order, Southern Illinois University Press, Carbondale and Edwardsville, 1987, pp. 7-10.

[22] Cfr. E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, trad. it., Einaudi, Torino, 1981, pp. 275-308.

[23] Cfr. A.O. Hirschman, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1979, p. 21.

[24] Cfr. N. McKendrick - J. Brewer – J.H. Plumb, Introduction, in Id., The Birth of a Consumer Society. The Commercialization of Eighteenth-Century England, Europa Publications, London, 1982, p. 2.

[25] Cfr. C. Wilson, England’s Apprenticeship, cit., pp. 338-46.

[26] Sul passaggio dal caffè al tè nell’Inghilterra del primo Settecento cfr. W. Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe, trad. it., Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 87-92. Per una discussione complessiva cfr. anche Consumption and the World of Goods, edited by J. Brewer and R. Porter, Routledge, London, 1994.

[27] Cfr. T.H. Breen, An Empire of Goods: the anglicization of colonial America, 1690-1776, in «Journal of British Studies», XXV, 1985, pp. 467-99; Id., “Baubles of Britain”: the American and consumer revolutions of the eighteenth century, in «Past and Present», 119, 1988, pp. 73-104; e infine Id., Marketplace of Revolution. How Consumer Politics Shaped American Independence, Oxford University Press, Oxford, 2004.

[28] Cfr. N. McKendrick, The consumer revolution of eighteenth-century England, in The Birth of a Consumer Society, cit., pp. 13, 25.

[29] Cfr. N. Barbon, Discourse of Trade, in Commerce, Culture, and Liberty, cit., pp. 73-74. Su questi aspetti si veda M. Bianchi, The infinity of human desires and the advantages of trade: Nicholas Barbon and the wants of the mind, in Physicians and Political Economy: Six Studies of the Work of Doctor-Economists, edited by P. Groenewegen, Routledge, London, 2002, pp. 48-66.

[30] Cfr. J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologia, cit., cap. IV. Sul più generale contesto politico delle rivalità anglo-olandesi in epoca stuartiana cfr. S. Pincus, Protestantism and Patriotism. Ideologies and the Making of English Foreign Policy, 1650-1668, Cambridge University Press, Cambridge, 1996, passim.

[31] Su un altro piano, nel secondo volume della Fable of the Bees, Mandeville arriverà a respingere nel suo complesso l’ipotesi patriarcalistica dell’origine della società e del governo proposta da Temple. Per questo aspetto mi permetto di rimandare al mio Mandeville sull’origine della società, in «Il pensiero politico», XXVIII, 1995, pp. 407-33.

[32] Cfr. W. Temple, Observations upon the United Provinces of the Netherlands, in The Works of Sir William Temple, London, 1814, vol. I, pp. 138, 176. Per considerazioni analoghe cfr. J. Child, A New Discourse of Trade (1668), in Commerce, Culture, and Liberty, cit., in part. pp. 39-40, dove ricorda il «parsimonious and thrifty living» degli olandesi (anche se, in ultima istanza, la causa essenziale della prosperità degli olandesi andava ricercata per Child non nella frugalità nazionale, bensì nel basso tasso d’interesse da loro praticato: cfr. ivi p. 42).

[33] Cfr. W. Temple, Observations upon the United Provinces, cit., p. 176.

[34] Cfr. J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologia, cit., p. 176.

[35] Cfr. E.F. Heckscher, Mercantilism, cit., vol. II, p. 115.

[36] Cfr. I. Hont, Free trade and the economic limits to national politics, cit., pp. 51-57.

[37] Non bisogna dimenticare che, parlando della società frugale per eccellenza, cioè quella spartana, Mandeville sottolineò molto di più la barbarie della sua disciplina che la virtù del suo ordinamento: cfr. F, I.245-47: trad. it., 166-67.

[38] In questo Mandeville anticipò posizioni successivamente elaborate da Hume in Of money: cfr. I. Hont, The “rich country – poor country” debate in Scottish classical political economy, in Wealth and Virtue. The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, edited by I. Hont and M. Ignatieff, Cambridge University Press, Cambridge, 1983, pp. 271-316. Hont non accenna a Mandeville come fonte, ma non è implausibile che nel mettere a punto la sua teoria dello scambio internazionale, oltre a basarsi sull’esempio storico dei rapporti anglo-scozzesi, Hume abbia tenuto presente alcuni aspetti della discussione della Fable of the Bees. Sulla ricezione di Mandeville nell’illuminismo scozzese cfr. M.M. Goldsmith, Regulating anew the moral and political sentiments of mankind: Bernard Mandeville and the Scottish Enlightenment, in «Journal of the History of Ideas», XLIX, 1988, pp. 587-606; E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, 1991, pp. 229-38; E.J. Hundert, The Enlightenment’s Fable. Bernard Mandeville and the Discovery of Society, Cambridge University Press, Cambridge, 1994, pp. 82-86. Cfr. anche L. Colletti, Mandeville, Rousseau e Smith, in Id., Ideologia e società, Laterza, Bari, 1969, pp. 276-81. Per una discussione della messa a frutto di linguaggi mandevilliani nel pensiero politico e storico dell’illuminismo scozzese mi permetto inoltre di rimandare al mio L’età della storia. Linguaggi storiografici dell’illuminismo scozzese, il Mulino, Bologna, 2003.

[39] Nel passo in questione Smith sembrava tuttavia aderire a una prospettiva strettamente funzionale e materialistica, prestando, almeno in questo singolo caso, minore attenzione alla dimensione competitiva del riconoscimento sociale. Cfr. A. Smith, An Enquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776), edited by R.H. Campbell and A.S. Skinner, textual editor W.B. Todd, 2 voll., Clarendon Press, Oxford, 1976, I.viii.33 (trad. it.: La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. Biagiotti, Utet, Torino, 1975, p. 166): «non è perché un uomo tiene la carrozza mentre il suo vicino cammina a piedi che uno ricco è l’altro è povero; ma è perché uno è ricco che tiene la carrozza ed è perché l’altro è povero che cammina a piedi».

[40] Per questa «tesi della perversità» cfr. A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, trad. it., il Mulino, Bologna, 1991, p. 141. Sulla critica mandevilliana alle Scuole di Carità cfr. W.A. Speck, Mandeville and the Eutopia Seated in the Brain, in Mandeville Studies. New Explorations in the Art and Thought of Dr. Bernard Mandeville (1670-1733), edited by I. Primer, Kluwer, The Hague, 1975, pp. 66-79; T. Horne, The Social Thought of Bernard Mandeville, cit., cap. I; M.M. Goldsmith, Private Vices, Public Benefits, cit., pp. 103, 122, 154. Il saggio mandevilliano sulle Scuole di Carità scatenò una tempesta politica e giudiziaria che portò fino alla sua denuncia da parte del Grand Jury del Middlesex: su questo episodio cfr. W.A. Speck, Bernard Mandeville and the Middlesex Grand Jury, in «Eighteenth Century Studies», XI, 1978, pp. 362-74.

[41] L’insistenza sui gruppi di status (non ancora élite moderne, ma non più aristocrazia tradizionale) rende senza dubbio possibile includere Mandeville nel processo storico di ridefinizione delle gerarchie sociali consumatosi nel XVIII secolo: per più consapevoli esiti successivi cfr. M.L. Pesante, Aristocrazia, oligarchia, élite. Il discorso di Josiah Tucker sulla gerarchia moderna, in Il pensiero gerarchico in Europa, XVIII-XIX secolo, a cura di A. Alimento e C. Cassina, Leo S. Olschki, Firenze, 2002, pp. 111-29; Id., Contro l’uguaglianza civile. Discorsi inglesi sulla gerarchia nella seconda metà del Settecento, in «Rivista storica italiana», CXVII, 2005, pp. 448-93.

[42] Sul ruolo di vanità e invidia nella teoria politica di Mandeville cfr. T. Horne, Envy and commercial society. Mandeville and Smith on “private vices, public benefits”, in «Political Theory», IX, 1981, pp. 551-69.

[43] Sulle innovazioni merceologiche e le loro motivazioni cfr. la discussione teorica in A.O. Hirschman, Shifting Involvements. Private Interest and Public Action, Princeton University Press, Princeton, 1982, in part. pp. 46-61.

[44] Cfr. D. North, Discourses upon Trade, cit., p. 119.

[45] Cfr. N. Barbon, Discourse of Trade, cit., p. 90.

[46] Cfr. C.J. Berry, The Idea of Luxury. A Conceptual and Historical Investigation, Cambridge University Press, Cambridge, 1994, pp. 126-34.

[47] Per la classica esposizione di questo tema nell’economia politica settecentesca cfr. I. Hont – M. Ignatieff, Needs and justice in the Wealth of Nations: an introductory essay, in Wealth and Virtue, cit., pp. 2-8.

[48] Per formulazioni precedenti di questo medesimo concetto cfr. il noto passo del Second Treatise of Civil Government (1689), §41, in J. Locke, Two Treatises of Government, edited by P. Laslett, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, p. 297 (trad. it.: Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. Pareyson, terza edizione riveduta e accresciuta, Utet, Torino, 1982, p. 258): «a king of a large and fruitful territory there [cioè in America] feeds, lodges, and is clad worse than a daylabourer in England». Cfr. anche [H. Martyn], Considerations on the East-India Trade (1701), cit., pp. 593-94: «a King of India is not so well lodg’d, and fed, and cloath’d, as a Day-labourer of England». Si deve tuttavia notare che in Locke non meno che in Martyn l’accento è posto prevalentemente sul ruolo del lavoro nell’incrementare i benefìci del commercio e quindi il divario tra società a diversi livelli di sviluppo (qui tra quella europea moderna e progredita e quelle americana e indiana), mentre la misurazione evolutiva e diacronica di questo divario sui diversi gruppi sociali è meno marcata che in Mandeville. Locke e Martyn sembrano adottare uno schema duale, mentre Mandeville insiste su comparazione e corrispondenze tra gruppi sociali a diversi livelli di sviluppo.

[49] Sulle implicazioni più strettamente filosofiche e antropologiche delle riflessioni mandevilliane intorno alla questione della ricchezza si veda M. Simonazzi, Le favole della filosofia. Saggio su Bernard Mandeville, Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 216-39.

[50] Cfr. J.O. Appleby, Ideology and theory: the tension between political and economic liberalism in seventeenth-century England, in «American Historical Review», LXXVI, 1976, p. 509.

[51] Per discussioni critiche del paradigma della Appleby cfr.: J.G.A. Pocock, To market, to market: economic thought in early modern England, in «Journal of Interdisciplinary History», X, 1979, pp. 303-09; D.C. Coleman, Mercantilism revisited, cit., passim; D. Winch, Economic liberalism as ideology: the Appleby version, in «Economic History Review», second series, XXXVIII, 1985, pp. 287-97; M.L. Pesante, Paradigms in English political economy: Interregnum to Glorious Revolution, in «The European Journal of the History of Economic Thought», III, 1996, pp. 353-78.

[52] Cfr. D. Winch, Economic liberalism as ideology, cit., p. 293, nota 22.

[53] Come testimoniato dal Dictionary of the English Language (1755) del dottor Johnson (si veda qualsiasi edizione), nella prima metà del Settecento il termine «liberale» indicava la virtù della generosità («Liberal: free, bountiful, generous»). Altrimenti connotava, in senso negativo, gli orientamenti dottrinari in campo religioso favorevoli a una politica di tolleranza indiscriminata, ma non si riferiva ancora ad alcuna compiuta teoria costituzionale o politica: cfr. J. Dunn, La teoria politica di fronte al futuro, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1983, p. 19, nota 15. La mancanza della parola non significa necessariamente che il concetto non fosse in via di formazione, ma per gli storici che prendono sul serio lo sviluppo dei discorsi politici questa dimensione terminologica non può assolutamente essere indifferente.

[54] Cfr. B. Mandeville, Free Thoughts on Religion, the Church, and National Happiness, London, 1720, p. 315 (trad. it.: Liberi pensieri sulla Religione, la Chiesa e il felice stato della Nazione, a cura di A. Sabetti, Liguori, Napoli, 1985, p. 221). Cfr. G.J. Schochet, Mandeville’s Free Thoughts and the eighteenth-century debates on “toleration” and the English constitution, in Mandeville and Augustan Ideas. New Essays, edited by C.W.A. Prior, University of Victoria Press, Victoria, 2000, pp. 35-50. Sul contesto storico dei dibattiti costituzionali dopo il 1689 e sull’origine della tesi dell’abdicazione si veda il classico J.P. Kenyon, Revolution Principles. The Politics of Party, 1689-1720, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, in part. pp. 5-20.

[55] Benché sia difficile stabilire quanto la politica dei partiti abbia inciso sulla programmazione di politica economica (per non parlare degli orientamenti nel pensiero economico), non è un caso che a lungo si sia attribuita la difesa del libero commercio ai tory (insediati nelle posizioni di vertice della Compagnia delle Indie Orientali fino alla sua riorganizzazione all’indomani della Rivoluzione del 1688-89) in opposizione alla legislazione protezionistica ispirata dall’oligarchia whig al potere. Per questa interpretazione cfr. Sir W. Ashley, The Tory origins of  free trade policy, in Id., Surveys Historical and Economic, Longmans, Green & Co., London, 1900, in part. pp. 294-96, 298 (cui comunque applicare i ridimensionamenti elencati in C.J. Berry, The Idea of Luxury, cit., pp. 123-24, nota 7). Cfr. anche J. Viner, Commercio internazionale e sviluppo economico. Saggi di economia internazionale, trad. it., Utet, Torino, 1968, pp. 121-24.

[56] Cfr. J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, 2 voll., trad. it., il Mulino, Bologna, 1980, vol. II, cap. XIII.

[57] Cfr. J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano, cit., vol. II, pp. 722, 779; inoltre Id., Early modern capitalism: the Augustan perception, in Feudalism, Capitalism and Beyond, edited by E. Kamenka and R.S. Neale, Arnold, London, 1975, pp. 62-83.

[58] Discutendo le cause dell’origine del capitalismo Mandeville ha scritto: «sono un oppositore del papismo come lo sono stati Lutero e Calvino o la stessa regina Elisabetta ma nutro profondi dubbi che la Riforma sia stata più utile a far fiorire i regni e gli stati che l’hanno abbracciata della ridicola e capricciosa invenzione delle gonne cerchiate e imbottite» (F, I.356: trad. it., 255). Cfr. D. Castiglione, Excess, frugality and the spirit of capitalism: readings of Mandeville on commercial society, in J. Melling and J. Barry (a cura di), Culture in History. Production, Consumption and Values in Historical Perspective, University of Exeter Press, Exeter, 1992, in part. pp. 167-70.

[59] Pur ammettendo che Mandeville avesse quanto meno sfiorato la verità, gli illuministi scozzesi ridimensionarono la portata delle sue idee sul lusso. Cfr. D. Hume, Of refinement in the arts (1742), in Id., Essays Moral, Political, and Literary, edited by E.F. Miller, revised edition, Liberty Press, Indianapolis, 1987, p. 280 (trad. it.: Sull’affinamento delle arti, in Id, Saggi morali, politici e letterari, in Opere filosofiche, 4 voll., a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari, 1987, vol. III, p.289); Id., Enquiry concerning the Principles of Morals (1748), edited by L.A. Selby-Bigge, revised edition by P.H. Nidditch, Clarendon Press, Oxford, 1975, p. 181 (trad. it.: Ricerca sui principî della morale, in Id., Opere filosofiche, cit., vol. II, p.192); A. Smith,The Theory of Moral Sentiments (1759), edited by D.D. Raphael and A.L. Macfie, Clarendon Press, Oxford, 1976, VII.ii.4 (trad. it.: Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. Lecaldano, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 579-92).