Abstract
In this paper I deal with Bernard Mandeville's views on political economy, in order to reconstruct his overall perspectives on individual moral psychology and on the topic of luxury. First, I discuss Mandeville's views on labour, wages, political management and the balance of trade against the background of contemporary paradigms of 'mercantilism' and 'free trade'. I argue that he freely moved between these categories, and I also contend that they can not be taken as a rigid orthodoxy, which would prevent a real historical recovery of their meaning. Then I turn to his discussion of luxury. I maintain that this aspect of Mandeville's thought can not be reduced to a paradoxical provocation (however brilliant), but must be reconstructed along a three-dimensional framework, because Mandeville elaborated the relative difference between needs and desires in three contexts. This framework was not explicitly stated by Mandeville, but can be recosntructed through a close reading of his writings: first, an international context, in which certain countries specialised in exporting, whereas others in consuming, luxury goods; secondly, a social context, in which the differentiation between luxuries and wants mirrors a social hierarchy; and finally an evolutionary dimension, in which the consumption of luxury goods helps spread benefits to all social ranks in the next generations. In a final section I reconsider the classic question of Mandeville's role in the growth of political economy and his alledged theory of 'possessive individualism' coupled with classical liberalism. I disagree with those reconstructions that take for granted the attendant rise of free trade, individualism and liberalism. Mandeville is a crucial case in point for showing how economic arguments were still strictly interwoven with insights in moral psychology, party politics and social criticism.
1. Bernard Mandeville non era
un economista in senso proprio, perché utilizzava i ragionamenti economici
prevalentemente per illustrare aspetti della psicologia morale degli individui
e per finalità satiriche. Da questo punto di vista tuttavia egli è
un autore particolarmente significativo perché, in un contesto storico
nel quale le categorie dell’economico, del politico e del morale non
si erano ancora autonomizzate, il suo discorso, che in ogni caso non ambiva
a fondare una sfera economica separata dalle altre, mostrava con notevole
efficacia i paradossi, i limiti e le potenzialità dell’analisi
della ricchezza[1].
Pertanto, pur essendo spesso fragili e contraddittorie se esaminate
alla luce della logica dell’economia in via di “stabilizzazione
concettuale”, le posizioni di Mandeville risultano ugualmente significative
dal punto di vista storico, proprio perché indicano come all’interno
del medesimo spazio discorsivo potessero convivere elaborazioni teoriche coerenti
e mosse altamente provocatorie. Per essere provocatorio o satirico, del resto,
un linguaggio politico non può che istituire un rapporto con le forme
più diffuse e condivise di argomentazione, perché solo parodiando
il noto si è in grado di rivelarne anche gli aspetti più soggetti
alla satira. È dunque ragionevole ipotizzare che Mandeville abbia fatto
riferimento a concetti e schieramenti facilmente riconoscibili nel discorso
pubblico del periodo cosiddetto augusteo.
Ciò è evidente
se si prende in considerazione il suo pamphlet A
Modest Defence of Publick Stews,
pubblicato nel 1724. In quest’operetta Mandeville si proponeva di mostrare
che la prostituzione pubblica è preferibile a quella privata perché,
mentre quest’ultima è rischiosa e nociva, la prima è benefica
per la società: i bordelli pubblici permettono infatti agli uomini
di soddisfare i loro desideri naturali senza molestare donne comuni, avendo
al contrario a disposizione prostitute professioniste sacrificate per il bene
della maggioranza. Una politica del genere avrebbe tutelato il matrimonio
e protetto la distinzione dei ranghi, mentre la sicurezza sociale e igienica
di case pubbliche di piacere rigorosamente controllate e regolamentate indicava
la preferibilità di un regime mercantilistico dello scambio sessuale
rispetto alle inefficienze dell’iniziativa privata[2].
Nonostante A
Modest Defence of Publick Stews sia un caso estremo, esso rivela con chiarezza un tratto saliente della satira
mandevilliana: pur dilungandosi in modo parodistico sugli aspetti maggiormente
ridicoli della effettiva realtà sociale (in questo caso il disciplinamento
parossistico del mercantilismo, con il suo controllo ossessivo di turni di
lavoro, numero delle professioniste, regolarità dei controlli, gestione
dei flussi, e così via), il messaggio satirico contiene un elemento
di verisimiglianza, perché davvero secondo Mandeville un sistema protetto
di prostituzione pubblica avrebbe conseguenze benefiche per la società.
Il divorzio tra motivazioni etiche e risultati sociali è infatti tema
centrale dell’intera riflessione politica mandevilliana. Anche nei commenti
più seri all’economia politica egli ha adottato un procedimento
argomentativo non dissimile da quello appena ricordato. Pur sottolineando
certi esiti paradossali della logica mercantilistica, egli si è mosso
comunque nell’orizzonte teorico del pensiero mercantilistico, sfruttandone
le potenzialità più che respingendolo.
In questo lavoro ci si propone
di esaminare dapprima l’oscillazione mandevilliana tra “mercantilismo”
e libero mercato, indicando come essa compaia già nella Fable
of the Bees pubblicata nel
1714 e si mantenga stabile fino agli scritti più tardi. Successivamente
ci si volgerà all’analisi mandevilliana del lusso per discuterne
le diverse dimensioni, rispettivamente legate all’economia internazionale,
alla distinzione dei ranghi e alla storia congetturale della società.
2. Mandeville
ha sostenuto a più riprese la necessità di mantenere una favorevole
bilancia commerciale, evitando che il totale delle importazioni superi quello
delle esportazioni (F,
I.116: trad. it., 74). Seguendo l’ortodossia mercantilistica ha sottolineato
inoltre che il compito di gestire una tale politica economica spetta al potere
legislativo, il quale deve avere cura di tutelare l’interesse nazionale
in ogni affare economico (F,
I.249: trad. it., 168; I.358: trad. it., 257). Il potere politico, secondo
Mandeville, deve sempre anteporre il più piccolo beneficio pubblico
al più grande vantaggio privato e dirigere la società «come
se si trattasse di un sol uomo» (F,
I.319: trad. it., 224; I.347: trad. it., 248). L’assunzione di responsabilità
economiche da parte del governo rende inoltre possibile un relativo consumo
interno di beni di lusso stranieri. A compromettere la bilancia commerciale
di un paese non è infatti il lusso di per sé, bensì la
sproporzione tra importazione ed esportazione. Il lusso non può trascinare
alla rovina la costituzione e la ricchezza di una nazione a meno che ciò
non dipenda dalla follia, dalla cattiva politica, dalla negligenza e dall’incapacità
amministrativa dei dirigenti politici (F,
I. 115: trad. it., 73; I.117: trad. it., 75; I.304: trad. it., 213). Secondo
Mandeville, pertanto, «spetta al potere politico sopperire ai difetti
della società e occuparsi prima di tutto di ciò che è
trascurato dai privati» (F,
I.321: trad. it., 225): assorbiti dalle loro passioni e dall’interesse
privato, gli individui non potrebbero farsi un’idea adeguata dell’interesse
comune, la cui protezione deve venire affidata al ceto politico, l’unico
soggetto in grado di dosare le varie e competitive tensioni tra individui.
In questo modo «i vizi privati, attraverso l’accorta amministrazione
di un abile politico, possono divenire benefìci pubblici» (F,
I.369: trad. it., 267; II.319: trad. it., 216).
Nel suo scritto più
tardo, A
Letter to Dion (pubblicato
per rispondere alle accuse mossegli da George Berkeley in Alciphron),
Mandeville scrisse che l’espressione «vizi privati, benefìci
pubblici» acquista un significato grammaticale compiuto solo se vi si
aggiunge almeno un verbo: e fu esplicito nel precisare che i vizi privati
potrebbero divenire benefìci pubblici solo con l’ausilio amministrativo
e l’abilità di un politico[3].
Questa precisazione dal tono polemico può valere come prova dell’orientamento
mercantilistico di Mandeville, fondato sull’indispensabilità
dell’azione politica nelle materie economiche. In questo senso, si tratterebbe
comunque di una sorta di truismo, perché in effetti nessun ragionamento
di politica economica elaborato nel XVIII secolo avrebbe potuto prendere le
mosse da una visione dogmatica dell’autosufficienza del mercato. Gli
intrecci tra meccanismi legislativi, concessioni di charters e azione economica erano infatti un dato di fatto incancellabile[4].
Non a caso la discussione
sul mercantilismo si è storicamente intrecciata con le dispute intorno
alle strategie della Compagnia inglese delle Indie Orientali, perché
la politica economica praticata dalla Compagnia veniva da più parti
considerata come una grave anomalia del sistema mercantile. Essa infatti,
essendo fondata sull’esportazione di denaro in cambio di beni concorrenziali
con quelli inglesi - soprattutto prodotti tessili - non solo sembrava violare
i princìpi della bilancia commerciale, ma anche mettere in crisi lo
stesso mercato interno del lavoro, perché i prezzi delle merci indiane
erano più bassi rispetto a quelle inglesi. Le contese ideologiche intorno
alla politica della Compagnia delle Indie Orientali rispecchiavano pertanto
un conflitto sociale e uno scontro di interessi tra il ceto manifatturiero
e quello mercantile. Allarmati dalla concorrenza delle merci d’oltre
oceano, i fabbricanti di stoffe sottolineavano la necessità di proteggere
la produzione inglese e di limitare le importazioni[5].
I mercanti e i portavoce della Compagnia (come per esempio Charles Davenant
e Henry Martyn), d’altra parte, si schierarono a favore di una politica
del libero commercio, sostenendo che la politica mercantilistica del costo
del lavoro era sbagliata. Da questo punto di vista essi rilevavano che l’importazione
di merci indiane, benché facesse abbassare i prezzi delle manifatture
inglesi, poteva rivelarsi benefica per altri settori produttivi. Anche se
un certo numero di lavoratori avesse dovuto lasciare il comparto tessile,
essi avrebbero comunque fatto crescere la competizione in altri settori, determinando
la riduzione del costo del lavoro e del prezzo di altri prodotti inglesi.
Sul fronte del consumo, il risparmio ottenuto comprando manufatti indiani
avrebbe consentito ulteriori acquisti o investimenti[6].
Vi è qui un evidente segno di propaganda, in quanto il vero tema discusso
dagli avversari della Compagnia riguardava non tanto la contrapposizione tra
politiche protezionistiche e princìpi del libero mercato, quanto la
posizione oggettivamente monopolistica di cui godeva la Compagnia, che escludeva
i concorrenti dalle proprie rotte commerciali e precludeva ad altri attori
economici inglesi l’accesso ai mercati orientali[7].
È impossibile valutare
quanto Mandeville fosse informato su questi dibattiti, di cui certamente non
resta più che una flebile traccia nei suoi scritti. Ciò non
toglie che, sia pure in forma estremamente banalizzata, i termini complessivi
di queste polemiche sembrino risuonare anche in alcuni passi degli scritti
mandevilliani. Indipendentemente da queste ipotesi, la dimensione entro cui
contestualizzare le argomentazioni di Mandeville è comunque un’altra,
avente a che fare con la satira e con la psicologia morale. In questa prospettiva,
non si deve trascurare che i politici mandevilliani (fossero essi membri del
Parlamento, ministri del Governo o dirigenti delle grandi chartered
companies soggette a concessione
pubblica) erano altrettanto cinici, ambiziosi e vanagloriosi degli individui
con cui trattavano e che in questi personaggi si deve scorgere la caricatura
del ceto politico whig dell’Inghilterra augustea[8].
Il principale tra i compiti
economici del governo è per Mandeville la proporzionata distribuzione
di forza-lavoro nei vari settori produttivi, con lo scopo di mantenere i rami
del commercio e delle manifatture sempre aperti a nuova occupazione, per creare
una continua concorrenza tra i lavoratori, tenere basso il costo del lavoro
e rendere dunque le merci inglesi competitive sul mercato. Se ciò non
accadesse, e i vari segmenti produttivi si saturassero, ciò non potrebbe
che essere dovuto a un «errore nella direzione dell’intera società»
(F,
I.197: trad. it., 131; I.301-02: trad. it., 210).
3. Una
delle pi ù comuni tesi “mercantilistiche” prevedeva che
la prosperità di un paese si fondasse sulla povertà dei suoi
abitanti presi singolarmente, o meglio che la ricchezza della nazione riposasse
sulle capacità produttive di una classe lavoratrice mantenuta in condizioni
misere di vita[9].
Mandeville riprese questo concetto scrivendo che «in una nazione libera
dove non è permesso tenere schiavi, la ricchezza più sicura
consiste in una moltitudine di poveri laboriosi» (F,
I.287: trad. it., 199). Senza il lavoro dei non-proprietari, infatti, gli
interessi dei proprietari non potrebbero venire adeguatamente valorizzati:
i poveri vennero perciò considerati da Mandeville una risorsa produttiva
fondamentale che dimostrava il valore sociale del lavoro.
Secondo Mandeville i poveri
dovevano venire occupati a un salario il pi ù basso possibile (F,
I.192-93: trad. it., 128-129; I.247: trad. it., 167). Due strategie rendevano
possibile una politica dei bassi salari: da una parte il sostegno all’incremento
demografico, che avrebbe determinato una maggiore offerta di forza-lavoro
e un calo dei suoi costi; dall’altra il costante impiego della maggior
parte dei poveri nel processo produttivo, anche in questo caso con il risultato
di rendere maggiore la concorrenza tra lavoratori e minori le spese dei proprietari
(F,
I.302: trad. it., 211; I.317: trad. it., 223; I.355-56: trad. it., 255). Da
redditi dei lavoratori mantenuti modesti Mandeville si attendeva inoltre due
conseguenze economiche: primo, un vantaggio per i prodotti inglesi nella competizione
internazionale; secondo, una costante disponibilità di forza-lavoro.
Un ulteriore vantaggio dei bassi salari era secondo Mandeville rappresentato
dalla necessità per i poveri di accettare ogni tipo di lavoro, così
da contrastare quella «inclinazione per l’ozio e il piacere»
che prevarrebbe non appena i lavoratori fossero messi in condizioni anche
di poco superiori a quelle di sussistenza[10].
Si deve usare una certa cautela
nel classificare come senz ’altro mercantilistica questa difesa dei bassi
salari. Anche nella letteratura cosiddetta mercantilistica sono infatti rintracciabili
argomentazioni a favore di un alto livello delle retribuzioni. La teoria dei
bassi salari non fu affatto unanime e, per quanto siano stati eccezioni, autori
come North e Defoe furono inequivocabilmente difensori dei salari alti. A
partire dal 1715 la difesa di un alto livello di retribuzione del lavoro divenne
un elemento tipico della politica economica di orientamento mercantilistico[11].
In particolare la scelta tra alti e bassi salari rispondeva alla preferenza
accordata rispettivamente agli incentivi per il consumo o alla tutela della
produzione nella vita economica. Nel caso di Mandeville, per le ragioni già
esposte, è dunque evidente che egli, esclusivamente
con riferimento alla classe lavoratrice,
antepose gli interessi della produzione a quelli del consumo[12].
Anche in questo caso, tuttavia, le finalità dell’argomentazione
di Mandeville non sembrano tanto “economiche”, quanto satirico-politiche.
Ciò che egli aveva di mira era l’atteggiamento a suo giudizio
ipocrita di coloro che nel contesto storico dell’Inghilterra augustea
intendevano tutelare al contempo il progresso economico e le protezioni sociali.
Vedremo più oltre come per Mandeville ciò fosse contraddittorio
e segno di cattiva coscienza morale.
4. La
cooperazione economica tra due paesi non potrebbe durare se non fosse reciproca
e interdipendente (F,
I.251: trad. it., 170). Secondo la koinè mercantilistica, le nazioni si arricchivano vendendo i propri prodotti a caro
prezzo e, nel caso di paesi privi di miniere e di riserve naturali di metalli
preziosi, comprando pochi beni all’estero: il denaro liquido ricevuto
in cambio dei propri prodotti costituiva così un guadagno effettivo.
Nel tardo mercantilismo inglese tuttavia argomenti di questo genere erano
stati relativizzati, portando a una rivalutazione dell’importanza del
commercio estero nella bilancia commerciale. Dudley North, per esempio, aveva
riconosciuto che i limiti nazionali non si applicavano alla politica economica
(«in questioni commerciali, il mondo vale come una nazione o un popolo»).
Da questo punto di vista, e ribaltando le opinioni del mercantilismo “volgare”,
North (che era stato tesoriere della Compagnia per la Turchia) arrivò
a dichiarare che «il denaro esportato nel commercio costituisce un incremento
per la ricchezza della nazione»[13].
Molti autori solitamente classificati come mercantilistici riconobbero la
reciprocità di importazione ed esportazione di beni[14].
In altri termini, non tutto il mercantilismo fu contrassegnato dall’idea
che il guadagno di una nazione comportasse la perdita di un’altra. D.C.
Coleman ha mostrato che questa concezione del commercio come di un gioco a
somma zero fu bilanciata dalla consapevolezza che commerciare con una nazione
ricca era vantaggioso e che l’acquisto di beni stranieri recava una
utilità relativa[15].
Mandeville si inserì
nel solco di questo orientamento. Ciò è evidente nell’esempio
da lui portato dei rapporti commerciali tra Inghilterra e Turchia. Supponendo
che l’Inghilterra esportasse in Turchia prodotti per un valore di un
milione di sterline all’anno e importasse merci per un valore di un
milione e duecentomila sterline, da consumare tutte sul mercato interno, la
conclusione dei mercantilisti sarebbe stata, secondo Mandeville, che non ci
fosse alcun guadagno. Ho detto mercantilisti, ma non è questa l’espressione
usata da Mandeville, a riprova del fatto che le sue opinioni economiche non
si sono formate attorno a paradigmi pre-costituiti come quello del “mercantilismo”.
L’espressione cui Mandeville ricorre per designare coloro che nella
storiografia verranno definiti, appunto, «mercantilisti» è
imbevuta di satira. Sono infatti «Men of much better Understanding than
my self» (F,
I.109: trad. it., 71) coloro cui Mandeville si rivolge per dimostrare, a dispetto
di tale loro grande intelligenza, che hanno torto marcio. Senza formalizzarsi
intorno all’uso di etichette, che peraltro talvolta sono utili per semplificare
e intendersi, giova notare come, per Mandeville, da un punto di vista “mercantilistico”
i consumi di beni esteri dovevano venire limitati a un ammontare pari, per
esempio, a seicentomila sterline, costringendo la Turchia a pagare il resto
dei manufatti inglesi in denaro contante (F,
I.109: trad. it., 71). Secondo Mandeville questo tipo di rapporto commerciale
sarebbe impraticabile. Fermo restando che i turchi avessero sempre bisogno
della stessa quantità di manufatti inglesi, in breve tempo essi si
metterebbero alla ricerca di nuovi partner commerciali con cui scambiare beni,
riducendo al minimo le spese monetarie. Per Mandeville infatti «comprare
significa barattare, e nessuna nazione può comprare i beni delle altre,
se non ne ha di propri con cui pagarli» (F,
I.111: trad. it., 71-72).
La proposta mercantilistica di limitare
i consumi interni per trarne un guadagno monetario era per Mandeville incoerente
e nociva sotto almeno due punti di vista. In primo luogo, costringendo i propri
partner a ritirare dal mercato i prodotti non venduti agli inglesi, avrebbe
determinato un calo nel prezzo di queste merci, di cui avrebbero approfittato
proprio i rivali commerciali dell’Inghilterra. In secondo luogo, se
l’Inghilterra avesse avviato un commercio di redistribuzione, le spese
di lavorazione e di trasporto, aggiunte alle difficoltà di vendere
le merci su mercati già riforniti, erano destinate a superare i profitti
(F,
I.112-13: trad. it., 72-73). Il punto cruciale dell’argomentazione di
Mandeville era dunque che non fosse vantaggioso promuovere la frugalità
nazionale, nella misura in cui ciò si ripercuotesse sull’interdipendenza
delle relazioni commerciali.
Mandeville evidenziò inoltre
la relazione tra consumo di beni esteri e incremento occupazionale per i «lavoratori
poveri», perché a suo giudizio i consumi dei membri della classe
agiata innescano un ciclo produttivo i cui benefìci vengono condivisi
dai poveri. Produrre una stoffa scarlatta o un tessuto cremisi – sostenne
Mandeville in una pagina di grande efficacia – richiede una divisone
sociale e internazionale del lavoro di proporzioni spesso stupefacenti. Non
solo perché questa manifattura impiegherebbe soggetti diversi come
i pettinatori di lana, i filatori, i tessitori, i tagliatori di stoffe, gli
smacchiatori, i tintori, i follatori, i disegnatori e gli imballatori, ma
anche un gran numero di altri apparentemente estranei e invece necessari per
produrre strumenti o utensili indispensabili alla lavorazione delle stoffe.
Inoltre, in molti casi è frequente che si realizzino collaborazioni
tra vari paesi, o per incaricarsi delle varie fasi della lavorazione o per
eseguire compiti di trasporto e di distribuzione (F,
I.356: trad. it., 256). Sottolineando le potenzialità insite nello
scomporre in varie parti il processo lavorativo, Mandeville esprimeva con
chiarezza i vantaggi di una divisione sociale del lavoro[16] (F,
I.356: trad. it., 256; II.142: trad. it., 95; II.284: trad. it., 193; II.325:
trad. it., 220-21).
Il punto cruciale del suo
discorso era che, mentre una tale divisione del lavoro è al servizio
dei desideri dei più ricchi, essa nondimeno procura occupazione e sopravvivenza
anche ai più poveri. Nessun commercio dimostrava a suo parere questa
tesi meglio di quello marittimo: errori di rotta, venti, pirati, tempeste
mettevano a repentaglio l’incolumità non solo del carico, ma
anche della nave e dell’equipaggio. Tuttavia i «lavoratori poveri»
impiegati nella costruzione dei bastimenti o nella produzione e nel carico
delle merci trasportate non sarebbero mai stati danneggiati da questi eventuali
inconvenienti, anzi sarebbero stati avvantaggiati dalla sventura dei mercanti.
Se le spedizioni fossero giunte a destinazione sempre sane e salve, commentava
Mandeville con cinismo, sarebbe stato necessario forse usare un quinto delle
navi impiegate fino allora, con una conseguente perdita di occupazione sia
nel settore manifatturiero, che in quello marittimo (F,
I.359-65: trad. it., 258-63).
Non c’è dubbio
che l’opinione di Mandeville sacrifichi alla logica quel che guadagna
nella satira: è evidente infatti che le perdite dei mercanti, in un
sistema mercantile integrato, si ripercuoterebbero anche su lavoratori e marinai,
spingendo gli armatori verso il fallimento e i lavoratori verso la disoccupazione.
Quel che rimane interessante da notare è però il fatto che,
secondo Mandeville, nessun paese potrebbe sopravvivere e assicurare occupazione
costante alla moltitudine dei suoi poveri senza inserirsi nel sistema dello
scambio commerciale internazionale. In questa prospettiva la tesi “volgare”
della bilancia commerciale, consistente in una limitazione delle importazioni
e in un accumulo di ricchezza monetaria, cedeva il posto a un equilibrio di
importazione ed esportazione fondato sulla mutua dipendenza per l’acquisto
di beni e servizi[17].
5.
Secondo alcuni interpreti questa posizione consentirebbe di classificare Mandeville
tra i sostenitori del laissez-faire e dell’individualismo economico[18].
Questi lettori sono confortati tra l’altro dall’affermazione di
Mandeville che la suddivisione dei compiti e il popolamento dei vari settori
produttivi «non si mantiene mai così bene come quando nessuno si
immischia o interferisce con essa»[19] (F,
I.299: trad. it., 209; II.353: trad. it., 237). Facendo perno su queste parole,
Friedrich von Hayek e Nathan Rosenberg hanno supposto che Mandeville sia stato
il primo autore a riconoscere nel mercato un meccanismo impersonale capace di
generare un’interazione tra azioni individuali e risultati pubblici, non
programmabile ma perfettamente coerente con le motivazioni e gli interessi dei
singoli. In questa prospettiva, Mandeville avrebbe sottoscritto opinioni mercantilistiche
solo per spiegare le fasi primitive della formazione di un sistema economico
e legale, quando le decisioni governative devono sopperire all’ancora
insufficiente tasso di causalità retroattiva tra comportamenti individuali
e benefìci collettivi. Una volta che questo meccanismo abbia raggiunto
un pieno stadio evolutivo, e ciò sarebbe accaduto secondo Mandeville
nel contesto della rivoluzione commerciale del tardo Seicento, l’autoregolazione
del mercato funzionerebbe senza alcun vincolo legislativo[20].
La figura dell’abile politico andrebbe pertanto presa come una formula
metaforica, non più indicante un’istituzione politica o un ceto
dirigente, bensì l’insieme delle norme impersonali, non-intezionalmente
prodotte da attori motivati da puro interesse personale razionale[21].
Per
quanto questa interpretazione spieghi alcuni elementi teorici del discorso di
Mandeville, essa non sembra coglierne il significato storico. In primo luogo
essa trascura il fatto che il principale soggetto economico discusso da Mandeville,
cioè la classe dei lavoratori poveri, non si configura in alcun modo
come un attore economico razionale. In secondo luogo, come si vedrà più
oltre, ciò vale anche per la classe dei consumatori ricchi. Infine non
tiene debito conto del fatto che, come si è visto, il ruolo dei legislatori
in economia resta tema mandevilliano fino ai suoi ultimi scritti.
Mandeville ha ribadito a più
riprese che per mantenere i poveri obbedienti e rendere il loro lavoro produttivo
era indispensabile privarli di ogni nozione culturale non inerente al loro compito
produttivo, riducendo al minimo il loro tasso di razionalità. Perché
i poveri siano efficaci strumenti produttivi si dovrebbe privarli della conoscenza
stessa del loro interesse: «c’è molto lavoro duro e sporco
da fare e c’è bisogno di gente che si sottometta ad una vita difficile:
dove trovare una riserva migliore per questa necessità se non tra i figli
dei poveri? Nessun altro potrebbe essere più a portata di mano o più
adatto» (F,
I.311: trad. it., 218). La forza produttiva dei poveri era dunque legata per
Mandeville alla loro totale ignoranza e al vincolo di sopravvivenza che li legava
al padrone. Tale rapporto di dipendenza aveva ancora nel primo Settecento la
forma di ciò che Edward P. Thompson ha definito “paternalismo”,
ossia la subordinazione socioculturale di una larghissima maggioranza plebea
a una piccola minoranza patrizia[22].
È difficile dunque credere che nel sistema sociopolitico oligarchico
dell’Inghilterra augustea se ne potesse ricavare evidenza storica per
una teoria del mercato autoregolato.
Il
punto che comunque viene indubbiamente colto dagli interpreti del laissez-faire mandevilliano è che nella Fable
of the Bees non si propone
un modello di sistema economico bloccato. Sarebbe però storicamente fuorviante
impantanarsi nell’opposizione tra un non meglio precisato liberismo a
un altrettanto poco qualificato mercantilismo. Quel che si può dire è
che le argomentazioni economiche mandevilliane si fondavano sulla netta separazione
di produttori e consumatori. I lavoratori poveri vennero discussi da Mandeville
esclusivamente come fattori di produzione e inseriti in una discussione delle
strategie per ridurre i costi e potenziare le esportazioni, secondo un orientamento
riconducibile alla teoria della bilancia commerciale. La politica dei consumi,
d’altra parte, divenne parte integrante di una concezione del sistema
economico imperniata sull’interdipendenza dei mercati e sui benefìci
legati all’espansione di una economia del libero scambio, contraddistinta
dalla crescente incidenza del consumo di beni di lusso.
6.
Come ha ricordato Albert O. Hirschman, la passione del lusso fu quella di cui
Mandeville si occupò più da vicino, cosicché lo stesso
motto «vizi privati, benefìci pubblici» prende il suo significato
soprattutto da essa[23].
Per
evitare di ridurre la discussione mandevilliana del lusso a un espediente per
riparare a un’ambiguità o a una semplice provocazione satirica,
dobbiamo considerare quanto essa riflettesse un processo storico in corso nella
società inglese del Settecento. Durante questo periodo il mercato interno
inglese andò incontro a notevoli cambiamenti e a un diffuso incremento
nel consumo[24].
Beninteso, non tutte le classi sociali furono beneficate nello stesso modo dalla
rivoluzione commerciale: mentre per esempio si crearono nuove opportunità
per i fittavoli, i piccoli proprietari terrieri furono messi in seria difficoltà
dall’estensione del mercato e dagli investimenti di capitale che essa
comportava. Se i nuovi mercanti ebbero la possibilità di diventare ricchi,
lo stesso non si può dire per la classe lavoratrice, perché il
sistema del lavoro era ancora instabile, la disoccupazione diffusa e le condizioni
di vita variabili a seconda delle regioni. Charles Wilson non deve quindi essere
molto lontano dalla verità quando scrive che i veri beneficiari della
rivoluzione commerciale furono quelli che erano già ricchi e avevano
accesso al mercato. La vera novità per questi pochi privilegiati –
proprietari terrieri e mercanti – fu semmai che per la prima volta si
potevano permettere il lusso di spendere molto senza rischiare il fallimento[25].
Tuttavia,
anche se la gerarchia sociale non fu sostanzialmente trasformata, è vero
che si creò una più estesa classe di consumatori, per effetto
di una complessiva crescita dei redditi familiari. L’effetto più
notevole di questa rivoluzione nei consumi fu la trasformazione di alcune gerarchie
tra necessario e superfluo. Prodotti come i tessuti esotici e il tè,
in passato considerati beni di lusso, divennero accessibili a un maggior numero
di persone e finirono per entrare nelle abitudini di diversi ceti sociali[26].
Il superiore livello di prosperità consentì un ricambio periodico
di generi di lusso e di status
symbol, modificando in modo
decisivo le strutture materiali e discorsive del foro pubblico attraverso proliferazione
delle scelte e standardizzazione del mercato, sia nel contesto britannico che
in quello americano[27].
Per ricostruire il significato della teoria mandevilliana del lusso dobbiamo
perciò considerare che egli visse durante la fase di gestazione di questo
processo di commercializzazione. Mandeville deve dunque essere incluso in quel
tirocinio ideologico e intellettuale che a partire dal 1690 preluse al definitivo
trionfo della società commerciale[28].
Sul
piano teorico già Nicholas Barbon aveva “sdoganato” l’importanza
dei desideri nei processi produttivi ed economici. Soffermandosi sulle diversi
classi di beni economici nel suo Discourse
of Trade del 1690, Barbon aveva
mostrato come, accanto ai beni riconducibili ai «bisogni corporei»
(tutti quelli necessari al sostentamento della vita), ve ne fossero anche di
riconducibili ai «bisogni mentali», ossia legati alla soddisfazione
di desideri per propria natura infiniti e illimitati. Lungi dal costituire un
intralcio alla ricchezza, questo secondo tipo di beni legati alla ricerca di
«pompa» e «distinzione» ne erano invece la molla[29].
L’apologia
mandevilliana del lusso va letta sullo sfondo di tendenze sociali e intellettuali
come quelle appena accennate. Inoltre non va letta in modo indifferenziato,
come segno di semplice spregiudicatezza morale. Come abbiamo già visto,
infatti, Mandeville fu sempre dell’opinione che il consumo cospicuo e
lussuoso dei pochi dovesse essere compensato dalla frugalità e perfino
dall’indigenza dei molti. Mandeville sosteneva che il lusso non potrebbe
essere definito isolatamente senza cadere nel paradosso, perché ogni
cosa al mondo potrebbe risultare non necessaria e oltre la soglia della mera
sopravvivenza (F,
I.107: trad. it., 70; I.247: trad. it., 167). Per questo motivo cercò
quindi di dimostrare che il lusso era in ogni caso un elemento relativo. La
reciprocità che Mandeville attribuì al lusso e al necessario può
essere messa convenientemente in evidenza isolandone tre dimensioni presenti
nella Fable.
Essa poteva infatti avere una struttura internazionale, quando certi paesi si
specializzano nella produzione di generi di lusso mantenendo un consumo interno
basso, mentre altri paesi ricchi si specializzano nel consumo di lusso. Altrimenti
poteva avere una struttura sincronica intraculturale, perché in una società
stratificata e gerarchica certi beni sono necessari per i ricchi e superflui
per i poveri. Infine poteva avere una struttura diacronica, nella quale quel
che era superfluo per una generazione diviene necessario per la generazione
successiva.
7.
La prima dimensione del nesso tra lusso e frugalità emerge dalla comparazione
mandevilliana tra il commercio olandese e quello inglese. Il caso olandese aveva
suscitato l’interesse di molti scrittori economici inglesi per il risultato
straordinario di una nazione assai povera di materie prime che era riuscita
a imporsi come potenza commerciale di rango mondiale. Ricevendo in concessione
la lavorazione di materie prime straniere e incaricandosi della loro redistribuzione,
l’Olanda era divenuta il magazzino generale d’Europa, fornendo il
mercato internazionale del più avanzato sistema di trasporto marittimo.
Il controllo esercitato sui prodotti di altre nazioni, aggiunto al basso tasso
di interesse praticato dagli istituti olandesi di credito e alla limitazione
della spesa interna, era considerato dagli osservatori britannici come il fondamento
della ricchezza olandese[30].
Mandeville
– egli stesso nativo dell’Olanda trapiantato in Inghilterra –
dissentì dalle spiegazioni più abituali del successo economico
olandese disponibili nella pubblicistica anglofona. Nel fare questo mise in
discussione uno dei punti essenziali dell’analisi del sistema economico
olandese compiuta da William Temple[31].
Nelle sue Observations
upon the United Provinces of the Netherlands (1668), probabilmente lo scritto più influente tra i molti commenti alla
politica economica olandese, Temple sostenne che la forza dell’Olanda
consisteva nella sua grande frugalità nazionale: «la loro ricchezza
comune sta nel fatto che ciascuno possiede più di quanto spende»,
scrisse Temple, rilevando poi che «nessuna nazione ha mai commerciato così
tanto e consumato così poco»[32].
Potendo vendere a prezzi bassi e competitivi, gli olandesi si erano assicurati
una leadership commerciale fondata sul fatto che essi, nelle parole di Temple,
«forniscono lusso infinito senza mai farne uso»[33].
Nella cultura mercantilistica la vendita di beni all’estero era sempre
considerata come un’inequivocabile fonte di guadagno, mentre il commercio
interno era piuttosto concepito come un semplice trasferimento di beni o servizi
da un suddito all’altro[34].
Mentre Davenant dichiarò che «ogni consumo estero è un profitto
chiaro e certo», Temple basò la sua analisi dell’economia
olandese su una misura del tutto analoga[35].
Come mostrato da Istvan Hont, Temple non condivise la retorica civico-umanistica
secondo la quale il lusso era di per sé un fattore di corruzione morale
e una causa di fallimento economico. Tuttavia egli reputava che, per realizzare
obiettivi di espansione economica, la frugalità nazionale e il risparmio
fossero strumenti molto più congeniali del consumo e del lusso. Il caso
olandese confermava ai suoi occhi l’idea che la potenza commerciale può
venire acquistata solo conquistando i mercati, fornendo abbondanza ai propri
vicini e mantenendo la frugalità nei propri confini nazionali[36].
Secondo
Mandeville l’analisi di Temple era viziata dal mancato riconoscimento
che la frugalità nazionale olandese era conseguenza di una scelta di
interesse e non di virtù[37].
Una nazione estremamente povera di materie prime e di terra coltivabile, incapace
di provvedere autonomamente al sostentamento di più di un decimo dei
suoi abitanti, oltretutto a lungo sconvolta da guerre di religione, non avrebbe
potuto scegliere una politica diversa da quella del risparmio senza condannarsi
all’estinzione (F,
I.186: trad. it., 124). Per questo motivo gli olandesi avevano avuto il merito
di specializzarsi nel traffico di generi di lusso, divenendo i fornitori dei
paesi più ricchi e realizzando una sia pur breve egemonia commerciale.
Tutt’altro
discorso per Mandeville doveva essere fatto a proposito dell’Inghilterra,
il cui sviluppo economico era legato all’incremento della produzione.
Se l’Inghilterra avesse limitato i suoi consumi interni, gli effetti sarebbero
stati secondo Mandeville piuttosto negativi che benefici (F,
I.191-96: trad. it., 128-30). Un ipotetico risparmio del 20% sulla spesa annua,
a meno di una svalutazione della moneta, avrebbe portato lavoratori di ogni
genere ad accumulare una liquidità notevole, che avrebbe fatto peggiorare
il loro rendimento sul lavoro: solo se pressati dal bisogno e dalla scarsità
gli uomini possono infatti secondo Mandeville garantire produttività
(F,
I.192-93: trad. it., 128-29). Per mantenere una spesa annua proporzionale alla
produzione, era dunque necessario promuovere o almeno non impedire un certo
consumo di beni di lusso.
Esaminati comparativamente, i casi
dell’Olanda e dell’Inghilterra dimostravano come i vantaggi e gli
svantaggi del lusso fossero relativi al tipo di sistema economico in cui esso
veniva introdotto. Se l’Olanda avesse permesso un forte consumo domestico
di beni di lusso, si sarebbe impoverita con danno anche di altri paesi; lo stesso
sarebbe invece accaduto all’Inghilterra se vi avesse rinunciato. Secondo
Mandeville ciò rappresentava una forza per l’intero sistema
commerciale in quanto, distribuendo i compiti del circuito economico tra vari
paesi, poteva consentire una crescita differenziata e cooperativa[38].
8.
Come non era vantaggioso che il lusso si diffondesse in modo univoco in tutti
i paesi, altrettanto accadeva al loro interno. Discutendo di società
stratificate, Mandeville riconosceva di non avere mai pensato che «il lusso
potesse diventare generale, in ogni parte di un regno» (F,
I.249: trad. it., 168). In una società commerciale caratterizzata da
una struttura gerarchica, la classificazione tra beni di lusso e beni necessari
poteva secondo Mandeville essere compresa «soltanto se siamo al corrente
delle condizioni sociali ed economiche delle persone che ne fanno uso»
(F,
I.247: trad. it., 167). Così i ricchi potrebbero considerare come assolutamente
necessario quel che per i poveri sarebbe del tutto superfluo, e forse in certi
casi viceversa, dal momento che la percezione dei vari tipi di bisogno muta
al mutare della classe sociale di appartenenza. In un esempio che sarebbe stato
ripreso da Adam Smith, Mandeville scrisse che «se uno che è costretto
ad andare a piedi invidia un uomo importante che mantiene una carrozza e sei
cavalli non è mai con molta violenza, e non prova la sofferenza che può
provare un uomo che, a sua volta, mantiene una carrozza, ma può permettersi
solo quattro cavalli»[39] (F,
I.136: trad. it., 88).
La
presenza di un ceto dai bisogni e desideri estremamente limitati era del resto
necessaria alla sopravvivenza del sistema mercantile, perché senza una
classe di lavoratori poveri e ignoranti, come si è già visto,
non sarebbe possibile produrre manufatti a basso costo (F,
I.286: trad. it., 198). Per questo tipo di soggetti la cultura e l’istruzione
sarebbero nocive, perché ritarderebbero unicamente l’ingresso dei
giovani nelle manifatture, rendendo più costoso un lavoro che deve invece
venire remunerato il meno possibile (F,
I.288: trad. it., 200).
Per questa ragione Mandeville sferrò
una pesante offensiva satirica contro le Scuole di Carità: nate da una
costola delle Società per la Riforma dei Costumi, queste istituzioni
educative erano finalizzate a garantire istruzione professionale e morale ai
figli dei poveri, promuovendo al contempo una politica assistenzialistica che,
secondo Mandeville, avrebbe presto provocato un insieme di effetti perversi.
La carità verso i poveri avrebbe infatti generato pigrizia e indolenza,
spingendoli a quell’ozio per il quale tutti gli uomini hanno predisposizione
e allontanandoli dal lavoro (F,
I.267: trad. it., 182; I.271: trad. it., 185). Usando un argomento analogo a
quelli di Locke e Defoe, Mandeville sostenne che la politica assistenzialistica,
invece di soccorrere i poveri, avrebbe finito per generare nuova povertà,
causata dalla mancanza di industriosità[40].
Dal punto di vista mandevilliano ogni tentativo di intervento umanitario avrebbe
ostacolato lo sviluppo produttivo e si sarebbe quindi dimostrato controproducente.
Secondo
Mandeville era invece indispensabile mantenere il maggior numero possibile di
poveri nella condizione di dover lavorare, facendo sì che essi spendessero
sempre tutto quel che guadagnavano. Benché questa possa sembrare una
concessione alla politica consumistica anche nei confronti dei poveri, si deve
comunque sempre tenere presente che Mandeville si espresse a favore dei bassi
salari: ed è un evidente truismo che, in una società monetizzata,
con poco denaro si possono consumare poche cose. Raccomandare che i poveri fossero
sempre obbligati a lavorare significava dimostrare i benefìci che sarebbero
derivati dalla preservazione della gerarchia sociale. In uno dei passi più
disincantati e politicamente conservatori della sua intera opera, Mandeville
esprimeva preoccupazioni per le crescenti pretese dei poveri e dei servitori,
i quali, a suo giudizio, avrebbero finito per usurpare i diritti dei padroni
e dei ricchi (F,
I.306: trad. it., 214). Non risuona qui alcun accento satirico, né Mandeville
gioca a posare da orco misantropo e conservatore per rivelare indirettamente
le iniquità della realtà sociale, come per certi versi ha fatto
Swift. Il tono qui adottato da Mandeville è perfettamente serio e realistico,
in quanto egli pensava che, se un tale processo egualitario e livellante avesse
avuto successo, ne sarebbe derivato l’impoverimento generale del paese.
La ricchezza nazionale si fondava infatti a suo giudizio sull’ineguaglianza
di status tra poveri e ricchi, con la conseguente divisione del lavoro tra produttori
e consumatori di lusso[41].
Nella società moderna perciò il lusso doveva essere prerogativa
dei ceti ricchi, il cui consumo peraltro avrebbe avuto effetti benefici per
l’intera società, creando occupazione per i poveri.
L’esigenza
di oggetti di lusso aumenta secondo Mandeville salendo la scala sociale. Il
consumo di beni apparentemente superflui è infatti provocato dal desiderio
di migliorare la propria condizione: orgoglio, vanità e invidia rivestono
un significato di primo piano in questo processo. In questa prospettiva gli
oggetti, come per esempio i capi di abbigliamento, perdono la loro semplice
funzione di utilità per divenire mezzi di ostentazione rivolti alla conservazione
non più dell’esistenza fisica, bensì della reputazione degli
individui[42] (F,
I.127: trad. it., 82). Secondo Mandeville certi beni di consumo rappresentano
l’opportunità materiale di celare la propria posizione sociale
e di sopperire così ai propri scarsi meriti. L’emulazione che spinge
a imitare i propri superiori corre lungo tutta la scala sociale «finché
alla fine le grandi favorite del principe e le donne di più alto rango,
non avendo altro per superare alcune delle inferiori, sono costrette a spendere
immense fortune in equipaggi pomposi, arredi magnifici, giardini sontuosi e
palazzi principeschi» (F,
I.129-30: trad. it., 84). A far scattare questo meccanismo agonistico sono l’amor
proprio e la vanità, responsabili anche delle cicliche innovazioni merceologiche
introdotte come correttivo ai ricorrenti livellamenti prodotti dall’emulazione
sociale[43].
In questa inarrestabile spinta al lusso giace il principale elemento della ricchezza:
«se gli uomini si contentassero delle pure necessità», aveva
scritto Dudley North, «avremmo un mondo povero»[44].
A queste parole faceva eco l’affermazione di Barbon secondo cui «la
prodigalità è un vizio pregiudizievole per gli individui, ma non
per il commercio»[45].
Mandeville condivise questo riconoscimento della forza rivoluzionaria giocata
da passioni come orgoglio e vanità nell’economia di mercato[46].
Tra i fattori della crescita economica molti economisti augustei, tra i quali
Mandeville, inserirono dunque anche il fenomeno oggi denominato “effetto
Veblen”: essi si resero cioè conto che l’ostentazione di
ricchezza, comportamento avente di per sé cause psicologiche, recava
benefìci all’intero sistema produttivo, per cui i consumi della
classe agiata irradiavano vantaggi a tutti i ranghi.
9.
Questa forza propulsiva della vanità permise a Mandeville di spiegare
i cambiamenti del lusso anche nella terza dimensione da lui esplorata, cioè
quella diacronica. Mentre infatti la vanità e l’ostentazione realizzavano
l’indispensabile separazione stratificata tra poveri e ricchi, esse avevano
anche reso possibile un miglioramento generale delle condizioni di vita nel
corso del tempo. Anche in questo caso Mandeville sottolineò come si fosse
verificata una ridefinizione delle gerarchie tra necessario e superfluo per
la quale anche i più poveri, per effetto di quell’emulazione livellante
di cui si è detto prima, potevano considerare necessarie cose che per
i loro antenati sarebbero state assolutamente superflue.
Siamo di fronte a quel che è
stato battezzato “paradosso della società commerciale”, ossia
il fenomeno per il quale i lavoratori produttivi divengono capaci di sopportare
il peso di un gran numero di lavoratori improduttivi, rimanendo tuttavia in
grado di soddisfare adeguatamente i propri bisogni e compensando la notevole
ineguaglianza della proprietà con un miglioramento assoluto, anche se
non relativo, delle proprie condizioni di vita[47].
Mandeville espresse questo fenomeno osservando che «se seguiamo le nazioni
più fiorenti fino alla loro origine, troveremo che nei lontani inizi
di ogni società, gli uomini più ricchi e importanti mancarono
per lungo tempo di moltissime di quelle comodità della vita di cui ora
godono gli ultimi e più umili poveracci; così che molte cose,
che un tempo erano considerate dei ritrovati di lusso, oggi sono consentite
perfino a coloro che sono tanto poveri da essere oggetto di carità pubblica;
e, anzi, sono considerate tanto necessarie, che pensiamo che nessuna creatura
umana dovrebbe esserne priva»[48] (F,
I.169: trad. it., 112). Indumenti di lino, birra, pane, abitazioni in muratura,
tutti oggetti un tempo scarsi e riservati ai pochi erano divenuti comuni e indispensabili
per tutti. Il processo di commercializzazione tipico della società moderna
aveva dunque innescato secondo Mandeville una catena di benefìci che,
partendo dai desideri consumistici dei più ricchi e passando attraverso
la competenza amministrativa dei legislatori, aveva raggiunto anche gli strati
più bassi e poveri.
Si
manifesta in questo aspetto del discorso economico mandevilliano una sorta di
temporalizzazione delle differenze sociali non priva d’importanza per
il carattere evoluzionistico del suo pensiero politico in generale. Il riconoscimento
dell’irradiazione cumulativa ed esponenziale di vantaggi materiali all’intera
struttura sociale ha infatti non solo una valenza storica, ma anche una pregnanza
logica, nella misura in cui indica un processo naturale caratteristico delle
istituzioni sociali in quanto tali. Spogliata dalle sue concrezioni storiche,
l’idea mandevilliana di diffusione diacronica del lusso (non a caso parzialmente
anticipata da un pensatore giusnaturalistico come Locke) vale come prova dell’instabilità
della condizione “selvaggia” e dei benefìci recati dall’ingresso
nello stato civile.
Per quanto
riguarda la genesi del pensiero politico mandevilliano è significativo
osservare che tale argomentazione sia già formata e articolata in un
testo del 1714, dunque ben prima della più ampia e sistematica svolta
evoluzionistica consumatasi nei dialoghi del 1728.
10.
L’idea mandevilliana del successo storico della società moderna
e commerciale, con le sue istituzioni economiche e politiche legate ai benefìci
del lusso e del sistema creditizio, deve ora in conclusione venire spiegata
dal punto di vista ideologico, per capire quale sia stata la posizione di Mandeville
nel processo di formazione dell’economia politica[49].
Per Joyce Appleby, ad esempio, la posizione di Mandeville assume una chiara
connotazione ideologica, in quanto egli avrebbe fatto proprie alcune tesi appartenenti
a ciascuno dei due schieramenti in cui secondo la storica americana si divise
il pensiero economico augusteo[50].
Le prove a sostegno di questa tesi starebbero nel fatto che Mandeville ha sottolineato
gli elementi di libero mercato presenti nella cultura mercantilistica, discutendo
con favore l’interdipendenza dei mercati e il sistema monetario, senza
però mai abbandonare l’orizzonte intellettuale della bilancia commerciale.
Si deve tuttavia notare che lo schema della Appleby, pur essendo utile per catturare
e classificare alcuni aspetti del pensiero economico di Mandeville, si rivela
però insufficiente per formularne un’adeguata interpretazione storica.
Il giudizio sotteso alla ricostruzione della Appleby, cioè che un’economia
capitalistica e libero-scambista della società moderna si sia contrapposta
a un sistema mercantile dell’antico regime, è fuorviante se riferito
a Mandeville, e probabilmente è troppo rigido in quanto tale[51].
Donald
Winch ha fatto notare come la Appleby abbia usato ogni premura per escludere
Mandeville dalla sua ricostruzione del discorso politico-economico liberale[52].
Secondo chi scrive ciò è del tutto comprensibile se si considera
quanto difficile sarebbe stato classificare Mandeville in questo paradigma storico.
Mentre la Appleby ritiene che formazione dell’economia politica, individualismo
possessivo e sviluppo del liberalismo siano andati di pari passo, Mandeville
è la prova di come questa sequenza di discorsi fosse soggetta a cortocircuiti
storici. D’altronde egli non potrebbe essere definito un autore liberale,
soprattutto se si assumono gli usi prevalenti nel contesto storico in cui operò
Mandeville.
Infatti, anche volendo ammettere
l’idea anacronistica che il concetto di “liberale” sia stato
politicamente intelligibile a soggetti parlanti e scriventi nell’Inghilterra
del primo Settecento, Mandeville non può venire collocato all’interno
dello schieramento che la storiografia whig ha voluto riconoscere come il
primo liberale[53].
Sul piano costituzionale Mandeville sposò la concezione moderata dei
parlamentari che spiegarono la rivoluzione del 1689 come un’abdicazione,
respingendo dunque le argomentazioni a partire dal diritto di resistenza formulate
dai whig “liberali”[54].
Sul piano economico, invece, il fatto che Mandeville si sia spesso pronunciato
a favore del libero commercio non può bastare a farne un liberale,
considerata la moltitudine di argomenti del tutto simili portata avanti dalle
più diverse posizioni politiche: attribuire retrospettivamente un significato
“teorico” o “ideologico” a quelli che prevalentemente
erano orientamenti di politica economica ispirati da considerazioni pragmatiche
rischia di essere altamente fuorviante[55].
Sarebbe inoltre arduo sostenere che Mandeville abbia espresso una presunta
fiducia nella razionalità economica fondata su un modello individualistico,
egualitario e astratto (quello spesso ascritto ai pensatori “liberali”):
al contrario, egli contribuì a dimostrare che i comportamenti economici
si fondano su orgoglio e vanità, sull’amore per la superiorità
e per il dominio, su passioni volubili e imprevedibili, su di un’intemperanza
connaturata all’uomo e in nessun caso su una logica uniforme, invariabile
e calcolabile a priori, quale sarebbe quella fondata sull’interesse
privato. Come abbiamo visto, poi, Mandeville non fu affatto un egualitarista,
ma assunse una posizione gerarchica per la quale gli individui venivano raggruppati
in classi di consumo, a seconda che fossero «lavoratori poveri»
o membri dei ceti ricchi.
11. J.G.A. Pocock ha mostrato che
il carattere volatile e instabile del sistema creditizio e commerciale fu
oggetto di analisi preoccupate nel corso dei primi due decenni del ‘700.
Secondo gli autori della tradizione civica lo sviluppo di un interesse monetario
avrebbe portato alla crisi del sistema economico agrario. Ciò avrebbe
avuto conseguenze negative sulla personalità politica degli individui,
perché li avrebbe allontanati dalla partecipazione politica e dalla
cura dell’interesse pubblico su cui si fondava il modo classico di concepire
il governo e la politica[56].
Sottolineando i benefìci
del lusso e dello scambio internazionale Mandeville esprimeva la propria assoluta
estraneità a questa retorica della corruzione come effetto del commercio.
Secondo Mandeville i vantaggi portati dal processo di commercializzazione
- la maggiore opportunità di consumo e la diffusione di maggiore ricchezza
in tutti i ranghi della società - compensavano nettamente i rischi
legati alla minore devozione degli individui per la virtù civile e
all’introduzione di costumi e modi di vita meno austeri che in passato.
Qualunque ne fosse la valutazione morale - e Mandeville fu un maestro nel
camuffare le proprie opinioni rivestendole continuamente di paradossi - l’origine
della società commerciale portava con sé la constatazione che
una certa dose di vizi e di mali le fosse connaturata e che, in ogni caso,
essa fosse irriformabile. L’uso dell’economia politica si univa
pertanto alla vena satirica tipica del discorso di Mandeville. Servendosi
di ragionamenti economici che dimostravano i benefìci determinati dalla
spesa in generi superflui d’importazione, Mandeville intendeva screditare
tutte quelle teorie che esprimevano timori nei confronti del commercio, fossero
esse l’estremismo mercantilista, l’umanesimo civile o il progetto
di riforma dei costumi delle società religiose.
Nell’Inghilterra in cui comparve
la Fable
of the Bees, non toccò
però al sostenitore del lusso, Bernard Mandeville, esaminare la società
commerciale come espressione di un processo storico di trasformazione dei
bisogni umani, dei modi del loro soddisfacimento e delle organizzazioni sociopolitiche:
questa fu invece preoccupazione saliente di un gran numero di autori neoharringtoniani
impegnati a spiegare e giudicare il cambiamento dei valori civici nell’età
moderna[57].
Da parte sua Mandeville aggirò qualsiasi discussione storica sulle
origini della società commerciale e dell’economia politica. L’analisi
del capitalismo da lui condotta, mentre costituisce un importante contrappunto avant
la lettre alle interpretazioni
religiose e culturali delle origini dell’economia moderna, è
tutta impregnata di senso della contingenza e intenti satirici[58].
Diversamente da altri nuclei tematici della sua opera (come la teoria della
sociabilità, l’analisi delle passioni naturali o la critica della politeness),
il filo dei ragionamenti economici mandevilliani sembra aver mantenuto una
sostanziale stabilità: come si è già detto, la svolta
evoluzionistica segnata dai dialoghi del 1728 non ha inciso su questo aspetto
del discorso mandevilliano con altrettanta forza che nei casi appena ricordati,
forse proprio perché l’impasto di “mercantilismo”
e “libero mercato”, di analisi comparativa e ipotesi congetturali,
era già presente almeno a partire dalle Remarks del 1714.
Dalla Fable sono assenti, eccezion fatta
per il lusso, tutti i principali temi che concorsero a formare il discorso
politico-economico settecentesco: il passaggio dalla prudenza antica a quella
moderna e dal feudalesimo al capitalismo commerciale, la professionalizzazione
della vita militare e di quella pubblica in generale, il prevalere degli interessi
settoriali e del clientelismo politico, il rapporto tra forme di governo,
forme della società e successo commerciale, le strategie deliberative
della spesa pubblica e la questione del debito, per citare solo i più
evidenti. In mancanza di tutto questo, non è un caso che la Fable non sia riuscita a conquistare una posizione “rispettabile” nel
dibattito politico post-mandevilliano: perfino la trattazione del concetto
di lusso, che come abbiamo visto era nel suo insieme assai articolata, fu
invece respinta come incoerente e frutto di semplice provocazione morale[59].
Tuttavia, se anche Mandeville non formulò nessuna teoria economica
o della società capitalistica destinata a durare nel tempo, il modo
in cui seppe estrarre argomenti consumistici dal linguaggio mercantilistico,
unito alla sua correlazione di linguaggio economico e psicologia morale, rimane
un momento storico significativo nella formazione dell’economia politica.
[*] Ringrazio Maria Luisa Pesante per i suoi commenti a una precedente versione di questo saggio. Le citazioni dalla Fable of the Bees sono riportate nel testo con l’abbreviazione F seguita da numero di volume e di pagina e dal numero di pagina dell’edizione italiana. L’edizione critica utilizzata è The Fable of the Bees. Or Private Vices, Publick Benefits, edited by F.B. Kaye, 2 voll., Clarendon Press, Oxford, 1924 (trad. it. del primo volume, La favola delle api, a cura di T. Magri, Laterza, Roma-Bari, 1987; trad. it. del secondo volume, Dialoghi tra Cleomene e Orazio, a cura di C. Belgioioso, Milella, Lecce, 1978). Dove non altrimenti indicato le traduzioni sono mie.
[1] Su un piano di ricostruzione storica trovo difficile condividere la posizione di Louis Dumont, per il quale Mandeville avrebbe segnato la separazione dell’economico dal morale. Si tratta di categorie ricostruite in modo prevalentemente retrospettivo, mentre i processi intellettuali in atto tra il tardo Seicento e il primo Settecento, come spero emergerà anche da questo lavoro, lungi dall’indicare una differenziazione, manifestavano un complesso intreccio tra fattori che solo in seguito abbiamo imparato a distinguere nel modo in cui dice Dumont: cfr. L. Dumont, Homo aequalis, I. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, trad. it., Adelphi, Milano, 1984, in part. pp. 107-33. Lo storico non può trascurare che i linguaggi politici ed economici si sono costituiti con lentezza nel corso del tempo, anzi deve assumere tale lento costituirsi a proprio oggetto di ricerca. [2] Cfr. B. Mandeville, A Modest Defence of Publick Stews, printed by A. Moore, London, 1724, passim (trad. it.: Una modesta difesa delle case pubbliche di piacere, a cura di D. Castiglione, Sellerio, Palermo, 1989). Di bordelli pubblici Mandeville aveva già discusso in F, I.96-100: trad. it., 63-65.
[3] Cfr. B. Mandeville, A Letter to Dion (1732), Augustan Reprint Society Publication, Los Angeles, 1953, pp. 36-37. Si condensava in questa pagina mandevilliana un tema risalente già ai suoi interventi sul Female Tatler del 1709, dove era formulata la questione del «cunning Management» dei politici: mi permetto di rimandare alla mia Introduzione a B. Mandeville, Sociabilità. Vizi privati, benefìci pubblici. Scritti scelti, a cura di D. Francesconi, Liberilibri, Macerata, 2004, pp. XIII-XIV. Non mi pare condivisibile la tesi di Maria Emanuela Scribano, che ravvisa una progressiva marginalizzazione della figura dei legislatori e conseguentemente un passaggio di Mandeville da posizioni originariamente mercantilistiche a quelle più marcatamente libero-scambiste che avrebbe assunto negli scritti più tardi: cfr. M.E. Scribano, Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 184-208. Mi pare al contrario che l’oscillazione tra i due poli permanga fino proprio all’ultimo scritto mandevilliano.
[4] Si pensi a come, sul piano politico-legislativo, gli imperativi della bilancia commerciale abbiano condotto a un innalzamento dei livelli di controllo sedimentati nella politica dei Navigation Act e si siano incarnati in un vero e proprio sistema di protezione dell’industria nazionale, causato dalle continue iniziative belliche e dalla volontà di far corrispondere dominio militare e predominio marittimo: è a questo contesto che va ricondotta l’istituzione nel 1696 del Board of Trade, con la sua definitiva crescita a partire dal secondo decennio del XVIII secolo. Su questo insieme di processi politici, economici e legislativi si vedano alcuni studi ormai classici: C. Wilson, England’s Apprenticeship, 1603-1763, Longmans, Green & Co., London, 1965, in part. pp. 269, 281-87; R. Davis, The rise of protection in England, 1689-1786, in «Economic History Review», second series, XIX, 1966, pp. 306-17; P. Laslett, John Locke, the Great Recoinage, and the origins of the Board of Trade, 1695-1698, in John Locke. Problems and Perspectives, edited by J. Yolton, Cambridge University Press, Cambridge, 1969, pp. 137-64. Sullo sviluppo dello «Stato fiscal-militare», che ben documenta come lo Stato si sia configurato come il principale attore economico in questa fase della storia britannica e come i meccanismi di concentrazione economica abbiano avuto una dimensione eminentemente pubblica, si veda J. Brewer, The Sinews of Power. War, Money, and the English State, 1688-1783, Allen and Unwin, London, 1989.
[5] Cfr. J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologia nell’Inghilterra del XVII secolo, trad. it., il Mulino, Bologna, 1983, pp. 179-83. Sulle richieste in senso protezionistico dei produttori tessili inglesi cfr. anche il classico P.J. Thomas, Mercantilism and the East India Trade, King & Son, London, 1926, pp. 8, 24, 37, 51. Cfr. inoltre I. Hont, Free trade and the economic limits to national politics: neo-Machiavellian political economy reconsidered, in The Economic Limits to National Politics, edited by J. Dunn, Cambridge, 1990, pp. 41-120; e, sempre del medesimo autore, la ripresa di questi temi in Id., Jealousy of Trade. International Competition and the Nation-State in Historical Perspective, Belknap Press, Cambridge, Mass., 2005, in part. pp. 59-62. Per una discussione complessiva del paradigma “mercantilistico” in rapporto al commercio della Compagnia cfr. inoltre L. Magnusson, Mercantilism. The Shaping of an Economic Language, Routledge, London, 1994, pp. 60-88.
[6] Nel suo Essay on the East-India Trade (1696), per esempio, Davenant, muovendo dall’asserzione di principio che «il commercio è libero per sua natura», sosteneva che «l’unico modo benefico per l’Inghilterra di produrre lana a prezzi vantaggiosi è di tenere basso il costo del lavoro (to have it manufactured cheaply)». In questo senso, se si fosse imposta una proibizione all’importazione di manufatti tessili dall’India, il guadagno di breve termine dei produttori inglesi di stoffe si sarebbe accompagnato a una perdita di forza concorrenziale dell’Inghilterra nel lungo periodo: cfr. C. Davenant, An Essay on the East-India Trade, in Id., The Political and Commercial Works, 5 voll., edited by Sir C. Whitworth, printed for R. Horsfield, T. Becket and P.A. De Hondt, T. Cadell and T. Evans, London, 1771, vol. I, pp. 98-100, 112. Per argomentazioni analoghe cfr. anche [H. Martyn], Considerations on the East-India Trade (1701), in Early English Tracts on Commerce, edited by J. McCulloch, Political Economy Club, London, 1856, pp. 559-68. Per un ampio inquadramento biografico di Charles Davenant e per il suo ruolo di propagandista della Compagnia cfr. J. Hoppit, Davenant Charles (1656-1714), in Oxford Dictionary of National Biography, Oxford University Press, September 2004, online edition, May 2006 [http://www.oxforddnb.com/view/article/7195, accessed 15 Aug 2007].
[7] È opportuno ricordare che solo nel 1813 il governo britannico abrogò il monopolio commerciale concesso alla Compagnia, in un contesto completamente mutato, con la Compagnia che ormai esercitava una forma di sovranità su ampi territori indiani, per cui la funzione di autorità era addirittura prevalente su quella commerciale. Sulle prime fasi della Compagnia cfr. il classico K.N. Chaudhuri, The Trading World of Asia and the English East India Company, 1600-1760, Cambridge University Press, Cambridge, 1978. In un’ottica non limitata alla Compagnia inglese si veda invece G. Abbattista, L’espansione europea in Asia (secc. XV-XVIII), Carocci, Roma, 2002 (sulla East India Company in part. pp. 78-95, 121-25).
[8] Cfr. H. Landreth, The economic thought of Bernard Mandeville, in «History of Political Economy», VII, 1975, p. 205. Sull’utilitarismo dei legislatori cfr. J.C. Maxwell, Ethics and politics in Mandeville, in «Philosophy», XXVI, 1951, pp. 250-51. Sulle prospettive satiriche di Mandeville riguardo alla figura dei legislatori cfr. M.M. Goldsmith, Private Vices, Public Benefits. Bernard Mandeville’s Social and Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge, 1985, p. 53.
[9] Cfr.: E.F. Heckscher, Mercantilism, authorized translation by M. Shapiro, revised edition edited by E.F. Söderlund, 2 voll., Allen and Unwin, London, 1955, vol. II, pp. 153, 166, 327-29; T. Horne, The Social Thought of Bernard Mandeville, Macmillan, London, 1978, p. 63.
[10] La più nota formulazione di questo principio di politica economica e di questa visione della società nel pensiero economico anglofono tardo-seicentesco era quella di William Petty, il quale aveva sostenuto che, pur di non lasciare i poveri disoccupati e quindi preda di ozio e indolenza, sarebbe stato opportuno fargli «costruire un’inutile piramide sulla piana di Salisbury» o «portare le pietre di Stonehenge sulla collina della Torre»: cfr. W. Petty, A Treatise of Taxes and Contributions (1662), in The Economic Writings of Sir William Petty, edited by C.H. Hull, 2 voll., Cambridge University Press, Cambridge, 1899, vol. I, p. 31.
[11] Su North e Defoe cfr. D.C. Coleman, Labour in the English economy of the seventeenth century, in «Economic History Review», second series, VIII, 1956, p. 281. Sull’ipotesi di periodizzazione cfr.: C. Wilson, England’s Apprenticeship, cit., p. 234, nota 1; R.C. Wiles, The theory of wages in later English mercantilism, in «Economic History Review», second series, XXI, 1968, pp. 113-26.
[12] Sul carattere classista della politica di Mandeville cfr. T. Horne, The Social Thought of Bernard Mandeville, cit. pp. 70-71.
[13] Cfr. D. North, Discourses upon Trade (1691), in Commerce, Culture, and Liberty. Readings on Capitalism Before Adam Smith, edited by H.C. Clark, Liberty Press, Indianapolis, 2003, pp. 107, 108.
[14] Cfr. E.F. Heckscher, Mercantilism, cit., vol. II, pp. 112-30, 194.
[15] Cfr. D.C. Coleman, Mercantilism revisited, in «Historical Journal», XXIII, 1980, p. 783
.[16] Benché non sia sistematica, la concezione mandevilliana della divisione del lavoro anticipò le più mature formulazioni settecentesche. F.A. Hayek ricorda che Dugald Stewart aveva già sostenuto che Mandeville «chiaramente suggerì ad Adam Smith uno dei più bei passi della Ricchezza delle nazioni»: cfr. F.A. Hayek, Dr. Bernard Mandeville, in Id., New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Routledge, London, 1978, p. 258 (già in «Proceedings of the British Academy», LII, 1966, pp. 125-41). Lo stesso Marx sostenne che il capitolo sulla divisione del lavoro nella Wealth of Nations era copiato quasi parola per parola dalle Remarks di Mandeville: cfr. K. Marx, Il capitale, trad. it., a cura di D. Cantimori, 3 voll, Editori Riuniti, Roma, 1964, libro I, cap. XII, nota 57, vol. I, p. 398.
[17] Non a caso, proprio osservando la struttura delle osservazioni mandevilliane sul commercio internazionale, Terence Hutchison ha sostenuto che non vi era necessariamente contraddizione nel proporre politiche “libero-scambiste” in un settore e “mercantilistiche” in un altro: cfr. T. Hutchison, Before Adam Smith. The Emergence of Political Economy, 1662-1776, Basil Blackwell, Oxford, 1988, p. 125.
[18] A. Schatz, nel suo L’individualisme economique et social, Armand Colin, Paris, 1907, p. 62, parla della Fable of the Bees, come dell’«opera capitale in cui si trovano i germi essenziali della filosofia economica e sociale dell’individualismo». Secondo F.B. Kaye, Mandeville avrebbe elaborato una «autentica filosofia per l’individualismo in economia», trasformando le intuizioni rapsodiche dei suoi predecessori in una visione sistematica destinata a divenire «una delle principali fonti letterarie della dottrina del laissez faire»: cfr. F.B. Kaye, Introduction, in The Fable of the Bees, cit., pp. XCVIII-CIII, CXXXIX-CXLI. Last, but not least, F.A. Hayek ha salutato Mandeville come il fondatore del vero individualismo e si è compiaciuto di includerlo tra i precursori della sua teoria: cfr. F.A. Hayek, Individualism: true and false, in Id., Individualism and Economic Order, Routledge, London, 1949, p. 4.
[19] È interessante ricordare in questo contesto l’osservazione di Albert O. Hirschman per cui nel Settecento il verbo to meddle ha subìto uno slittamento semantico, passando da un’accezione neutra a una sostanzialmente dispregiativa: cfr. A.O. Hirschman, L’economia politica come scienza morale e sociale, trad. it., Liguori, Napoli, 1987, pp. 57-58.
[20] Cfr. F.A. Hayek, Dr. Bernard Mandeville, cit.; N. Rosenberg, Mandeville and laissez-faire, in «Journal of the History of Ideas», XXIV, 1963, pp. 183-96. Cfr. inoltre M. Bianchi, How to learn sociality: true and false solutions to Mandeville’s problem, in «History of Political Economy», XXV, 1993, pp. 209-40. Per una valutazione critica cfr. C. Petsoulas, Hayek’s Liberalism and Its Origins. His Idea of Spontaneous Order and the Scottish Enlightenment, Routledge, London, 2001.
[21] Cfr. D. Taranto, Abilità del politico e meccanismo economico. Saggio sulla “Favola delle api”, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1982, p. 139. Secondo M.M. Goldsmith la figura degli «abili politici» è servita a Mandeville per spiegare i meccanismi sociali sostituendo una spiegazione funzionale a una più complessa spiegazione genetica: cfr. il suo Private Vices, Public Benefits, cit., p. 64. Considerazioni analoghe anche in R. Hamowy, The Scottish Enlightenment and the Theory of Spontaneous Order, Southern Illinois University Press, Carbondale and Edwardsville, 1987, pp. 7-10.
[22] Cfr. E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, trad. it., Einaudi, Torino, 1981, pp. 275-308.
[23] Cfr. A.O. Hirschman, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1979, p. 21.
[24] Cfr. N. McKendrick - J. Brewer – J.H. Plumb, Introduction, in Id., The Birth of a Consumer Society. The Commercialization of Eighteenth-Century England, Europa Publications, London, 1982, p. 2.
[25] Cfr. C. Wilson, England’s Apprenticeship, cit., pp. 338-46.
[26] Sul passaggio dal caffè al tè nell’Inghilterra del primo Settecento cfr. W. Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe, trad. it., Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 87-92. Per una discussione complessiva cfr. anche Consumption and the World of Goods, edited by J. Brewer and R. Porter, Routledge, London, 1994.
[27] Cfr. T.H. Breen, An Empire of Goods: the anglicization of colonial America, 1690-1776, in «Journal of British Studies», XXV, 1985, pp. 467-99; Id., “Baubles of Britain”: the American and consumer revolutions of the eighteenth century, in «Past and Present», 119, 1988, pp. 73-104; e infine Id., Marketplace of Revolution. How Consumer Politics Shaped American Independence, Oxford University Press, Oxford, 2004.
[28] Cfr. N. McKendrick, The consumer revolution of eighteenth-century England, in The Birth of a Consumer Society, cit., pp. 13, 25.
[29] Cfr. N. Barbon, Discourse of Trade, in Commerce, Culture, and Liberty, cit., pp. 73-74. Su questi aspetti si veda M. Bianchi, The infinity of human desires and the advantages of trade: Nicholas Barbon and the wants of the mind, in Physicians and Political Economy: Six Studies of the Work of Doctor-Economists, edited by P. Groenewegen, Routledge, London, 2002, pp. 48-66.
[30] Cfr. J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologia, cit., cap. IV. Sul più generale contesto politico delle rivalità anglo-olandesi in epoca stuartiana cfr. S. Pincus, Protestantism and Patriotism. Ideologies and the Making of English Foreign Policy, 1650-1668, Cambridge University Press, Cambridge, 1996, passim.
[31] Su un altro piano, nel secondo volume della Fable of the Bees, Mandeville arriverà a respingere nel suo complesso l’ipotesi patriarcalistica dell’origine della società e del governo proposta da Temple. Per questo aspetto mi permetto di rimandare al mio Mandeville sull’origine della società, in «Il pensiero politico», XXVIII, 1995, pp. 407-33.
[32] Cfr. W. Temple, Observations upon the United Provinces of the Netherlands, in The Works of Sir William Temple, London, 1814, vol. I, pp. 138, 176. Per considerazioni analoghe cfr. J. Child, A New Discourse of Trade (1668), in Commerce, Culture, and Liberty, cit., in part. pp. 39-40, dove ricorda il «parsimonious and thrifty living» degli olandesi (anche se, in ultima istanza, la causa essenziale della prosperità degli olandesi andava ricercata per Child non nella frugalità nazionale, bensì nel basso tasso d’interesse da loro praticato: cfr. ivi p. 42).
[33] Cfr. W. Temple, Observations upon the United Provinces, cit., p. 176.
[34] Cfr. J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologia, cit., p. 176.
[35] Cfr. E.F. Heckscher, Mercantilism, cit., vol. II, p. 115.
[36] Cfr. I. Hont, Free trade and the economic limits to national politics, cit., pp. 51-57.
[37] Non bisogna dimenticare che, parlando della società frugale per eccellenza, cioè quella spartana, Mandeville sottolineò molto di più la barbarie della sua disciplina che la virtù del suo ordinamento: cfr. F, I.245-47: trad. it., 166-67.
[38] In questo Mandeville anticipò posizioni successivamente elaborate da Hume in Of money: cfr. I. Hont, The “rich country – poor country” debate in Scottish classical political economy, in Wealth and Virtue. The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, edited by I. Hont and M. Ignatieff, Cambridge University Press, Cambridge, 1983, pp. 271-316. Hont non accenna a Mandeville come fonte, ma non è implausibile che nel mettere a punto la sua teoria dello scambio internazionale, oltre a basarsi sull’esempio storico dei rapporti anglo-scozzesi, Hume abbia tenuto presente alcuni aspetti della discussione della Fable of the Bees. Sulla ricezione di Mandeville nell’illuminismo scozzese cfr. M.M. Goldsmith, Regulating anew the moral and political sentiments of mankind: Bernard Mandeville and the Scottish Enlightenment, in «Journal of the History of Ideas», XLIX, 1988, pp. 587-606; E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, 1991, pp. 229-38; E.J. Hundert, The Enlightenment’s Fable. Bernard Mandeville and the Discovery of Society, Cambridge University Press, Cambridge, 1994, pp. 82-86. Cfr. anche L. Colletti, Mandeville, Rousseau e Smith, in Id., Ideologia e società, Laterza, Bari, 1969, pp. 276-81. Per una discussione della messa a frutto di linguaggi mandevilliani nel pensiero politico e storico dell’illuminismo scozzese mi permetto inoltre di rimandare al mio L’età della storia. Linguaggi storiografici dell’illuminismo scozzese, il Mulino, Bologna, 2003.
[39] Nel passo in questione Smith sembrava tuttavia aderire a una prospettiva strettamente funzionale e materialistica, prestando, almeno in questo singolo caso, minore attenzione alla dimensione competitiva del riconoscimento sociale. Cfr. A. Smith, An Enquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776), edited by R.H. Campbell and A.S. Skinner, textual editor W.B. Todd, 2 voll., Clarendon Press, Oxford, 1976, I.viii.33 (trad. it.: La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. Biagiotti, Utet, Torino, 1975, p. 166): «non è perché un uomo tiene la carrozza mentre il suo vicino cammina a piedi che uno ricco è l’altro è povero; ma è perché uno è ricco che tiene la carrozza ed è perché l’altro è povero che cammina a piedi».
[40] Per questa «tesi della perversità» cfr. A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, trad. it., il Mulino, Bologna, 1991, p. 141. Sulla critica mandevilliana alle Scuole di Carità cfr. W.A. Speck, Mandeville and the Eutopia Seated in the Brain, in Mandeville Studies. New Explorations in the Art and Thought of Dr. Bernard Mandeville (1670-1733), edited by I. Primer, Kluwer, The Hague, 1975, pp. 66-79; T. Horne, The Social Thought of Bernard Mandeville, cit., cap. I; M.M. Goldsmith, Private Vices, Public Benefits, cit., pp. 103, 122, 154. Il saggio mandevilliano sulle Scuole di Carità scatenò una tempesta politica e giudiziaria che portò fino alla sua denuncia da parte del Grand Jury del Middlesex: su questo episodio cfr. W.A. Speck, Bernard Mandeville and the Middlesex Grand Jury, in «Eighteenth Century Studies», XI, 1978, pp. 362-74.
[41] L’insistenza sui gruppi di status (non ancora élite moderne, ma non più aristocrazia tradizionale) rende senza dubbio possibile includere Mandeville nel processo storico di ridefinizione delle gerarchie sociali consumatosi nel XVIII secolo: per più consapevoli esiti successivi cfr. M.L. Pesante, Aristocrazia, oligarchia, élite. Il discorso di Josiah Tucker sulla gerarchia moderna, in Il pensiero gerarchico in Europa, XVIII-XIX secolo, a cura di A. Alimento e C. Cassina, Leo S. Olschki, Firenze, 2002, pp. 111-29; Id., Contro l’uguaglianza civile. Discorsi inglesi sulla gerarchia nella seconda metà del Settecento, in «Rivista storica italiana», CXVII, 2005, pp. 448-93.
[42] Sul ruolo di vanità e invidia nella teoria politica di Mandeville cfr. T. Horne, Envy and commercial society. Mandeville and Smith on “private vices, public benefits”, in «Political Theory», IX, 1981, pp. 551-69.
[43] Sulle innovazioni merceologiche e le loro motivazioni cfr. la discussione teorica in A.O. Hirschman, Shifting Involvements. Private Interest and Public Action, Princeton University Press, Princeton, 1982, in part. pp. 46-61.
[44] Cfr. D. North, Discourses upon Trade, cit., p. 119.
[45] Cfr. N. Barbon, Discourse of Trade, cit., p. 90.
[46] Cfr. C.J. Berry, The Idea of Luxury. A Conceptual and Historical Investigation, Cambridge University Press, Cambridge, 1994, pp. 126-34.
[47] Per la classica esposizione di questo tema nell’economia politica settecentesca cfr. I. Hont – M. Ignatieff, Needs and justice in the Wealth of Nations: an introductory essay, in Wealth and Virtue, cit., pp. 2-8.
[48] Per formulazioni precedenti di questo medesimo concetto cfr. il noto passo del Second Treatise of Civil Government (1689), §41, in J. Locke, Two Treatises of Government, edited by P. Laslett, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, p. 297 (trad. it.: Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. Pareyson, terza edizione riveduta e accresciuta, Utet, Torino, 1982, p. 258): «a king of a large and fruitful territory there [cioè in America] feeds, lodges, and is clad worse than a daylabourer in England». Cfr. anche [H. Martyn], Considerations on the East-India Trade (1701), cit., pp. 593-94: «a King of India is not so well lodg’d, and fed, and cloath’d, as a Day-labourer of England». Si deve tuttavia notare che in Locke non meno che in Martyn l’accento è posto prevalentemente sul ruolo del lavoro nell’incrementare i benefìci del commercio e quindi il divario tra società a diversi livelli di sviluppo (qui tra quella europea moderna e progredita e quelle americana e indiana), mentre la misurazione evolutiva e diacronica di questo divario sui diversi gruppi sociali è meno marcata che in Mandeville. Locke e Martyn sembrano adottare uno schema duale, mentre Mandeville insiste su comparazione e corrispondenze tra gruppi sociali a diversi livelli di sviluppo.
[49] Sulle implicazioni più strettamente filosofiche e antropologiche delle riflessioni mandevilliane intorno alla questione della ricchezza si veda M. Simonazzi, Le favole della filosofia. Saggio su Bernard Mandeville, Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 216-39.
[50] Cfr. J.O. Appleby, Ideology and theory: the tension between political and economic liberalism in seventeenth-century England, in «American Historical Review», LXXVI, 1976, p. 509.
[51] Per discussioni critiche del paradigma della Appleby cfr.: J.G.A. Pocock, To market, to market: economic thought in early modern England, in «Journal of Interdisciplinary History», X, 1979, pp. 303-09; D.C. Coleman, Mercantilism revisited, cit., passim; D. Winch, Economic liberalism as ideology: the Appleby version, in «Economic History Review», second series, XXXVIII, 1985, pp. 287-97; M.L. Pesante, Paradigms in English political economy: Interregnum to Glorious Revolution, in «The European Journal of the History of Economic Thought», III, 1996, pp. 353-78.
[52] Cfr. D. Winch, Economic liberalism as ideology, cit., p. 293, nota 22.
[53] Come testimoniato dal Dictionary of the English Language (1755) del dottor Johnson (si veda qualsiasi edizione), nella prima metà del Settecento il termine «liberale» indicava la virtù della generosità («Liberal: free, bountiful, generous»). Altrimenti connotava, in senso negativo, gli orientamenti dottrinari in campo religioso favorevoli a una politica di tolleranza indiscriminata, ma non si riferiva ancora ad alcuna compiuta teoria costituzionale o politica: cfr. J. Dunn, La teoria politica di fronte al futuro, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1983, p. 19, nota 15. La mancanza della parola non significa necessariamente che il concetto non fosse in via di formazione, ma per gli storici che prendono sul serio lo sviluppo dei discorsi politici questa dimensione terminologica non può assolutamente essere indifferente.
[54] Cfr. B. Mandeville, Free Thoughts on Religion, the Church, and National Happiness, London, 1720, p. 315 (trad. it.: Liberi pensieri sulla Religione, la Chiesa e il felice stato della Nazione, a cura di A. Sabetti, Liguori, Napoli, 1985, p. 221). Cfr. G.J. Schochet, Mandeville’s Free Thoughts and the eighteenth-century debates on “toleration” and the English constitution, in Mandeville and Augustan Ideas. New Essays, edited by C.W.A. Prior, University of Victoria Press, Victoria, 2000, pp. 35-50. Sul contesto storico dei dibattiti costituzionali dopo il 1689 e sull’origine della tesi dell’abdicazione si veda il classico J.P. Kenyon, Revolution Principles. The Politics of Party, 1689-1720, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, in part. pp. 5-20.
[55] Benché sia difficile stabilire quanto la politica dei partiti abbia inciso sulla programmazione di politica economica (per non parlare degli orientamenti nel pensiero economico), non è un caso che a lungo si sia attribuita la difesa del libero commercio ai tory (insediati nelle posizioni di vertice della Compagnia delle Indie Orientali fino alla sua riorganizzazione all’indomani della Rivoluzione del 1688-89) in opposizione alla legislazione protezionistica ispirata dall’oligarchia whig al potere. Per questa interpretazione cfr. Sir W. Ashley, The Tory origins of free trade policy, in Id., Surveys Historical and Economic, Longmans, Green & Co., London, 1900, in part. pp. 294-96, 298 (cui comunque applicare i ridimensionamenti elencati in C.J. Berry, The Idea of Luxury, cit., pp. 123-24, nota 7). Cfr. anche J. Viner, Commercio internazionale e sviluppo economico. Saggi di economia internazionale, trad. it., Utet, Torino, 1968, pp. 121-24.
[56] Cfr. J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, 2 voll., trad. it., il Mulino, Bologna, 1980, vol. II, cap. XIII.
[57] Cfr. J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano, cit., vol. II, pp. 722, 779; inoltre Id., Early modern capitalism: the Augustan perception, in Feudalism, Capitalism and Beyond, edited by E. Kamenka and R.S. Neale, Arnold, London, 1975, pp. 62-83.
[58] Discutendo le cause dell’origine del capitalismo Mandeville ha scritto: «sono un oppositore del papismo come lo sono stati Lutero e Calvino o la stessa regina Elisabetta ma nutro profondi dubbi che la Riforma sia stata più utile a far fiorire i regni e gli stati che l’hanno abbracciata della ridicola e capricciosa invenzione delle gonne cerchiate e imbottite» (F, I.356: trad. it., 255). Cfr. D. Castiglione, Excess, frugality and the spirit of capitalism: readings of Mandeville on commercial society, in J. Melling and J. Barry (a cura di), Culture in History. Production, Consumption and Values in Historical Perspective, University of Exeter Press, Exeter, 1992, in part. pp. 167-70.
[59] Pur ammettendo che Mandeville avesse quanto meno sfiorato la verità, gli illuministi scozzesi ridimensionarono la portata delle sue idee sul lusso. Cfr. D. Hume, Of refinement in the arts (1742), in Id., Essays Moral, Political, and Literary, edited by E.F. Miller, revised edition, Liberty Press, Indianapolis, 1987, p. 280 (trad. it.: Sull’affinamento delle arti, in Id, Saggi morali, politici e letterari, in Opere filosofiche, 4 voll., a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari, 1987, vol. III, p.289); Id., Enquiry concerning the Principles of Morals (1748), edited by L.A. Selby-Bigge, revised edition by P.H. Nidditch, Clarendon Press, Oxford, 1975, p. 181 (trad. it.: Ricerca sui principî della morale, in Id., Opere filosofiche, cit., vol. II, p.192); A. Smith,The Theory of Moral Sentiments (1759), edited by D.D. Raphael and A.L. Macfie, Clarendon Press, Oxford, 1976, VII.ii.4 (trad. it.: Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. Lecaldano, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 579-92).