Sandro Landi, Naissance de l’opinion publique dans l’Italie moderne.
Sagesse du peuple et savoir de gouvernement
de Machiavel aux Lumières, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006
[€ 20; ISBN 2-7535-0317-6]*

Daniele Santarelli
LARHRA – CNRS UMR 5190 (Lyon) / Università Statale di Milano

1. L’opinione pubblica è un concetto di cui Jürgen Habermas ha fissato l’origine nel XVIII secolo, concependola essenzialmente come un luogo ideale di opposizione e di riflessione critica rispetto al potere costituito. Il primo rimarcabile lavoro prodotto dall’ultimo importante esponente (quindi primo parziale dissidente) della celeberrima Scuola di Francoforte, frutto della sua tesi di docenza presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Marburgo, Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie  der bürgerlichen Gesallschaft (1962), si impone ancor oggi come un modello di riferimento sia in campo sociologico che storico, venendo tra l’altro molto frequentemente utilizzato come manuale nei corsi universitari. Questo nonostante il libro in questione sia stato assai diversamente recepito, e talvolta anche tardivamente, a seconda dei contesti scientifici (e politici) nazionali in cui è stato introdotto.  Tant’è che già le traduzioni del titolo originario sono variegate: in Italia Storia e critica dell’opinione pubblica (1971), in Francia L’espace public: archéologie de la publicité comme dimension constitutive de la société bourgeoise (1978), negli Stati Uniti The Structural Transformation of the Public Sphere (1989). Habermas lega l’origine dell’opinione pubblica alla diffusione della stampa periodica, concependola come del  tutto indipendente dal potere politico. Il suo lavoro (volutamente) non si basa su uno studio diretto delle fonti, ma su un attento spoglio della letteratura secondaria. Sin dalla premessa alla prima edizione egli precisa infatti:

Questo procedimento sociologico si distingue dal rigoroso esercizio storiografico per una apparente maggior libertà di giudizio nei confronti del materiale storico; ciò nonostante obbedisce dal canto suo ai criteri ugualmente rigorosi di un’analisi delle connessioni della totalità sociale.[1]

E nella premessa alla nuova edizione (1990) l’autore non si scompone più di tanto di fronte alle critiche di «manchevolezze empiriche»[2] formulategli da taluni storici, confortandosi del giudizio piuttosto positivo formulato in proposito da talaltri.

Ciò che interessa Habermas non è infatti il puntuale esame di serie omogenee di casi specifici, bensì la definizione di un determinato trend storico, individuato nella formazione di una «sfera pubblica (Öffentlichkeit, appunto) borghese»: uno spazio di riflessione critica, libero dai condizionamenti del governo, inizialmente limitatosi alla letteratura e all’arte e quindi progressivamente estesosi e concentratosi sulla politica.

2. Occorre sottolineare come la fortuna del libro di Habermas sia stata legata soprattutto alla sua prima parte, quella in cui si delinea appunto il processo di formazione di una «sfera pubblica borghese», mentre sia stata molto meno recepita, soprattutto nel campo degli studi storici e in Italia, la seconda parte, in cui il filosofo polemizza ampiamente contro gli usi distorti, la manipolazione dell’opinione pubblica nella società industriale avanzata: assai brillante e decisamente magistrale è in particolare il par. 22 «Sfera pubblica manipolata e opinione non-pubblica: il comportamento elettorale della popolazione»[3], inserito all’interno del capitolo VI, significativamente intitolato «Mutamenti nelle funzioni politiche della sfera pubblica»[4], in cui si fa riferimento alla nascita della «industria del marketing politico», finalizzata, attraverso l’impiego di esperti di campagne di comunicazione politicamente neutrali che sostituiscono i vecchi attivisti di partito, al «vendere politica in modo impolitico». È  questo lo scenario in cui si svolgono le battaglie elettorali nei regimi di modello occidentale a partire soprattutto dal secondo dopoguerra, nonostante le iniziali resistenze a questa degenerazione della comunicazione politica da parte di alcuni partiti, peraltro «superate soltanto dopo ripetute sconfitte elettorali»[5]. Il fenomeno comporta la progressiva dissoluzione della «sfera pubblica» come originariamente intesa e delineatasi (secondo Habermas) nel XVIII secolo. Tant’è che la stampa periodica perde le sue vecchie prerogative a favore dei grandi mass media usati come mezzi di propaganda e di manipolazione psicologica:

I partiti si rivolgono immediatamente al «popolo». Di fatto a quella minoranza il cui livello di coscienza arriva a possedere, secondo le risultanze delle indagini demoscopiche, un patrimonio medio di 500 vocaboli. Insieme alla stampa perde significato anche l’altro grande classico strumento di formazione dell’opinione: il congresso di partito. […] Anche i congressi servono soltanto come strutture pubblicitarie, in cui i presenti possono al massimo fare da comparse non retribuite per la trasmissione televisiva[6].

Va detto che Habermas ha con gli anni smorzato i suoi toni critici (e sarcastici) contro questi fenomeni, tant’è che nella prefazione alla seconda edizione del libro, scritta all’indomani del crollo dei regimi a modello socialista dell’Europa orientale (cosa che aveva contribuito non poco al cambiamento del quadro teoretico della sua precedente riflessione) giungeva ad affermare (dando, a dire il vero, anche al lettore meno accorto, una certa impressione di arrampicarsi sugli specchi): «Molte cose fanno pensare che il potenziale democratico di una sfera pubblica la cui infrastruttura reca l’impronta delle crescenti pressioni selettive della comunicazione elettronica di massa sia ambivalente»[7]. E concludeva: «se oggi mi accingessi ancora una volta a studiare la trasformazione strutturale della sfera pubblica, non saprei quale risultato otterrei ai fini di una teoria della democrazia – forse un risultato  che darebbe lo spunto a una valutazione meno pessimistica e a un modo di vedere meno rigido ed esigente di un tempo»[8].

3. Nel suo lavoro Habermas delineava la formazione di questo specifico oggetto storico che definiva «opinione pubblica», soffermandosi quindi sulla sua degenerazione rispetto alle origini settecentesche, di fatto sulla sua «dissoluzione» nel contesto delle società industriali avanzate dominate dalla comunicazione massmediologica finalizzata alla manipolazione delle coscienze.

Ma alle origini l’opinione pubblica – ammesso che il concetto possa essere definito   in modo così oggettivo, cosa che è stata messa in discussione da parte del sociologo Pierre Bourdieu in un fortunato articolo datato 1973, intitolato non a caso «L’opinion publique n’existe pas»[9] – nacque veramente in opposizione agli orientamenti dei governi e come stimolo ad una riflessione critica ed indipendente di fronte alle loro azioni e deliberazioni?

La storia della formazione dell’opinione pubblica in Italia, nonostante il grande rilievo del tema, non era mai stata studiata in modo dettagliato. Il libro di Sandro Landi, Naissance de l’opinion publique dans l’Italie moderne. Sagesse du peuple et savoir de gouvernement de Machiavel aux Lumières, si propone quindi di colmare questa lacuna significativa, e lo fa  marcando nettamente la sua distanza dal tanto fortunato paradigma habermasiano. Lungi dalla prospettiva sociologica indicata dal filosofo tedesco, l’opinione pubblica è infatti studiata come categoria del discorso politico. Il campo d’analisi privilegiato è costituito dal caso di Firenze e della Toscana dall’inizio del Cinquecento sino alla fine del Settecento. Landi parte infatti dai risultati acquisiti dai suoi studi precedenti sulla censura e sul controllo delle opinioni nella Toscana del Settecento, culminati in una importante monografia pubblicata nel 2000[10], sottolineando come «le cas italien a permis de constater l’absence d’une rupture originaire et fondatrice entre l’État et l’espace public: un public émancipé de la société traditionelle ne peut exister ici sans le soutien décisif du pouvoir politique»[11].

4. Un fattore nuovo del discorso politico è costituito dalla dirompente entrata in scena del popolo nel contesto delle vicende della repubblica fiorentina e del passaggio dalla repubblica al nuovo principato mediceo. Machiavelli e Guicciardini dedicavano in particolare una certa attenzione a questo tema. Machiavelli individuava nel popolo una saggezza nascosta, che si manifestava in particolare nei momenti di crisi e che forniva lume ai governanti. In Machiavelli questa esaltazione della saggezza del popolo fa da contraltare alla sfiducia da lui nutrita nei confronti delle autorità. Il suo discorso sul popolo è comunque assai contraddittorio. Egli infatti elaborava al contempo una antropologia negativa del popolo, il consenso del quale era fondamentale per il principe, che non si doveva fidare di coloro che conoscevano gli arcana del palazzo e doveva trovare sostegno contro di loro nel popolo, che doveva saper interpretare e manovrare. In Guicciardini  invece il popolo era disprezzato in modo palese: è ovvia la sua esclusione totale dai meccanismi decisionali, incapace com’è di formulare giudizi razionali e di tenere una condotta costante. Emergeva comunque anche in lui la  necessità di un sapere finalizzato all’attività di governo: nasceva la comunicazione politica.

5. Questi aspetti sono meglio analizzati da Landi nella parte centrale del libro dove tratta della scoperta e dello sviluppo della censura. Essa fu funzionale allo sviluppo e consolidamento del nuovo regime mediceo instauratosi con Cosimo I (1537-1574). Uno degli aspetti del suo governo fu l’instaurarsi di un peculiare legame tra politica e religione: il principe era quasi divinizzato; la religione veniva utilizzata come strumento di persuasione del popolo. Questi temi possono trovarsi nelle opere degli scrittori politici del tempo, Migliore Cresci e Anton Francesco Doni in particolare. Questi aspetti sono stati trascurati dalla storiografia recente sul principato mediceo, che si è concentrata soprattutto sugli aspetti contrattualistici della sovranità del principe toscano.

Scipione Ammirato rifletteva su ruolo della censura a Roma, proponendo un modello autorevole; e Giovanni Francesco Lottini individuava nel sovrano il titolare supremo del potere censoreo. Il popolo era assimilato negli scrittori politici a un mostro irrazionale. Il trattato dello spagnolo Aldana, intitolato significativamente Discorso contro il volgo (pubblicato a Firenze nel 1578), rappresenta un caso emblematico. La censura si legava anche all’utopia urbana, poiché assumeva un carattere funzionale alla costruzione di un società ben ordinata e regolata.

Al principe era demandato il compito di controllare l’accesso alla stampa per impedirlo a coloro che non erano colti, che quindi potevano farne un uso distorto e contribuire alla banalizzazione del potere. Inoltre doveva preservare l’ortodossia, così importante per il mantenimento della coesione sociale: anche a questo fine era fondamentale il controllo sulla stampa.

Fondamentale per la conservazione del potere del principe era la sua rete di informatori: essa ha fatto nascere una leggenda nera su Cosimo I. Il pensiero giuridico comunque giustificò l’azione del principe. Esso teorizzò una disciplina della parola, una disciplina della scrittura e una disciplina della lettura. Il tutto era giustificato dalla presenza di una parola «legittima», quella del principe. Due leggi sui delitti politici sono degne di nota: la legge del 1542 contro la blasfemia e quella del 1549 contro il crimine di lesa maestà. Per quanto riguarda la scrittura e quindi la stampa, il principe stabiliva un rapporto di fiducia e protezione con gli stampatori attraverso la definizione di uno spazio accademico e la fondazione di una stamperia ducale. L’attività di censura del principe pare anticipare quella del Sant’Uffizio; dunque secondo Landi non è sostenibile la tesi per cui fu l’autorità ecclesiastica ad imporsi a quella civile: nel momento in cui anche questa intervenne, il suo apporto fu comunque decisivo, anche perché convergeva con le intenzioni del principe. La disciplina della lettura veniva meno col declino progressivo dell’autorità della Chiesa a partire dall’inizio del Settecento.

6. La legge toscana del 1743 sulla stampa e sulla censura va collocata in questo contesto. Essa realizzava un nuovo equilibrio tra censura preventiva e censura repressiva. In realtà tale legge era il risultato di un riequilibrio di poteri dopo che la persecuzione inquisitoriale aveva colpito i massoni fiorentini, che tanto influenzavano ed anzi partecipavano all’attività di governo all’inizio dell’epoca lorenese. La legge formalmente tutelava la libertà di stampa ma nella sua interpretazione si distingueva tra libertà e licenza. Il potere politico comunque occupava progressivamente e inesorabilmente gli spazi dell’Inquisizione, e tentava di sostituirsi ad essa dopo il 1782, anno dell’abolizione solenne dell’Inquisizione nel Granducato. Francesco Stefano di Lorena, principe nuovo come il suo illustre predecessore Cosimo de’ Medici, comprese il ruolo decisivo della religione nella formazione del dissenso.

In questo periodo si formava anche la nozione di bene pubblico, su cui ebbero a riflettere Muratori e Pompeo Neri: svelare gli arcana imperii al popolo, quindi demistificare il potere, pareva adesso utile per realizzare un governo illuminato che garantisse una nuova coesione sociale; tuttavia non tutto il popolo possedeva i mezzi intellettuali necessari, e il sovrano illuminato doveva far riferimento alla melior pars di esso. Le riflessioni dei fratelli Verri andavano nel medesimo senso. Esse contrapponevano opinione pubblica e opinione comune. L’opinione pubblica era l’opinione degli «uomini dabbene», una risicata minoranza che si affermava come interlocutrice privilegiata del principe, e si contrapponeva all’opinione del volgo. Questa opinione pubblica si poneva sotto la protezione del principe, quindi in nessun senso si contrapponeva al potere costituito:

Voici – commenta Landi – les éléments constitutifs  d’un espace public qui diffère profondément du modèle conçu par Reinhart Koselleck pour l’Europe continentale: dans ce dernier cas, l’espace public est une dimension socioculturelle fortement politisé, alternative aux régimes absolutistes et l’opinion publique est la seule manifestation efficace de contrepouvoir. Dans l’optique des animateurs du Caffé, la liberté d’imprimer et de débattre n’existe pas au-déla des conditions qui la fondent et, en même temps, la limitent. De même que dans l’édit toscan sur la liberté de presse, la liberté  est considérée dans le périodique milanais comme un octroi et son existence […] implique la mise en place de dispositifs de réglementation qui empêchent au discours public de déraper vers le domaine dangereux de la «licence»[12].

L’opinione pubblica diventava comunque anche un mezzo di lotta politica. E di conseguenza si poneva anche il problema di come governarla e contenere gli eccessi: la nascita della polizia si legava alla persecuzione del delitto di opinione. Allo stesso fine si sviluppava in modo particolarmente efficace la censura. Landi nota l’incapacità degli attori politici ed istituzionali nel concepire l’opinione pubblica «dans des termes autres que l’invention discursive ou la présence informe et menaçante de la protestation, de la rumeur et de la délation», mettendo in discussione radicalmente il modello habermasiano:

On mesure ici la distance qui sépare cette expérience politique de l’idée d’opinion publique comme instance critique et comme résultat d’une libre confrontation d’opinions divergentes propre à l’utopie libérale et au modèle, longtemps canonique, de Jürgen Habermas[13].

Il controllo dell’opinione pubblica attraverso la censura si effettuava anche attraverso le traduzioni: è il caso  della traduzione italiana (Siena, 1776-77) dell’Histoire des deux Indes di Guillaume Raynal, classico dell’Illuminismo, effettuata dal frate domenicano Domenico Stratico: l’opera nel passaggio dal testo originale alla traduzione veniva censurata, in parte riscritta e ricontestualizzata al fine di eliminarne ogni potenzialità eversiva. L’operazione era finalizzata alla costruzione di un nuovo senso comune politico, e quindi al controllo delle opinioni del popolo, tema che la rivoluzione mediatica del XVIII secolo rendeva ineludibile. Si faceva di nuovo riferimento, due secoli dopo Machiavelli, alla «saggezza del popolo». Una saggezza che pareva in quel caso decisamente costruita ad arte ai fini del controllo sociale.

7. L’approccio di Sandro Landi è particolarmente innovativo: esso contesta l’eccessivo positivismo degli storici del libro e dei sociologi che hanno inquadrato la nascita dell’opinione pubblica nel Settecento entro il trionfo del liberalismo, senza dar peso al carattere in ampia parte fittizio e malleabile, secondo le esigenze di chi sta al governo, dell’opinione pubblica. Le origini di una teorizzazione embrionale del concetto di opinione pubblica sono individuate nelle riflessioni dei pensatori politici fiorentini del XVI secolo inserite in un contesto che vedeva la nascita di un regime nuovo che aveva bisogno del consenso del popolo per stabilizzarsi e consolidarsi. Un altro regime nuovo, due secoli più tardi, dovette porsi di fronte allo stesso problema adattandosi al cambiamento dei tempi, tentando di realizzare un difficile equilibrio tra la maggiore libertà richiesta dal momento storico e l’esigenza di controllare e censurare. Il confronto tra questi due diversi momenti storici permette di cogliere le origini dell’opinione pubblica e di contestualizzarne meglio la piena teorizzazione settecentesca. È veramente apprezzabile il risultato demistificante che deriva da questo nuovo approccio.

Note

* Questo lavoro rappresenta  una rielaborazione e un ampliamento di una più breve recensione pubblicata in «Studi Storici Luigi Simeoni», LVII, 2007, pp. 432-433.

[1] Così scriveva il filosofo tedesco nella premessa alla prima edizione del 1962: J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza (Economica Laterza, 359), 20062, p. XLVI.

[2] Ibid., p. IX.

[3] Ibid., pp. 244-256

[4] Ibid., pp. 209 sgg.

[5] Ibid., p. 250.

[6] Ibid., p. 251.

[7] Ibid., pp. XLII-XLIII.

[8] Ibid., p.  XLIII.

[9] P. Bourdieu, L’opinion publique n’existe pas in Id., Questions de Sociologie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1984, pp. 222-235 [articolo originariamente pubblicato in « Les temps modernes »,  318,  janvier 1973, pp. 1292-1309]. Ivi, p. 234, si afferma molto significativamente: «l’opinion publique n’existe pas, sous la forme en tout cas que lui prêtent ceux qui ont intérêt  à affirmer son existence. J’ai dit qu’il y avait d’une part des opinions constituées, mobilisées, des groups de pression mobilisés autour d’un système d’intérêts explicitement formulés; et d’autre part, des dispositions qui, par définition, ne sont pas opinion si l’on entend par là […] quelque chose qui peut se formuler en discours avec une certaine prétention à la cohérence.»

[10] S. Landi, Il governo delle opinioni. Censura e formazione del consenso nella Toscana del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2000.

[11] Id., Naissance de l’opinion publique dans l’Italie moderne. Sagesse du peuple et savoir de gouvernement de Machiavel aux Lumières, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006, p. 10.

[12] Ibid., p. 168. Il riferimento è a R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen Welt. Freiburg – München, Verlag Karl Alber, 1959 (trad. italiana: Critica illuministica e crisi della società borghese, Bologna, Il Mulino, 1972).

[13] S. Landi, Naissance de l’opinion publique dans l’Italie moderne, cit., p. 177.