1. Il termine ‘deismo’, come diversi studiosi hanno messo in luce,
porta con sé grandissime difficoltà di definizione. Coniato
da Pierre Viret nel sedicesimo secolo, assurge fin dal principio a ruolo di
etichetta polemica: sono additati deisti coloro che osano mettere in discussione,
abusando della propria libertà di coscienza, le verità religiose
istituzionalizzate nell’ortodossia. Seguendo questo schema, deisti sono
pensatori che hanno sviluppato teorie fra loro lontanissime, da Herbert of
Cherbury a John Toland. Travalicando l’aspetto polemico e definendo
meglio il campo di indagine, è però possibile tracciare alcune
linee guida che permettano di identificare il nucleo della riflessione deista.
Diego Lucci, in Scripture and Deism, compie questa operazione. Attraverso
un’attenta analisi delle posizioni dei deisti anglosassoni –da
Herbert of Cherbury a Peter Annet– si delineano qui alcune tesi fondamentali
che se costituiscono, per certi aspetti, un sostrato comune, per altri rivelano
una dinamica evoluzione. In particolare, il luogo centrale dello studio di
Lucci investe l’analisi del rapporto –del tutto particolare–
che questi pensatori hanno avuto con le Scritture.
2. Il lavoro di Lucci si divide, secondo uno schema cronologico, in tre capitoli.
Nel primo, Towards a Definition of Deism, si risale alle radici del
deismo in area britannica; partendo dalle teorie di Herbert of Cherbury, attraverso
le acquisizioni delle riflessioni di Spinoza, si giunge ad illustrare, con
l’emblematica figura di Charles Blount, il progressivo arricchimento
dell’armamentario filosofico a disposizione delle teorie deiste. A questo
scopo contribuirà anche la reinterpretazione della lockiana way
of ideas operata, in primis, da John Toland. Su quest’ultimo
si concentra il secondo capitolo, Scripture in John Toland’s Criticism
of Revealed Religion. Toland, ritenuto da Lucci «the major deist of the
eighteenth century» (p. 65), si rapporta con le Scritture secondo schemi
del tutto originali. Da un lato, il testo sacro diviene un mero mezzo di informazione,
mezzo analizzabile secondo i criteri della riflessione storica. Dall’altro
–e soprattutto, considerando la produzione della maturità–,
la religiosità ebraica e cristiana, assieme a quella egiziana, viene
a costituire un continuum: quest’unico terreno di evoluzione
sfocia, con evidenti intenti opportunistici, nella particolare forma di panteismo
propugnato dallo stesso Toland. Il terzo capitolo, British Criticism in
Collins, Tindal and the Last Deists, si concentra, prima, su Anthony Collins,
altro grande pensatore in grado di fornire dei contributi realmente originali,
e successivamente, sul progressivo inaridimento delle teorie deiste. Queste,
dopo mezzo secolo di corrosivo sviluppo, vedono nella saturazione e fossilizzazione
del concetto di ragione, una perdita di originalità e, se possibile,
un ritorno a teorie ormai esauste quali, ad esempio, l’innatismo.
3. Herbert of Cherbury, punto di partenza dell’analisi di Lucci, sviluppa
il prototipo della religione razionale: raccogliendo un piccolo novero di
precetti morali si propone di superare, mediante la sola ragione, la costrizione
del fanatismo. La ragione non soppianta la rivelazione ma le si affianca,
così, secondo Lucci, «Herbert’s recourse to reason does
not imply withdrawal from the religious sphere, but it is intended to oppose
the religious fanaticism and enthusiasm that tormented England and all Western
Europe in the first half of the seventeenth century» (p. 25). E’
tuttavia importante notare come il pensiero di Herbert ponga la rivelazione,
pur senza annichilirla, in un secondo piano; essa è soltanto una manifestazione
particolare di una verità universale. L’aspetto universalistico
viene così supplito dalla teoria innatista secondo la quale il nucleo
dei già citati precetti morali è a tutti evidente e da tutti
raggiungibile mediante il consensus gentium.
L’approdo successivo di questa rotta deista è la filosofia di
Charles Blount. Contrariamente a Herbert, Blount contrappone con decisione
la ragione alla rivelazione: egli adopera, dunque, la dottrina della religione
naturale per screditare la religione rivelata.. La rivelazione perde di ogni
consistenza ed anzi, nel farsi foriera di ingiustizie, risulta profondamente
irrazionale; tanto che «to Blount, revelation and all particular manifestations
of God are not only superfluos and useless, but also harmful to men’s
freedom» (p. 37). Ciononostante, Lucci rimarca più volte che per
Blount –così come, lo vedremo in seguito, per gli altri deisti–
non sia in questione la nozione di un essere supremo; al contrario, una delle
caratteristiche che rende ascrivibili ad una unica etichetta quasi tutti questi
pensatori, per altri versi così eterogenei, è il loro mantenersi
lontani dall’ateismo: «the deists opposed the irrational elements
and implications of religion, but they were not atheists» (p. 215). Tuttavia
Lucci non ignora l’influenza spinoziana sul pensiero dei deisti. Come
numerosi studi recenti hanno evidenziato –basti ricordare il corposissimo
contributo di Jonathan Israel, Radical Enlightenment (2001)–,
il nucleo teorico del pensiero di Spinoza fu accolto e rielaborato, con esiti
tanto originali quanto interessanti, dai pensatori britannici più radicali.
In particolare, le teorie che tracciavano una netta distinzione tra religione
e teologia, che vedevano nelle Scritture nient’altro che una produzione
umana –storicizzata e intrisa di caratteri locali–, furono utilizzate
per i propri fini dai deisti. Questi, ricorrendo a argomenti di ascendenza
spinoziana, «tried to curb the interferences of religious beliefs
as well as of ecclesiatical authorities in political and social life in order
to promote toleration and freedom of thought» (p. 41).
4. L’altro pilastro fondante del deismo si radica, lo si è accennato,
nella way of ideas di Locke. In primo luogo, con il rifiuto, seppur
non privo di contraddizioni (Two Treatises on Government, I, §86;
II, §11), delle idee innate; in secondo luogo, con la preziosa riflessione
sul concetto di reason. «Locke committed himself to analyzing
the processes of knowledge in order to define the means and subjects to which
humans can make reference when discussing any topic» (p. 45): così,
la riflessione lockiana crea un campo di discussione in cui le regole appaiono
certe e nel quale i termini del discorso acquisiscono una precisa valenza
comunicativa. La prospettiva lockiana è però assai presto superata.
John Toland, «the prototype of the alienated intellectual for his period:
Irish, probably bastard, classless, an enthusiast, often penniless» (p.
66), nel giovanile Christianity not Misterious (1696) porta al dissolvimento
del concetto, ammesso da Locke, di above reason: come avrà modo di
ripetere anche Collins, tutte le verità che richiedono un assenso above
reason sono contrary to reason, sicché per converso si possono discutere
unicamente le verità raggiungibili direttamente dalla ragione. Ciò
vale anche per quelle espresse nei testi sacri, infatti «to the Irish
philosopher, reason represents the only rule to evaluate the biblical text.
Only if the propositions reported by Scripture are consistent with the criteria
of reason, can we then know and interpret the Word of God» (p. 72). In
conclusione, «Toland denies that the Christian religion can present mysteries»
(p. 75).
Lucci, dopo aver presentato alcuni testi in cui Toland tenta di rintuzzare
gli attacchi a cui è stato soggetto dopo la pubblicazione di Christianity
not Misterious, procede verso l’analisi delle Letters to Serena
(1704). Le Letters rappresentano, da un lato, l’inizio di una
nuova fase del pensiero tolandiano: in esse si avverte infatti l’approdo
ad una nuova concezione filosofica dalle tinte panteiste, concezione nella
quale molta influenza hanno avuto le letture di Bruno e Spinoza; dall’altro
lato, si intensifica l’attenzione verso la storia delle religioni, portando
allo sviluppo di contributi interessanti e originali. Toland illustra come
numerose dottrine ritenute parto originale dell’ebraismo siano in realtà
state acquisite dalla religione egiziana, con la conseguenza che egli «equates
various pagan traditions and Jewish as well as Christian rites and doctrines»
(p. 93). Da tutte le Letters, pur nella loro eterogeneità, permea
una strategia polemica diretta contro la visione dualistica dei ‘fisico-teologi’
di scuola netwoniana. Così, l’attacco al concetto di immortalità
dell’anima –concetto frutto della perversione della religiosità
che si fa superstizione– altro non è che una premessa allo sviluppo
della teoria monistica, argomento delle ultime due lettere, secondo la quale
il movimento sarebbe connaturato alla materia. Scrive Lucci, «for Toland
the wisdom of the ancients gradually deteriorated because of the diffusion
of the theories relevant to the immortality of the individual soul. Such theories
arose due to the perversion of Egyptian doctrines on the distinction between
the soul and the contingent body» (p. 100). Contrariamente a quanto ritenevano
Herbert e Tindal, la perversione dell’originale sapientia veterum in
una religione intrisa di superstizione e irrazionalità, non avviene
a causa di ‘pie frodi’ operate dai sacerdoti ma per una quasi
ineluttabile caratterizzazione dell’uomo: «for Toland the perversion
of religion is an inherent part of the process of development and diffusion
of the original philosophical as well as religious knowledge» (p. 101).
La produzione tolandiana continuerà a porsi in dialogo con le Scritture
anzitutto nelle opere della piena maturità. Se in Hodegus (1710/1720)
si avanza la tesi secondo la quale i miracoli di cui si fa cenno nel Pentateuco
possono essere considerati tali unicamente sulla base di una mancanza di dettagli
–solo ciò, infatti, li renderebbe difficili da concepire secondo
criteri razionali–, in Origines Judaicae (1709) viene sottoposta
a critica la stessa concezione biblica di Dio: «After rejecting the divine
origin of the Mosaic Law, Toland completely denies the supernatural by resorting
to Cicero’s De divinatione and reasserts the Spinozist motif
of the hyperbolic and imaginative style of the Bible; he mantains that the
Scriptures are characterized by a “symbolic presence of divinity”;
hence, in the Pentateuch, the concept of ‘God’ acts as a mere
symbol» (p. 108).
Con il Nazarenus (1718), a sua volta versione edulcorata di uno scritto
ch’ebbe circolazione unicamente privata (p. 115, nota 146), attraverso
la lettura dell’apocrifo Vangelo di Barnaba viene sottoposto a critica
il Cristianesimo ‘paganizzato’. Questa esecrabile perversione,
secondo Toland, è stata avviata da Paolo, il quale, per primeggiare
fra gli altri apostoli –e dunque per una tentazione del tutto umana–
operò una divinizzazione di Gesù; sicché, «the corruption
of ‘true Christianity’ was fostered by pious frauds, aiming at
controlling people’s minds and justifying the power of the priests»
(p. 122).
Toland agisce, secondo le parole di Lucci, con l’irenico intento di
unificare le diverse religioni sotto alcune comuni ed incorrotte radici. Nessuna
di queste credenze, così, può rivendicare a sé una verità
assoluta ma, al contrario, ogni concezione religiosa possiede una dose di
verità e, per questo, può e deve essere tollerata. Su questo
punto, Scripture and Deism risulta particolarmente completo e ricco
di interessanti spunti; pur senza avventurarsi in riflessioni che esulano
dai limiti imposti dall’argomento sottoposto a studio –concentrandosi,
semmai, sugli aspetti immediatamente costruttivi in sede politica del Nazarenus–,
il testo lascia sul campo validi strumenti che consentono al lettore di dedurre
le estreme conseguenze che, una interpretazione della Bibbia, come quella
di Toland, totalmente storicizzata e demistificata, porta naturalmente con
sé.
5. Nel terzo capitolo, si è detto, Lucci pone la sua attenzione dapprima
sulla figura di Anthony Collins e, successivamente, su quella di Mattew Tindal
e degli ultimi deisti. Quanto a Collins, l’analisi di Lucci è
giustamente corposa: l’intera opera del pensatore inglese, infatti,
è giocata sulla interpretazione –radicale e corrosiva–
delle Scritture. Il primo testo preso in considerazione è A Discourse
of Free-Thinking (1713); in esso riecheggia, al fondo, l’assunto
spinoziano della superiorità di una vita dedicata alla ragione rispetto
alla vita di chi, passivamente, dona il proprio assenso a verità che
hanno a solo fondamento l’autorità. In quest’ottica, «freethinking
is not only a right, but also a duty before God» (p. 142) Le verità
della religione riscontrabili nei testi sacri, a maggior ragione, devono essere
sottoposte al vaglio critico dell’intelletto, «Collins dicusses
the supernatural and the concept of revelation itself and stigmatizes their
negative effects» (ibidem).
Prima di porre lo sguardo sull’ultima produzione collinsiana, Lucci
–citando gli studi di Pascal Taranto e David Berman –, parla,
en passant, del presunto ateismo di Collins. Correttamente si pone attenzione,
quale opera centrale per questo tipo di indagine, alla Philosophical Inquiry
concerning Human Liberty (1717) In essa, infatti, paiono celarsi i punti
chiave del determinismo e del materialismo del pensatore inglese. Scrive Lucci:
«Collins’s God was different from Spinoza’s Deus sive natura
as well – and Collins’s philosophy did not present the immanentist,
materialistic and necessitarianist drifts that Spinoza’s philosophical
system could imply; in fact, Collins’s philosophy prefigured a sort
of ‘necessity’ that had an exclusively ‘moral’ value»
(p. 147). Rimane tuttavia aperto il problema interpretativo riguardo l’armonizzazione
dell’affermazione di Collins –che si dichiara sostenitore unicamente
di una ‘necessità morale’– con altre posizioni ben
più radicali assunte dallo stesso nel resto dell’Inquiry.
Attorno agli anni venti del settecento, le riflessioni sull’ermeneutica
biblica sono scosse da un testo di William Whiston –filosofo e matematico
allievo di Isaac Newton e, per un breve periodo, suo successore sulla cattedra
di Cambridge–, An Essay towards restoring the True Text of the Old
Testament (1722). Nelle pagine di Lucci, è ricostruita in maniera
convincente la polemica che, presto, vedrà tornare alla ribalta Anthony
Collins. Quest’ultimo, infatti, con un rinnovato armamentario filosofico,
riuscirà a rovesciare l’aporeticità delle teorie whistoniane,
usandole a proprio favore. Così, il grimaldello teoretico costruito
nelle pagine di Grounds and Reasons of Christian Religion (1724) andrà
a costituire «a corrosive and skeptical attack on the scriptural foundations
of Christianity» (p. 156); tanto da essere, fuor di dubbio, «one
of the most daring Enlightenment works dealing with biblical hermeneutics»
(p. 165).
Con Mattew Tindal, la riflessione deistica inizia la sua parabola discendente.
In Christianity as old as Creation (1730), ritornano, seppur non pienamente
esplicitate, alcune istanze innatiste che erano state messe a lato già
da Locke: infatti, «Tindal’s concept of ‘internal revelation’
is evidence of the late deists’ reversion to innatist doctrines, already
refuted by Locke» (p. 172). Più in generale, la religione naturale
torna a coincidere col Cristianesimo, il quale non è altro che un adattamento
storico della vera religione. Esso, in origine, ha avuto delle caratteristiche
decisamente positive. «Christ’s preaching and the spread of his
doctrines restored the principles of original religion, that is, the religion
of nature», sennonché, «Christianity too was corrupted by
a number of pious frauds, which sparked absurd theological controversies and
also caused bloody wars of religion» (p. 176).
Le filosofie di Thomas Morgan, Thomas Chubb
e Peter Annet, ultimi deisti presi in esame, sono «characterized by a
lack of originality and the revival of the innatist doctrine of natural religion,
which was also combined, in some cases, with Toland’s and Collins’s
advanced theses concerning Scripture and revealed religion». Mancanza
di originalità che porta ad una progressiva fossilizzazione della funzione
critica della ragione, la quale rischia di diventare un mero feticcio privo
della più viva funzione veritativa: «for deists such as Tindal,
Morgan, Chubb and Annet, reason was a sort of ‘absolute’ and unquestionable
concept, as it was founded on –and justified by– a sort of innate
and universal Law of Nature» (p. 205).
6. Rispondendo alla polemica di Edmund Burke, il quale, sul finire del diciottesimo
secolo, si chiedeva chi, a suoi tempi, avesse mai letto un’opera degli
autori appartenenti “all’intera razza che si faceva chiamare dei
‘liberi pensatori’”, Lucci propone di rileggere storicamente
l’importanza che queste radicali riflessioni hanno avuto sullo sviluppo
della società moderna. Tale sottolineatura appare totalmente condivisibile,
è infatti evidente, da un lato, come le teorie dei deisti britannici
costituirono l’humus nel quale i pensatori francesi, pochi anni
più tardi, affondarono le radici, traendone prezioso slancio, e, dall’altro
lato, come le notazioni critiche di un Toland o di un Collins spinsero –se
non generarono– lo sviluppo di una matura ermeneutica biblica: «the
deists’ hermeneutics exercised a significant influence upon Enlightenment
views of revelaed religion and strongly boosted the develompment of Bible
interpretation» (p. 207).
In conclusione, Scripture and Deism appare essere uno studio utile
e ben congegnato. Corredato di un buon supporto bibliografico, affronta in
maniera metodica le riflessioni che i cosiddetti ‘deisti’ hanno
dedicato alle Scritture candidandosi ad essere un imprescindibile strumento
di ricerca negli studi sul deismo.