Diego Lucci, Scripture and Deism. The Biblical Criticism of the Eighteenth-Century
British Deists
Bern/New York, Peter Lang, 2008
[ISBN 978-3-03911-254-8 ; 49,50 Eur]

Jacopo Agnesina
Università del Piemonte Orientale

1. Il termine ‘deismo’, come diversi studiosi hanno messo in luce, porta con sé grandissime difficoltà di definizione. Coniato da Pierre Viret nel sedicesimo secolo, assurge fin dal principio a ruolo di etichetta polemica: sono additati deisti coloro che osano mettere in discussione, abusando della propria libertà di coscienza, le verità religiose istituzionalizzate nell’ortodossia. Seguendo questo schema, deisti sono pensatori che hanno sviluppato teorie fra loro lontanissime, da Herbert of Cherbury a John Toland. Travalicando l’aspetto polemico e definendo meglio il campo di indagine, è però possibile tracciare alcune linee guida che permettano di identificare il nucleo della riflessione deista. Diego Lucci, in Scripture and Deism, compie questa operazione. Attraverso un’attenta analisi delle posizioni dei deisti anglosassoni –da Herbert of Cherbury a Peter Annet– si delineano qui alcune tesi fondamentali che se costituiscono, per certi aspetti, un sostrato comune, per altri rivelano una dinamica evoluzione. In particolare, il luogo centrale dello studio di Lucci investe l’analisi del rapporto –del tutto particolare– che questi pensatori hanno avuto con le Scritture.

2. Il lavoro di Lucci si divide, secondo uno schema cronologico, in tre capitoli. Nel primo, Towards a Definition of Deism, si risale alle radici del deismo in area britannica; partendo dalle teorie di Herbert of Cherbury, attraverso le acquisizioni delle riflessioni di Spinoza, si giunge ad illustrare, con l’emblematica figura di Charles Blount, il progressivo arricchimento dell’armamentario filosofico a disposizione delle teorie deiste. A questo scopo contribuirà anche la reinterpretazione della lockiana way of ideas operata, in primis, da John Toland. Su quest’ultimo si concentra il secondo capitolo, Scripture in John Toland’s Criticism of Revealed Religion. Toland, ritenuto da Lucci «the major deist of the eighteenth century» (p. 65), si rapporta con le Scritture secondo schemi del tutto originali. Da un lato, il testo sacro diviene un mero mezzo di informazione, mezzo analizzabile secondo i criteri della riflessione storica. Dall’altro –e soprattutto, considerando la produzione della maturità–, la religiosità ebraica e cristiana, assieme a quella egiziana, viene a costituire un continuum: quest’unico terreno di evoluzione sfocia, con evidenti intenti opportunistici, nella particolare forma di panteismo propugnato dallo stesso Toland. Il terzo capitolo, British Criticism in Collins, Tindal and the Last Deists, si concentra, prima, su Anthony Collins, altro grande pensatore in grado di fornire dei contributi realmente originali, e successivamente, sul progressivo inaridimento delle teorie deiste. Queste, dopo mezzo secolo di corrosivo sviluppo, vedono nella saturazione e fossilizzazione del concetto di ragione, una perdita di originalità e, se possibile, un ritorno a teorie ormai esauste quali, ad esempio, l’innatismo.

3. Herbert of Cherbury, punto di partenza dell’analisi di Lucci, sviluppa il prototipo della religione razionale: raccogliendo un piccolo novero di precetti morali si propone di superare, mediante la sola ragione, la costrizione del fanatismo. La ragione non soppianta la rivelazione ma le si affianca, così, secondo Lucci, «Herbert’s recourse to reason does not imply withdrawal from the religious sphere, but it is intended to oppose the religious fanaticism and enthusiasm that tormented England and all Western Europe in the first half of the seventeenth century» (p. 25). E’ tuttavia importante notare come il pensiero di Herbert ponga la rivelazione, pur senza annichilirla, in un secondo piano; essa è soltanto una manifestazione particolare di una verità universale. L’aspetto universalistico viene così supplito dalla teoria innatista secondo la quale il nucleo dei già citati precetti morali è a tutti evidente e da tutti raggiungibile mediante il consensus gentium.
L’approdo successivo di questa rotta deista è la filosofia di Charles Blount. Contrariamente a Herbert, Blount contrappone con decisione la ragione alla rivelazione: egli adopera, dunque, la dottrina della religione naturale per screditare la religione rivelata.. La rivelazione perde di ogni consistenza ed anzi, nel farsi foriera di ingiustizie, risulta profondamente irrazionale; tanto che «to Blount, revelation and all particular manifestations of God are not only superfluos and useless, but also harmful to men’s freedom» (p. 37). Ciononostante, Lucci rimarca più volte che per Blount –così come, lo vedremo in seguito, per gli altri deisti– non sia in questione la nozione di un essere supremo; al contrario, una delle caratteristiche che rende ascrivibili ad una unica etichetta quasi tutti questi pensatori, per altri versi così eterogenei, è il loro mantenersi lontani dall’ateismo: «the deists opposed the irrational elements and implications of religion, but they were not atheists» (p. 215). Tuttavia Lucci non ignora l’influenza spinoziana sul pensiero dei deisti. Come numerosi studi recenti hanno evidenziato –basti ricordare il corposissimo contributo di Jonathan Israel, Radical Enlightenment (2001)–, il nucleo teorico del pensiero di Spinoza fu accolto e rielaborato, con esiti tanto originali quanto interessanti, dai pensatori britannici più radicali. In particolare, le teorie che tracciavano una netta distinzione tra religione e teologia, che vedevano nelle Scritture nient’altro che una produzione umana –storicizzata e intrisa di caratteri locali–, furono utilizzate per i propri fini dai deisti. Questi, ricorrendo a argomenti di ascendenza  spinoziana, «tried to curb the interferences of religious beliefs as well as of ecclesiatical authorities in political and social life in order to promote toleration and freedom of thought» (p. 41).

4. L’altro pilastro fondante del deismo si radica, lo si è accennato, nella way of ideas di Locke. In primo luogo, con il rifiuto, seppur non privo di contraddizioni (Two Treatises on Government, I, §86; II, §11), delle idee innate; in secondo luogo, con la preziosa riflessione sul concetto di reason. «Locke committed himself to analyzing the processes of knowledge in order to define the means and subjects to which humans can make reference when discussing any topic» (p. 45): così, la riflessione lockiana crea un campo di discussione in cui le regole appaiono certe e nel quale i termini del discorso acquisiscono una precisa valenza comunicativa. La prospettiva lockiana è però assai presto superata. John Toland, «the prototype of the alienated intellectual for his period: Irish, probably bastard, classless, an enthusiast, often penniless» (p. 66), nel giovanile Christianity not Misterious (1696) porta al dissolvimento del concetto, ammesso da Locke, di above reason: come avrà modo di ripetere anche Collins, tutte le verità che richiedono un assenso above reason sono contrary to reason, sicché per converso si possono discutere unicamente le verità raggiungibili direttamente dalla ragione. Ciò vale anche per quelle espresse nei testi sacri, infatti «to the Irish philosopher, reason represents the only rule to evaluate the biblical text. Only if the propositions reported by Scripture are consistent with the criteria of reason, can we then know and interpret the Word of God» (p. 72). In conclusione, «Toland denies that the Christian religion can present mysteries» (p. 75).
Lucci, dopo aver presentato alcuni testi in cui Toland tenta di rintuzzare gli attacchi a cui è stato soggetto dopo la pubblicazione di Christianity not Misterious, procede verso l’analisi delle Letters to Serena (1704). Le Letters rappresentano, da un lato, l’inizio di una nuova fase del pensiero tolandiano: in esse si avverte infatti l’approdo ad una nuova concezione filosofica dalle tinte panteiste, concezione nella quale molta influenza hanno avuto le letture di Bruno e Spinoza; dall’altro lato, si intensifica l’attenzione verso la storia delle religioni, portando allo sviluppo di contributi interessanti e originali. Toland illustra come numerose dottrine ritenute parto originale dell’ebraismo siano in realtà state acquisite dalla religione egiziana, con la conseguenza che egli «equates various pagan traditions and Jewish as well as Christian rites and doctrines» (p. 93). Da tutte le Letters, pur nella loro eterogeneità, permea una strategia polemica diretta contro la visione dualistica dei ‘fisico-teologi’ di scuola netwoniana. Così, l’attacco al concetto di immortalità dell’anima –concetto frutto della perversione della religiosità che si fa superstizione– altro non è che una premessa allo sviluppo della teoria monistica, argomento delle ultime due lettere, secondo la quale il movimento sarebbe connaturato alla materia. Scrive Lucci, «for Toland the wisdom of the ancients gradually deteriorated because of the diffusion of the theories relevant to the immortality of the individual soul. Such theories arose due to the perversion of Egyptian doctrines on the distinction between the soul and the contingent body» (p. 100). Contrariamente a quanto ritenevano Herbert e Tindal, la perversione dell’originale sapientia veterum in una religione intrisa di superstizione e irrazionalità, non avviene a causa di ‘pie frodi’ operate dai sacerdoti ma per una quasi ineluttabile caratterizzazione dell’uomo: «for Toland the perversion of religion is an inherent part of the process of development and diffusion of the original philosophical as well as religious knowledge» (p. 101).
La produzione tolandiana continuerà a porsi in dialogo con le Scritture anzitutto nelle opere della piena maturità. Se in Hodegus (1710/1720) si avanza la tesi secondo la quale i miracoli di cui si fa cenno nel Pentateuco possono essere considerati tali unicamente sulla base di una mancanza di dettagli –solo ciò, infatti, li renderebbe difficili da concepire secondo criteri razionali–, in Origines Judaicae (1709) viene sottoposta a critica la stessa concezione biblica di Dio: «After rejecting the divine origin of the Mosaic Law, Toland completely denies the supernatural by resorting to Cicero’s De divinatione and reasserts the Spinozist motif of the hyperbolic and imaginative style of the Bible; he mantains that the Scriptures are characterized by a “symbolic presence of divinity”; hence, in the Pentateuch, the concept of ‘God’ acts as a mere symbol» (p. 108).
Con il Nazarenus (1718), a sua volta versione edulcorata di uno scritto ch’ebbe circolazione unicamente privata (p. 115, nota 146), attraverso la lettura dell’apocrifo Vangelo di Barnaba viene sottoposto a critica il Cristianesimo ‘paganizzato’. Questa esecrabile perversione, secondo Toland, è stata avviata da Paolo, il quale, per primeggiare fra gli altri apostoli –e dunque per una tentazione del tutto umana– operò una divinizzazione di Gesù; sicché, «the corruption of ‘true Christianity’ was fostered by pious frauds, aiming at controlling people’s minds and justifying the power of the priests» (p. 122).
Toland agisce, secondo le parole di Lucci, con l’irenico intento di unificare le diverse religioni sotto alcune comuni ed incorrotte radici. Nessuna di queste credenze, così, può rivendicare a sé una verità assoluta ma, al contrario, ogni concezione religiosa possiede una dose di verità e, per questo, può e deve essere tollerata. Su questo punto, Scripture and Deism risulta particolarmente completo e ricco di interessanti spunti; pur senza avventurarsi in riflessioni che esulano dai limiti imposti dall’argomento sottoposto a studio –concentrandosi, semmai, sugli aspetti immediatamente costruttivi in sede politica del Nazarenus–, il testo lascia sul campo validi strumenti che consentono al lettore di dedurre le estreme conseguenze che, una interpretazione della Bibbia, come quella di Toland, totalmente storicizzata e demistificata, porta naturalmente con sé.

5. Nel terzo capitolo, si è detto, Lucci pone la sua attenzione dapprima sulla figura di Anthony Collins e, successivamente, su quella di Mattew Tindal e degli ultimi deisti. Quanto a Collins, l’analisi di Lucci è giustamente corposa: l’intera opera del pensatore inglese, infatti, è giocata sulla interpretazione –radicale e corrosiva– delle Scritture. Il primo testo preso in considerazione è A Discourse of Free-Thinking (1713); in esso riecheggia, al fondo, l’assunto spinoziano della superiorità di una vita dedicata alla ragione rispetto alla vita di chi, passivamente, dona il proprio assenso a verità che hanno a solo fondamento l’autorità. In quest’ottica, «freethinking is not only a right, but also a duty before God» (p. 142) Le verità della religione riscontrabili nei testi sacri, a maggior ragione, devono essere sottoposte al vaglio critico dell’intelletto, «Collins dicusses the supernatural and the concept of revelation itself and stigmatizes their negative effects» (ibidem).
Prima di porre lo sguardo sull’ultima produzione collinsiana, Lucci –citando gli studi di Pascal Taranto e David Berman –, parla, en passant, del presunto ateismo di Collins. Correttamente si pone attenzione, quale opera centrale per questo tipo di indagine, alla Philosophical Inquiry concerning Human Liberty (1717) In essa, infatti, paiono celarsi i punti chiave del determinismo e del materialismo del pensatore inglese. Scrive Lucci: «Collins’s God was different from Spinoza’s Deus sive natura as well – and Collins’s philosophy did not present the immanentist, materialistic and necessitarianist drifts that Spinoza’s philosophical system could imply; in fact, Collins’s philosophy prefigured a sort of ‘necessity’ that had an exclusively ‘moral’ value» (p. 147). Rimane tuttavia aperto il problema interpretativo riguardo l’armonizzazione dell’affermazione di Collins –che si dichiara sostenitore unicamente di una ‘necessità morale’– con altre posizioni  ben più radicali assunte dallo stesso nel resto dell’Inquiry.
Attorno agli anni venti del settecento, le riflessioni sull’ermeneutica biblica sono scosse da un testo di William Whiston –filosofo e matematico allievo di Isaac Newton e, per un breve periodo, suo successore sulla cattedra di Cambridge–, An Essay towards restoring the True Text of the Old Testament (1722). Nelle pagine di Lucci, è ricostruita in maniera convincente la polemica che, presto, vedrà tornare alla ribalta Anthony Collins. Quest’ultimo, infatti, con un rinnovato armamentario filosofico, riuscirà a rovesciare l’aporeticità delle teorie whistoniane, usandole a proprio favore. Così, il grimaldello teoretico costruito nelle pagine di Grounds and Reasons of Christian Religion (1724) andrà a costituire «a corrosive and skeptical attack on the scriptural foundations of Christianity» (p. 156); tanto da essere, fuor di dubbio, «one of the most daring Enlightenment works dealing with biblical hermeneutics» (p. 165).
Con Mattew Tindal, la riflessione deistica inizia la sua parabola discendente. In Christianity as old as Creation (1730), ritornano, seppur non pienamente esplicitate, alcune istanze innatiste che erano state messe a lato già da Locke: infatti, «Tindal’s concept of ‘internal revelation’ is evidence of the late deists’ reversion to innatist doctrines, already refuted by Locke» (p. 172). Più in generale, la religione naturale torna a coincidere col Cristianesimo, il quale non è altro che un adattamento storico della vera religione. Esso, in origine, ha avuto delle caratteristiche decisamente positive. «Christ’s preaching and the spread of his doctrines restored the principles of original religion, that is, the religion of nature», sennonché, «Christianity too was corrupted by a number of pious frauds, which sparked absurd theological controversies and also caused bloody wars of religion» (p. 176).
Le filosofie di Thomas Morgan, Thomas Chubb e Peter Annet, ultimi deisti presi in esame, sono «characterized by a lack of originality and the revival of the innatist doctrine of natural religion, which was also combined, in some cases, with Toland’s and Collins’s advanced theses concerning Scripture and revealed religion». Mancanza di originalità che porta ad una progressiva fossilizzazione della funzione critica della ragione, la quale rischia di diventare un mero feticcio privo della più viva funzione veritativa: «for deists such as Tindal, Morgan, Chubb and Annet, reason was a sort of ‘absolute’ and unquestionable concept, as it was founded on –and justified by– a sort of innate and universal Law of Nature» (p. 205).

6. Rispondendo alla polemica di Edmund Burke, il quale, sul finire del diciottesimo secolo, si chiedeva chi, a suoi tempi, avesse mai letto un’opera degli autori appartenenti “all’intera razza che si faceva chiamare dei ‘liberi pensatori’”, Lucci propone di rileggere storicamente l’importanza che queste radicali riflessioni hanno avuto sullo sviluppo della società moderna. Tale sottolineatura appare totalmente condivisibile, è infatti evidente, da un lato, come le teorie dei deisti britannici costituirono l’humus nel quale i pensatori francesi, pochi anni più tardi, affondarono le radici, traendone prezioso slancio, e, dall’altro lato, come le notazioni critiche di un Toland o di un Collins spinsero –se non generarono– lo sviluppo di una matura ermeneutica biblica: «the deists’ hermeneutics exercised a significant influence upon Enlightenment views of revelaed religion and strongly boosted the develompment of Bible interpretation» (p. 207).
In conclusione, Scripture and Deism appare essere uno studio utile e ben congegnato. Corredato di un buon supporto bibliografico, affronta in maniera metodica le riflessioni che i cosiddetti ‘deisti’ hanno dedicato alle Scritture candidandosi ad essere un imprescindibile strumento di ricerca negli studi sul deismo.