English abstract
This article deals with the issue of the emergence of the “public” and the “public opinion” in the eighteen-century’s Italian political discourse. The emergence of these categories is connected with some structural transformations in the power’s ideology, in particular with the crisis of the traditional doctrine of the “arcana imperii”. The aim of this article is to underline the divergence between this discursive reality and the public sphere as a political and cultural reality in the eighteen-century’s Italy.
1. Cos’è il “pubblico” e quali sono
i suoi usi in ambito storiografico? Negli ultimi decenni questo termine polisemico
ha dato luogo talvolta ad interpretazioni radicalmente divergenti. Da un lato
si tende a considerare il pubblico come un fatto, la cui realtà si
impone, o quasi, in virtù della sua evidenza sociologica. È
nota, a questo riguardo, l’importanza determinante che ha esercitato
ed ancora esercita il giudizio di Jürgen Habermas che nel suo libro del
1962 identifica il “pubblico” con il “pubblico dei lettori”,
cioè “con i privati che si raccolgono in pubblico [e] discutono
anche pubblicamente su ciò che hanno letto”[1].
La ricezione relativamente tarda di questa tesi in ambito storiografico non
ha impedito un intenso lavoro di rilettura di alcune delle principali categorie
della storia culturale. Dalla fine degli anni Ottanta un numero significativo
di ricerche ha significativamente contribuito a dare consistenza a questo
pubblico virtuale. Gli studi di storia del consumo hanno scomposto il pubblico
in una moltitudine di attori confrontati ad una serie di oggetti di appropriazione
culturale, quali gli spettacoli, gli oggetti d’arte, i libri a stampa[2].
L’attenzione specifica rivolta all’universo del libro e della
lettura, la ricostruzione dei gesti e delle opinioni di lettori per lo più
anonimi, ha profondamente modificato la percezione storiografica del “pubblico”
e ha permesso di individuare, oltre il carattere generalizzante di questa
categoria, una pluralità di situazioni, di dinamiche, di casi individuali[3].
Tuttavia invece di favorire una critica del paradigma habermasiano, gli studi
di storia del libro sul XVIII secolo hanno, con rare eccezioni, contribuito
ad una definitiva legittimazione storiografica delle tesi del filosofo tedesco[4].
In altri termini, la scoperta del lettore “reale” ha paradossalmente
consolidato l’immagine ideale del pubblico come comunità di privati
che fanno un “pubblico uso della propria ragione”[5],
secondo il postulato implicito che fa di ogni lettore il titolare potenziale
di un’opinione e di ogni opinione un’opinione potenzialmente razionale
e critica.
D’altro lato, in parte come conseguenza, in parte come reazione a questo
filone di studi, è emersa negli ultimi anni la tendenza degli storici
a considerare il “pubblico” come un oggetto convenzionale o come
un evento testuale. Le sfumature sono però a questo riguardo significative.
Per esempio alcuni studi recenti sulla sociabilità e la mondanità,
mostrando come il “pubblico” rifletta una realtà fatta
di pratiche sociali articolate e codificate, hanno sottolineato che solo un
tentativo costante di contestualizzazione in un determinato discorso letterario
e politico può evitare il pericolo dell’anacronismo o della reificazione
cui questo termine è sottoposto[6].
Altre ricerche ancora, pur ammettendo l’esistenza di fatti reali o extratestuali,
hanno preferito considerare il “pubblico” come un fatto essenzialmente
linguistico, partendo dal presupposto, condiviso da molti storici del linguaggio,
che è preferibile conoscere le condizioni linguistiche che definiscono
la realtà per poterla poi meglio comprendere[7].
Al di là dei rischi evidenti di una deriva verso posizioni radicalmente
Linguistic Turn, questa prospettiva ha contribuito in modo significativo
a liberare l’oggetto “pubblico” da un’ingannevole
trasparenza sociologica: in tal senso “pubblico” non è
il punto di arrivo di un ipotetico e teleologico processo di emancipazione
della lettura e del lettore, ma piuttosto un’occorrenza problematica
che chiama in causa delle strategie di legittimazione del discorso pubblico
che è necessario, caso per caso, ricostruire. Approfondendo questa
prospettiva[8], è possibile
affermare che l’occorrenza di “pubblico” nel discorso politico
settecentesco può essere considerata probabilmente come un indizio
o come un fattore di un cambiamento profondo che investe la nozione di sovranità,
la rappresentazione del potere, le forme della comunicazione politica. In
effetti, come è stato notato per l’area francese, “pubblico”
sembra imporsi in virtù del prestigio e del potenziale di persuasione
che gli è attribuito e che ne fanno un interlocutore fittizio più
efficace di termini simili e concorrenti quali “Stato”, “popolo”,
“sudditi”[9].
2. Non esiste nessun studio specifico sulle circostanze che
hanno condotto all’emergere di questo nuovo soggetto nel discorso politico
italiano[10]. Non è mia
intenzione qui colmare questa lacuna, ma più semplicemente formulare
un’ipotesi e seguire alcune piste di indagine. L’ipotesi è
che la comparsa del “pubblico” sia da inscriversi nella logica
di comunicazione politica propria della ratio status e degli arcana
imperii, una logica, dunque, che non è quella del superamento del
segreto e dell’avvento dello spazio pubblico habermasianamente inteso,
ma di teatralizzazione del segreto e di costruzione di un interlocutore fittizio
esterno alle istanze del pubblico potere. È in tal senso, precisamente,
che la nozione di pubblico si afferma nel corso degli anni Cinquanta del Settecento
come uno dei principali dispositivi di legittimazione e di censura presenti
nel discorso politico italiano.
Per confortare questa ipotesi vorrei per cominciare soffermarmi sul testo
che a buon diritto può essere considerato come all’origine di
un uso politico e “normativo”[11]
di “pubblico” nell’area linguistica italiana: il Della
pubblica felicità (1749) di Lodovico Antonio Muratori[12].
Curiosamente questo testo, che ha ampiamente attirato l’attenzione degli
storici delle idee, non ha mai fatto l’oggetto di uno studio dal punto
di vista del lessico politico. Muratori concepisce questa opera in continuità
con la tradizione plurisecolare di trattatistica sulla formazione del principe
e non caso il testo figura tra le letture preferite dell’imperatrice
Maria Teresa e del marito Francesco Stefano[13].
Occorre sottolineare che il Della pubblica felicità non è
veicolo di un messaggio particolarmente originale. Visto nell’ottica
della corte di Vienna e dei funzionari imperiali impiegati nelle corti italiane,
le idee professate da Muratori si inseriscono quasi naturalmente in un filone
tradizionale di letteratura politica a carattere pragmatico dedicato a definire
i doveri del sovrano e i requisiti del “buon governo” (gutes
Regiment)[14]. La nozione
di “servizio pubblico” – vera e propria etica articolata
intorno ad un catalogo delle virtù del “buon funzionario”,
tra cui figurano la sincerità, la discrezione, la lealtà nei
confronti del principe, la dedizione al principio del “bene pubblico”
– è costitutiva di questa cultura politica. In modo coerente
con questa etica, il principe, benché difensore delle prerogative assolute
della sovranità, può definirsi come “il primo servitore
dello Stato”[15]. Quando
Muratori spiega che la “pubblica felicità” consiste nella
“pace e tranquillità che un saggio ed amorevol principe, o ministero,
si studia di far godere, per quanto può, al popolo suo, con prevenire
ed allontanare i disordini temuti e rimediare ai già succeduti"[16],
non dice quindi niente di particolarmente originale. Tuttavia, Muratori inscrive
le sue proposte in una prospettiva nuova, storicistica e teleologica, che
prevede il progresso (miglioramento) materiale e spirituale della società
civile, ovvero l’avvento della “felicità pubblica”
sotto l’egida dei principi illuminati[17].
Il Della pubblica felicità non è un testo teorico ma
uno strumento pensato in rapporto diretto con la realtà italiana, con
lo scopo di rendere pensabile e dunque possibile il cambiamento politico[18].
Di conseguenza, la nozione di pubblico bene – che è in origine
una dottrina a fondamento etico e carattere normativo ad uso dei servitori
dello Stato – è presentata da Muratori come una vera e propria
ideologia rivolta a sostenere o a sconfessare determinate concezioni dello
Stato e della società. Come ogni ideologia, il “pubblico
bene” implica un dispositivo retorico, cioè, innanzi tutto, la
presenza di un certo numero di parole chiave capaci di favorire la presa di
posizione e di far credere[19].
Per quanto in apparenza sinonimi, le parole “popolo”, sudditi”,
“pubblico”, esprimono nell’opera di Muratori, modalità
diverse del rapporto di subordinazione. I sudditi sono i titolari degli obblighi
e dei diritti nei confronti del sovrano. Muratori allude alla natura contrattuale
del legame politico alla “tacita convenzione” che si stabilisce
tra il principe e i sudditi[20];
tuttavia, lungi dal risolversi in un’apologia dei diritti individuali
contro lo strapotere dello Stato[21],
il Della pubblica felicità privilegia un modello di subordinazione
politica di ispirazione veterotestamentaria, fondato sul patto tra Dio e il
popolo d’Israele[22]. In
questo senso “popolo” è sempre per Muratori sinonimo di
totalità organica, naturalmente incline al bene, alla produttività
e alla sottomissione, anche nei confronti dei principi ingiusti, il cui operato
può essere criticato “in segreto, ed anche in pubblico”,
pur essendo il loro governo “un gastigo di Dio”[23].
Se “popolo” esprime senza ambiguità il fondamento immutabile
del patto politico, il sostantivo “pubblico” è impiegato
da Muratori in luogo di “popolo” o di “sudditi”, ma
in un senso meno facilmente definibile[24].
In effetti “pubblico” non ha alcuna consistenza costituzionale,
e la sua consistenza politica è direttamente connessa ad un cambiamento
di prospettiva, cioè al fatto di prendere in considerazione e di sottolineare
la vocazione “pubblica” della politica del principe. Muratori
definisce così come “pubblico” il popolo o i sudditi in
quanto spettatori delle azioni del sovrano e destinatari del suo messaggio.
Il termine “pubblico” è impiegato in modo molto misurato
da Muratori e quasi sempre in espressioni come “gli interessi del pubblico”,
“in danno del pubblico”, “le malattie d’un pubblico”,
che mettono in questione la politica poco rispettosa del “bene pubblico”
condotta dai ministri del principe. Due esempi permettono di rendere più
chiaro il senso di questa occorrenza. Nel primo Muratori illustra gli ostacoli
che si oppongono alla realizzazione del “bene pubblico” nei regimi
monarchici e repubblicani:
Nelle repubbliche ben regolate facile è che si truovino persone piene di un vero zelo pel pubblico bene, ancorché talvolta vi si contino di coloro che il proprio interesse unicamente fanno negli interessi del pubblico. Può anche darsi, e con più facilità, che ne' governi delle monarchie talun de' ministri pensi competentemente ai vantaggi del principe, assaissimo ai propri, nulla a quei del popolo.[25].
Nel secondo Muratori tratta della scelta del principale consigliere del principe cogliendo l’occasione per mettere in scena una specie di antiritratto del ministro ideale:
Osservi sopra tutto se in costoro abbia buone radici la religione e la morale cristiana: altrimenti non potrà mai fidarsi il principe di chi non teme Iddio, né ha altra legge che quella del suo interesse e volere, perciò capace d'ogni furfanteria che si possa nascondere al guardo degli uomini, o di nuocere almeno al pubblico per farsene merito col disattento principe. Datemi un di costoro che sia deputato all'economia o sia alla Camera, e ad altri impieghi delle rendite e spese principesche. Maraviglia sarà se costui non inventerà nuove angherie in danno del pubblico e non ruberà, potendo, al suo padrone medesimo[26].
3. Si è qui confrontati ad una struttura argomentativa ricorrente nel Della pubblica felicità. La nozione di “pubblico” esprime pienamente il proprio significato, potenzialmente polemico, alla luce di una duplice dicotomia: pubblico/”particolare” e pubblico/occulto. “Pubblico” è qui veicolo di un insieme di valori, di giudizi e di pregiudizi che si oppongono ad un paradigma politico che non è mai esplicitamente nominato ma solo descritto in termini parodistici, attraverso una serie di stereotipi peggiorativi. Il paradigma in questione è, beninteso, quello della ratio status che è l’oggetto di una doppia definitiva condanna, in primo luogo perché rivolto alla soddisfazione degli interessi “particolari” dei ministri e non alla realizzazione del benessere dei sudditi. Muratori liquida così sbrigativamente tutta la tradizione politica anteriore che pure, specie nelle versioni più tarde, si era dimostrata attenta alla dimensione sociale e materiale del consenso[27]. Muratori non esita neppure ad impiegare il termine negativamente connotato di “politico” per definire nel suo insieme la categoria dei professionisti della politica, adepti di Tacito e (sottinteso) di Machiavelli[28]. La ratio status è inoltre respinta perché fondata su un sapere di governo di tipo occulto ("inclinazione alle cabbale"), inaccessibile al pubblico. Il rifiuto e la degradazione degli arcana imperii al ruolo di semplice spauracchio politico è il gesto necessario e irrevocabile che fa dell’opera di Muratori uno dei testi fondatori di un nuovo discorso e credo politico, fondato sull’esaltazione della politica-verità[29] e alimentato dal culto della trasparenza e della pubblicità del potere. Una delle conseguenze forse più spettacolari di questa nascente ortodossia è il rapporto inedito che viene stabilendosi tra “pubblico”, “pubblicità” e “pubblicazione”. Muratori esalta il ruolo delle biblioteche pubbliche, specie quelle che mettono in circolazione sapere utile:
Noi miriamo le biblioteche: oh quanta copia di libri! Ma chi tanti volumi chiama all'esame e sa bilanciarne il merito [...]?. E forse che non gioverebbe una sì fatta crisi? Noi pur troppo consumiam troppo di tempo in istudiare e imparar cose che nulla son per giovare a noi o ad altri: fors'anche ci possono nuocere[30].
In altri termini, non tutto ciò che è pubblicato merita di essere reso pubblico, né tutto ciò che è scritto merita di essere pubblicato. La pubblicità del sapere e la priorità attribuita da Muratori al sapere utile implicano un cambiamento delle modalità che rendono un testo pubblicabile, poiché l’autorità impersonale ed extra-istituzionale del pubblico tende a sostituire quella delle autorità tradizionalmente deputate alla censura dei testi. Il testo di Muratori è dunque indicativo di un mutamento in atto delle pratiche censorie nel Settecento italiano[31]. Muratori, infatti, contribuisce a relegare la censura istituzionale dei libri nell’ambito delle pratiche obsolete tipiche di uno Stato che subordina gli interessi del pubblico alla logica di conservazione del potere:
E' in oltre da augurare al pubblico che non sia da qualche indiscreto ministro impedito agli onesti e zelanti scrittori il produrre ciò che può ridondare in pubblico bene, purch'essi conservino il dovuto rispetto alla religione e al principato[32].
Ritornerò sul rapporto tra pubblico e censura. Vorrei per ora sottolineare che ciò che fa dell’occorrenza del “pubblico” un avvenimento importante da un punto di vista del lessico politico è soprattutto la sua capacità a polarizzare il discorso politico contribuendo, al tempo stesso, a modificare le condizioni di accesso di un discorso allo spazio pubblico. L’uso di “pubblico”, infatti, non è mai neutro, ma implica quasi sempre una bipartizione dello spazio del dicibile: “pubblico” è un termine antagonistico che serve a riunire alleati potenziali e ad esporre al pubblico biasimo di un giudizio collettivo e teatralizzato gli avversari veri o fittizi del grande progetto di riforma dello Stato e della società. “Pubblico” è dunque anche un termine “normativo”, nella misura in cui il suo impiego serve a legittimare o a discreditare delle affermazioni: difficilmente una qualsivoglia proposta politica che intenda raggiungere i suoi fini potrà, da ora in poi, evitare di misurarsi con questo nuovo, invadente attore del discorso politico.
4. Una dimostrazione dell’efficacia retorica di questo
nuovo paradigma discorsivo - nell’ambito di un sistema assolutistico
e in un contesto di lotta politica – è offerto dalla Relazione
dello stato in cui si trova l'opera del censimento universale nel ducato di
Milano, pubblicato da Pompeo Neri nel 1750[33].
Questo brillante giurista formatosi, come la maggior parte dei ministri della
Reggenza lorenese, nell’ateneo pisano, nonché storico adepto
del “buon gusto” muratoriano, Pompeo Neri è stato uno dei
più giovani ministri della Reggenza lorenese[34].
Nel 1744 il granduca Francesco Stefano gli confida la missione di lavorare
alla riforma generale delle leggi dello Stato toscano: un progetto di ampio
respiro, ispirato dalle proposte di Muratori nei Difetti della giurisprudenza.
Come noto, a causa di una serie di divergenze personali e ideologiche che
lo oppongono al capo dell’esecutivo Emmanuel de Richecourt, Neri decide
nel 1749 di abbandonare Firenze e di accettare l’invito di Gian Luca
Pallavicini ad assumere la direzione della riforma del sistema fiscale della
Lombardia austriaca[35]. Questa
impresa formidabile, iniziata nel 1718 sotto l’imperatore Carlo VI,
si fonda sulla realizzazione del catasto, inteso come nuovo strumento di determinazione
delle ricchezze e di eliminazione delle ineguaglianze tra i contribuenti[36].
A causa delle guerre ininterrotte e dell’opposizione tenace dell’aristocrazia
terriera, il progetto di catasto non è mai stato condotto a termine.
Il significato politico e le ricadute “costituzionali” del catasto
emergono con chiarezza nel progetto riformatore messo in atto in Lombardia
sotto il regno di Maria Teresa. Come è stato notato, la sua realizzazione
è indissociabile da una concezione del legame politico che esalta la
partecipazione di tutti i membri della comunità politica, in quanto
cittadini, al sostegno finanziario dello Stato attraverso la cessione di una
parte del reddito, che diviene così disponibile per il bene pubblico[37].
Un anno dopo la nomina al vertice della commissione sul catasto, Pompeo Neri
decide di redigere e di pubblicare, sotto il manto dell’anonimato, una
relazione dettagliata che riassume e chiarisce gli obiettivi della riforma,
i mezzi messi in atto nonché gli ostacoli che si frappongono alla sua
realizzazione. Così giustifica il suo gesto in una densa introduzione:
Ho risoluto, nel dovere, in ubbidienza degli ordini ricevuti, informare la Maestà Sua dello stato in cui si trova attualmente l'opera del nuovo censimento in questo mese di maggio 1750, di fare una Relazione che riassuma dai suoi principi questa importante materia [...][38].
5. Tutt’altro che scontato, l’atto di pubblicare è quindi il risultato della scelta di rendere pubblico delle materie che di norma riguardano il sovrano e la cerchia dei suoi collaboratori. Pubblicare arcana imperii non è in sé, a quest’epoca, un fatto nuovo. Un’ampia letteratura basata sul segreto delle corti italiane si è sviluppata nel corso del Seicento, alimentata spesso da controverse figure di spie e di poligrafi, come Vittorio Siri e Gregorio Leti[39]. D’altro canto, la circolazione manoscritta di memorie di uomini di ministri, considerate come repertori di regole e di raccomandazioni sul cerimoniale, è una pratica piuttosto diffusa negli Stati italiani agli inizi del Settecento[40]. La novità della posizione del Neri, rispetto alle pratiche della comunicazione politica proprie dello Stato assoluto, consiste invece nella volontà di schiudere la scena del dibattito politico e di convocarvi un attore non istituzionale quale il “pubblico” dei contribuenti che viene in tal modo affiancandosi al sovrano come altro interlocutore legittimo del ministro. La presenza di questo attore estraneo al segreto di Stato, estraneo, più generalmente, al gioco politico, muta profondamente le regole e le strategie della comunicazione e della lotta politica possibili nello spazio assolutista. Da ora in poi due strategie si alternano e, talvolta, si sovrappongono: in un primo caso, i ministri o i funzionari rivolgono al sovrano delle memorie manoscritte che esprimono rivendicazioni o illustrano progetti a titolo personale o, più frequentemente, come portavoce dei “partiti” e delle clientele di cui sono l’espressione. In un secondo caso (ed è il caso di Neri) la pubblicazione del segreto è un’abile strategia retorica che permette di inscenare la sconfitta “pubblica” dell’avversario politico, poiché quest’ultimo si trova nella scomoda condizione di impersonare l’insieme dei valori o piuttosto degli stereotipi negativi che divengono il tratto dominante della cultura degli arcana imperii. La strategia comunicativa inedita adottata da Neri è in parte il risultato dell’isolamento e dell’ostilità, manifesta o larvata, di cui si ritiene vittima dopo il suo arrivo nella capitale lombarda. In una memoria del 1749, Neri descrive con precisione questo contesto sfavorevole e sottolinea che l’opposizione al progetto di censimento e di catasto non si identifica semplicemente, come si potrebbe credere, con la volontà conservatrice dei proprietari terrieri:
Ma parlando ancora delle persone oneste e sensate, bisogna confessare che tutte in materia di censimento hanno dei pregiudizi, che paiono in questo clima ingeniti, per una affezione e tenerezza che si vede in tutti predominare per gl'usi, o buoni o cattivi, del paese, che non lascia loro vedere alle volte, né sentire il male che a loro medesimi ne deriva[41].
Dissipare i pregiudizi, smentire le opinioni ed educare le persone suscettibili di buona fede e di buon senso: questo è in sostanza il fine che si propone il progetto di pubblicare materie di arcana imperii. Per questa ragione Neri concepisce la Relazione come un’opera di pedagogia politica che implica la diffusione di sapere utile e dunque la traduzione, in un linguaggio universalmente comprensibile, dell’idioma criptico della scienza di governo:
Poiché la scienza dell'Imposta e reparto dei carichi in questo paese è per se stessa oscurissima e difficile a comprendersi per la sua difformità e per essere anco tenuta in una specie di mistero, involta in un formulario lontanissimo dalla chiarezza, come una scienza arcana, talché sono ben rare, anco fra i paesani più culti e più studiosi quelle persone che hanno del governo economico di questo stato le notizie sincere e precise; notizie che in niun luogo pubblico si trovano riunite, ma che a gran fatica conviene spezzatamente acquistare e combinare con aiuti superiori allo studio, all'industria, all'autorità di qualunque privato[42].
6. La polemica muratoriana contro gli arcana imperii
trova in queste pagine un’applicazione essenziale: nella prospettiva
politica di Pompeo Neri, pubblicare equivale ad offrire al pubblico dei contribuenti
e dei lettori la chiave necessaria per decifrare la “scienza arcana”
dello Stato. Rispetto ai metodi e alle strategie di comunicazione del passato,
il cambiamento è radicale. Ricordando i lavori della precedente commissione
sul catasto Neri ricorda che questa “credé opportuno di dover
tenere ciò ch’ella pensava per il pubblico bene in un estremo
segreto, perché le sue idee non fussero traversate. E tal segreto appunto
servì a confermare sempre più gli errori popolari che in materia
di censimento si andavano spargendo”[43].
In altri termini, Neri considera che è dovere dello Stato divulgare
il suo segreto in luoghi idonei e accessibili al pubblico. La decisione di
pubblicare il segreto rende possibile un processo generale di pubblicizzazione
– sorretto dalla volontà del principe – caratterizzato
dalla progressiva scomparsa del segreto di Stato e della letteratura che lo
accompagna. Processo che pone fine, in modo utopistico, alla diglossia costitutiva
dello spazio discorsivo assolutistico: niente, infatti, può impedire
di credere che in un futuro prossimo la lingua di governo, questa lingua che
- secondo l’immagine guicciardiniana sicuramente nota al Neri –
si parla nel “palazzo” e che resta incomprensibile alla “piazza”[44],
si avvicinerà sempre più al linguaggio del pubblico composto
dalle “persone savie e oneste di cui abbonda questo paese”.
Questo progetto di pubblicizzazione del sapere di governo procede contemporaneamente
ad un cambiamento dei rapporti di forza tra i diversi attori dello spazio
politico assolutista. Confrontandosi con un ambiente maldisposto, privo di
qualsiasi sostegno eccetto quello del sovrano, Neri è paradossalmente
libero di concepire questi rapporti conflittuali sotto una luce diversa, in
modo più impersonale, prescindendo dalla ricerca della mediazione e
del compromesso con i corpi, i ceti, le comunità che formano lo Stato.
La pubblicazione della Relazione è quindi inseparabile dalla
ricerca di un tipo nuovo di consenso, conforme alle esigenze di una politica
di riforme, un consenso suscettibile di modificare in profondità non
solo gli equilibri politici e sociali dello Stato, ma anche, e soprattutto,
di sconvolgere abitudini ed opinioni inveterate e dominanti.
Sotto questo aspetto, l’analisi che Neri consacra al popolo è
particolarmente significativa:
Il popolo intanto resta confuso, e abbandonato nella sua naturale oscurità, sicché soffrendo il danno del presente sistema, senza conoscere le cause di questo danno e senza conoscere in conseguenza la salute dei nuovi regolamenti, resta titubante, e sospeso, in attenzione di una novità, che intanto gli fa sentire il dolore di una spesa di più, sicché diviene pronto a sposare tutte le massime, che si divulgano contro questa novità, e non avendo chi l'illumini sopra il suo vero interesse, si trova esposto a lasciarsi sedurre, e a renunziare in grazia, e comodo di qualche suo doloso amministratore al più segnalato benefizio, che questo Stato abbia mai ottenuto dalla provida mente dei suoi sovrani. Da ciò procede, che tante persone savie, e oneste, di cui abbonda questo paese, sono con pienezza di buona fede ripiene, in materia di censimento, di supposti erronei, e di pregiudizi derivanti da massime sentite dire, o vanamente declamate da qualche avvocato[45].
7. Cos’è dunque il popolo, quale la sua consistenza
politica e sociale? In una ricerca sull’origine e lo statuto della nobiltà
toscana, condotta qualche anno prima per conto del governo, Neri è
probabilmente il primo storico moderno ad affermare che “popolo”
è un termine convenzionale che nasconde una realtà composita:
ciò che conferisce un senso, nel corso dei secoli, a questo principio
unitario è la lotta contro i privilegi della nobiltà feudale
nonché l’aver conservato la memoria dei “veri interessi
della patria”[46]. Dopo
la fine della Repubblica, il popolo resta malgrado tutto un “corpo civile”,
che ritrova nello Stato assoluto riformatore, in quanto coalizione di individui
liberi, titolari di doveri e di diritti politici, la propria unità
e la propria vocazione “costituzionale”[47].
Tuttavia, nella Relazione del 1750 questa riflessione è del
tutto assente. Neri si interessa alla dimensione cognitiva del popolo, in
quanto soggetto unitario ricettacolo di opinioni e, in questa prospettiva,
la sola distinzione politica e sociale di cui tiene conto è quella,
machiavelliana, tra “i pochi” e “i molti”[48].
In modo analogo a Machiavelli, per Neri il popolo costituisce la componente
“doxatica” del corpo politico, quella che estranea per natura
alla novità, vittima consenziente delle proprie opinioni erronee, e
di quelle che circolano in modo fraudolento nello spazio pubblico. Il popolo,
per la sua natura credula è l’obiettivo privilegiato delle insidie
di qualche “doloso amministratore” ma il popolo è egualmente
suscettibile di verità a condizione che vi sia qualcuno che “l'illumini
sopra il suo vero interesse”[49].
La Relazione ricorda qui un noto luogo dei Discorsi sopra la prima
Deca di Tito Livio (I, 4): secondo Machiavelli, “li popoli [...] benché
siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano, quando
da uomo degno di fede è detto loro il vero”[50].
È impossibile sapere se questa reminiscenza sia fortuita oppure si
tratti di un’allusione sufficientemente intelligibile per il lettore
avvertito. Probabilmente Pompeo Neri non è estraneo alla rilettura
cui Machiavelli è oggetto nell’ambiente intellettuale fiorentino
negli anni trenta e quaranta del Settecento, rilettura erudita e in chiave
repubblicana[51]. D’altra
parte è innegabile che, nel contesto specifico delle riforme, la lettura
di Machiavelli possa aver ritrovato pertinenza ed efficacia. In ogni caso,
una lettura della Relazione alla luce della lezione di Machiavelli,
può permettere una migliore comprensione della soluzione che Neri apporta
alla questione centrale del consenso popolare all’opera di riforma.
La reazione contro la riforma del sistema di prelevamento fiscale nella Lombardia
austriaca, cui Neri accenna nella Relazione, è paragonabile
al caso ipotetico del principe che si arrischia ad introdurre nello Stato
dei “nuovi ordini”:
E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza[52].
8. Similmente al principe nuovo, il principe riformatore si
trova confrontato ad una composita maggioranza di oppositori che sono avversi
alla novità sia per difendere i propri privilegi, sia per ignoranza,
per quella disposizione naturale che impedisce al popolo di cogliere la realtà
oltre i dati dell’esperienza immediata. Per quanto in apparenza calzante,
questo confronto mette presto in luce una divergenza fondamentale: esposto
al rischio di un consenso debole e di un probabile fallimento, il principe
nuovo di Machiavelli non esita a governare grazie al sostegno cieco della
moltitudine, perché questo sostegno è infinitamente più
affidabile di quello che gli può offrire la minoranza di individui
avveduti ed esperti che conoscono gli arcani del governo[53].
Al contrario, il principe riformatore di Pompeo Neri si trova nella necessità
di contrarre un’alleanza con questa minoranza di “persone savie
e oneste”, che costituisce la melior pars del popolo. Il progetto
riformatore e il discorso che lo sostiene si fonda così su un’esigua
base di consenso, poiché solo questa minoranza illuminata sembra capace
di affrancarsi dai “pregiudizi innati” che si frappongono ad ogni
novità e forse, in un secondo tempo, di convincere la moltitudine dei
benefici della riforma.
Il rapporto di forza sfavorevole su cui si fonda il progetto riformatore,
giustifica quindi il ruolo strategico della pubblicazione di testi che preparano,
spiegano, sostengono le scelte del governo. Abbiamo già parlato dell’obiettivo
esplicito della Relazione di mettere in circolazione materie di arcana
imperii. L’obiettivo implicito di questo progetto è duplice.
Si tratta, in primo luogo, di divulgare un linguaggio politico nuovo che fa
riferimento ad un sapere tecnico – nella fattispecie la scienza delle
finanze –, un tempo prerogativa degli iniziati alle materie di governo,
ora finalmente rivelato e spiegato, nei suoi corollari tecnici e politici,
al pubblico dei lettori dei lettori e dei contribuenti. La conoscenza di questo
nuovo linguaggio alimenta, da un lato, l’illusione del pubblico di poter
accedere al santuario dello Stato; d’altro lato la minoranza che detiene
questa conoscenza è di per sé costituiva di una nuova comunità
di adepti del verbo riformatore: una comunità suscettibile, a sua volta,
di persuadere ignoranti e increduli. In effetti, l’obiettivo implicito
che Neri si propone pubblicando materie di governo consiste nel provocare
un cortocircuito nel flusso delle opinioni alimentate oralmente dagli avversari
delle riforme, imponendo nello spazio pubblico una nuova fonte di autorità
capace di opporsi alle voci e alle calunnie, i cui effetti politici nefasti
sono finemente analizzati da Neri. L’autore della Relazione dimostra
un’attenzione specifica nei confronti dei meccanismi di formazione delle
opinioni popolari. Indiscutibilmente la doxa del popolo è un
oggetto politico e le sue conseguenze sono del tutto reali, ma invece di attribuire
a questo fenomeno un’origine spontanea[54],
Neri mette in luce i rapporti di forza e i condizionamenti che lo rendono
possibile. Secondo questa prospettiva, l’opinione popolare non è
altro che l’insieme delle pratiche discorsive in cui si inscrivono e
si riproducono, modificandosi all’infinito, le opinioni degli avversari
delle riforme, perché lo spazio pubblico è il luogo reale in
cui i discorsi delle due estremità del corpo politico possono incontrarsi:
il discorso dei privilegiati che nelle riforme vedono solo una minaccia e
quello dei nullatenenti che interpretano ogni cambiamento come un possibile
attentato contro l’”economia morale”[55].
Neri dimostra il carattere artificiale e manipolabile di questa opinione decostruendo
e quindi illustrando al proprio pubblico i dispositivi discorsivi che ne determinano
il funzionamento: “Ai Milanesi si fa credere”; “al popolo
contristato dalle disgrazie...si fa credere”; “da un’altra
parte assumendo le parti del Fisco, si tenta insinuare”; “ritornandosi
poi alle parti contrarie al Fisco, si sparge da taluni...”[56]
A titolo d’esempio, si consideri questa messinscena di un dibattito
pubblico fittizio:
Si arriva da taluni anco a sostenere, che forse converrebbe al paese redimersi, con qualche offerta all'erario, da ogni ulteriore inquietudine e pericolo di questo censimento, come se la Nostra Clementissima Sovrana fusse capace di vendere in tal guisa il povero al ricco, il pupillo al tutore e gli amministrati agli amministratori. E ripigliando lo zelo per il principe si dice esser più facile per esso esigere maggiori somme secondo le antiche usanze, che minori con usanze nuove; e in somma ora zelando per il popolo, ora per il principe, ora lodando in astratto il censimento, ora declamando contro le novità, come se si potesse fare il censimento in un paese dove non è senza far novità, ora dolendosi che le operazioni del censimento sono troppo lente e ora che sono troppo precipitose, ora che sono troppo generali, ora che sono troppo minute, si è venuto a formare un ammasso confuso di voci e di opinioni che, a misura delle circostanze, si fanno opportunamente risuonare e che fanno in somma l'effetto di tenere le menti di chi ha interesse in questa grand'opera lontane dal lume della verità, che conosciuta che fusse porterebbe l'universale disinganno e dileguerebbe tutti gli ostacoli che si tentano frapporre ai progressi di un provvedimento così connesso colla salute pubblica.[57].
9. La pubblicazione della Relazione sul censimento corrisponde
all’emergere nello spazio pubblico di una parola scritta, investita
dell’autorità del sovrano (e quindi della maestà dello
Stato) che si propone di confutare le opinioni orali e di discreditare, al
tempo stesso, i nemici della riforma.
Occorre sottolineare che la formazione di un pubblico « illuminato »
è senza reale rapporto con l’esistenza di condizioni politiche
che rendono possibile l’espressione di opinioni divergenti. L’intenzione
di Neri – in ciò rappresentativo di posizioni condivise da altri
“illuministi” e “riformatori” italiani – è
di far apparire la verità, di farla discendere graziosamente dall’alto.
La verità, cioè, non è il risultato di un dibattito in
cui emergono punti di vista contraddittori, ma di una rivelazione. L’immagine
caricaturale dell’opposizione abbozzata da Neri è indicativa
di un’incapacità strutturale a concepire il pubblico come l’espressione
del dibattito pubblico, il pubblico come l’aggregato di opinioni distinte,
in altri termini, il pubblico come istanza critica. La categoria di pubblico,
soggetto unitario, nel quale, senza dubbio in parte sussiste "le rêve
archaïque d'une intégration dans le collectif"[58],
si forma così sostanzialmente in opposizione a quella di opinione che
resta tributaria di schemi interpretativi molto anteriori. “Opinione”
evoca sia la congerie dei discorsi e dei pregiudizi che confluiscono nei luoghi
pubblici, sia – e Neri lo mostra bene specie nella Relazione sopra
la nobiltà toscana – una forma di consenso collettivo intorno,
per esempio, alla reputazione di un individuo e di una famiglia[59].
Nel primo caso l’opinione è assimilabile al fenomeno composito
e minaccioso della calunnia e della sedizione, nel secondo, alla figura vetusta
della communis opinio[60]
o della publica fama, costitutiva della procedura inquisitoriale[61].
In un caso o nell’altro, niente permette di assimilare queste accezioni
alla nozione di “opinione pubblica” come risultante spontanea
di dissidenze e di divergenze quale per esempio compare, all’incirca
in questo periodo, negli scritti di Edmund Burke[62].
L’ipertrofia del “pubblico” nel discorso politico italiano
della prima metà del Settecento non corrisponde dunque ad uno sviluppo
comparabile della nozione di opinione. L’idea di consenso e di unanimità
che l’impiego di “pubblico” sottintende, contrasta nettamente,
insomma, con quella di divisione, di confusione o, peggio ancora, di complotto,
che l’uso di “opinione” sembra implicare. In che misura
questo scarto congenito e profondo tra il “pubblico” e l’”opinione”
è da considerarsi indicativo, oltre l’ambito del discorso, di
un deficit di argomentazione e di dibattito caratteristico del nuovo spazio
pubblico che le riforme assolutiste tentano artificialmente di far sorgere
nella società civile? Che significato dobbiamo allora attribuire all’occorrenza
del termine che unisce l’”opinione” e il “pubblico”,
a questo sintagma accattivante di “opinione pubblica” che emerge
nelle scritture pubbliche e private italiane della seconda metà del
Settecento?
10. L’espressione “opinione pubblica” diviene
di uso corrente nel lessico italiano nella seconda metà del Settecento:
“opinione pubblica” è un prestito linguistico dal francese
e il suo impiego è attestato per la prima volta negli anni sessanta,
nella corrispondenza dei fratelli Verri[63].
Per esempio, in una lettera del gennaio 1768, Pietro Verri scrive della nota
condanna del gesuita Malagrida, accusato di aver fomentato un attentato conto
il re del Portogallo e nota l’abilità politica di quest’ultimo
che, a causa della popolarità di cui l’ecclesiastico gode presso
“presso la nazione superstiziosa”, ha pensato che non “v'era
il modo di conciliarsi l'opinion pubblica se non col farlo giudicare fanatico,
visionario e peccatore"[64]. Con
“opinione pubblica” Verri sembra voler designare il giudizio di
un pubblico illuminato che si definisce in opposizione al giudizio del popolo
superstizioso e che costituisce il miglior alleato del sovrano. Ma “opinione
pubblica”, nello stesso epistolario dei Verri può essere sinonimo
di “fama” o di giudizio erroneo della moltitudine[65].
Il termine è insomma di uso oscillante ed il lessico politico contemporaneo
registra diverse varianti come “opinione comune”, “opinione
universale”, “spirito pubblico” [66].
Se è dunque inutile ricercare un rigore concettuale in queste prime
occorrenze di “opinione pubblica”, è invece legittimo chiedersi
che tipo di opinione sia l’opinione del pubblico dei lettori cui i fratelli
Verri si rivolgono in quanto redattori del Caffè. È stato
giustamente notato che il termine “opinione pubblica” non compare
nelle pagine del periodico milanese[67].
Tuttavia, soprattutto nelle pagine di Pietro Verri, l’uso di “opinione”
è tutt’altro che neutro[68]
ed implica una consapevole strutturazione del campo letterario nel quale gli
intellettuali svolgono una funzione di intermediari tra il potere politico,
di tipo assolutistico, e il pubblico dei lettori. In queste circostanze, precisamente,
una nuova accezione di opinione del pubblico può emergere ed imporsi
come efficace strumento discorsivo e polemico.
Questa nuova accezione dell’opinione collettiva si precisa, in primo
luogo, per opposizione a quella medievale di “opinione comune”,
intesa come fonte d’autorità (opinio communis doctorum).
A questo riguardo, l’avvertimento “al lettore” premesso
al primo numero del “Caffè” è significativo. Preoccupato
di delimitare l’ambito di ciò che può essere oggetto di
un dibattito pubblico, l’autore di questo testo collettivo – Pietro
Verri – opera una distinzione tra vere e false autorità:
Una profonda sommissione alle divine leggi ha fatto serbare un perfetto silenzio su i soggetti sacri, e non si è mai dimenticato il rispetto che merita ogni principe, ogni governo ed ogni nazione; del resto non si deve, e non si è mai prestato omaggio ad alcuna opinione, ed anche negli errori medesimi alla sola verità si è sacrificato[69].
La polemica contro le autorità fittizie, tanto nel campo
delle arti e delle lettere che in quello delle opinioni economiche e giuridiche
è una postura retorica ricorrente in questo gruppo di “giornalisti”
consapevole del proprio ruolo di avanguardia militante nel processo di generale
rischiaramento e di modernizzazione del gusto, conforme alla nozione muratoriana
del “gusto”[70]. In
tal senso, la denuncia del carattere obsoleto dell’auctoritas
della Crusca in ambito linguistico, è indissociabile da una presa di
coscienza del ruolo determinante che determinati prestiti linguistici possono
svolgere non solo nello svecchiamento della lingua, ma anche in virtù
del loro potere di dire cose altrimenti indicibili[71].
L’invenzione dell’”opinione pubblica” si situa a pieno
titolo in questo processo.
Un secondo aspetto che serve, ad un tempo, a delimitare e a connotare questa
nuova accezione d’opinione collettiva è la condanna dell’opinione
popolare. Questo tema, di importanza decisiva nel tentativo di definire un
nuovo statuto ontologico, sociale e politico dell’opinione collettiva,
è sviluppato in particolare da Pietro Verri in un articolo dedicato
agli errori popolari (I giudizi popolari). La forma dialogica impiegata
da Verri permette di teatralizzare, smentendole una ad una, le diverse concezioni
della doxa collettiva che la filosofia ha espresso sin dall’antichità.
Verri affronta la questione dell’opinione secondo la distinzione tra
l’opinione di pochi e l’opinione dei più. Fondandosi su
un’argomentazione di tipo sensualista, Verri attribuisce all’opinione
del “volgo” una certa autorità in tutti quegli ambiti del
gusto che fanno appello ad un tipo di giudizio basato sulla sensualità
e non sulla ragione come, per esempio, la musica o il teatro. Tuttavia, “in
tutto ciò che per conoscersi richiede ragionamento”, scrive Verri
“dichiariamo incompetente il giudizio del popolo"[72].
Ancora una volta, il corollario politico di questa analisi è la condanna
di ciò che Machiavelli postula nel capitolo 18 del Principe,
ovvero il rapporto di forza vincente del principe alleato della doxa popolare
contro l’opinione della minoranza:
Ricercare l'opinione favorevole del volgo è una necessità de' più scellerati, i quali temendo che gli uomini illuminati, che sono in picciol numero, non gli conoscano, cercano a bilanciarsi con il partito della moltitudine; ma chi ricerca l'opinione de' pochi, non può traviare dallo stretto sentiero della virtù[73].
11. È assai probabile che questa minoranza distinta di
persone dotate di gusto, ovvero di ragione e di senso morale, corrisponda
precisamente alla nozione di opinione pubblica che Pietro Verri utilizza nella
lettera al fratello del 1768. L’opinione pubblica, in questo senso,
è il giudizio degli “uomini dabbene”, cioè questo
pubblico indifferente “alla opinione volgare” che costituisce
il bersaglio virtuale del periodico milanese[74].
Questa opinione minoritaria emerge egualmente e quasi spontaneamente come
interlocutore diretto e informale del principe, in quanto la sua presenza,
come attore virtuale del discorso, implica l’esistenza di uno spazio
pubblico inedito di riflessione e di discussione che non si oppone allo Stato
assoluto ma che, al contrario, domanda al principe protezione e asilo.
La questione della libertà di opinione è affrontata nel periodico
milanese nella doppia angolatura della libertà individuale di espressione
e della libera espressione delle opinioni in un dibattito pubblico. Nell’articolo
Il Singolare, Pietro Verri afferma che “ognuno ha le proprie
opinioni; e chi vuol farsi leggere dal pubblico deve essere tollerante dei
giudizi diversi, che ciascuno ha il diritto di proferire"[75].
Alessandro Verri affronta il tecata alla luce della natura liberale dei regimi
politici europei:
Noi Europei, noi nati in forme di governo moderate, noi giudicati e protetti dalle leggi [...], noi che sentiamo tutti i beni della dipendenza e nessuno de' suoi mali [...] ardiremo ancora di disputare se sia lecito di perturbar lo Stato e condannare i nostri padri? Quella stessa libertà, con cui mandiamo alle pubbliche stampe simili questioni, prova la nostra ingiustizia. Non ci sarebbe permessa tal libertà se non vivessimo in moderati governi, ne' quali ciò che dobbiamo abborrire e temere sono le sole rivoluzioni[76].
La libertà di dibattere è dunque una realtà
rara, storicamente e geograficamente circoscritta, in quanto, per potersi
realizzare, richiede la protezione di un sovrano rispettoso delle leggi fondamentali
e delle libertà individuali dei sudditi.
Ecco delinearsi i contorni di uno spazio pubblico che diverge profondamente
dal modello definito da Reinhart Koselleck e da Jürgen Habermas
per l’Europa continentale, in cui lo spazio pubblico – e l’opinione
che ne è l’emanazione - è concepito come una dimensione
socioculturale fortemente politicizzata, critica e alternativa nei confronti
dei regimi assoluti[77]. Nell’ottica
dei giornalisti del “Caffè”, la libertà di stampa
e di espressione non può esistere al di là delle condizioni
che la fondano e che, al tempo stesso, la circoscrivono. La libertà
– conformemente ad una concezione della libertà che, ad esempio,
troviamo espressa, in termini giuridici, nel testo della legge toscana sulla
stampa del 1743 – è concepita da Pietro Verri e dai suoi collaboratori
come una graziosa concessione e la sua esistenza – per quanto legittima
– implica l’esistenza di dispositivi di censura o di autocensura
che impediscano al discorso che ambisce a divenire pubblico di slittare verso
il terreno pericoloso della “licenza”. Resta da chiedersi se questo
divario costitutivo tra il pubblico concepito come istanza razionale e l’opinione
pubblica che quantunque razionale non è mai il prodotto di uno scambio
totalmente libero di opinioni, perduri sino alla fine del secolo, nell’età
del tardo illuminismo. Edoardo Tortarolo ha giustamente notato che un’accezione
diversa, moderna, di “opinione pubblica”, intesa come “tribunale
che dice la verità” è reperibile nella Scienza della
legislazione (1780-1785) di Gaetano Filangieri[78].
Questa nuova accezione di opinione è senza dubbio legata alla fortuna
editoriale dell’Histoire des deux Indes di Raynal nella quale
numerosi passaggi di mama della libertà di espressione e di stampa
in un lungo articolo (Di Carneade e di Grozio) che contraddice tanto
la tesi del patto naturale di soggezione in Grozio quanto l’argomento
della legittimità della rivolta contro un potere tirannico. Questa
posizione moderata e mediana è giustifitrice diderotiana sottolineano
il ruolo politico dell’opinione in un contesto di crisi e di critica
dell’assolutismo[79]. È
vero altresì che quando, nel 1776, Domenico Stratico, traduce l’Histoire
per gli stampatori senesi Rossi e Bindi, i passaggi dedicati all’opinione
pubblica sono tra i pochi a non subire modificazioni[80].
La conclusione che possiamo trarne è che, al di là delle condizioni
di esistenza di uno spazio pubblico strutturato intorno alla libertà
di stampa e al dibattito di opinioni – di fatto assente nel caso toscano
- “opinione pubblica” è divenuta in pochi anni una parola
chiave del discorso politico, il cui uso propagandistico è suscettibile
di catalizzare aspettative e progetti in un contesto di apologia e di riforma
dell’assolutismo.
[1] J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it. Bari, Laterza, 1972, p. 68.
[2] Sul consumo culturale si veda The Consumption of Culture, 1600-1800: Image, Object, Text, a cura di A. Bermingham e J. Brewer, London-New York, Routledge, 1995; J. Brewer, The Pleasures of the Imagination. English Culture in the Eighteenth Century, New York, Farrar Straus Giroux, 1997 (Trad. it. I piaceri dell’immaginazione. La cultura inglese nel Settecento, Roma, Carocci, 1999); O. Raggio, Variazioni sul gusto francese. Consumi di cultura a Genova nel Settecento, “Quaderni storici”, 39-2004, p. 161-194.
[3] Si veda, a titolo d’esempio, H.E. Bödeker, D’une « histoire littéraire du lecteur » à l’histoire du lecteur. Bilan et perspectives de l’histoire de la lecture en Allemagne, in Histoires de la lecture. Un bilan des recherches, a cura di R. Chartier, Paris, Imec éditions, 1995, p. 93-124.
[4] Da tenere presenti a questo proposito le considerazioni di R. Chartier: "Mais les pratiques de lecture sont aussi au centre du processus qui voit l'émergence, face à l'autorité de l'Etat, d'un nouvel espace public, d'une sphère publique politique, pour reprendre les termes mêmes de Jürgen Habermas [...]. Ainsi perçue, l'histoire de la lecture est bien l'un des thèmes majeurs d'une étude de la constitution de la culture politique moderne, qui affirme face à la puissance du prince, la légitimité de la critique et qui façonne la communauté civique sur la communication et la discussion des opinions individuelles": De l'histoire du livre à l'histoire de la lecture: les trajectoires françaises, in, Histoires du livre. Nouvelles orientations, a cura di H.E. Bödeker, , Paris, Imec éditions, 1995, p. 23-45, citation à la p. 41.
[5] Secondo la celebre definizione di E. Kant, Risposta alla domanda :che cos’è l’Illuminismo?, in Id., Che cos’è l’Illuminismo ?, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 19.
[6] Cfr. A. Lilti, Public ou sociabilité? Les théâtres de société au XVIIIe siècle, in De la publication. Entre Renaissance et Lumières, a cura di C. Jouhaud e A. Viala, Paris, Fayard, 2002, pp. 281-300 e Id., Le monde des salons. Sociabilité et mondanité à Paris au XVIIIe siècle, Paris, Fayard, 2005, p. 53-55. Sull’uso poliziesco del termine « pubblico » si veda in particolare L. J. Graham, Crimes of Opinion. Policing the Public in Eighteenth-Century Paris, in Visions and Revisions of Eighteenth Century France, a cura di C. Adams, J. R. Censer, L. J. Graham, University Park, Pennsylvania State University Press, 1993, p. 79-103.
[7] Si veda in particolare per l’area francese H. Merlin, Public et littérature en France au XVIIe siècle, Paris, Les Belles Lettres, 1994; per l’area italiana, delle indicazioni utili nella ricerca incompiuta di F. Todesco, "Il pubblico e la tradizione delle dispute vane come pre-costituenti dell'opinione pubblica attraverso i periodici", in Opinione, Lumi, Rivoluzione, Materiali della Società italiana di studi sul secolo XVIII, Rome, 1993, pp. 92-97; i rischi di reificazione dell’oggetto « pubblico » erano già sottolineati da K.M. Baker, Politique et opinion publique sous l'Ancien Régime, in Annales ESC, 1987-42, pp. 41-71: "[Le public] se manifestait davantage comme une construction politique ou idéologique que comme une fonction sociologique précise".
[8] Mi riferisco in particolare alla storia sociale dei concetti: R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Milano, Marietti, 19962; per una discussione di questo paradigma cfr. L. Scuccimarra, La Begriffsgeschichte e le sue origini intellettuali, «Storica», IV, 2-1998, pp. 7-99.
[9] "Le mot public se distingue par là immédiatement d'Etat, peuple ou république car il possède une orientation argumentative acquise que n'ont pas tout à fait ces termes. Sa force de persuasion est inversement proportionnelle à son imprécision sémantique": H. Merlin, Public et littérature, cit. p. 46.
[10] Tuttavia, indicazioni importanti sulla formazione di un pubblico in Italia, in un’ottica di storia costituzionale sono presenti nel saggio di L. Mannori, La crisi dell'ordine plurale. Nazione e costituzione in Italia tra Sette e Ottocento, in Giornale di Storia Costituzionale, 2-2003, p. 243-271.
[11] Nel senso che è da considerarsi all’origine di un lessico corrispondente, “un lessico che può allora essere usato per riconoscere e discutere il concetto in maniera coerente”: Q. Skinner, Dell’interpretazione, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 157.
[12] Della pubblica felicità, oggetto de' buoni principi, Venezia, Albrizi, 1749. Facciamo qui riferimento all’edizione pubblicata in L.A. Muratori, Opere, éd. G. Falco et F. Forti, II, Milan-Naples, Ricciardi, 1964, p. 1502-1718. Sul pensiero politico del Muratori esiste una vasta bibliografia, mi limito a segnalare F. Venturi, Settecento riformatore. I, Da Muratori a Beccaria, Turin, Einaudi, 1969; M. Rosa, Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venise, Marsilio, 1999; Corte, buon governo, pubblica felicità. Politica e coscienza civile nel Muratori, Florence, Olschki, 1996; C. Continisio, Il governo delle passioni; Prudenza, giustizia e carità nel pensiero politico di Lodovico Antonio Muratori, Florence, Olschki, 1999.
[13] Cfr. E. Zlabinger, Ludovico Antonio Muratori und Österreich, Innsbruck, Innsbruck Universität, 1970 et E. Garms Cornides, "Zwischen Giannone, Muratori, und Metastasio. Die Italiener im Geistigen Leben Wiens", in Wiener Beiträge zur Geschichte, 3-1976, p. 224-250.
[14] Cfr. M. Stolleis, Histoire du droit public en Allemagne. Droit public impérial et science de la police 1600-1800, Paris, PUF, 1998, p. 503-552 e Id. Stato e ragion di stato nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1998, pp.297-338.
[15] Cfr. C. Capra, "Il funzionario" in L'uomo dell'Illuminismo, a cura di M. Vovelle, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 353-398 e ID. "Lo sviluppo delle riforme asburgiche nello Stato di Milano", in La dinamica statale austriaca nel XVIII e XIX secolo, a cura di P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 161-187.
[16] Della pubblica felicità, cit., p. 1508.
[17] Ibidem, p. 1528: "A questo miglioramento del mondo (difficilissima sì, ma sempre desiderabile impresa) dovrebbe animarsi ed applicarsi ogni principe nella circonferenza o vasta o ristretta del suo dominio".
[18] Sui rapporti tra Muratori e gli ambienti riformatori, soprattutto nel Granducato di Toscana, si veda M. Verga, Da "cittadini" a "nobili". Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milan, Giuffré, 1990, p. 150-151 e A. Contini, La Reggenza lorenese tra Firenze e Vienna Logiche dinastiche, uomini e governo (1737-1766), Florence, Olschki, 2002, p. 106 nota 36.
[19] Per una semantica di “bene pubblico” in Muratori si veda C. Continisio, Il governo delle passioni, cit., p. 193.
[20] Della pubblica felicità, op. cit., p. 1511.
[21] Sul "raccapriccio" manifestato da Muratori nei confronti di Locke si veda M. Rosa, Settecento religioso, cit., p. 160.
[22] Della pubblica felicità, op. cit., p. 1508: "Truovasi il felice stato d'una repubblica o monarchia descritto nelle Sacre Carte con queste parole, dove si parla del governo del re Salomone: innumerabile e somigliante alla rena del mare era il popolo di Giuda e d'Israello, mangiando e bevendo ognuno e stando in allegria".
[23] Ibidem, p. 1516.
[24] Pubblico si qualifica in tal senso come “un outil linguistique à fonction substitutive » : H. Merlin, Public et littérature, cit., p. 40.
[25] Della pubblica felicità, cit., p. 1518.
[26] Ibidem, p. 1527.
[27] Sulla dottrina sociale della Ragione di Stato cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano, Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, Bologna, Il Mulino, 1993 e Id., Concetto di popolo e rappresentazione di soggetti nelle scritture politiche italiane del Seicento, in Essere popolo. Prerogative e rituali d'appartenenza nelle città italiane di antico regime, a cura di G. Delille e A. Savelli, Ricerche storiche, XXXII, 2-3, 2002, pp. 377-396.
[28] Della pubblica felicità, op. cit., p. 1509: "Senza scelta di buone storie corre pericolo un regnante di apprendere da pessimi esempi il regolamento del suo governo; cioè l'inclinazione alle cabbale, al non mantener la fede, al farsi lecito sopra i suoi popoli ciò che gli piace [...]. Noi miriamo incensato dai signori politici Cornelio Tacito; ma quella è bottega dove si vende elettuario bensì ma anche veleno". Sulla condanna dei politici nella teoria politica del Cinquecento e del Seicento si veda M. Stolleis, Stato e ragion di stato, cit., pp. 13-29.
[29] Utilizzo l’espressione di J.-P. Cavaillé, Le mensonge ordinaire de la politique vérité, in « Le Monde », 13 février 1998.
[30] Della pubblica felicità, op. cit., p. 1541. Sulla nozione di “pubblica utilità” nell’ambito delle biblioteche si veda E. Chapron, Des bibliothèques a pubblica utilità. Publicité, politique culturelle et pratiques du livre à Florence au XVIIIe siècle, Thèse de l’EHESS, Marseille, 2004 e Ead. La profession de bibliothécaire au XVIIIe siècle : Angelo Maria Bandini à Florence (1726-1803), « Revue d’histoire moderne et contemporaine », 51-2004, pp. 58-87.
[31] Per un’analisi di questa trasformazione rinvio a S. Landi, Naissance de l’opinion publique dans l’Italie moderne. Sagesse du peuple et savoir de gouvernement de Machiavel aux Lumières, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006, pp. 139-193 ; per quanto riguarda l’evoluzione della censura ecclesiastica si veda P. Delpiano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2007.
[32] Ibidem, p. 1531.
[33] [P. NERI], Relazione dello stato in cui si trova l'opera del censimento universale nel ducato di Milano nel mese di maggio 1750, Milano, Regia Ducal Corte, 1750; il testo della Relazione è stato riprodotto a cura di F. Saba, Milano, Angeli, 1985. Sull’uso della nozione di “lotta politica” nel contesto delle riforme settecentesche restano essenziali i contributi di M. Mirri e, in particolare La lotta politica in Toscana intorno alle "riforme annonarie, Pisa, Pacini, 1972; su questa nozione si veda anche S. Landi, Toscana e riforme. A proposito di alcune recenti pubblicazioni, in “Società e storia”, 57 (1992), pp. 595-634.
[34] Su di lui si veda Pompeo Neri, a cura di A. Fratoianni, M. Verga, Castelfiorentino, Società Storica della Valdelsa, 1992.
[35] Cf. M. Verga, Da "cittadini" a "nobili", cit., p. 185; in particolare, sull’operato di Neri alla testa della commissione per il catasto, si veda C. Mozzarelli, Sovrano, società, amministrazione nella Lombardia teresiana (1749-1758), Bologne, Il Mulino, 1982 e C. Capra, Il Settecento, in D. Sella, C. Capra, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, Torino, Utet, 1984 e l’intervento di C. Capra nel volume collettivo su Pompeo Neri, cit., p. 547-550.
[36] Per una bibliografia aggiornata in tema di catasti si veda De l'estime au cadastre en Europe. L'époque moderne. Colloque des 4 et 5 décembre 2003. Sous la direction scientifique de Mireille Touzery, Paris, Comité pour l'histoire économique et financière de la France, 2007.
[37] M. Mirri, "La fisiocrazia in Toscana: un tema da riprendere" in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, II, Florence, Olschki, 1978, pp. 703-760, citazione alla p. 729. Sul rapporto tra "suddito » et “cittadino” nel lessico politico della seconda metà del Settecento si veda M. Stolleis, Stato e ragion di stato, cit., pp. 296-338.
[38] Relazione dello stato, cit., p. XVII.
[39] Cfr. M. Infelise, Prima dei giornali Alle origini della pubblica informazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 50-78.
[40] E. Fasano Guarini,Conclusioni, in L'informazione politica in Italia (secoli XVI-XVIII), a cura di E. Fasano Guarini e M. Rosa, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2001, p. 388.
[41] Cit. in C. Capra, Intervento, cit., p. 549.
[42] Relazione dello stato, cit., p. XI.
[43] Ivi, p. XII.
[44] Mi riferisco ovviamente al noto ricordo C141 di F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Milano, Rizzoli, 1977, p. 153; per un’analisi di questo ricordo in relazione allo spazio politico del principato rinvio a Landi, Naissance de l’opinion publique, cit., pp. 51-54.
[45] Relazione dello stato, cit., p. XIII.
[46] P. NERI, Relazione sopra la nobiltà toscana (1748), edizione curata da M. Verga, Da "cittadini" a "nobili", op. cit., p. 403-567, si vedano in part. le pp. 457-458: "Questo corpo, così radunato sotto nome di popolo, fu quello che nel mezzo delle civili discordie della nobiltà ricordò e pose in vista i veri interessi della patria, che l'impeto delle fazioni aveva mandato in oblivione".
[47] Sulla dimensione costituzionale del pensiero politico di P. Neri, cfr. ibidem, p. 169-239.
[48] Mi riferisco, evidentemente, a Principe, XVIII : « Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda”, sul quale rinvio a Landi, Naissance de l’opinion publique, cit., p. 43-46.
[49] Relazione dello stato, cit., p. XIII.
[50] Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 2000, p. 18.
[51] Cfr. M. Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni "repubblicane" di Machiavelli, Bari, Dedalo, 1964 e G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, Rome-Bari, Laterza, 1995, p. 305-326.
[52] Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi, 1995, VI (De principatibus novis qui armiis propriis et virtute acquiruntur), p. 35.
[53] Il riferimento è ancora al capitolo 18 del Principe, cfr. supra, nota 47.
[54] La tesi del carattere spontaneo dell’opinione è sostenuta soprattutto da A. Farge, Dire et mal dire. L'opinion publique au XVIIIe siècle, Paris, Seuil, 1992.
[55] Su questa categoria, essenziale per lo studio della doxa popolare, si veda E. P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in Id., Società patrizia e cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Torino, Einaudi, 1981, pp. 57-136.
[56] Relazione dello stato, cit., p., p. XV.
[57] Ivi, p. XVI.
[58] M. Ozouf, L'opinion publique, in, The Political Culture of the Old Regime, a cura di K. M. Baker, Oxford, Pergamon Press, 1987, pp. 419-434, citazione alla p. 431.
[59] P. Neri, Relazione sopra la nobiltà toscana, in M. Verga, Da "cittadini" a "nobili", cit., p. 411: "Nonostante, quando accade che la stirpe di alcuno sia più nobile dell'altro, questa notorietà si concilia una maggiore estimazione, secondo il giudizio che naturalmente e spontaneamente tutti gli uomini concordemente ne fanno: la quale estimazione siccome non dipende dalle leggi, ma dipende dal modo di pensare e di opinare, che si trova comunissimo in tutte le nazioni, così credo che giustamente nobiltà naturale in questo senso si possa chiamare".
[60] Sull’opinione comune nel lessico della tomistica si veda in particolare I. Hacking, The Emergence of the Probability, Cambridge, Cambridge University Press, 1975, capitolo 3.
[61] Sulla categoria giuridica di « fama » si veda J. Théry, “Fama”: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la révolution médiévale de l’inquisitoire (XIIe-XIVe siècle), in La preuve en justice de l’Antiquité à nos jours, a cura di B. Lemesle, Rennes, PUR, 2003, pp. 119-147.
[62] Ozouf, "L'opinion publique", cit., p. 430 e N. Matteucci, Lo Stato moderno, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 174-183. Di prossima edizione gli scritti di E. BURKE, Scritti sull’impero. America, India, Irlanda, a cura di G. Abbattista e D. Francesconi, Torino, Utet.
[63] Cfr. E. Tortarolo, “Opinione pubblica” e illuminismo italiano. Qualche appunto di lettura, in Cesare Beccaria e la pratica dei Lumi, a cura di V. Ferrone e G. Francioni, Firenze, Olschki, 2000, pp. 127-138; tra gli studi di storia della lingua: G. Folena, L'italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, p. 35; su questa occorrenza si veda anche M. Cortellazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, IV, Bologne, Zanichelli, 1989, p. 836 (ad vocem "opinare"); di "invenzione dell'opinione pubblica" e delle sue conseguenze sul piano politico e sociale parla anche E. Leso, "Lingua politica alla fine del Settecento: storia di moderato", Lingua Nostra, 37-1976, p. 1-7.
[64] Pietro aAlessandro Verri, Milano 27 gennaio 1768: "Malagrida era certamente reo d'aver fomentata e aiutata l'idea dell'assassinio del re, la sua morte è un tratto di finissima politica; colui presso la nazione superstiziosa passava per un grande e santissimo uomo, né v'era il modo di conciliarsi l'opinion pubblica se non col farlo giudicare fanatico, visionario e peccatore", Carteggio di Pietro e Alessandro Verri dal 1766 al 1797, I, a cura di F. Novati e E. Greppi, Milano, Cogliati, 1910, p. 147. Sull’affaire Malagrida cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, Turin, Einaudi, 1976, p. 21, 25, 72.
[65] Cfr. Tortarolo, “Opinione pubblica” e illuminismo italiano”, pp. 130-131.
[66] Cfr. G. Aliprandi, Dalla opinione comune alla “pubblica opinione” nella seconda metà del Settecento, in “Atti e memorie dell'Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti”, Memorie, LXXVII, parte III (1964-65), pp. 483-503.
[67] Cfr. Tortarolo, “Opinione pubblica” e illuminismo italiano”, p. 129.
[68] Giuseppe Aliprandi (Dalla opinione comune, cit., p. 488), sottolinea l’uso quasi tecnico di opinione presso i Verri: "che il vocabolo "opinione" fosse nel frasario corrente dei Verri, lo prova indirettamente il fatto che per esprimere un concetto analogo a quello di "opinione" altri non lo usano". Su ruolo di Pietro Verri nel "Caffè" si veda C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 177-231.
[69] Al lettore, in Il Caffè ossia brevi e vari discorsi distribuiti in fogli periodici, a cura di de S. Romagnoli, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 5.
[70] L. A. Muratori, Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, in Muratori, Opere, I, Milano-Napoli, Ricciardi
[71] Cfr A. Verri, Rinunzia avanti al notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, in Il Caffè, cit., pp. 39-41.
[72] Ivi, p. 172.
[73] Ivi, pp. 170-171.
[74] Ivi, p. 26; sul pubblico potenziale del periodico qualche osservazione in C. Capra, I progressi della ragione, cit. p. 230, che tuttavia non dedica attenzione al lessico politico dei fratelli Verri.
[75] Ivi, p. 297.
[76] Ivi p. 497.
[77] R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogene der Bürgerlichen Welt, Freiburg, Verlag Karl Alber, 1959, trad. it. Critica illuministica e crisi della società borghese, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 171-259.
[78] Tortarolo, “Opinione pubblica” e illuminismo italiano”, pp. 135-137.
[79] Ibidem. Nella vasta bibliografia raynaliana, si veda in particolare i contributi pubblicati in Lectures de Raynal. L’Histoire des Deux Indes en Europe et en Amérique au XVIIIe siècle, a cura di H. J. Lüsebrink, M. Tietz, Oxford, The Voltaire Foundation, 1991.
[80] Ivi, pp. 137-138 e S. Landi, “Scrivere per il principe. La carriera di Domenico Stratico in Toscana (1761-1776)”, Rivista storica italiana, CIV, 1992, pp. 90-154 e Id. Censura e legittimazione del discorso politico. La traduzione toscana dell’Histoire des deux Indes dell’abate Raynal, in Cromohs, 9 (2004): 1- 15, URL: http://www.cromohs.unifi.it/9_2004/landi_raynal.html.