Edmund Burke, la guerra e i "poveri ebrei di St. Eustatius".
L’impero atlantico e il diritto delle genti

Guido Abbattista
Università di Trieste

This essay is devoted to a relatively minor episode in Edmund Burke’s parliamentary career and political speculation involving the rights of war and international law in the final years of the American War of Independence. The starting point for Burke’s consideration of these questions was the affair of St. Eustatius, that is to say Britain’s conquest in 1781 of the Dutch West-Indian island early in the “fourth Anglo-Dutch War” of 1780-1784. The harsh treatment of the Dutch colony’s cosmopolitan community by the commanding officers of the British Navy and Army provoked a series of reactions in Britain and the colonies. The essay starts by outlining the identity of St. Eustatius with its economic, demographic and social features, its peculiar role in the eighteenth-century West Indies and its emblematic meaning in the historical literature of the Enlightenment as a symbol of the virtues of commerce and of economic liberty. It goes on to analyse the facts of the military conquest in 1781 and the ensuing occupation realized by Admiral George Rodney and Major-General John Vaughan, particularly as this affected the “poor Jews at St. Eustatius” (as Burke himself qualified them in his second speech on 4 December 1781), with the subsequent reactions of the Dutch and especially the British Atlantic world. We then examine Edmund Burke’s reasons for taking up this affair, including the political and ideological motives and the sources of arguments he used in the two parliamentary speeches he made on the topic during 1781, relating this to Burke’s ideas on international relations and imperial government during the 1770s and 1780s. We end by pointing to cultural links between Burke’s positions and a wider political, commercial and civic culture emerging in the British Atlantic world which reflected some of the most typical European Enlightenment values and ideological commitments.

1. | 2. | 3. | 4. | 5. | Note


1.

1. Proviamo a presentare la scena che si sarebbe offerta allo sguardo di un testimone in quel giorno del febbraio 1781. Longitudine 62.56 ovest, latitudine 17.29 nord. Il sole, la luce, il mare delle Antille e “that small speck in the ocean”[1]. Un’isola con due montagne – una di origine vulcanica – a segnarne i margini estremi a est e ovest, le pendici verdeggianti di una rigogliosa vegetazione, separate da un vallone fertile tutto coperto di piantagioni e campi coltivati e degradante verso una fascia di costa bassa sull’oceano (v. fig. 2). È St. Eustatius, dal 1636, nonostante alterne vicende, possedimento olandese governato dalla Compagnia delle Indie occidentali. Un centro abitato – Oranjestad – sorge alle spalle dell’unica zona di approdo esistente, sovrastatato da una fortificazione con batterie di cannoni e un pennone su cui sventola la bandiera delle Province Unite. Così dovette mostrarsi l’isola agli occhi del missionario domenicano francese Jean Baptiste Labat, autore del Nouveau voyage aux îles de l’Amérique (1722), che poté osservarla da vicino, ma senza potervi sbarcare, nel 1705. Di cosa accadde in quel martedì 13 febbraio 1781 possiamo farci un’idea migliore aiutandoci con una illustrazione coeva (v. fig. 1)[2]. Sulla spiaggia di fronte alle casette allineate in stile olandese si vedono cataste di merci, balle, sacchi e file di barili. Due lance si allontanano dalla riva trasportando verso un veliero battente la Union Jack persone in atto di salutare chi è rimasto a terra. A riva un gruppo di donne e uomini affollati disordinatamente tendono le braccia verso coloro che, secondo ogni apparenza, sono involontari partenti o, diciamo pure, ‘deportati’. In lacrime, rivolgono gesti disperati di implorazione ai soldati che sorvegliano la scena: sono i “lobster backs”, i Royal Marines britannici. Sullo sfondo un altro piccolo assembramento assiste impotente in stato di apparente costrizione, mentre si intuisce che tra le case e sulla spiaggia si stanno svolgendo perquisizioni e ammassamenti di mercanzie, alcune figure umane sono spinte da soldati, altre sembrano in atto di protesta. Possiamo immaginare il resto della scena, che qui non si vede rappresentata. Gli ufficiali inglesi con inflessibile efficienza si assicurano che gli uomini a bordo delle scialuppe – sappiamo che si tratta di un gruppo di una trentina di capifamiglia Ebrei residenti sull’isola, quelli che diverranno noti come i “poveri ebrei di St. Eustatius” – siano imbarcati sulla nave che li porterà in esilio su una delle tante isole vicine, separandoli da mogli, figli, anziani. Poi la truppa rientra verso il centro della cittadina. Sappiamo che gli Ebrei rimasti, dopo essere stati preventivamente sottoposti a perquisizioni brutali, saranno tenuti sotto chiave per tre giorni, per essere liberati giusto in tempo per assistere alla messa all’incanto di tutti i loro beni. Si tratta di uno dei momenti più tragici e controversi del “saccheggio di St. Eustatius”, seguìto agli eventi di dieci giorni prima, quando le fregate di Sua Maestà Britannica, alle tre e mezzo del pomeriggio del 3 febbraio 1781, si sono presentate davanti alla minuscola ma fiorente isola olandese, hanno intimato la resa incondizionata – immediatamente ottenendola – e hanno sbarcato un corpo di occupazione. Le Giubbe rosse hanno preso possesso della località non in senso figurato, ma in modo assolutamente letterale, sigillando magazzini, depositi, negozi, uffici, perquisendo abitazioni, requisendo libri contabili, confiscando proprietà, scorte, carichi e spogliando gli abitanti di tutti i loro averi: il bottino sarà in parte inviato in madrepatria e in parte venduto all’asta qualche tempo dopo.

2. Questo, in estrema sintesi, il succo del poco noto episodio che occorse all’inizio del 1781 sull’isoletta caraibica olandese di St. Eustatius (in olandese Sint Eustatius, ma nota anche come Statia, Eustatia o St. Eustatia) e che fa da spunto al presente saggio. Il motivo per il quale ci vogliamo soffermare su questa vicenda, di cui daremo ulteriori dettagli, non riguarda in primo luogo la storia del commercio olandese nelle Antille o la storia, pure ricca e avvincente, delle comunità ebraiche delle Indie Occidentali, bensì il fatto che esso fu oggetto di due interventi parlamentari di Edmund Burke contenenti alcune formulazioni in materia di diritto delle genti e di impero che si segnalano in quanto particolarmente nobili, liberali e, diciamo senza esitazioni, illuminate. In questo senso, una adeguata valutazione delle posizioni espresse in questa occasione da Burke è indispensabile ai fini di una ricostruzione che ambisca a cogliere l’articolazione, la ricchezza e l’originalità di un pensiero politico come quello burkiano impegnato a coniugare la dimensione di una potenza imperiale con i valori universali del diritto, della ragione e della giustizia. Prima di tutto, però, è necessario ricostruire brevemente il contesto storico complessivo[3].

Figura 1. Il saccheggio di St. Eustatius, Atlas van Stolk Collection, Rotterdam. La didascalia recita: "“La Gran Bretagna chiama coi nomi più belli l’empietà di Rodney e di Vaughan, per celare la loro malvagità. Io, per parte mia, che osservo con orrore il loro comportamento crudele, chiamo Rodney Nerone e Vaughan Caligola”.

2.

3. Ci troviamo in piena guerra d’indipendenza americana. Francia e Spagna sono entrate nel conflitto a fianco dei coloni americani nel 1778. Dopo Saratoga (ottobre 1777), la Gran Bretagna ha messo in atto la cosiddetta “strategia del Sud”. Ha concentrato l’offensiva nelle più lealiste colonie meridionali, conquistando Georgia e Sud Carolina, penetrando in Nord Carolina e spingendosi imprudentemente fino in Virginia. Ma non è riuscita a dare alla guerra la svolta sperata. Cornwallis ha finito col fortificarsi a Yorktown, nella Chesapeake Bay, zona esposta alla potenza navale francese. Proprio qui, infatti, l’azione congiunta delle squadre di d’Estaing e di Barras e di quella di de Grasse, proveniente dalle Indie occidentali, avrebbe permesso alle forze terrestri di Rochambeau e di Washington di mettere sotto assedio e costringere alla resa le truppe britanniche a Yorktown nell’ottobre 1781. Da sottolineare – come si vedrà ancora – l’importanza della flotta di de Grasse arrivata tempestivamente dai Carabi e che garantirà il trasporto delle truppe franco-americane nell’area dei combattimenti e terrà alla larga una spedizione navale inglese inviata da New York. Ma torniamo indietro di alcuni mesi, in una fase in cui il centro del teatro bellico si è spostato nelle Indie occidentali.

4. Il 20 dicembre 1780 la Gran Bretagna ha dichiarato guerra all’Olanda e ordinato al proprio ambasciatore Sir Joseph Yorke (1724-1792) di lasciare a La Haye, ponendo fine a un ambiguo periodo di neutralità olandese, sancito da ultimo, nel settembre 1780, dall’adesione della repubblica alla Lega della Neutralità Armata, promossa da Caterina II di Russia nel febbraio 1780 con la partecipazione di Prussia, Danimarca, Svezia, Portogallo e Turchia per garantire la libertà di commercio dei neutrali salvo che in caso di contrabbando di rifornimenti militari e navali[4]. La “quarta guerra anglo-olandese” (1780-1784) era la logica conseguenza del deterioramento inarrestabile nei rapporti tra Gran Bretagna e Olanda, soprattutto da quando, nel 1778, erano state avviate trattative segrete tra i “regenten” di Amsterdam e gli ambasciatori americani a Parigi Benjamin Franklin e Arthur Lee finalizzate ad ottenere aiuti economici e finanziari olandesi a favore dei coloni ribelli. Di questo si era avuto prova quando, nel settembre 1780, una fregata britannica aveva intercettato una nave americana sulla quale viaggiava l’uomo politico nativo della Carolina Henry Laurens (1724-1792), già presidente del Congresso e ora commissario degli Stati Uniti in Olanda, recante copia degli accordi del 1778 e della successiva corrispondenza preparatoria di un trattato di amicizia e commercio e di un prestito[5]. Nella rete di relazioni commerciali che fin lì erano intercorse tra Olandesi e Americani le Antille avevano svolto da tempo un ruolo cruciale e, tra le Antille olandesi, proprio St. Eustatius.

 

Figura 2

Figura 2. Foto aerea della odierna St. Eustatius (fonte: Google Earth)

 

5. Da almeno un paio di secoli, ma a quest’epoca più che mai, i mari delle Indie occidentali erano teatro di continui incontri e scontri, agguati, scaramucce, inseguimenti, cacce, di cui erano protagoniste senza sosta, in pace e in guerra, navi di almeno sei o sette bandiere diverse, fregate da battaglia, veloci imbarcazioni autorizzate per la guerra di corsa – i cosiddetti privateers – ma anche flottiglie mercantili con le loro scorte e i velieri pirata di ogni genere che infestavano quelle acque pericolose. Ma, soprattutto, i mari caraibici costituivano lo scenario di un intensissimo traffico di contrabbando che, in aperta violazione delle legislazioni protezionistiche proprie di tutti i paesi europei attivi nell’area, dava vita a quel complesso intreccio informale di interessi che determinava la realtà di una storia economica e sociale atlantica impossibile da costringere nelle mere coordinate delle storie nazionali. In questa estesa rete di commercio la ricca isola di St. Eustatius, nelle Piccole Antille, aveva avuto e, nonostante le continue proteste inglesi, continuava ad avere un ruolo di primo piano, grazie anche al fatto che nel 1753 era divenuta porto franco.

6. Nota anche con l’eloquente appellativo di “The Golden Rock”, quest’isola rocciosa di origine vulcanica geograficamente parte delle Isole cosiddette Sopravento e appartenente alle Antille olandesi, insieme a St Maarten, Saba, Curaçao e Bonaire, era stata occupata nel 1635 e in seguito valorizzata, nonostante una natura non favorevole, dagli Olandesi, “who were the only people in the world who could have rendered so unpromising a spot a flourishing settlement”[6]. Nel corso del tempo, sotto il controllo della Compagnia delle Indie occidentali e in particolare della Camera della Zelanda, che vi esercitava il diritto di patronato, le condizioni propizie assicurate dalla mancanza di regolamenti commerciali e di imposizioni fiscali e doganali ne avevano permesso la crescente prosperità economica, resa possibile anche dalla collocazione geografica strategica e dalle caratteristiche naturali che ne avevano fatto uno dei porti più frequentati della regione caraibica. A poca distanza si trovavano, a est, la francese St. Barthélémy, verso nord le isole di St. Croix, danese (ora parte delle isole Vergini statunitensi) e la spagnola Puerto Rico; verso sud Antigua, St. Christopher (o St. Kitts) e Nevis, inglesi, Guadalupa e Martinica francesi. Grazie a questa situazione, la ricchezza di St. Eustatius venne a dipendere non tanto dalla limitata produzione locale di zucchero, tabacco, cotone e indaco, quanto essenzialmente dal commercio di transito, dal commercio di contrabbando di merci di ogni genere e provenienza e dalla raffinazione dello zucchero delle vicine isole inglesi e francesi.

 

Figura 3

 

Figura 3. Veduta dell'isola di St. Eustatius, disegno di Nicola Matraini, incisione di Giovanni Ottaviani, in Il Gazzettiere Americano, Livorno, Coltellini, 1763, vol. I, tra le pp. 188 e 189

 

7. Una testimonianza di notevole immediatezza e suggestione circa le condizioni di St. Eustatius a metà degli anni ’70 è offerta dalla aristocratica scozzese Janet Schaw, protagonista di un lungo viaggio che la condusse nelle Indie occidentali e in Nord Carolina e che le consentì di visitare varie isole inglesi, come Antigua e St. Christopher, e olandesi, come appunto St. Eustatius[7]. “A place of vast traffick from every quarter of the globe” ella lo definì quando vi sbarcò nell’autunno del 1774. Non bella l’isola, a suo dire, e non un posto dove avrebbe desiderato vivere, ma comunque uno straordinario “instance of Dutch industry”. La sua vera ricchezza consisteva non nelle produzioni del suolo, ma nella incredibile varietà merci di contrabbando che essa scambiava con le isole vicine donde trarre generi di sussistenza. La cittadina era piccola, attraversata da una sola strada lunga circa un miglio, stretta e affollata di gente che parlava lingue diverse, vestiva nei vari modi nazionali e fumava tabacco senza posa. Per lei, che di ebrei abbigliati al loro modo aveva visto solo l’attore Diggs nel ruolo di Schylock, il trovarsi al cospetto di un “set of Jews” era stato fonte di massima curiosità, ma anche di fremiti di pietà quando le fu raccontato quale orribile “Christian cruelty” alcuni di loro avessero patito nei rispettivi paesi per mano dell’Inquisizione prima di arrivare a St. Eustatius, dove avevano finalmente trovato accoglienza e trattamento umano. Com’è facile comprendere, quello che soprattutto impressionò la nobildonna, che da brava scozzese si compiacque di acquistare a buon mercato guanti francesi, calze inglesi, sottaceti, carni conservate, eccellente chiaretto e vari vini portoghesi, fu l’assortimento di mercanzie di ogni varietà e qualità:

From one end of the town of Eustatia to the other is a continued mart, where goods of the most different uses and qualities are displayed before the shop-doors [...] rich embroideries, painted silks, flowered Muslins, with all the manufacture of the Indies [...] jackets, trousers, shoes, hats [...] most exquisite silver plate, the most beautiful indeed I ever saw and close by these iron-pots, kettles and shovels [...] French and English Millinary-wares. But it were endless to enumerate the variety of merchandize in such a place, for in every store you find every thing, be their qualities ever so opposite.

8. Una cosa che Janet Schaw non ci dice, però, è quanto la prosperità dell’isola, fin dalla seconda metà del XVII secolo, dovesse alla tratta degli schiavi. Gestita dalla Compagnia olandese delle Indie occidentali e dai privati trafficanti, soprattutto inglesi, essa serviva sia alle necessità delle locali piantagioni di zucchero e tabacco, sia soprattutto al rifornimento delle vicine colonie insulari inglesi, francesi e spagnole (naturalmente al di fuori dell’asiento). Nel periodo di massima attività, a cavallo tra ‘600 e ‘700, circa 2-3000 schiavi all’anno venivano trasportati nell’isola direttamente dall’Africa. Gli schiavi erano addirittura divenuti una sorta di mezzo di pagamento per le merci, soprattutto zucchero e derivati, che giungevano a St. Eustatius da tutti i Caraibi per essere ridistribuiti soprattutto nell’America settentrionale. È vero però che intorno alla metà del XVIII secolo il commercio degli schiavi sull’isola cominciò a declinare, per essere infine proibito nel 1784, anche se la presenza di popolazione nera fu quasi sempre maggioritaria.

9. All’epoca dei fatti che ci interessano, St. Eustatius – le cifre disponibili non sono concordi, ma comunque ridimensionano quelle esagerate fornite dalle fonti coeve – contava 3295 abitanti, di cui 1574 bianchi e 1631 schiavi neri (nel 1790 avrebbe raggiunto la cifra di 7830, di cui 4944 schiavi neri e 511 ex-schiavi liberati)[8]. La popolazione libera era costituita in prevalenza da mercanti di diverse appartenenze nazionali – Olandesi, Francesi, Inglesi, Spagnoli, Americani, Turchi, Greci, Levantini – e da una comunità di Ebrei soprattutto sefarditi piuttosto consistente, anche se non quanto quella di Curaçao[9], e di varia provenienza europea e americana. I due fenomeni più significativi dal punto di vista demografico ed economico-sociale nella prima metà del ‘700 erano stati da un lato il crescente processo di anglicizzazione del’isola, dovuto alla sempre più massiccia presenza di mercanti inglesi[10]; e dall’altro il rafforzamento della comunità ebraica. A partire dal 1730 si era avuto un certo flusso di immigrazione ebraica soprattutto da Amsterdam e la crescita della comunità fu tale da portare alla fondazione della congregazione di Honem Dalim e alla concessione di libertà di religione e di commercio e di uguaglianza almeno parziale coi Cristiani grazie all’intervento dei parnassim di Amsterdam[11]. Il sostegno dei correligionari di Amsterdam e di Curaçao permise di procedere alla costruzione di una sinagoga che fu inaugurata nel 1739 e i cui resti sono stati recentemente oggetto di un’opera di restauro. Nel 1781 gli Ebrei erano rappresentati da 101 maschi adulti, per un totale di circa 350 ebrei residenti. La rada di St. Eustatius era frequentatissima, grazie alle franchigie esistenti. Le cifre disponibili parlano di un numero oscillante tra 1800 e 2700 navi che annualmente visitavano l’isola. Il massimo fu raggiunto nel 1779 con 3551 navi. Si trattava dunque di un emporio vivacissimo, molto ricco, crocevia di rotte commerciali provenienti da ogni parte d’Europa, Africa e Nordamerica, teatro di traffici impossibili da contenere entro le vigenti legislazioni proibizioniste e particolarmente lucrosi per gli Olandesi, che agivano da trasportatori, agenti di commercio e affaristi per conto di tutte le altre nazioni: si capisce che una volta effettuata la conquista, l’ammiraglio Rodney in persona potesse comunicare in una lettera che “the riches of St. Eustatius are beyond all comprehension [...] the capture is prodigious”[12]. Questo albero della cuccagna, però, si distingueva non solo per la sua fiorente economia mercantile, ma anche per la sua natura di tipica società multietnica, multilingue, multireligiosa cosmopolitica, tollerante, insomma, composita da ogni punto di vista e capace di attrarre onesti mercanti così come la peggiore feccia di ogni nazione europea.

Del resto, sarebbe stato lo stesso Edmund Burke a fornire ai Comuni una efficace rappresentazione dell’isola, delle sue caratteristiche naturali, economiche e sociali, in termini che confermano quanto finora detto:

This island was different from all others. It seemed to have been shot up from the ocean by some convulsion; the chimney of a volcano, rocky and barren. It had no produce [...] It seemed to be but a late production of nature, a sort of lusus naturae, hastily framed, neither shapen nor organized, and differing in qualities from all other. Its proprietors had, in the spirit of commerce, made it an emporium for all the world; a mart, a magazine for all the nations of the earth [...] Its wealth was prodigious, arising from its industry, and the nature of its commerce[13].

10. Di questa isola l’opinione pubblica europea dell’epoca, prima dei fatti che l’avrebbero innalzata alla ribalta della cronaca, poteva farsi un’idea di massima grazie alle notizie riportate nel tomo XV (1759) della Histoire générale des voyages, un’idea un po’ più dettagliata in base alla più ampia informazione contenuta in un’opera nota e diffusa come l’American Gazetteer (1762) (v. fig. 3) e infine un’immagine particolare grazie alla più celebre opera contemporanea sulla storia di traffici e insediamenti coloniali europei nel mondo, l’Histoire des Deux Indes di Raynal[14]. Ci interessa soprattutto quest’ultima per la sua capacità di mostrare, come prevedibile, in che modo le particolari condizioni di St. Eustatius ne avessero ispirato l’inserimento all’interno del discorso illuministico sulla libertà di scambio e sul doux commerce. Nel cap. XVII del libro XII dell’Histoire des Deux Indes Raynal, nel 1770, offre invero una succinta e assai poco seducente immagine di “St. Eustache”, ma poco oltre, nel cap. XX, è chiarissimo il suo intento ideologico. Quest’isola imprendibile anche dall’ “ennemi le plus audacieux”, solo a volerla difendere “avec vigueur et intelligence”[15], si trasformava in queste pagine in un minuscolo, ma efficace simbolo delle energie economiche che, anche coi mezzi illegali ma benèfici del contrabbando, potevano prevalere sia sul “joug odieux du monopole”, da cui le isole circonvicine erano oppresse, sia sugli spiriti bellicosi che dividevano le nazioni in lotta tra loro. Emporio generale delle Antille francesi, nella sua rada si davano convegno all’epoca della guerra dei Sette Anni mercanti di varie nazionalità dietro la protezione di un lasciapassare concesso senza riguardo al paese di appartenenza: “De cette grande liberté naissent des opérations sans nombre & d’une combinaison singulière. C’est ainsi que le commerce a trouvé l’art d’endormir & de tromper la discorde »[16]. Un’immagine simile sarebbe scaturita nel 1776 dalle pagine della Wealth of Nations, dove Smith, con la sua consueta essenzialità di linguaggio, avrebbe sottolineato, proprio in riferimento a St. Eustatius, la fecondità del libero commercio in antitesi alla sterilità della natura:

Curacoa and Eustatia, the two principal islands belonging to the Dutch, are free ports open to the ships of all nations; and this freedom, in the midst of better colonies whose ports are open to those of one nation only, has been the great cause of the prosperity of those two barren islands[17].

Anche per Adam Anderson, lo storico del commercio, il tratto distintivo dell’isola stava nel fatto di costituire una testimonianza tangibile di come grazie alla libertà il profitto commerciale potesse scaturire anche da una condizione di sterilità naturale e perfino da uno stato di guerra:

barren and contemptible in itself [St. Eustatius] had long been the seat of a very great and lucrative commerce and might indeed be considered the grand free port of the West Indies and America and as a general magazine to all nations. Its riches harvests were however during the seasons of warfare among its neighbours in consequence of its neutral state and situation with an unbounded as well as unrestrained freedom of trade[18].

Burke sarebbe dunque stato in buona compagnia quando nei suoi interventi parlamentari avrebbe insistito sulle virtù commerciali di St. Eustatius, sullo scarso impegno posto dai suoi abitanti nella cura delle fortificazioni, sulla mancanza di obbiettivi strategico-militari a guidare l’azione degli Olandesi, dei quali egli certo avrebbe condiviso la definizione raynaliana: “également inventif dans le moyens de faire tourner à son avantage le bien & le mal d’autrui”. Insomma, quest’isoletta simboleggiava alla perfezione le virtù del pacifico commercio: era, nelle parole del politico irlandese, una novella Tiro, la cui vocazione mercantile non andava però troppo d’accordo con le pretese della ragion di Stato e della politica di potenza[19].

11. La situazione di St. Eustatius si rivelò infatti particolarmente propizia – e una vera spina nel fianco per la Gran Bretagna – una volta scoppiata la guerra tra quest’ultima e le sue colonie nordamericane, che di fatto continuarono ad essere rifornite di tutto punto non solo da paesi nemici e da nazioni neutrali, ma perfino dai mercanti britannici della madrepatria e delle Antille inglesi proprio utilizzando l’emporio di St. Eustatius[20]: come si sa, il contrabbando, per definizione, non conosce confini nazionali. J. Franklin Jameson, utilizzando soprattutto la corrispondenza con Londra dell’ambasciatore a La Haye, sir Joseph Yorke, ha dimostrato l’importanza fondamentale che St. Eustatius ebbe per l’economia della rivoluzione americana, offrendo ai coloni tanto un mercato d’esportazione quanto una fonte di approvvigionamento particolarmente preziosa in tempi di boicottaggio e poi di totale sospensione delle importazioni britanniche[21]. Ma il beneficio fu reciproco, come del resto avvenne per Curaçao[22], e fin dal 1774 il volume di traffico dell’isola olandese iniziò a crescere in modo prodigioso e con esso la prosperità dell’isola. La presenza, poi, di mercanti americani, benché non nuova, divenne un fatto abituale, nonostante le rimostranze ufficiali di sir Joseph Yorke agli Stati Generali[23]. Una situazione del genere, peraltro, non era limitata a St. Eustatius e, quando la Gran Bretagna passò all’attacco nella regione caraibica, la sua offensiva avvenne contro altre isole e colonie olandesi, come St. Maarten, Saba, e, sulla costa dell’America meridionale, Essequibo e Demerara: “the golden rock” era solo il più ricco e importante, di una piccola costellazione di punti commerciali e di centri di scambi legali e illegali. Come si legge nel manifesto pubblicato dalla Gran Bretagna il 20 dicembre 1780 per illustrare i motivi della dichiarazione di guerra all’Olanda:

In the West Indies, particularly at St. Eustatius, every protection and assistance has been given to our rebellious subjects. Their privateers are openly received in the Dutch harbours; allowed to refit there, supplied with arms and ammunition, their crews recruited, their prizes brought in and sold[24].

12. Vi erano certamente ragioni di contrasto tra Gran Bretagna e Olanda legate allo svolgimento delle attività di commercio internazionale che esulavano dal teatro centro-americano[25]. Ma poi altre, a carattere più episodico, non mancarono di aggiungersene proprio concernenti St. Eustatius. Nel 1776, per esempio, le autorità olandesi dell’isola erano state protagoniste di un episodio controverso, che aveva suscitato le proteste formali del governo britannico, quando una nave da carico americana attrezzata per la guerra navale, l’“Andrew Doria”, si era presentata nella rada di St. Eustatius inalberando la “Great Union Flag”, la bandiera dei neonati Stati Uniti, e ricevendo il saluto rituale delle salve di cannone del forte di Oranja. L’evento fu denunciato dal governatore inglese della vicina St. Christopher come un grave sgarbo diplomatico nei confronti della Gran Bretagna, tanto che il Parlamento di Londra chiese agli Stati Generali scuse ufficiali, sotto minaccia di ritirare il proprio ambasciatore. Ma l’incidente non ebbe seguito e, nonostante l’intenso controllo navale britannico, St. Eustatius, “that famous deposit of wealth and mart of traffic”[26], continuò a svolgere i propri traffici con le ex-colonie nordamericane. In questo si distinguevano particolarmente i mercanti ebrei, grazie anche ai legami esistenti con le comunità sefardite del Nordamerica britannico. Queste ultime, attratte anche dall’esistenza di fatto di garanzie simili a quelle stabilite dal Jewish Naturalization Bill, votato dal Parlamento britannico nel 1753 e abrogato sul territorio metropolitano già nel 1754, si erano schierate in genere a favore della rivolta, come del resto le comunità ebraiche in Gran Bretagna, che nel 1776 avevano celebrato una solennità ufficiale per esprimere solidarietà ai ribelli americani[27]. Ciò aveva aggiunto ulteriori motivi di risentimento da parte delle autorità britanniche nei confronti degli Ebrei, oltre al fatto ben noto che da tempo e in varie località proprio ebrei di diversa provenienza erano stati i principali attori del traffico di contrabbando.

3.

13. Il 3 febbraio 1781, a poche settimane di distanza dalla dichiarazione di guerra all’Olanda – così poche da far pensare a Burke che l’operazione fosse stata accuratamente pianificata ben prima dell’inizio ufficiale delle ostilità –, una squadra navale inglese di potenza spropositata al comando dell’ammiraglio Rodney e recante a bordo un contingente di royal marines agli ordini del generale John Vaughan, si presentò di fronte a St. Eustatius, nella cui baia si trovavano alla fonda numerose navi mercantili di varie nazionalità, intimando la resa a cannoni puntati[28]. Il governatore De Graaff, con la sua guarnigione di 50-60 uomini, non tentò la minima resistenza e si arrese senza condizioni, “without resistance and at discretion”. Dal punto di vista militare fu un episodio del tutto insignificante e senza gloria da una parte né dall’altra. Ma ciò che trovarono Rodney, Vaughan e le truppe sbarcate a terra fu un vero tesoro: ogni ben di dio stipato nei magazzini, nei negozi, nei depositi, nelle stive delle oltre 130 navi all’ancora nella baia e perfino ammassato all’aria aperta, per un valore complessivo stimato prudenzialmente da Rodney in oltre due milioni di sterline, ma secondo altri calcoli ben oltre i tre milioni[29]. Insomma, considerata anche la cattura di sei navi da guerra, un bottino al di là di ogni aspettativa che provocò disperazione in Olanda[30], dove lo sviluppo degli eventi fu seguito dalla Gazette de Leyde, e manifestazioni di entusiasmo nell’opinione pubblica inglese. Ma cosa successe esattamente dopo l’occupazione britannica dell’isola ?

14. Rodney, da vero conquistatore, assunse il comando dell’isola, considerando tutti i presenti come prigionieri di guerra, confiscando in nome e a beneficio della Corona britannica navi, proprietà, locali e mercanzie di ogni tipo, coerentemente con quanto affermato nell’intimazione di resa. “The island of St. Eustatius – avrebbe in seguito precisato – was Dutch, everything in it was Dutch, everything was under the protection of the Dutch flag, and that as Dutch it shall be treated is the firm resolution of a British Admiral, who has no view whatever but to do the duty he owes to his King and country”[31]. Gli ordini impartiti dal Re in data 20 dicembre 1780 erano chiari a questo proposito[32] e l’ammiraglio non aveva mancato di esporli nell’intimazione di resa: tutti i beni sarebbero stati requisiti e messi a disposizione di Sua Maestà Britannica[33]. Il 4 febbraio scriveva al Segretario di Stato: “It is a vast capture; the whole I have seized for the King and the State and I hope will go to the public revenue of my country”, aggiungendo di non aspirare a niente personalmente, come pure gli consentiva la legittima quota di 1/8 prevista come “lawful prize” a favore degli autori della cattura, e di restare in attesa di ordini su come disporre della preda[34]. Peraltro, ulteriori sequestri avvennero nei giorni successivi ai danni di convogli olandesi da poco partiti oppure in arrivo nell’isola. Dopo soli due giorni Rodney poteva scrivere al Segretario di Stato per le Colonie, Lord Germain: “the capture is immense and amounts to more than I can venture to say. All is secured for the King, to be at his royal disposal”[35]. “The whole has been seized till his Majesty’s pleasure shall be known”, scriveva a Lady Rodney il 7 febbraio; e precisava con puntiglio: “no man has been allowed to plunder even a sixpence”. Ancora il 10 febbraio era in attesa di sapere i regi voleri circa la destinazione del “gracious bounty”. Nei giorni successivi, allo scopo di trasportare in madrepatria il bottino di St. Eustatius, iniziarono i preparativi per allestire un convoglio “extremely valuable, more so, I believe, than ever sailed to Great Britain, considering its number of ships”[36]. Rodney e Vaughan, determinati a non lasciare l’isola finché le operazioni di imbarco non fossero terminate e preoccupati di far sì che non si verificassero irregolarità, favoritismi e atti di “peculation” nel “business of the capture”, che avrebbe dovuto seguire precise formalità, nominarono commissari per sovrintendere sia in loco sia in Inghilterra alle operazioni relative alla stima e alla vendita delle proprietà confiscate[37]. Parte delle provviste e delle scorte sequestrate furono infine destinate all’uso delle forze armate e della marina britanniche sia in Nordamerica sia nelle Indie Occidentali.

Le attese istruzioni regie, datate 30 marzo 1781, pervennero infine nelle mani di Rodney e Vaughan durante il mese di aprile, non senza che, nel frattempo, note di elogio e di approvazione giungessero ai due comandanti inglesi dalle autorità della madrepatria, ad esempio direttamente dal Primo Lord dell’Ammiragliato, mentre riconoscimenti e onorificenze andavano preparandosi in patria per Rodney[38]. Le istruzioni regie, in sostanza, contenevano la rinuncia da parte della Corona, ai diritti sulle proprietà sequestrate al nemico a favore degli autori della conquista (forze della Royal Navy e del Royal Army coi rispettivi comandanti), disponevano il rispetto delle proprietà terriere dei residenti, incluso il prodotto, le case, gli schiavi, i beni personali, il bestiame e gli utensili, nonché delle merci appartenenti a sudditi britannici esportate legalmente nell’isola o legalmente importabili in madrepatria, finendo con il dare una descrizione decisamente restrittiva dei beni suscettibili di confisca e spartizione[39].

15. Non è facile stabilire fino a che punto il precedente comportamento di Rodney fosse stato compatibile con queste direttive che, in effetti, “from a source of wisdom and moderation”[40], restringevano sensibilmente le categorie di beni assoggettabili a confisca. Il regime di occupazione ch’egli instaurò fu responsabile di atti ispirati non solo da rigore, ma da vera e propria crudezza e mancanza di discernimento nel trattamento da riservare alle varie categorie di persone e nello stabilire i limiti delle confische e dei sequestri, che finirono per colpire indiscriminatamente, estendendosi con logica inquisitoriale ai libri contabili, alle carte d’affari, agli inventari, al denaro contante in possesso dei singoli. Non c’è dubbio che Rodney, come lascia capire la corrispondenza di un alto ufficiale imbevuto di senso del proprio dovere patriottico, nutrisse una velenosa ostilità verso il nemico, tanto più se questo gli appariva nella veste dei suoi stessi connazionali che in tempo di guerra si erano arricchiti con traffici illeciti ai danni della madrepatria. Egli era anche convinto che proprio le attività illecite facenti centro a St. Eustatius, “an asylum for men guilty of every crime and a receptacle for outcast of every nation”[41], avessero permesso ai ribelli americani di protrarre la guerra contro la madrepatria oltre le aspettative, consentendo inoltre ai Francesi di rifornire regolarmente le proprie isole. Perciò si compiacque della durezza del colpo inferto non solo alla città di Amsterdam – la cui responsabilità la diplomazia aveva formalmente distinto da quella degli Stati Generali d’Olanda, chiamati in causa solo per l’incapacità di sottrarsi all’influenza dei magistrati di Amsterdam[42] – ma a tutta l’Olanda e a “many of our people in London”: “It will teach them for the future not to supply the enemies of our country with the sinews of war: they suffer justly”[43]. Ciò che era accaduto per sua mano era una “just revenge of Britain” contro la perfidia olandese, ma anche contro tutti i nemici del paese:

France, Holland and America will most severely feel the blow that has been given them; and English merchants who, forgetting the duty they owe their King and country, were base enough, from lucrative motives, to support the enemies of Great Britain, will, for their treason, justly merit their own ruin[44].

 16. È anche chiaro che, dato questo atteggiamento, i propositi inglesi andavano ben al di là di una semplice confisca dei beni del nemico: l’obbiettivo era apertamente di carattere punitivo e vendicativo, come si capisce senza equivoco dalla dichiarazione di Rodney secondo cui non avrebbe lasciato l’isola finché “the Lower Town, that nest of vipers, which preyed upon the vitals of Great Britain, be destroyed”[45]. E molto eloquenti, sebbene non confermate dai successivi sviluppi, furono le sue espressioni di soddisfazione per l’impresa compiuta, alla vigilia della ripartenza dall’isola:

The island is put in a state almost impregnable and I hope [...] Vaughan and myself will leave it, instead of the greatest emporium upon earth, a mere desert, and only known by report; yet, this rock of only six miles in length and three in breadth, has done England more harm than all the arms of her most potent enemies, and alone supported the infamous American rebellion[46].

Contro quei sudditi britannici (inglesi e coloniali) che avevano trasgredito i propri doveri di fedeltà e che furono spediti in Inghilterra sotto accusa di alto tradimento, giunse ad adoperare espressioni di sapore biblico: “Providence has ordained this just punishment for the crimes they have committed against their country”[47]. Persone di varie altre nazionalità subirono le ritorsioni britanniche. Un occhio di riguardo fu usato solo con agenti e mercanti francesi. La protesta del governatore di Martinica per la pretesa durezza del trattamento riservato ai suoi connazionali incontrò una secca smentita da parte di Rodney. In una successiva occasione questi, precisando che la sua avversione era tutta per i “guilty American merchants and the equally guilty Bermudian and British” che poterono comunque conservare gli effetti personali, sostenne che, sebbene le loro merci fossero state effettivamente confiscate, i Francesi furono trattati col massimo rispetto e lasciati partire con i beni privati e perfino accompagnati dagli schiavi di loro proprietà. Lo stesso assicurò che avrebbe fatto coi mercanti olandesi, benché durissimo fosse il suo giudizio personale sul governatore de Graaff[48]. Le uniche persone per le quali ebbe parole di rispetto furono genericamente i proprietari di piantagioni di zucchero, pochi dei quali trovò coinvolti nei traffici illegali, nonché gli abitanti delle altre due isolette olandesi catturate nell’operazione, Saba e St. Maarten, i quali, osservò, “I believe will prove loyal subjects”[49].

17. Va naturalmente precisato che la corrispondenza dell’ammiraglio Rodney, edita alla fine del ‘700 limitatamente all’affare di St. Eustatius e poi in forma più ampia all’inizio del XIX secolo e in entrambi i casi con un palese intento apologetico[50], non può essere considerata una fonte attendibile per la ricostruzione di questi fatti (che peraltro non è nostro obbiettivo primario), anche perché di alcune missive furono esplicitamente pubblicati da Mundy solo estratti: non è dunque possibile, senza un accurato lavoro di riscontri incrociati, escludere che queste o altre siano state edulcorate o censurate (come lo stesso Jameson sembra sospettare) e che l’intera raccolta sia frutto di una selezione[51]. Ovviamente, nelle sue lettere sia ufficiali sia private Rodney cerca di giustificare il proprio operato, mostrandolo del tutto in linea con gli ordini ricevuti, ispirato unicamente a senso del dovere e alieno dalla ricerca di tornaconto personale. Circa la sorte dei residenti e delle ricchezze di St. Eustatius egli tiene a specificare la volontà di discernimento e la ricerca di giustizia, pur non celando affatto i sentimenti personali. Sarebbe ingenuo pensare di imbattersi nell’aperta ammissione di atti di violenza gratuita e indiscriminata da parte delle truppe britanniche verso beni materiali o persone di qualsiasi appartenenza nazionale. Detto questo, è comunque un dato che in nessuna delle sue lettere note utilizzate dagli storici[52] troviamo riferimenti diretti, specifici ed esclusivi agli Ebrei di St. Eustatius – e dunque non estesi ad altri gruppi nazionali – tali da poter spiegare il trattamento particolarmente duro che, come si è visto in apertura, fu riservato unicamente a loro il 13 febbraio. Quel che è certo, però, è che un centinaio di capifamiglia Ebrei furono convocati senza preavviso e sottoposti a umilianti perquisizioni nella convinzione che celassero su di sé ricchezze consistenti, subendo confische di beni, denaro, oggetti personali. Come già si è detto, trenta su cento furono immediatamente separati dai propri familiari, imbarcati senza preavviso e senza possibilità di portare con sé effetti personali di alcun genere e trasportati sulla vicina isola britannica di St. Christopher, dove furono accolti con generosità[53]. I restanti vennero tenuti sotto chiave per alcuni giorni. Quando uscirono, trovarono che le merci di loro proprietà già sequestrate sarebbero state messe all’asta. Per colmo del paradosso, alcuni degli esiliati erano Americani fedeli alla causa britannica o persone che si erano distinte in attività commerciali a favore della Gran Bretagna[54]. Sul fatto che alcune delle loro abitazioni e la sinagoga furono date alle fiamme esistono invece fondati dubbi[55].

18. A questo proposito si pongono due questioni, il cui chiarimento non è tra gli scopi di questo contributo, ma che sono le stesse finite al centro del dibattito coevo e sulle quali Edmund Burke assunse posizioni che costituiscono l’oggetto principale del nostro interesse. La prima: il comportamento di Rodney e delle truppe britanniche verso persone e cose di St. Eustatius rimase entro i limiti previsti dal diritto delle genti e stabiliti dalle loro istruzioni o comunque consueti nel modo di conduzione di operazioni belliche nel secolo XVIII, oppure tralignò in forme di illegalità e in eccessi ingiustificabili ? Secondariamente, si può parlare di accanimento da parte di Rodney verso la popolazione ebraica e di un atteggiamento che sia possibile definire ‘antisemita’ ?

Sul primo punto, pur prendendo atto sia delle dichiarazioni ufficiali dell’ammiraglio sia delle vicende posteriori, in particolare quelle legate alle numerose cause intentate da sudditi britannici che si erano ritenuti ingiustamente danneggiati e al loro esito contraddittorio, la storiografia più recente tende ad ammettere che a St. Eustatius, pur non essendosi svolto alcun saccheggio, furono effettivamente compiuti atti “indiscriminati” di sopraffazione e di violenza per inaccettabili motivi di mera ritorsione non suffragati dalle istruzioni ricevute dal governo, ma anche per più prosaiche ragioni di interesse privato collegate alla percentuale della preda spettante per consuetudine agli autori della conquista[56]. Che però Oranjestad sia stata rasa al suolo è asserzione priva di riscontro, nonostante i chiari auspici in tal senso espressamente e ripetutamente formulati da Rodney[57].

Per quanto riguarda il trattamento degli Ebrei, certamente l’episodio, in cui non mancarono di sicuro gesti di brutalità, si è conquistato un posto nella tragica galleria delle manifestazioni occidentali di antisemitismo[58]. Ravvisare segni inequivocabili di atteggiamento antisemita in Rodney, al di là della fondatezza dell’applicazione di un aggettivo di origine tardo-ottocentesca a comportamenti risalenti a un secolo prima[59], è però parso di fatto difficile anche a commentatori di parte che pure accreditano forme di violenza non dimostrate, come l’autore del Jewish People’s Almanac del 1981, secondo il quale “although the lower town of St. Eustatius and all its commercial buildings were torn down by Admiral Rodney in 1781, he cannot be charged with anti-Semitism”[60]. Come si è visto, la corrispondenza, pur con tutte le riserve del caso, parrebbe autorizzare questa conclusione, specie in considerazione del fatto già osservato che l’astio e il desiderio di vendetta che essa rivela non sono mai indirizzati verso gli Ebrei, ma contro tutti quei “villains”, “vipers” e “thieves”, soprattutto inglesi – alcuni dei quali certamente di religione ebraica – ritenuti colpevoli di aver danneggiato gli interessi della madrepatria e addirittura di aver rinnegato la “allegiance” verso la Corona britannica facendosi “burghers” olandesi[61]. Va però osservato anche che Rodney non mancò affatto, in lettere antecedenti i fatti di St. Eustatius, di usare espressioni particolarmente severe e sprezzanti nei confronti degli Ebrei, definiti gente che “will do any thing for money” e “who carry on a most pernicious commerce”, al punto da meritare in anni precedenti, a Giamaica e sempre per mano di Rodney, la confisca di diverse navi da carico[62]. E infine va anche detto che la durezza riservata agli Ebrei collettivamente – e non ad alcuni soltanto tra di loro in quanto sudditi inglesi – non fu usata nei confronti di altri residenti di St. Eustatius caduti in mani britanniche. Significativa, a tal proposito, fu anche la sorte della supplica presentata a Rodney e Vaughan a nome del “people of the Hebrew nation residents in the island of St. Eustatius” già in data 16 febbraio 1781 e il cui contenuto vale la pena di essere richiamato[63]. Gli estensori, evidentemente Ebrei rimasti sull’isola, alcuni dei quali definentisi “natural-born subjects of Great Britain”, rivendicavano in termini generali il lealismo dei loro correligionari alla Corona e alla costituzione britannica. Elogiavano lo spirito di tolleranza proprio dei principi costituzionali britannici verso religioni che, come quella ebraica, insegnavano pace e obbedienza all’autorità costituita. Formulavano la richiesta di conoscere per quali crimini bando e confische fossero stati decretati nei confronti delle loro famiglie, escludendo che potesse essere considerato delittuoso, in una “British island” (quale St. Eustatius andava considerata dopo la conquista), il semplice professare la religione ebraica. Così dicendo, chiaramente insinuavano il sospetto che proprio questa circostanza, e non altro, avesse originato l’ostilità e la crudezza usate verso di loro e, al tempo stesso, dichiaravano apertamente la loro sottomissione e lealtà all’autorità britannica insediatasi sull’isola. La petizione, che in effetti era una esplicita (quanto ambigua) richiesta di essere ammessi a confermare (coloro che già erano sudditi britannici per nascita) o a prestare ex novo “oath of allegiance”[64], fu accolta con la massima indifferenza e, anzi, non ricevette risposta alcuna (esattamente, va pur detto, come avvenne con un’altra petizione presentata dai mercanti inglesi di St. Christopher). In definitiva, considerato tutto quanto fin qui esposto, lo storico che più recentemente si è occupato della questione non sembra avere torto a sottolineare la presenza, comunque, di una vena antisemita nella condotta di Rodney[65].

19. Quale che sia il giudizio della storiografia odierna sulla base delle fonti disponibili, certo è che le vittime della durezza britannica si fecero immediatamente sentire sia ad Amsterdam sia a Londra, anche perché tra di esse vi erano, come si è detto, parecchi sudditi inglesi residenti nelle vicine Antigua e St. Christopher e proprietari di magazzini, carichi e attività a St. Eustatius. Proprio questi ultimi presentarono a Rodney due memoriali di protesta[66], seguiti entro breve tempo dagli “West India merchants and planters” della capitale[67]. Allarmati per possibili ritorsioni francesi, loro rappresentanti incontrarono il Segretario per le Colonie Lord Germain e il 6 aprile 1781 presentarono al Re una petizione redatta con chiarezza ed efficacia[68]. In seguito, altre voci di protesta si levarono ancora dalle province dell’impero, come quel “little piece of provincial oratory” mediante cui un “address” fu inoltrato al Re dall’assemblea dei rappresentanti di St. Christopher tramite il loro agente coloniale a Londra nel novembre 1781[69]. Ma già da alcuni mesi l’affare di St. Eustatius era giunto di fronte al Parlamento. Ed è qui che, nel maggio 1781, Edmund Burke tenne il suo primo discorso (un secondo seguì nel dicembre dello stesso anno) a favore di un’inchiesta sui fatti di St. Eustatius (alla fine respinta dai Comuni per 160 voti a 86), pronunciando una accorata difesa delle vittime di Rodney, soprattutto gli Ebrei, e una ferma condanna sia dei comandanti britannici sia del governo[70].

4.

20. L’affare di St. Eustatius giunse all’attenzione del Parlamento in una fase molto delicata per la posizione internazionale della Gran Bretagna – contro la quale si era schierata praticamente mezza Europa – e in un momento particolarmente difficile di quella che, da conflitto interno dell’impero, era diventata da alcuni anni una guerra generale europea. Il futuro del conflitto americano era incerto. La flotta francese nelle Indie Occidentali costituiva una minaccia molto seria e si sarebbe infatti rivelata determinante, nei mesi successivi, negli eventi che portarono all’assedio e alla resa di Yorktown. Le mosse della flotta di Rodney stazionata nei Caraibi sarebbero state quindi decisive. E infatti in seguito non mancarono critiche ulteriori dell’operato dell’ammiraglio. Rivolgendogli l’appellativo poco onorevole di “storekeeper”, gli fu rimproverato di aver indugiato per tre mesi a St. Eustatius nello sforzo di spremerne il massimo bottino possibile da dividere con Vaughan, rinunciando a ingaggiar battaglia con l’ammiraglio de Grasse nelle acque caraibiche[71]; e poi di essersene tornato in patria, così permettendo ai Francesi non solo di veleggiare senza ostacoli verso la Chesapeake Bay, ma anche di impadronirsi subito dopo di varie isole caraibiche, tra cui la stessa St. Eustatius, che in effetti cadde restò in mano francese dal novembre 1781 al novembre 1784[72], quando passò ancora una volta agli Olandesi. Val la pena notare come, dopo la parentesi britannica, l’isola recuperò prontamente la sua prosperità, tanto che nel 1790 la sua popolazione era cresciuta fino a quasi 8000 residenti e cominciò perfino ad apparire un giornale in lingua inglese, la “St. Eustatius Gazette”[73]: l’occupazione inglese non dovette dunque avere effetti così devastanti[74]. Lo stesso Rodney, per parte sua, poté riscattare il proprio nome con una brillante e completa vittoria navale sulla flotta di de Grasse nell’aprile 1782, nonostante in seguito le sue fortune private dovessero soffrire non poco del fatto di dover fare fronte a una serie di prolungate e dispendiose cause intentategli dalle vittime delle confische di St. Eustatius.

21. Nella prima metà del 1781 il governo North si trovava in una situazione difficile, che alcuni mesi dopo Yorktown l’avrebbe portato alle dimissioni. La guerra americana non solo pareva non potersi sbloccare, ma rischiava di minacciare seriamente la sicurezza di un’Inghilterra ormai priva di alleati. L’opposizione, che già aveva criticato la dichiarazione di guerra all’Olanda come innaturale e contraria agli interessi e ai legami tradizionali del paese, era in cerca di argomenti per tenere alto il tono della polemica antiministeriale. Non c’è dubbio che i fatti di St. Eustatius poterono prestarsi in tal senso, nonostante i rapporti tra gli “West India interests” nel paese e in Parlamento, dove disponevano di una potente lobby, e l’opposizione whig di Fox e di Rockingham, a cui pure li univa l’ostilità per la guerra americana, non fossero sempre coincidenti, come aveva dimostrato la necessità da parte di Burke di lasciar cadere entro il 1780 qualsiasi idea di graduale abolizione della tratta degli schiavi[75]. All’inizio del 1781 Burke era già intervenuto ai Comuni mettendo sotto pressione il governo circa le reali opportunità e necessità della rottura con l’Olanda. E anche ai Lords c’erano state aperte manifestazioni di critica verso il ministero motivate sia salle preoccupazioni che la nuova guerra con l’Olanda aveva suscitato circa la posizione internazionale della Gran Bretagna sia dallo scontento per il rifiuto opposto dall’amministrazione e dalla maggioranza dei Comuni alla richiesta di fornire più ampie informazioni circa le cause della rottura[76]. Ulteriori questioni su cui l’opposizione mantenne desta l’attenzione furono gli affari dell’India e, a metà febbraio 1781, il progetto di riforma della lista civile, che era stato respinto circa un anno prima e che ancora una volta Burke sottopose ai Comuni. È dunque in questo particolare clima di iniziativa politica dell’opposizione che Burke prese nelle proprie mani l’affare di St. Eustatius, con un primo, ampio intervento parlamentare tenuto il 14 maggio 1781 allo scopo di ottenere tutta la necessaria documentazione riguardante la condotta di Rodney e Vaughan durante la presa e l’occupazione dell’isola[77]: erano passati poco più di tre mesi dai fatti e dalla petizione degli Ebrei cacciati da St. Eustatius, la prima delle varie altre che altre categorie di vittime avevano indirizzato a Rodney e al Re.

22. L’interesse di questo discorso – che ne giustifica la collocazione accanto ai più noti interventi di Burke relativi al conflitto con le colonie americane e a quelli sugli affari indiani – non sta tanto nella sua valenza politica immediata, quanto nel fatto che le critiche burkiane ai comandanti britannici e al potere esecutivo è sostanziata da motivazioni e da riflessioni in materia di guerra, conquista, diritti e doveri di conquistatori e conquistati, diritto delle genti, che presentano notevole valore per lo storico del pensiero di Burke, ma anche per quello della cultura politica britannica in materia di impero e governo dell’impero alla fine del secolo XVIII. Tutta la prima parte del discorso era dedicata a una ricostruzione storico-cronachistica dei fatti accompagnata da osservazioni e giudizi attraverso cui prendeva forma l’appassionata condanna di Burke, in termini soprattutto umanitari, nei confronti di quella che ai suoi occhi si presentava come “a cruelty unheard of in Europe for many years, and such as he would venture to proclaim was a most unjustifiable, outrageous and unprincipled violation of the laws of nations” (p. 302). Tale era a suo avviso la confisca generale e indiscriminata operata da Rodney nei confronti dei beni pubblici e privati di un nemico che si era arreso senza combattere e senza condizioni, rimettendosi alla clemenza del vincitore, e che invece si era trovato vittima di un accanimento ingiustificabile. Si era trattato di un “complete act of tyranny [...] unparalleled in the annals of conquest”, consumato oltretutto nei confronti di privati di varia appartenenza nazionale indistintamente accomunati nella condizione di ‘nemici’, mediante metodi e atti che, con il consueto vigore retorico, Burke giudicava propri non di un paese libero, di una “enlightened age”, dell’Europa civile e illuminata, ma della barbarie dei tempi più oscuri. I termini che egli adoperava per descrivere gli eventi non lasciavano dubbi di interpretazione: ciò che era avvenuto erano stati rapina, saccheggio, tirannia oltre ogni limite immaginabile. Una attenzione particolare richiedeva il caso degli Ebrei, poiché “The poor Jews at St. Eustatius were treated in a worse manner, if possibile, than all the other inhabitants”. Gli Ebrei erano stati vittime di “persecution” e “banishment”. E per “the people whom of all others it ought to be the care and the wish of human nations to protect” (p. 304), trovava parole particolarmente accorate con cui descrivere le angherie a cui era stato sottoposto, fino a fornire dettagli su casi individuali che potevano essergli giunti solo tramite testimoni diretti. La mancanza di un governo nazionale, di poteri statali, di un sistema specifico di leggi, perfino di stanzialità non evocavano in questo contesto la eventuale prospettiva di misure emancipatorie, bensì suggerivano l’idea che la protezione di questo popolo fosse un preciso dovere suggerito dai sentimenti umanitari propri delle “civilised nations”: “Humanity then must become their protector and ally” (p. 304). Non era la consueta immagine ambigua di ‘diversità’, pericolosamente esposta a interpretazioni razziali, quella che Burke richiamava a proposito degli Ebrei. Egli raffigurava invece a rapidi tratti un popolo tipicamente cosmopolita, i cui eventuali vizi dipendevano semmai da una condizione storica di dispersione, di sottomissione, di proscrizione, ma che nondimeno gli si presentava sotto il profilo della “utility”. Le comunità degli Ebrei erano come i gangli di una catena globale attraverso cui la linfa del credito poteva comunicarsi e alimentare la civiltà mondiale del commercio. Difenderli significava garantire l’idea stessa di modernità basata sullo scambio e sul credito. Pur non trascurando affatto nella propria requisitoria le altre vittime dei provvedimenti di confisca e bando dall’isola – Americani, Olandesi, Francesi, Inglesi – Burke dette particolare risalto al destino dei poveri Ebrei perseguitati di St. Eustatius, quei “transported beggars” di cui volle evidenziare la sfortunata condizione causata dalla difficoltà di ottenere quelle stesse riparazioni legali che altre comunità potevano sperare dalle garanzie e dalle procedure esistenti. Tanta sensibilità per i diritti civili di Ebrei di varia nascita e provenienza costituisce un elemento che vale la pena sottolineare, chiedendosi al tempo stesso se esso trovi riscontro in analoghe prese di posizione di Burke con riferimento alla condizione degli Ebrei in Gran Bretagna.

23. Il problema dello status civile degli Ebrei non sembra in realtà aver mai rappresentato un tema sul quale Burke si sia impegnato con iniziative e battaglie politiche, nonostante non manchino da parte del politico irlandese appelli a favore della tolleranza nei confronti degli Ebrei, come verso i musulmani e i non cristiani: appelli inequivoci, benché non altrettanto sistematici e accompagnati da iniziative pratiche quanto quelli a favore dei “dissenter” e dei cattolici, in particolare irlandesi. In generale, Burke, sebbene favorevole a un “religious establishment” nazionale, ebbe modo di pronunciarsi ripetutamente a favore di un ampia tolleranza religiosa, mostrando in proposito un chiaro atteggiamento liberale. I “dissenters” a suo parere avrebbero dovuto godere di margini più ampi di libertà di quelli accordati dal “Toleration Act” di re Guglielmo III ed egli poté addirittura affermare che “my ideas of toleration go far beyond even theirs [dei dissenters] ”.

I would give – dichiarò a un corrispondente – a full civil protection, in which I include an immunity from all disturbance of their public religious worship, and a power of teaching in schools as well as temples to Jews, Mahometans and even Pagans; especially if they are already possessed of those advantages by long and prescriptive usage, which is as sacred in this exercise of rights, as in any other[78].

In altra occasione, scrivendo al ministro della Chiesa scozzese John Erskine (1721–1803),  in relazione alle violente prese di posizione assunte da quest’ultimo nel 1778 contro le proposte di abrogazione della legislazione anticattolica, affermò a chiare lettere che “I should think myself inconsistent in not applying my ideas of civil liberty to religious”, precisando che la sua esplicita predilezione per il cristianesimo non poteva impedirgli di provare “that respect for all the other religions, even such as have mere human reason for their origin, and which men as wise and good as I profess”; e che dunque “I could not justify to myself to give to the synagogue, the mosque or the pagoda the language which your pulpits bestow upon a great part of the Christian world”[79].

Il fatto che a simili dichiarazioni Burke non abbia fatto seguire forme di impegno continuativo a favore della completa eguaglianza di diritti per gli Ebrei non deve però indurre a giudicare semplicemente strumentale l’attenzione mostrata verso gli Ebrei di St. Eustatius Basti considerare il fatto che sulla scena politico-ideologica britannica il problema della condizione civile degli Ebrei, dopo il clamoroso fallimento del progetto di legge per la naturalizzazione degli Ebrei nel 1753-1754, parve scomparire del tutto – non molto dovette giovare la pittoresca conversione all’ebraismo, con relativa circoncisione, di Lord Gordon, più tardi sprezzantemente definito da Burke stesso “our protestant Rabbin”. Sarebbe tornato d’attualità, e con concrete prospettive politiche di risoluzione, solo nei primi anni ’30 del XIX secolo, anche per l’effetto di trascinamento sortito dalla legislazione per l’emancipazione dei Cattolici[80]. Questo non toglie, naturalmente, che sussista un problema di ambiguità nella posizione burkiana verso gli Ebrei, specie alla luce delle note di antisemitismo o, per meglio dire, di denigrazione antiebraica, che affiorano nei suoi scritti contro la rivoluzione francese, dove la polemica contro i radicali dissenters inglesi si colora di espressioni linguistiche sprezzanti alla volta dell’ebraicità, prefigurando l’interpretazione cospirativa che vede nel radicalismo unitario inglese e nella rivoluzione francese le due facce di un medesimo attacco giudaico contro la divinità di Cristo e contro la società cristiana e gerarchica tradizionale[81].

24. Per tornare alla vicenda di St. Eustatius e al relativo intervento parlamentare di Burke, l’interesse particolare di quest’ultimo risiede certamente nel fatto di aver accompagnato l’illustrazione e la denuncia dei fatti effettuate nella prima parte del discorso con una ampia disamina, nella seconda parte, degli aspetti dell’accaduto che chiamavano in causa più in generale il diritto delle genti – precisamente: “that right which a conqueror attains to the property of the vanquished by the laws of nations” (p. 308) – e che presentano implicazioni evidenti in tema di governo imperiale. Burke distingueva con chiarezza ciò che riguardava i possibili eccessi comportamentali degli occupanti dagli aspetti di diritto. Se i primi potevano essere censurabili sotto il profilo umanitario, era a suo avviso essenziale sottolineare come essi non trovassero alcun appiglio nemmeno in considerazioni di natura giuridica in materia di diritto di guerra e di preda. Il capitolo che così si apriva costituiva un terreno non privo di incertezze, derivanti dall’assenza, che Burke sottolineava, di un diritto internazionale basato un codice di leggi scritte nero su bianco paragonabile agli statuti della Gran Bretagna. Ciononostante esisteva a suo avviso un diritto delle genti stabilito, chiaro e obbligatorio, che caratterizzava la “enlightened Europe”, informava i “rights of civilised war” e di cui Burke indicava quattro fonti principali: la ragione, le convenzioni tra le parti, l’autorità dei testi e il precedente.

25. È interessante osservare come Burke poco facesse affidamento e liquidasse in poche parole l’autorità dei testi, laddove è frequente, da parte di chi si è occupato del pensiero burkiano in materia di diritto internazionale, metterlo in relazione con Vattel, che pure anche in questa occasione egli citava espressamente, benché apparentemente per approvarne più certi aspetti di ispirazione generale che non la dottrina[82]. Il mancato richiamo ai testi è facilmente spiegabile con la circostanza che Burke sembrava, in realtà, assumere posizioni più radicali e più avanzate di quelle del giurista svizzero. Nel Droit des Gens Vattel afferma molto chiaramente il diritto di uno Stato di impossessarsi, come “conquêtes” e come “butin”, dei beni appartenenti ai privati sudditi di uno Stato nemico allo scopo di indebolire quest’ultimo, ripagare le spese di guerra, garantire la sicurezza, anche se pronuncia contestualmente un invito a “modération”, “compassion”, “clémence”, “humanité” e alla presunzione di buona fede a favore del nemico, lasciando intendere che il diritto di punire rivalendosi sui beni del nemico debba essere esercitato solo nel caso che quest’ultimo sia responsabile di atti consapevoli di manifesta ingiustizia[83]. L’autore svizzero giustifica per gli stessi motivi perfino il saccheggio e la distruzione, definendoli delle “terribles extrémités” da adottare solo per fondati motivi (punizione di una nazione manifestamente ingiusta e crudele, allontanare pericoli maggiori), ma che diventano “excès barbares set monstrueux” se praticati senza ragioni di necessità. La conclusione di Vattel è che “tout le mal que l’on fait à l’Ennemi sans nécessité, toute hostilité qui ne tend point à amener la victoire et la fin de la guerre est une licence que la Loi Naturelle condamne » (p. 142). Da questo punto di vista dunque non era assolutamente evidente che i principi di Vattel suffragassero una condanna netta di Rodney, ove fosse stato dimostrabile che questi non solo non aveva permesso alcun saccheggio, ma aveva agito con il preciso intento di indebolire il nemico e di accelerare la fine della guerra. Un altro passo di Vattel rilevante rispetto alla situazione era quello in cui il giurista (l. III, chap. V, § 75) definisce i “beni del nemico” e dichiara che “ce n’est point le lieu où une chose se trouve, qui décide la nature de cette chose-là, mais la qualité de la personne à qui elle appartient »[84]. Alla luce di questa affermazione diventava decisiva l’identificazione dell’appartenenza nazionale dei privati colpiti dai provvedimenti di confisca, sicché ai beni di sudditi britannici (esclusi gli Americani, evidentemente) presenti a St. Eustatius risultava impossibile applicare la definizione di “beni del nemico”. Che quei beni fossero stati legittimi oggetti a confisca veniva allora a dipendere dal fatto che fosse una colpa portarli su un mercato dove avrebbero potuto essere acquistati dal nemico: per Rodney questo era sicuramente vero, per Burke sicuramente no, ma non tanto in base a quanto poteva trovare in Vattel. Se Burke riteneva che sudditi britannici in affari a St. Eustatius fossero stati colpiti ingiustamente da confische ciò era in considerazione dell’esistenza di precise e recenti leggi autorizzanti i commerci a St. Eustatius, peraltro invocate da tutte le petizioni britanniche contro l’ammiraglio inglese[85]: “the merchants of Britain traded to St. Eustatius under positive acts of parliament” (p. 312). E quelle leggi autorizzavano lo svolgimento di traffici che andavano a vantaggio dell’universalità di chi vi prendeva parte, britannici inclusi, prendendo dunque atto del fatto che quell’isola funzionava da mercato di smistamento e di rifornimento generale: rivelando una prospettiva cosmopolitica, liberale e liberoscambista Burke concludeva che “the island therefore was a common blessing” (p. 313).

26. C’erano dunque, per condannare Rodney, altri e più cogenti argomenti che non quelli offerti da Vattel. Per esempio i precedenti, o meglio, l’assenza di precedenti di atti analoghi a quelli commessi da Rodney. In realtà, Burke doveva sapere molto bene come precedenti di questo genere la storia europea ne offrisse, a cominciare dal famigerato caso dei “poor Palatines”, i profughi protestanti tedeschi dell’alto Reno fuggiti dalle persecuzioni e dai saccheggi francesi all’epoca della guerra di successione di Spagna[86]. Egli stesso, nel suo Annual Register, aveva avuto modo di condannare le estorsioni operate da Federico di Prussia in Sassonia nel 1756 con affermazioni dello stesso tenore di quelle usate in questa occasione[87]. È chiaro che nella presente circostanza prevaleva invece nella sua retorica la volontà di postulare come un dato di fatto la scomparsa nelle convenzioni europee di comportamenti simili a quelli che solo pochi anni prima egli stesso aveva rilevato e censurato. La riconquista francese di Grenada nel 1779 che, così come gli Inglesi avevano rispettato le proprietà francesi all’atto della conquista nel 1759, non aveva comportato confische di sorta, costituiva un esempio pertinente per rifiutare qualsiasi prassi di confisca generale e ad esso Burke si appellava di preferenza che non a Vattel. Nello stesso senso del superamento dell’orizzonte dei principi posti da Vattel andavano gli altri due argomenti impiegati da Burke. Il primo era quello delle convenzioni stabilite tra le nazioni europee, secondo la visione di un sistema europeo di civiltà giuridica e politica che Burke avrebbe più tardi sviluppato nella sua critica della rivoluzione francese. Secondo quelle convenzioni, poste a fondamento del “right of civilised war”, alla conquista poteva seguire la confisca della “public property”, ma non la confisca generale delle proprietà private, a differenza di quanto avveniva in alto mare, dove la confisca di beni del nemico, per quanto essa stessa segno di “inhuman species of war”, era comunemente praticata. Se Burke non poteva evidentemente fare troppo affidamento su quest’ultimo punto in una situazione in cui era comune la prassi della emissione delle cosiddette “Letters of Marque and Reprisal” per autorizzare i privati alla guerra di corsa, nemmeno il primo punto pareva troppo solido: le istruzioni regie a Rodney e l’intimazione di resa all’isola olandese ne erano una prova evidente, dichiarando apertamente a disposizione della Corona britannica tutti i frutti della conquista. Restava per Burke dunque l’ultimo argomento: i diritti basati sulla ragione. E su questo egli faceva soprattutto leva per proporre una visione delle relazioni internazionali in stato di guerra che andava ben oltre Vattel.

27. A differenza di quest’ultimo, Burke sosteneva con fermezza un’idea di guerra civilizzata che coinvolgeva gli Stati e non gli individui e dichiarava che “a state [...] in case of conquest does not take possession of the private property, but of the public property of the state conquered” (p. 309). Ciò era vero in caso di resa, poiché la resa equivaleva a una richiesta di protezione, ma Burke sembrava ritenerlo tale più in generale in ogni caso di conquista: un’idea che egli presentava però senza troppo rigore e non senza cadere in ambiguità. L’idea di guerra civilizzata esigeva che il fine della conquista fosse l’esercizio dell’autorità politica, non il saccheggio: e quell’autorità politica, secondo Burke, discendeva dalla conseguenza immediata e implicita derivante dalla conquista, ossia il “virtual compact” tra il vinto che chiedeva protezione e il vincitore che l’accordava esigendo obbedienza. Qui Burke si staccava del tutto dall’orizzonte di Vattel per avvicinarsi semmai al pensiero di John Locke, benché con alcune differenziazioni. Nel cap. XVI del Second Treatise, Locke aveva affermato che il conquistatore in una guerra giusta acquisiva bensì un potere (e aggiungeva: un potere “perfettamente dispotico”) sulle vite dei vinti che si erano effettivamente impegnati a resistergli. Tale potere e titolo non si estendevano però sulle proprietà di chi nella guerra non si era effettivamente impegnato; e per quanto riguarda chi invece vi si era impegnato attivamente, tale potere sussisteva solo nella misura strettamente necessaria per consentire riparazioni e pagamento delle spese di guerra (cap. XVI, §§ 177-182). Fin qui Burke avrebbe potuto almeno parzialmente trovare una conferma di posizioni che erano certamente molto avanzate per il suo tempo, ma anche per quello di Locke[88]. Dove Burke si distanziava da Locke era invece a proposito del tipo di rapporto politico che poteva scaturire dalla conquista (a seguito di guerra giusta). Locke aveva evidenziato con nettezza l’impossibilità di far derivare un’obbligazione legittima dalla forza. E aveva affermato l’infondatezza di una promessa estorta con la costrizione. L’idea di una sottomissione per consenso da parte dei conquistati conteneva la paradossale implicazione di far dipendere l’autorità del conquistatore dal consenso dei vinti. Burke sembrava aggirare questa difficoltà facendo riferimento al caso specifico di resa incondizionata. Attraverso la resa incondizionata, chi la pronunciava perdeva per ciò stesso la condizione di partecipante alla guerra: veniva a cessare la reciprocità, spariva l’essenza stessa della guerra. Perciò egli ravvisava nella conquista che segue la resa incondizionata un meccanismo che dava origine a un patto di governo ancorché “virtuale”. Questo nasceva a seguito della ricerca da parte dei singoli di protezione e di completa tutela dei propri diritti: una tutela che per ogni suddito o cittadino discendeva dal “trust” insito in ogni rapporto di subordinazione politica e che escludeva per definizione ogni possibilità di confisca dei diritti di proprietà dei privati. Il sovrano, perfino il despota, che si impadronisce della proprietà dei suoi sudditi – quale che sia il meccanismo attraverso cui i sudditi sono divenuti tali – viola il “trust” che gli è affidato e perde titolo alla propria autorità e da re diviene predone. Ugualmente inammissibile Burke giudicava, da un lato, che il suddito perdesse qualsiasi titolo alla protezione dei suoi possessi, ma continuasse ad essere vincolato al dovere di obbedienza; e, dall’altro, che un sovrano si fregiasse del titolo di re, ma insieme pretendesse la proprietà universale dei beni dei sudditi. Il suddito conquistato era dunque di fatto ammesso “within the pale of his government” e poteva legittimamente attendersi il rispetto delle sue proprietà: un principio di ragione, di natura e, secondo Burke, “inspired by the divine Author of all good” (p. 310).

28. L’interesse di questa posizione consiste nel fatto di presentare evidenti implicazioni in materia di teoria del governo di un impero. La conquista di un nuovo territorio, come poteva essere l’isola di St. Eustatius, secondo Burke, ne configurava il passaggio automatico sotto l’autorità imperiale della Corona britannica. Gli abitanti di quel territorio erano “His Majesty’s new subjects”[89]. Sudditi nuovi, ma non perciò con minori diritti degli altri. Il governo dell’impero – di tutti i territori che in vario modo e attraverso qualsiasi meccanismo si fossero aggiunti ai possedimenti britannici – doveva basarsi sulla garanzia dei diritti e delle libertà di tutti i sudditi, di ogni appartenenza nazionale, linguistica, culturale e religiosa. Che uno stato di guerra in un’area atlantica lontana dal centro dell’impero autorizzasse la sospensione di diritti naturali e di criteri universali di giustizia era altrettanto inammissibile quanto l’invocazione di una “geographical morality” – un’invocazione della diversità e della lontananza a scopo di legittimazione di eccezioni etico-politiche – come quella a cui si sarebbe appellato Warren Hastings per giustificare la propria condotta in India[90]. Il Burke sostenitore dei diritti dei coloni americani conculcati da un governo corrotto, il difensore dei sudditi dell’India vittime dell’oppressione e del dispotismo di proconsoli irresponsabili, facevano qui tutt’uno con il patrocinatore dei diritti delle persone di ogni nazionalità che a St. Eustatius erano state vittime delle spoliazioni degli ufficiali inglesi. Questi ultimi si erano dimostrati “tyrants instead of the governors of the territories which they invaded” (p. 339).

29. Naturalmente, però, ad essere nel mirino di Burke non erano tanto i singoli comandanti dell’operazione di St. Eustatius, la cui lettura risentiva della più generale riflessione burkiana sul rapporto tra politica domestica e politica imperiale e tra libertà e impero. Nel ragionamento di Burke emergeva chiaramente un tema ricorrente nella sua critica delle particolari politiche imperiali attuate dal suo paese: sembrava esistere un piano contro la libertà e i diritti che dal centro dell’impero, a Londra, si allargava verso la periferia, minando ovunque le basi della costituzione, come l’America aveva provato e come anche in India si stava dimostrando; ingiustizia, disonestà, malaffare, illegalità in ogni angolo dell’impero rispecchiavano in modo non episodico la corruzione del governo metropolitano; il loro riverberarsi sulla stessa madrepatria sotto forma di importazione e di assuefazione a forme degeneri di esercizio del potere avrebbe prodotto un effetto di dissoluzione dei più sacri valori politici e giuridici della tradizione britannica. Alla ricerca di un argomento antigovernativo forte, egli sosteneva che i responsabili veri degli “shameful proceedings” altri non erano che “his Majesty’s Ministers”. Soprattutto, non di episodi isolati si era trattato, ma di “a whole plan” di guerra di aggressione nei Caraibi le cui modalità di conduzione si erano rivelate di inaudite durezza, violenza e crudeltà. E, con parole che lasciavano presagire le più tarde polemiche antifrancesi in epoca rivoluzionaria, lanciava un appello al Parlamento affinché non permettesse che, avallando gli atti del governo, esso “should be the first to plunge Europe into all the horrors of barbarity and institute a system of devastation which not only would bring disgrace, but in all probability ruin upon ourselves” (p. 316). Tutto questo doveva servire non per condannare, ma per illustrare la necessità di un adeguato approfondimento dell’accaduto mediante la raccolta di tutta l’informazione reperibile e necessaria. Quale fosse la posta, d’altra parte, era emerso nel corso del dibattito ai Comuni, quando furono gli stessi difensori del governo ad affermare esplicitamente che in tutta la questione in gioco non c’erano solo le proprietà di privati sudditi e la reputazione di alti ufficiali di Royal Navy e Army, bensì la sorte del governo: un argomento che, per sottolineare l’incompatibilità ormai evidente tra la sopravvivenza dell’impero e la politica del governo, Burke stesso sintetizzò efficacemente nella replica finale “whether we must part from the minister or from the empire” (p. 340).

30. Diciamo subito che la mozione di Burke fu respinta a larga maggioranza dei Comuni nel maggio 1781; e una seconda, più ampia mozione (a favore di una commissione d’inchiesta non solo sulle confische, ma anche sulle modalità di vendita dei beni confiscati) fu anch’essa respinta con maggioranza altrettanto ampia nel dicembre dello stesso anno, quando la materia fu ridiscussa ai Comuni, stavolta alla presenza di Rodney e di Vaughan. L’intervento tenuto da Burke in questa seconda occasione non aggiunse elementi di particolare novità rispetto alle tesi già esposte in maggio. Unico nuovo argomento – già espresso nel corso di dibattiti svoltisi alla periferia dell’impero e forse da questi derivato[91] – fu quello secondo cui una delle “blessed consequences” della conquista di St. Eustatius era stata sì la fine della guerra, ma, a causa dell’inerzia di Rodney, in un senso esattamente opposto rispetto a quello inteso dal governo e cioè per aver lasciato libera la flotta francese di cooperare al blocco di Cornwallis in Virginia[92]. Questo secondo discorso si segnalò comunque per una maggiore veemenza, certamente dovuta alla volontà di mettere alle corde il governo, in grave difficoltà dopo Yorktown, e Lord North, la cui difesa del patriottismo di Rodney si attirò una indignata apostrofe di Burke, che eruppe contro il primo ministro responsabile della crisi dell’impero: “He ! dare talk of British feelings ! He ! that has ruined the British empire and wasted its blood and treasure”[93].

5.

31. La discussione sui fatti di St. Eustatius offrì dunque a Burke l’opportunità di esporre idee particolarmente liberali e illuminate in materia di relazioni internazionali, di condotta della guerra, di diritti dei sudditi, che certamente sarebbero state condivise da più di un pensatore illuminista. In particolare, poi, il politico irlandese poté trovare un’occasione di più per presentare la propria visione dell’impero – nella sua dimensione atlantica, così come in quella americana, irlandese o indiana – come l’ambito di esercizio di un’autorità di governo che per essere legittima doveva basarsi sul rispetto dei diritti naturali dei sudditi e sui quei criteri di umanità, giustizia e razionalità che Burke poneva a fondamento della propria visione dell’autorità politica e dei fondamenti e fini del governo. Vale la pena notare come appelli a ideali di liberalità, civiltà, umanità intesi come un comune patrimonio dell’Europa incivilita risuonarono non solo nell’oratoria burkiana, ma anche in varie altre espressioni d’opinione scaturite da gruppi di interessi privati anteriormente agli stessi interventi di Burke, ad esempio le diverse petizioni inviate ai comandanti britannici o al Re. L’episodio di St. Eustatius era stato fonte di riflessioni e di prese di posizione che dimostrarono come fosse diffusa nella sensibilità dell’epoca l’aspirazione a fare di criteri illuminati di giustizia e di convivenza civile la regola fondamentale delle relazioni internazionali pubbliche e private. E come fosse ampiamente condiviso un linguaggio dei diritti e delle libertà come strumento di espressione dell’appartenenza a una comune civiltà. Particolarmente significativa, a questo proposito, era stata non tanto la petizione degli Ebrei, tutta difensivamente protesa verso una professione di lealismo, quanto, per esempio, la protesta dei mercanti inglesi di St. Christopher, con il suo richiamo al già citato caso della conquista francese di Grenada quale dimostrazione del genere di comportamento che i “conquerors of all civilized nations” avrebbero dovuto imitare. Il medesimo esempio era stato non casualmente ripreso dalla petizione dei londinesi “West-India Planters and merchants”. In questa si potrebbe addirittura scorgere un diretto antecedente, forse l’ispiratrice, certamente una delle fonti del discorso di Edmund Burke. Essa richiamava un altro caso ancora, quello della presa inglese di Dominica durante la guerra dei Sette Anni, quando nessun violento provvedimento di confisca ai danni delle proprietà dei privati aveva fatto seguito alla conquista. Questi casi dimostravano l’esistenza di una “practice of war among civilized states”, che si caratterizzava per il “sacred regard to the rights of Mankind”. Anche nell’assemblea dei rappresentanti di St. Christopher era risuonata l’energica protesta contro “the violated law of nations” e il “wanton abuse of conquest”, che avevano reso “ten different nations the subject of depredations”, ma che avevano causato anche “the inactivity of our forces in the West-Indies”, addirittura “promoting the final establishment of the independence of America”[94]. Anche questo notevole esempio di “provincial oratory” era ricorso al linguaggio di “reason, humanity and natural justice”, della “allegiance and protection” e della “reciprocal obligation” tra governanti e governati e dunque tra le autorità britanniche e quelli che, con la medesima espressione poi usata da Burke, erano definiti “his Majesty’s new-acquired subjects”. Anche il membro dell’assemblea di St. Christopher aveva invocato gli effetti di addolcimento che la civiltà commerciale e la “philosophy of the present day” avevano prodotto sul diritto di conquista. Ed esponeva una teoria della espansione imperiale come “incorporation of the conquered subjects into the body of the conquering state”, collegandovi una accorata difesa degli “afflicted Jews”, entrambe assai prossime a quanto successivamente esposto da Burke[95]. Burke, dunque, formulava in una argomentazione coerente e di forte impatto retorico e ideologico temi, espressioni linguistiche, memorie, immagini, idee ampiamente circolanti, che dimostravano il bisogno diffuso di addivenire a una conciliazione tra le pratiche della guerra moderna e non solo la tutela dei diritti di singoli gruppi nazionali, ma anche le aspirazioni di segno cosmopolita, pacifista, garantista proprie di una civiltà commerciale come quella europea e atlantica, che andava salvaguardata dalla “merciless hand of military power”[96]. Vi fu perfino chi ricorse ad autorità a cui nemmeno Burke pensò di far appello, come l’autore di un piccolo manifesto cosmopolita a favore della libertà di commercio, d’intrapresa e di movimento, il mercante inglese Richard Downing Jennings, una delle vittime di St. Eustatius e, negli anni successivi, protagonista di azioni legali tese al recupero delle proprietà confiscate e vendute all’asta. Questo, che peraltro fu certamente un pamphlet d’occasione con obbiettivi eminentemente pratici, rivela però in modo piuttosto sorprendente tratti di una cultura politica, economica e giuridica di segno illuminista e liberale, pervasa da avversione per le manifestazioni di prepotenza militaresca, di potere senza freni e di patriottismo nazionalista. Uno dei più forti richiami culturali presenti nello scritto era costituito da Dei delitti e delle pene – tradotto in inglese fin dal 1767 e poi più volte riedito: un brano era inserito in epigrafe, contro la pratica penale delle confische, condannate per il fatto di far ricadere sulla posterità il peso delle colpe di un individuo; un ampio riferimento si trovava poi nel testo, a stigmatizzare un sistema di leggi penali che faceva pensare più al pugno di ferro del potere che alla mano misericordiosa di una giustizia ispirata a principi di umanità[97]. Burke stesso non aveva pensato, nella sua critica delle confische, a richiamarsi a un autore come Beccaria su un punto – la difesa dei diritti delle generazioni future – che rimandava direttamente a Locke[98].

32. Va notato, per contro, come l’invocazione di una pretesa consuetudine generale, l’appello al “system of war which civilised states had of late, by their consent and practice, thought proper to introduce” e al diritto delle genti non fossero affatto al di là di qualsiasi dubbio e possibilità di discussione. Abbiamo visto come Vattel ammettesse chiaramente, seppur con limiti precisi, il diritto di preda. Analogamente, tale diritto era ammesso da autorità come Grozio e Burlamaqui[99]. E lo era nella prassi comune di uno Stato come la Gran Bretagna. Lo dimostrano, come già visto, non solo l’uso corrente delle “Letters of Marque and Reprisals”, che pure si riferivano ai beni del nemico confiscati in alto mare, ma soprattutto le istruzioni del Re ai comandanti, le formule di intimazione della resa, le istruzioni regie relative alle modalità di disporre dei beni confiscati, le pratiche formali seguite per rendere il “business of the capture” conforme alla legge, le considerazioni esposte in Parlamento da alcuni dei difensori del governo e dell’operato di Rodney e Vaughan e la stessa autodifesa di Rodney pronunciata ai Comuni nella seduta del 4 dicembre 1781. Gli appelli di Burke e quelli dei pochi parlamentari che sostennero la sua richiesta non servirono a smuovere la maggioranza dei Comuni e ad eccitare alcuna indignazione contro la condotta di figure comunque circondate da un’aura patriottica per aver combattuto a difesa della nazione, che ad ogni evidenza sembravano aver seguito le istruzioni della Corona, i cui possibili eccessi sarebbero stati esaminati dalle corti di giustizia presso cui erano state aperte cause di risarcimento e che, comunque, non parevano aver tratto alcun beneficio personale dall’accaduto. In effetti, il “saccheggio” di St. Eustatius, anziché benefìci di qualsiasi tipo per persone di qualsiasi categoria, si lasciò dietro soltanto uno strascico di polemiche e di liti. Almeno 64 cause di risarcimento furono intentate negli anni seguenti presso l’alta corte dell’Ammiragliato, per un ammontare totale ben superiore al valore delle proprietà confiscate, a dimostrazione dei molteplici tentativi di frode messi in atto. Di esse solo 13 giunsero a sentenza entro la fine degli anni ’80 e solo 9 portarono a verdetti di indennizzo. In tutto questo, le spese legali che Rodney e Vaughan dovettero sostenere per la propria difesa furono tanto elevate da più che esaurire il legittimo provento che i due avevano tratto (in comune coi propri ufficiali e soldati) dalla divisione legale delle spoglie. Se i due ufficiali inglesi finirono per non trarre alcun tornaconto personale dai fatti di St. Eustatius, nemmeno la Gran Bretagna ne beneficiò. Buona parte delle merci messe all’asta da Rodney finirono acquistate a prezzi molto inferiori al loro valore da quegli stessi mercanti francesi, olandesi e americani che la presa dell’isola aveva inteso punire. E il grosso dei beni confiscati e spediti in patria con un convoglio – proprio quelli che avrebbero dovuto essere spartiti tra gli autori della conquista – finì per essere intercettato da una squadra navale francese e per cadere in mano al nemico. Anche i soldati e marinai che avevano fatto conto sulla spartizione legittima del bottino, e che su quella base si erano indebitati, andarono incontro a gravi disillusioni, tanto da dover chiedere giustizia mediante petizioni al Parlamento e, ancora a distanza di alcuni anni dagli eventi, lamentare pubblicamente i danni patiti[100].

33. L’episodio di St. Eustatius servì a ben poco da qualsiasi altro punto di vista[101], tenuto conto anche del fatto che, in termini strategico-militari, la sua utilità fu vanificata in primo luogo dal trasferimento altrove nei Caraibi del ruolo commerciale che era stato dell’isola olandese, e poi dalla riconquista francese nel novembre 1781. Più in generale, esso non permise di stabilire nuove prassi e precedenti per innovare il diritto delle genti. Ebbe scarsissima incidenza dal punto di vista dei criteri di amministrazione di territori facenti parte dell’impero britannico. Ancora parecchie stagioni avrebbero dovuto passare – anche con il contributo dello stesso Burke – prima che regole di equità, rigore e giustizia si affermassero: quando conquistarono Curaçao circa venti anni dopo i fatti di St. Eustatius, gli Inglesi si comportarono quasi esattamente come nel 1781[102]. Non ebbe alcun risultato politico immediato, dato che la sorte del governo North dipese da ben altri eventi, in primo luogo la sconfitta finale nella guerra americana. Unico, ma non per questo trascurabile significato, fu quello di offrire a Burke un’ulteriore possibilità per far risuonare nel Parlamento imperiale le proprie idee su cosa avrebbe dovuto essere il governo di una macchina complessa e delicata come un impero: un governo ugualmente basato sul rispetto del diritto di natura e di ragione, su criteri universali di giustizia e di umanità e sulla tutela delle diversità culturali che inevitabilmente ne facevano parte. L’immagine dell’impero coniata da Benjamin Franklin quale “noble China vase” esprimeva perfettamente l’idea di Burke di un sistema politico capace di assicurare il rispetto delle differenze nella tutela di alcuni diritti fondamentali basati sulla legge universale di natura e di ragione. E nel corso degli anni ’80 la lunga vicenda delle inchieste sull’amministrazione della East India Company nel Bengala e della conseguente messa in stato di accusa del governatore generale Warren Hastings gli avrebbe dato modo di analizzare a fondo l’esperienza britannica in India e di precisare ulteriormente la propria visione imperiale.

Note

[1] Henry Laurens a Thomas Osborne, 8 febbraio 1763, in The Papers of Henry Laurens: Vol. 3, January 1, 1759-August 31, 1763, Philip M. Hamer, George C. Rogers Editors, Columbia, S. C., University of South Carolina Press,1972, p. 141. 

[2] “Het plunderen van St. Eustatius”, stampa conservata nella “Atlas Van Stolk collection” di Rotterdam.

[3] Per le vicende storiche di St. Eustatius mi sono avvalso soprattutto di J. Hartog, History of St. Eustatius, Aruba, Netherland Antilles, 1976, Y. Attema, St. Eustatius: a Short History of the Island and its Monuments, Zutphen, De Walburg Press, 1976, C. Ch. Goslinga, The Dutch in the Caribbean and in the Guianas 1680-1791, Assen/Maastricht, Van Gorcum, 1985, Wim Klooster, Illicit Riches: Dutch trade in the Caribbean, 1648-1795, Leiden, 1998, J. Hartog, History of St. Eustatius, Aruba: Central U.S.A. Bicentennial Committee of the Netherlands Antilles: distributors De Witt Stores N.V, 1976, J. Franklin Jameson, St. Eustatius in the American Revolution, in “American Historical Review”, Vol. 8, No. 4. (Jul., 1903), pp. 683-708, J. Hartog, The Jews and St. Eustatius, St. Maarten, 1976.

[4] H. M. Scott , Sir Joseph Yorke, Dutch Politics and the Origins of the Fourth Anglo-Dutch War, “The Historical Journal”, Vol. 31, No. 3. (Sep., 1988), pp. 571-589

[5] Il testo del progetto di trattato si trova tra le carte relative alla rottura con l’Olanda in Parliamentary History of England¸vol. XXI, col. 981-994.

[6] The Modern Part of an Universal History, vol. XLI, London, 1764, p. 260.

[7] Journal of a Lady of Quality; Being the Narrative of a Journey from Scotland to the West Indies, North Carolina, and Portugal in the Years 1774 to 1776, ed. by E. W. Andrews in collaboration with Ch. M. Andrews, New Haven, Yale University Press, 1939. Le citazioni successive provengono dalle pp. 133 sgg.

[8] Le cifre provengono da Goslinga, Dutch in the Caribbean, p. 152; lievemente superiori quelle fornite da Hartog, History of St. Eustatius, pp. 44-45. Fonti dell’epoca, come l’American Gazetteer (1762) o il fortunatissimo William Guthrie, A New Geographical, Historical, and Commercial Grammar; and Present State of the Several Kingdoms of the World (London, 1770) riportano concordemente cifre superiori, ossia 5000 abitanti bianchi e 15000 neri.

[9] Isaac Samuel and Suzanne Emmanuel, History of the Jews of the Netherlands Antilles, Cincinnati, American Jewish Archives, 1970, Jonathan I. Israel, “The Jews of Curaçao, New Amsterdam and the Guyanas: a Caribbean and Trans-Atlantic Network (1648-1740)”, in Id., Diasporas within a Diaspora. Jews, Crypto-Jews and the World Maritime Empires (1540-1740), Leiden, Brill, 2002, pp. 511-532.

[10] Goslinga, Dutch in the Caribbean, p. 138.

[11] Emmanuel, History of the Jews of the Netherlands Antilles, vol. II, p. 519.

[12] A Lady Rodney, St. Eustatius 7 febbraio 1781, in Major-General G. B. Mundy, The Life and Correspondence of the late Admiral lord Rodney, London, Murray, 1830, 2 vols., vol. II, pp. 18-19.

[13] “Debate on Mr. Burke’s Motion relating to the Seizure ad Confiscation of Private Property in the Island of St. Eustatius, May 14”, in The Parliamentary History of England, vol. XXII, coll. 218-262, v. il brano alle coll. 220-221.

[14] Abbé Prévost, Histoire générale des Voyages, t. XV, Paris, chez Didot, 1759, pp. 674-675 ; The American Gazetteer. Containing a distinct account of all the parts of the New World, London, printed for A. Millar, and J. & R. Tonson, 1762, 3 voll., vol. I, sub voce,  Abbé Raynal, Histoire des Deux Indes, Amsterdam, 1770, 6 voll., t. IV, p. 246-248, e Genève, Pellet, 1780, 4 voll. in quarto, l. XII, ch. xvii e xx, vol. III, pp. 283-284 e 287-290.

[15] Da notare come questa osservazione fosse del tutto condivisa dall’ammiraglio Rodney: “had the Dutch been as attentive to their security as they were to their profits, the island had been impregnable” (Life and Correspondence of Admiral Rodney, II, p. 16).

[16] Histoire des Deux Indes, l. XII, ch. xx, vol. III, p. 289: il testo rimane sostanzialmente invariato, salvo qualche particolare irrilevante, rispetto alla prima edizione Amsterdam, 1770, dove St. Eustache si trova citata nel vol. IV, l. XII, p. 253.

[17] A. Smith, Wealth of Nations, l. IV, ch. vii, ed. Indianapolis, Liberty Fund, 1981, vol. II, p. 571.

[18] Adam Anderson, Historical and Chronological Deduction of the Origin of Commerce, London, 1801, 4 voll. Vol. IV, p. 333. L’opera era stata pubblicata nel 1764, ma nel 1787-1789 ne era apparsa una edizione “Carefully revised, corrected, and continued to the present time”, il cui testo è il medesimo della successiva edizione del 1801 qui utilizzata.

[19] “It had no fortifications for its defence; no garrison, no martial spirit, nor military regulations. Its inhabitants were a mixed body of all nations and climates; not reduced to any species of military duty or military discipline. Its utility was its defence. The universality of its use, the constant neutrality of its nature, which made it advantageous to all the nations of the world, was its security and its safeguard. It had risen, like another Tyre, upon the waves, to communicate to all countries and climates the conveniences and the necessaries of life” (“Debate on Mr. Burke’s Motion”, col. 221).

[20] Andrew J. O’Shaughnessy, An Empire Divided: The American Revolution and the British Caribbean, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2000, p. 213, Goslinga, Dutch in the Caribbean, p. 142,  Emmanuel, History of the Jews of the Netherlands Antilles, vol. I, pp. 257-258.

[21] J. Franklin Jameson, “St. Eustatius in the American Revolution”, passim; v. anche Florence Lewisohn, St. Eustatius: Depot for Revolution, in “Revista Interamericana” [Puerto Rico], 1975-1976, vol. 5, n. 4, pp. 624-637,  Fred de Bruyn, St. Eustatius: Golden Link with the Independence of the United States, in “De Halve Maen. Magazine of the Dutch Colonial Period in America”, 1984, vol. 58, n. 2, pp. 9-12.

[22] Emmanuel, History of the Jews of the Netherlands Antilles, vol. I, p. 256.

[23] J. Franklin Jameson, St. Eustatius in the American Revolution, p. 685. Cfr. anche la ricostruzione degli eventi che precipitarono la crisi tra Gran Bretagna e Olanda, nonché i testi di documenti diplomatici come alcuni memoriali e dichiarazioni di Yorke, in Parliamentary History of England, vol. XXI, coll. 959-981.

[24] Parliamentary History of England, vol. XXI, col. 970.

[25] Riguardavano, per esempio, la volontà inglese di porre fine ai rifornimenti di materiali navali di origine baltica effettuati dagli olandesi a favore della Francia, cfr. Scott, Sir Joseph Yorke, Dutch Politics and the Origins of the Fourth Anglo-Dutch War, p. 575.

[26] W. Belsham, Memoirs of the Reign of George III to the Session of Parliament Ending A.D. 1793, The Fifth Edition, London, printed for G. G. and J. Robinson, 1801, vol. III, p. 225.

[27] Todd M. Endelman, The Jews of Georgian England, 1714-1830: Tradition and Change in a Liberal Society, Philadelphia, Jewish Publication Society, 1979 (repr. Ann Arbor, University of Michigan Press, 1999), Leon Hühner, Jews in America in Colonial and Revolutionary Times: A Memorial Volume, New York, Gertz Bros, 1959, Laurens R. Schwartz, Jews and the American Revolution: Haym Salomon and Others, Jefferson, N. C., London, Mcfarland, 1987.

[28] Cfr. Ronald Hurst, The Golden Rock: An Episode of the American War of Independence, 1775-1783, US Naval Institute Press, London, Leo Cooper, 1996.

[29] “I speak within bounds when I say more than two millions sterling” (Life and Correspondence of Admiral Rodney, II, p. 19).

[30] Goslinga, Dutch in the Caribbean, p.150.

[31] Risposta di Rodney al memoriale dei mercanti di St. Christopher, citato in Anderson, Historical and Chronological Deduction, vol. IV, p. 332.

[32] “And as the enemy have derived great advantages from those islands, and it is highly probable considerable quantities of provisions and other stores are laid up there or are on their way thither, which may fall into our hands if we get possession speedily, it his Majesty’s pleasure that we should [...] recommend to you the immediate attack and reduction of those islands” (ivi, II, pp. 7-8).

[33] Ivi, p. 12.

[34] “I hope we shall soon receive his Majesty’s commands relative to the capture”, ivi, pp. 13-14.

[35] Ivi, p. 16.

[36] Rodney a Philip Stephens, 12 febbraio 1781, ivi, pp. 23-24.

[37] Ivi, p. 367. Le operazioni dei due comandanti in capo della spedizione inglese furono successivamente analizzate dettagliatamente e con l’appoggio di documenti, anche se con l’intento di mostrarne alcuni aspetti discutibili dal punto di vista degli ufficiali subalterni, dei marinai e della truppa, nell’opuscolo An Explanation of the Case relating to the Capture of St. Eustatius, in which is included the Several Commissions appointing the Agents to manage the Business of the Capture, London, printed for J. Stockdale, 1786.

[38] V. per esempio conte di Sandwich a Rodney, 21 marzo 1781 e ancora 3 maggio 1781, in Life and Correspondence, II, pp. 59 e  104.

[39] Cfr. il testo in Life and Correspondence, II, pp. 79-80. L’aspetto restrittivo delle istruzioni regie è ben evidenziato nella Explanation of the case of the Capture of St. Eustatius, p. 14.

[40] Explanation of the Case relating to the Capture of St. Eustatius, p. 14.

[41] Life and Correspondence, II, p. 43.

[42] Cfr. il Manifesto del 20 dicembre 1780, in Parliamentary History, XXI, coll. 970-971.

[43] A Lady Rodney, 12 febbraio 1781, in Life and Correspondence, II, p. 25.

[44] Al governatore di Barbados, 17 febbraio 1781, ivi, p. 29.

[45] Ibid. La “Lower Town”, distinta dalla “Upper Town”, era l’insediamento costituito da una doppia file di abitazioni e magazzini affacciantisi direttamente sulla baia che si era sviluppato soprattutto a partire dal 1760. In realtà non avvenne alcuna distruzione, anche perché dalla Gran Bretagna non fu soddisfatta la richiesta di Rodney di precisi ordini in merito.

[46] A Lady Rodney, 23 aprile 1781, in Life and Correspondence, II, p. 97.

[47] Ivi, p. 31.

[48] Dal marchese de Bouillé, 27 febbraio 1781, e la relativa risposta di Rodney ivi, pp. 31-32; cfr. poi Rodney a Stephens, 6 marzo 1781, ivi, p. 44.

[49] Ivi, p. 45.

[50] Si tratta rispettivamente di Letters from Sir George Brydges, now Lord Rodney, to His Majesty’s Ministers relative to the Capture of St. Eustatius and its Dependencies [...], London, Robson, 1790, pp. 175 in quarto; e del già citato Mundy, Life and Correspondence of Admiral Rodney, London, 1830. La prima serie di lettere di Rodney apparve con lo scopo esplicito di “vindicate his character” dopo i severi, ma non abbastanza informati giudizi che erano stati espressi sul suo operato a St. Eustatius. La seconda, più ampia raccolta comprende la maggior parte, ma non tutte le lettere pubblicate nel 1790.

[51] Necessario sarebbe ad esempio un riscontro con i Rodney Mss. e le Vaughan Papers conservate al Public Record Office, e con The Private Papers of John, Earl of Sandwich: First Lord of the Admiralty, 1771-1782, Edited by G. R. Barnes and J. H. Owen, London, 1932-1938 (Publications of the Navy Records Society, vol. 69). Quanto a J. Franklin Jameson, i suoi dubbi sono espressi in St. Eustatius in the American Revolution, p. 698, nota n. 4.

[52] Cfr. O’Shaughnessy, Empire Divided, pp. 215 sgg.

[53] Cfr. N. Taylor Phillips, Items relating to the History of the Jews of New York, in “Publications of the American Jewish Historical Society”, 11, 1903, pp. 150-151.

[54] O’Shaughnessy, Empire Divided, p. 220.

[55] Della pretesa distruzione parla Rabbi Bradd H. Boxman, A Short History of the Hebrew Congregation of St. Thomas, St. Thomas, 1983, p. 5, ripreso da Kurinski e Norton (vedi nota 38), ma senza trovare conferma in storici di St. Eustatius e della sua comunità ebraica come Y. Attema e J. Hartog e, cosa ancora più decisiva, nemmeno presso il “Honen Dalim Synagogue Restoration Project” <URL: http://www.steustatiushistory.org/HonenDalimSynagogue.htm>.

[56] O’Shaughnessy, Empire Divided, pp. 219 sgg., David Spinney, Rodney, London, 1969.

[57] V. su questo, oltre a quanto qui già citato in precedenza, anche i brani di lettere dell’ammiraglio non pubblicati da Mundy e citati da Jameson, “St. Eustatius and the American Revolution”, p. 702.

[58] Afferma per esempio O’Shaughnessy: “Rodney’s behavior also suggests anti-Semitism” (An Empire Divided, p. 224), giudizio ripreso testualmente da Yitzchok Levine, Glimpses Into American Jewish History. Part 29 - The Jewish Community of St. Eustatius, in “The Jewish Press”, agosto 2007, <URL: http://www.thejewishpress.com/print.do/22699/Part_29_-__The_Jewish_Community_Of_St._Eustatius.html>); cfr. anche Louis Arthur Norton, Retribution: Admiral Rodney and the Jews of St. Eustatius, in “The Jewish Magazine”, October 2008 <URL: http://www.jewishmag.com/107mag/jewsofeustatius/jewsofeustatius.htm> e infine Samuel Kurinsky, The Jews of St. Eustatius Rescuers of the American Revolution Fact Paper 37, in “Hebrew History Federation”, s. d. <URL:http://www.hebrewhistory.info/factpapers/fp037_eustatius.htm>.

[59] Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, New York: Harcourt, Brace, and World, 1966, p. 35

[60] David C. Gross, The Jewish People’s Almanac, New York, Doubleday & Co., 1981, p. 416.

[61] In realtà, l’acquisizione della “burghership” era una concessione automatica a favore dei residenti, che costituiva un elemento di liberalità e non implicava alcuna sconfessione di altre forme di lealismo (cfr. Richard D. Jennings,  The case of Richard Downing Jennings, an English subject, who resided at Saint Eustatius, as a merchant, when that island was captured by Lord Rodney and General Vaughan in the year 1781, London, printed for J. W. Galabin, 1790, p. 5). Anche gli Ebrei a St. Eustatius godevano di alcuni dei diritti dei “burghers”, come l’elettorato attivo, ma non passivo, al Consiglio.

[62] Cfr. Rodney a Philip Stephens, Jamaica, 12 marzo 1774, in Life and Correspondence of the Late Admiral George Rodney, vol. I, p. 137. In una successive lettera a Philip Stephens del 1 ottobre 1774, in cui definisce gli Ebrei come persone che “will do any thing for money” e che è spesso citata a riprova dell’anti-semitismo dell’ammiraglio, Rodney fa però riferimento agli Ebrei di Santo Domingo come “the only people I could depend upon for intelligence” (relativamente alle forze armate francesi presenti sull’isola), ivi, p. 156. Sui sudditi britannici divenuti “Dutch burghers” cfr. ivi, vol. II, p. 424.

[63] Il testo apparve in Annual Register for the Year 1781, pp. 308-310.

[64] “to repeat and take our oaths of allegiance” (v. Annual Register, p. 309). L’ambiguità della richiesta consisteva nel fatto che giurare fedeltà alla Corona avrebbe comportato il riconoscimento dell’autorità della Chiesa d’Inghilterra, ragione per la quale all’epoca, in Inghilterra, gli Ebrei professanti, anche se nati su suolo inglese, non giuravano ai sensi dei Corporation e Test Acts, fino alla loro esenzione dai quali, nel 1858, essi non poterono assumere cariche pubbliche, esercitare diritto di voto attivo e passivo, essere membri di università. Per gli Ebrei “foreign-born”, d’altra parte, esisteva una difficoltà fondamentale alla naturalizzazione, data dall’obbligo preventivo di prendere i sacramenti secondo il rito anglicano. Il tentativo di introdurre una legge per semplificare le procedure di naturalizzazione, nel 1753, fu sconfitto soprattutto dall’opposizione popolare.

[65] O’Shaughnessy, Empire Divided, pp. 223-225.

[66] Il testo del secondo “Memorial and Remonstrance of the Merchants of St. Christopher”, redatto il 13 marzo 1781, apparve sulla “St. Christopher, Gazette or Charibbean Courierr” del 16 marzo 1781, fu poi reso noto all’opinione pubblica europea grazie alla “Gazette de Leyde” 8 maggio 1781, p. 3, e fu in seguito ristampato in Adam Anderson, Historical and Chronological Deduction of the Origin of Commerce, vol. IV, pp. 330-332.

[67] Lillian M. Penson, The London West India Interest in the Eighteenth Century, in “The English Historical Review”, Vol. 36, No. 143. (Jul., 1921), pp. 373-392, e Andrew J. O’Shaughnessy, The Formation of a Commercial Lobby: The West India Interest, British Colonial Policy and the American Revolution, in “The Historical Journal”, Vol. 40, No. 1. (Mar., 1997), pp. 71-95.

[68] Cfr. A Copy of a Petition of the West-India Planters and Merchants to the King on the Subject of the General Seizure of Private Property found in the Dutch Islands of Saint  Eustatius and Saint-Martin,, April, 6, 1781. Copia della petizione figura anche in Anderson, Historical and Chronological Deduction, vol. IV, pp. 333-336.

[69] A Speech which was spoken in the House of Assembly of St. Christopher uipon a Motion made on Tuesday the 6th of Novembre 1781, London, prointed for J. Debrett, 1782, pp. 44

[70] Edmund Burke, “Speech on the Seizure and Confiscation of Private Property in St. Eustatius,” 14 May 1781, in The Parliamentary History of England from the Earliest Times to 1803; London, 1806-20, 36 voll, vol. XXII, col. 231.

[71] Alle “two distinct charges against the honourable commanders on the expedition against St. Eustatius; the first more immediately relative to the capture of the island and the behaviour of the commanders whilts at it; the second, the consequences of that capture, from the inactivity of our forces in the West Indies” contiene allusione A speech, which was spoken in the House of Assembly of St. Christopher, upon a motion made on [...] 6th of November, 1781, for presenting an address to His Majesty, relative to the proceedings of Admiral Rodney and General Vaughan at St. Eustatius; and the present [sic] dangerous situation of the West India Islands, London, printed for J. Debrett, 1782 , p. 8; cfr. Poi Kenneth Breen, Sir George Rodney and St Eustatius in The American War: a Commercial and Naval Distraction, 1775-81, in “The Mariner’s Mirror”, May 1998, vol. 84, n. 2, pp. 193-203.

[72] Robert A. Selig, The French capture of St. Eustatius, 26 november 1781, in “Journal of Caribbean History”, 1993, vol. 27, n. 2, pp. 129-143.

[73] A History of Literature in the Caribbean. Vol 2. English- and Dutch-speaking Regions, ed. by Albert J. Arnold Amsterdam-Philadelphia, 2001, p. 369.

[74] Goslinga, Dutch in the Caribbean, p. 153. Il diplomatico americano Samuel Shaw ne ritrasse un vivido quadro nel giugno 1789 quando, di ritorno dalla Cina, ebbe a sostare alcuni giorni nell’isola, che gli apparve “not a Garden of Eden” ma “a most comfortable place [...] so shamefully plundered by the British”; sua impressione fu che, pur senza tornare all’eccezionale prosperità di prima della guerra, essa “may soon recover its former consideration” (Samuel Shaw, The Journals of Major Samuel Shaw, The First American Consul at Canton: With A Life of The Author by Josiah Quincy, Botson, 1847, p. 332)

[75] O’Shaughnessy, Formation of a Commercial Lobby, p. 81.

[76] Per una sintesi di questi sviluppi parlamentari cfr. Annual Register for the Year 1781, pp. 164-173.

[77] Il testo del discorso è sintetizzato in forma indiretta insieme al dibattito susseguente in The Parliamentary Register, or History of the Proceedings and Debates of the House of Commons [...] during the First Session of the Fifteen Parliament of Great Britain, 1780-1796, vol. III, London, printed for J. Debrett, 1782, pp. 299-342 (le successive citazioni provengono da questo testo alla cui paginazione si riferiscono i numeri pagina indicate tra parentesi). Il medesimo testo compare senza varianti in Parliamentary History, vol. XXII, coll. 218-262, ed è stato successivamente pubblicato in una sola raccolta di discorsi parlamentari di Burke, The Speeches of the Right Honourable Edmund Burke, in the House of Commons [...] in Four Volumes, London, printed for Longman, Hurst, Rees, Orme and Brown, 1816, vol. II, pp. 244-269. Svolgimento ed esito della discussione originata dal discorso di Burke furono brevemente illustrati dall’Annual Register (1781, p. 195). L’opinione pubblica francofona ne fu informata grazie alla “Gazette de Leyde” del 5 Juin 1781. Una versione italiana dell’intervento di Burke è prevista all’interno di una nuova edizione di scritti burkiani attualmente in preparazione: cfr. E. Burke, Scritti sull’impero. America, India, Irlanda , a cura di Guido Abbattista e Daniele Francesconi, Torino, Utet Libreria.

[78] Burke a William Burgh, 9 febbraio 1775, in The Correspondence of Edmund Burke, Gen. Ed. Thomas W. Copeland, 10 voll., Chicago and Cambridge, University of Chicago Press and Cambridge University Press, 1958-78, vol. III, pp. 111-112.

[79] Burke a John Erskine, 12 giugno1779, in The Correspondence of Edmund Burke, vol. IV, p. 85. Su Erskine, peraltro figura anche personalmente vicina a protagonisti dell’Illuminismo scozzese,  cfr. Oxford Dictionary of National Biography, sub voce.

[80] M. Margoliouth, The History of the Jews in Great Britain, London, Bentley, 1851, 3 voll., vol. II, pp. 120-123 e pp. 234-268.

[81] Frans De Bruyn, Anti-Semitism, Millenarianism, and Radical Dissent in Edmund Burke’s Reflections on the Revolution in France, in “Eighteenth Century Studies”, 34, 4, Summer 2001, pp. 577-600.

[82] “As to the authority of books, he thought them the weakest part of the argument [...] He quoted Vattel as being the la test and best  and whose testimony he preferred; because, being a modern writer, he expressed the sense of the day in which we live” (p. 312). Ricordiamo come il testo che ci è giunto sia una sintesi effettuata in terza persona e non un testo definitivo redatto di proprio pugno da Burke. Sul rapporto tra Burke e Vattel cfr. Jennifer M. Welsh, Edmund Burke and International Relations. The Commonwealth of Europe and the Crusade against the French Revolution, Oxford, St. Martin’s Press, 1995, pp. 32-35; più cauto nel valutare l’influsso di Vattel è stato, giustamente a nostro avviso, Peter J. Stanlis, Edmund Burke and the Law of Nations, in “The American Journal of International Law”, vol. 47, n. 3 (Jul. 1953), pp. 397-413, v. p. 403, nota 19. E tuttavia, sull’importanza di Vattel nei burkiani Thoughts on French Affairs (1791), in quanto ispiratore di una visione interventista basata su una ragion di Stato votata al mantenimento dell’ordine europeo post-Utrecht, cfr. David Armitage, Edmund Burke and Reason of State, in “Journal of the History of Ideas”, vol. 61, n. 4, October 2000, pp. 617-634, v. specialmente pp. 627-631.

[83] Emmerich de Vattel, Le Droit des Gens, ou principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains, Londres, 1758, 2 voll., vol. II, livre III, chapitre IX,  «Du Droit de la Guerre à l’égard des choses qui appartient à l’Ennemi», pp. 133-144. Da notare che la prima edizione inglese di quest’opera sarebbe apparsa solo nel  1787 col titolo The Law of Nations; or, Principles of the Law of Nature: applied to the conduct and affairs of nations and sovereigns. By M. de Vattel [...] Translated from the French, Dublin, printed for Luke White, 1787.

[84] Droit des Gens, II, p. 60.

[85] Cfr. Copy of a Petition of the West-India Planters and Merchants, e Jennings, The case of Richard Downing Jennings, p. 6. Il riferimento legislativo è in particolare all’atto 22 Geo. 3. c. 38, “An Act to permit the Importation of British Plantation tobacco from any Port or Place either in America or the West Indies, or in Europe, during the present hostilities”, in Statutes at large from the Twentieth Year of the Reign of King George the Third to the Twenty-fifth Year of the Reign of King George the Third inclusive, London, printed for Charles Eyre and by W. Woodfall, 1786, vol. XIV, p. 200.

[86] H. T. Dickinson, The Poor Palatines and the Parties, in “English Historical Review”, vol. 82, n. 324 (Jul., 1967), pp. 464-485. Questo non va confuso con un altro, posteriore caso di “poor Palatines” o “poor Germans”, ossia quel gruppo di circa 600 protestanti tedeschi condotti a Londra nel 1764 da un avventuriero tedesco con la promessa di trasportarli oltre Atlantico e che in realtà furono abbandonati nella capitale senza mezzi né prospettive finché non ne fu organizzata l’emigrazione in South Carolina.

[87] The Annual Register: or, the history of the present war, from the commencement of hostilities, in 1755; and continued [...] to the end of the campaign, London, printed for R. and J. Dodsley, 1762, p. 64: “[...] if the King of Prussia had a right, as perhaps he had, to consider Saxony as a lawful conquest, he certainly seemed not to consider the people as subjects, when he continued to exact the most severe contributions and in manner too very little  becoming a lawful sovereign”.

[88] Precisa infatti Locke: “the power a conqueror gets over those he overcomes in a just war is perfectly despotical; he has an absolute power over the lives of those who, by putting themselves in a state of war, have forfeited them, but he has not thereby a right and title to their possessions. This I doubt not but at first sight will seem a strange doctrine, it being so quite contrary to the practice of the world; there being nothing more familiar in speaking of the dominion of countries than to say such an one conquered it, as if conquest, without any more ado, conveyed a right of possession. But when we consider that the practice of the strong and powerful, how universal soever it may be, is seldom the rule of right, however it be one part of the subjection of the conquered not to argue against the conditions cut out to them by the conquering swords” (Of Civil Government, II, XVI, in The Works of John Locke, London, 1824, 9 voll., vol. IX, p. 447).

[89] L’espressione fu usata da Burke in occasione del suo intervento del 4 dicembre 1781, cfr. Parliamentary Register, or History of the Proceedings and Debates of the House of Commons [...] during the First Session of the Fifteen Parliament of Great Britain, 1780-1796, vol. V, London, printed for J. Debrett, 1782, p. 82.

[90] Jennifer Pitts, A Turn to Empire. The Rise of Imperial Liberalism in Britain and France, Princeton, Princeton University Press, 2005, pp. 82-85, Richard Bourke, Liberty, Authority and Trust in Burke’s Idea of Empire, in “Journal of the History of Ideas”, vol. LXI, n. 3, July 2000, pp. 453-471, Frederick G. Whelan, Edmund Burke and India: Political Morality and Empire, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1996, Udai Singh Metha, Liberalism and Empire: a Study in Nineteenth Century British Liberal Thought, Chicago-London, University of Chicago Press, 1999, G. Abbattista,  Patriottismo e impero in area britannica alla fine del ‘700 Smith, Burke e i conflitti di interessi, in “Giornale di storia costituzionale”, n. 5/I semestre 2003, pp. 63-74.

[91] Speech [...]  in the House of Assembly of St. Christopher, p. 12.

[92] Parliamentary Register, vol. V, p.89.

[93] Parliamentary Register, vol. V, pp. 95-96.

[94] Speech [...]  in the House of Assembly of St. Christopher, pp. 7-8, p. 43.

[95] “The law of conquest may formerly have been understood in its most unlimited and cruel sense, but the philosophy of the present day has altered the sense, though it has not exploded the use of the word” (Speech [...] in the House of Assembly of St. Christopher, p. 16).

[96] Case of Richard Downing Jennings, p. iv.

[97] Case of Richard Downing Jennings, p. 31.

[98] Of Civil Government, II, XVI, § 183, in Works of John Locke, vol. IX, p. 449.

[99] Cfr.Grotius, The Rights of War and Peace, ed. by Richard Tuck, Indianapolis, 2005, l. III, chap. V, pp. 1303-1304, 1312, chap. VI, pp. 1314 sgg.; Burlamaqui, Principe du droit naturel et politique, à Genève et Copenhague, 1764, t. III, pt. IV, chap. vii, in particolare § xxi.

[100] Explanation of the Case relating to the Capture of St. Eustatius, passim.

[101] “The capture of St. Eustatius has been useless in every point of view” aveva sostenuto il rappresentante di St. Christopher (Speech [...] in the House of Assembly of St. Christopher, p. 31).

[102] Emmanuel, History of the Jews of the Netherlands Antilles, vol. I, pp. 288-289.