Roberto Ceamanos Llorens, Militancia y universidad. La construcción de la historia obrera en Francia,
Valencia, Instituto de Historia Social, 2005, pp. 345
[ISBN 84-95484-65-X]

Claudio Venza
Università di Trieste

1. Come vari storici francesi, tra cui Édouard Dolléans e Ernest Labrousse, il giovane ricercatore spagnolo Roberto Ceamanos proviene da studi giuridici e ha sviluppato un forte interesse verso i temi storiografici allargando i propri interessi scientifici grazie ad una collaborazione fra le Università di Saragozza e di Bourgogne, che hanno esercitato la cotutela della sua tesi di dottorato. Questo libro è il risultato editoriale di tale ricerca professionale, anche se la dimensione edita è minore di quella originale, come indica nel Prologo Michel Ralle, docente di Civiltà spagnola contemporanea alla Sorbona, che ricorda come questo volume offra al lettore molto più del suo titolo e come, altro merito dell’autore, non vi siano lavori simili sulla storiografia operaia nella stessa Francia.
In effetti Ceamanos ci conduce passo dopo passo nella foresta degli storici del movimento operaio francese riuscendo a non farci perdere tra le centinaia di autori citati e le decine di opere di valore segnalate. Particolarmente utile per fissare dei segnali lungo questo tortuoso e non facile sentiero è la duplice bibliografia finale (generale e degli autori citati) che raggruppa circa 800 titoli, anche se manca purtroppo un altro filo d’Arianna, quello dell’indice dei nomi. La lettura di questa “guida” risulta molto impegnativa se ci si sofferma sui numerosi particolari rievocati con generosità e qualche volta un po’ troppo ribaditi e sottolineati. Sembra al lettore di toccare con mano l’emozione di un giovane studioso straniero probabilmente intimorito nei confronti di una storiografia ritenuta, non senza ragione, molto più sviluppata di quella del proprio paese e a contatto con vari protagonisti di cui aveva letto avidamente i testi pubblicati e che, in alcuni casi, può finalmente intervistare. Ad ogni modo dalle otto fonti orali e dalla messe ricchissima di fonti scritte emerge un quadro nel complesso esauriente dell’ambiente accademico e militante, dei filoni di ricerca, dei progetti ambiziosi e delle notevoli istituzioni concretizzatesi nel corso dei decenni.

2. La prima tappa della storiografia sul movimento operaio in Francia viene fatta risalire agli albori del secolo XX, ai lavori di un leader socialista preparato come Jean Jaurès che cerca di dare una lettura in chiave classista dell’evento principe della Francia moderna, la Rivoluzione del 1789. In effetti la visione nazionale dello stesso movimento dei lavoratori spinge vari autori ad affermare la continuità fra le istanze popolari della Rivoluzione per antonomasia e le attese e le aspirazioni che si concretizzeranno, circa un secolo dopo, nelle strutture e nelle attività del movimento operaio organizzato. I primi a scrivere di storia operaia furono, già alla fine del secolo XIX, personaggi colti che si identificavano nello stesso ambito sociale e politico. Si trattava di affermare, sul piano dell’analisi del passato, la continuità del socialismo con i primi popolani insorti contro la Francia dei privilegiati e dell’Ancien Régime. Al tempo stesso non si voleva perdere la memoria di leader e di lotte che sembravano di importanza strategica. Nei casi più espliciti, si sosteneva che nelle esperienze trascorse si potevano verificare la giustezza e il valore della propria linea di condotta sindacale e partitica. Insomma la militanza la faceva da padrona sulle metodologie, su ogni necessaria critica delle fonti e su ogni forma di autocritica.
Oltre ai militanti operai, ci ricorda Ceamanos, alcuni esponenti delle professioni liberali (medici, avvocati, notai, ingegneri, economisti,…) si impegnarono nel delineare una sorta di “economia sociale”, quale terza forza per sfuggire alla divisione gerarchica dei ceti produttivi fra sfruttatori padronali e sfruttati proletari. Questa ipotesi di emancipazione, definita di frequente mutualismo, coinvolse strati popolari anche in Francia, ma non ha poi meritato molta attenzione da parte degli studiosi. Questi si sono dedicati piuttosto alla ricostruzione del movimento rivendicativo, più o meno legalitario, che si batteva per sostanziali miglioramenti delle condizioni di salario e di vita. Nelle vicende tormentate delle correnti socialiste francesi tra fine Ottocento e inizio Novecento, si svilupparono ricostruzioni storiche per lo più ad uso e consumo degli attivisti i quali spesso si aspettavano di veder rivalutati momenti tragici e fondanti del movimento. Così si esaminò a fondo la Comune parigina del 1871 dando vita ad una specifica mitologia alimentata da studiosi militanti come Benôit Malon e Olivier Lissagaray.
Ceamanos sottolinea che un passo significativo per la conquista di spazi istituzionali nello studio dei movimenti rivoluzionari fu l’istituzione, nel 1891 alla Sorbona, della cattedra di Storia della Rivoluzione Francese, affidata a François-Alphonse Aulard. Si avviava un processo che nel tempo avrebbe portato all’ampliamento degli studi sul senso delle profonde trasformazioni a tutti i livelli iniziate nel 1789 che, secondo alcuni, erano da ampliare e rafforzare. In questo ambito si inserisce, come prospetta l’autore della “guida”, la diffusione della jauressiana Histoire Socialiste de la Révolution Francaise, che esce a fascicoli dal 1901 al 1904 per poter essere diffusa capillarmente pure nei ceti più poveri. In quest’opera l’ottica materialista marxista serviva per dare una visione progressista del mondo in evoluzione e per affermare che la vittoria della borghesia sull’aristocrazia era dovuta anche all’utilizzo strumentale delle forze popolari. Inoltre Jaurés intendeva dare spazio e grande dignità alle coscienze e alle volontà dei rivoluzionari del passato che mostrarono la possibilità di forzare il cammino della storia. Si legge in filigrana la proposta di riprendere, sempre con uno sforzo straordinario, il cammino verso una società che realizzi finalmente gli obiettivi di libertà, eguaglianza e fraternità lasciati tuttavia in sospeso.

3. Qui il volume ci dà conto delle tappe di svolgimento di ricerche sempre più approfondite e sempre più intrecciate al dibattito politico e ideologico. Così assistiamo al passaggio a Albert Mathiez, a Georges Lefebvre, a Albert Soboul della gestione dei centri di ricerca e insegnamento legati allo studio della Rivoluzione per antonomasia. Appare altresì il contrasto che, partendo dall’interpretazione dei sans-culottes come piccolo-borghesi e artigiani o come prima forma di un proletariato urbano, oppose la visione classica marxista di Soboul alla lettura in chiave libertaria sviluppata da Daniel Guerin che intravedeva elementi di democrazia diretta e di embrioni di autonomia proletaria che cerca di sottrarsi all’egemonia dei giacobini borghesi. Risulta di notevole interesse anche una serie di informazioni e considerazioni sull’opposizione di una “linea revisionista” alla lettura sociale della Rivoluzione. L’autore attribuisce al mondo anglosassone, durante la mobilitazione culturale anticomunista della Guerra Fredda, l’aver voluto ridimensionare il senso storico del 1789 in Francia inserendolo, quale seconda o terza tappa, nel ciclo delle rivoluzioni liberali americane, intese come “atlantiche”. Gli storici “filoatlantici”, da Edgar Faure a François Furet, avrebbero posto l’accento sul carattere positivo, riformista e tollerante, della rivoluzione americana che accompagnò l’indipendenza mentre la fase del Terrore in Francia avrebbe fatto degenerare un processo di graduali migliorie sociali costruendo uno stato totalitario e dittatoriale. Si profilano perciò le reciproche influenze tra le polemiche storiografiche e i conflitti politici e persino le tensioni militari degli anni Cinquanta fra i due blocchi, occidentale e orientale. Ceamanos rammenta, a questo punto, la coincidenza terminologica con l’alleanza militare dell’Occidente che si definì anch’essa “atlantica”. E’ come dire che gli scontri militanti non si riproducono solo nella opposta valutazione dei movimenti sociali e delle istituzioni, ma anche nella interpretazione dei grandi eventi che hanno segnato la storia contemporanea più o meno vicina.
Il consolidamento della storiografia sul movimento operaio in Francia passa attraverso la fondazione dell’Institut Français d’Histoire Social, sorto nel 1949 per l’impulso di Jean Maitron, uno dei grandi specialisti e animatori del settore. A dire il vero, già prima della nascita di questa istituzione, varie decine di docenti di scuola, archivisti, bibliotecari si erano impegnati nelle ricerche storiche e nelle discussioni teoriche attorno alle organizzazioni del movimento operaio verso le quali esprimevano interesse culturale insieme a simpatie e solidarietà.
Il libro ci presenta quindi vari dirigenti di questa istituzione e le loro principali linee di ricerca e relative pubblicazioni. Così apprendiamo della produzione scientifica e del coinvolgimento politico di lunga durata di Eduard Dolléans, economista formato negli studi giuridici, che iniziò l’attività durante la Belle Époque partecipando alla mobilitazione di intellettuali per salvare un operaio, Jules Durand, vittima di una montatura giudiziaria simile a quella, precedente di pochi anni, nota come Affaire Dreyfus. Possiamo poi incontrare George Buorgin che ebbe anche una formazione romana e si appassionò per il Risorgimento italiano, George Duveau, con una formazione sociologica, Philippe Vigier che si consacrò al rinnovamento delle strutture universitarie dalla fine degli anni Sessanta.

4. Altre rilevanti figure rievocate dallo storico spagnolo sono quelle di Maurice Dommanget, un vero maestro per la storia operaia che soffrì nella sua stessa esperienza personale la crisi del mito sovietico. Egli scrisse una biografia esemplare di un protagonista unico nel suo genere come Auguste Blanqui, riscoprì il peso della simbologia (dalla bandiera rossa al Primo Maggio) nel processo di identità del proletariato organizzato e recuperò un aspetto considerato marginale, ma di forte impatto nella ricostruzione della propaganda operaia, come quello dei “curés rouges”. Ancora troviamo Georges Vidalenc, sindacalista e insegnante, che si occupò in particolare dell’educazione operaia, Armand Cuvillier, che valorizzò il pensiero socialista premarxista di Pierre Joseph Proudhon, René Garmy, dedito all’esame del dibattito ideologico nel sindacalismo francese e in particolare nella CGT, Paul Chauvet, sindacalista autodidatta che entrò nell’accademia dopo aver pubblicato una preziosa ricostruzione della storia degli operai tipografi, Georges Lefranc, militante della CGT che suscitò molte polemiche per la sua partecipazione al governo di Vichy in nome della “politica della presenza” sindacale da perseguire in ogni contesto, Jean Bruhat, aderente al PCF per molti decenni e studioso dell’URSS e di leader rivoluzionari. Un ruolo speciale è occupato da Maximilien Rubel, ebreo polacco con simpatie libertarie, specialista nello studio della marxologie, mentre un emigrato italiano e tipografo comunista, poi socialista, Charles Torielli, sarebbe stato un esempio vivente di come si sia potuto conciliare la militanza politica e gli studi di storia operaia. Altri studiosi sono qui ritratti con dovizia di particolari riguardanti l’esperienza lavorativa e l’impegno intellettuale; è il caso di ricordare almeno Fernand Rude e i suoi studi originali, che risalgono agli anni ’40, sulla nascita del movimento operaio a Lione e in particolare sulle giornate insurrezionali del settembre 1831. Egli ha avuto il merito, secondo Ceamanos, di respingere la tradizionale spiegazione di tale evento come un moto spontaneo e disordinato, istintivo e provocato dalla fame, per vedervi invece una mobilitazione cosciente della classe operaia che si poneva in alternativa al potere politico della borghesia cittadina. L’analisi del movimento lionese è stata allargata da Rude sia in direzione delle categorie dei partecipanti (tra cui molte donne, ragazzi, ex soldati napoleonici) sia considerando l’avvento di una simbologia nuova, come quella della bandiera nera quale vessillo della rivolta totale e, per molti aspetti, fatale. La stessa valutazione della Comune di Lione come sorgente della coscienza di classe autonoma e di obiettivi a largo raggio appartiene anche ad altri autori, come Maurice Moissonnier, anch’egli sia militante che storico. Analoga la posizione ambivalente di Justinien Raymond che sostenne apertamente il vantaggio, quasi il privilegio, di ricoprire un duplice ruolo politico e scientifico.

5. Il presente volume possiede inoltre la capacità positiva di far emergere studiosi di rilievo, ma quasi sconosciuti al di fuori del loro ambiente specialistico, ad esempio vari bibliotecari decisamente promotori di significativi gruppi di ricerca storica. E’ il caso di Colette Chambelland, recentemente scomparsa, e del gruppo di colleghi che, riuniti al Museé Social, affiancò, stimolò e favorì in mille modi il lavoro scientifico di storici importanti come Jean Maitron.
Ceamanos ritiene che proprio Maitron sia stato una personalità fondamentale nel passaggio, difficile e tutt’altro che scontato, dalla storiografia interna al movimento a quella inserita nell’ambito universitario. Inizialmente maestro di scuola e allievo di Pierre Renouvin, Maitron diventò docente alla Sorbona senza aver seguito i corsi regolari e qui, nel 1951, osò presentare una tesi sulla storia dell’anarchismo francese, fatto inaudito nella solenne e tradizionale “prima” università del paese. L’argomento era infatti del tutto ignorato dalla storiografia ufficiale che in ciò coincideva con il disprezzo manifestato, sul piano politico, da comunisti e socialisti.
Maitron fu il fondatore dell’IFHS e del Centre d’Histoire du Syndicalisme, il promotore della rivista “Le Mouvement Social” e il direttore del monumentale Dictionnaire Biografique du Mouvement Ouvrier Français, formato da più di una quarantina di volumi, editi dal 1964 al 1997, e che presenta un affresco enorme e prezioso composto da varie migliaia di biografie molto curate. Opportunamente Ceamanos mette in rilievo il fatto che fu una piccola casa editrice del cattolicesimo sociale a compromettersi in tale sfida culturale ed organizzativa. Dalla conservazione della documentazione del movimento operaio, continuamente a rischio, alla rottura dell’ostracismo accademico, l’opera di Maitron ottenne successi insperati dalla metà degli anni Sessanta anche grazie alla dedizione, giustamente valorizzata dallo storico spagnolo, di Marcelle Gourdon, la sua compagna dagli anni Trenta in poi, scomparsa pochi anni fa. In pratica si trattò, stando alla ricostruzione fatta in queste pagine, di una tenace impresa artigianale dove la costanza e la passione pluridecennale dei Maitron e dei loro collaboratori, permisero di superare ostacoli impervi e apparentemente invincibili.
Accanto alla fitta schiera di storici esplicitamente militanti, si nota la decisiva presenza di un maestro per antonomasia, Ernest Labrousse, che riunì un’elevata conoscenza scientifica e una spiccata attitudine per la divulgazione alla grande capacità di usare il proprio potere accademico, quello della strategica cattedra di Storia economica e sociale della Sorbona, creando una vera e propria scuola di storici, di gran lunga la più importante negli studi francesi sul movimento operaio. Egli riuscì, ricorda Ceamanos, a ritagliarsi un considerevole e rispettabile spazio tra i due più grandi gruppi di pressione storiografica nella Francia del secolo XX: quello delle Annales e quello marxista. A sua volta Labrousse fu un allievo di François Simiand, sociologo ed economista, da cui apprese l’utilità scientifica di elaborare grandi serie statistiche per stabilire relazioni di regolarità fra i fenomeni sociali, specialmente quelli legati alle condizioni salariali e vitali delle classi sociali. Con le Annales e il marxismo, l’impostazione di Labrousse condivideva comunque alcuni elementi non secondari: il rilievo assegnato alle forze collettive, la priorità dei dati economici rispetto a quelli sociopolitici, l’analisi di fenomeni di lunga durata da preferire alla histoire evenementielle. L’autore spagnolo si addentra a descrivere l’attività intensa (e prolungata per più di sessanta anni) di Labrousse fornendo molte informazioni utili sul suo metodo scientifico, sulla sua produzione editoriale, sugli orientamenti politici e culturali, sull’impegno profuso nella formazione di decine di storici di valore da inserire progressivamente nelle istituzioni accademiche, nei centri di ricerca, nelle redazioni delle riviste. I punti qualificanti del lavoro universitario labroussiene si ritrovano nell’obiettivo di produrre una historie complète da realizzare attraverso un lavoro d’equipe, nella minuziosa ricerca di dati quantitativi e di soddisfacenti definizioni economiche e sociologiche, come quella di “classe”, nonché nella formulazione di categorie qualitative, come quella di “rivoluzione”, strettamente legata all’accumulo di conferme statistiche da ricavare da un complesso di fonti diverse ma convergenti, come quelle fiscali, demografiche, elettorali.

6. Talora Ceamanos sembra perdersi nel mare magnum dell’attività di Labrousse e tende a ripetersi, mentre purtroppo non approfondisce alcuni dibattiti con altri storici di vaglia. Così è liquidato in poche parole il confronto fra la categoria di “classe”, usata con abbondanza da Labrousse seguendo il filone ideologico marxista, e quella di “ordine” sostenuta dall’analisi istituzionale di Roland Mousnier. Analogamente poco si riporta dello scontro con Raymond Aron che riuniva i suoi seguaci nella École Pratique des Hautes Etudes riuscendo anche a coinvolgere alcuni allievi insoddisfatti di Labrousse, tra i quali la brillante e combattiva Annie Kriegel. Questa ultima risulta ben descritta nel volume, perfino nei tratti personali, dove si ricostruisce la sua evoluzione dal comunismo militante all’anticomunismo altrettanto engagè, al punto che i critici la etichettarono come “stalinista di destra”.
Ciò che qui interessa maggiormente è la riflessione storica che la Kriegel elaborò attorno alla nascita del comunismo in Francia: per lei sarebbe stato il risultato del trapianto del bolscevismo russo sul corpo ibrido e debole del socialismo francese, appena passato attraverso la sconfitta delle lotte dell’immediato primo dopoguerra. In sostanza tale chiave di lettura favoriva, al di là della definizione effettiva della realtà, le critiche diffuse nell’opinione pubblica francese contro un comunismo estraneo al contesto francese e in qualche modo imposto dall’esito vittorioso della Rivoluzione d’Ottobre. Altro aspetto storiograficamente rilevante dell’analisi e dei giudizi della Kriegel riguarda l’esame minuzioso, quantitativo e qualitativo secondo il metodo labroussien, delle biografie di molti militanti sindacalisti della CGT nel periodo 1918-1921, una fase di forte espansione e di mobilitazioni di massa. Pure su questo terreno le sue conclusioni andavano contro la formula tradizionalmente accettata di uno stretto collegamento fra lo sviluppo del sindacato e quello del socialismo organizzato.
Notevoli elementi di novità metodologica risultano, secondo Ceamanos, dagli studi di Maurice Agulhon, anch’egli giovane schierato nella sinistra prima comunista e poi socialista. I suoi studi sul sorgere del movimento operaio in Provenza, in particolare a Tolone, ampliarono il quadro consolidato nel tempo per entrare nel ruolo del folklore popolare come cruciale fonte dell’identità di classe e del progetto di alternativa sociale. Dall’incontro tra populismo arcaico e nuovo socialismo sarebbe sorta, attorno alle lotte del 1848, un’atmosfera favorevole al progresso sociale che però veniva inteso dai poveri come scontro con i ricchi mentre i borghesi lo identificavano nella difesa della Repubblica. La sociabilité è anche alla base dei lavori, divenuti ormai dei testi classici, di Roland Temprè sui minatori del Nord della Francia, una categoria ritenuta arretrata rispetto allo sviluppo industriale ma che avrà un grande peso nell’immaginario del movimento operaio moderno. Gli aspetti economici e sociali si fondono molto bene con quelli morali e della mentalità nel lungo e complesso processo di formazione della classe operaia dei minatori, che attraversa le varie generazioni progressivamente meno vincolate all’ambiente rurale.

7. Ulteriori passi avanti della storiografia operaia sarebbero compiuti, per Ceamanos, dalla particolareggiata indagine svolta da Michelle Perrot, inizialmente seguendo il metodo collaudato di Labrousse, attorno agli scioperi di fine Ottocento in Francia. Partendo dalla catalogazione di più di 2000 scioperi, scoppiati tra il 1871 e il 1890, la storica elaborò una statistica degli aspetti caratteristici di queste mobilitazioni per passare poi dal piano quantitativo a quello qualitativo usando precisi fondamenti scientifici. Il salto storiografico compiuto dalla Perrot fu la scoperta del fatto che la decisione di entrare in sciopero non dipendeva tanto da fattori oggettivi di sfruttamento e di bisogno materiale immediato quanto da una decisione che gli operai prendevano con la coscienza di lottare per raggiungere obiettivi più ampi e profondi di semplici rivendicazioni settoriali. Il volume sottolinea come si tratti di una scoperta, apparentemente semplice ma foriera di considerevoli conseguenze negli studi successivi: gli operai erano stati dei “sujetos conscientes en el proceso histórico” (p. 131) e di questa affermazione ogni ricerca sul movimento proletario avrebbe dovuto tener conto. E ciò al di là di ogni agiografia o moralismo dogmatico che la Perrot aveva comunque riscontrato in molta letteratura precedente. Così l’astensione dal lavoro degli operai francesi di fine Ottocento veniva interpretata, sulla scia delle scelte culturali del movimento del Maggio ’68 a cui anche la storica aveva partecipato con convinzione, come l’occasione per “prendere la parola” dopo troppo tempo di silenzio e di subordinazione ai vertici dell’impresa e del potere. Nel caso di Perrot, che avrà successivamente un ruolo di promozione della storia di genere, e non solo in Francia, si potrebbe notare come l’intreccio tra l’esperienza militante e l’attività scientifica sia molto stretto e si ritrovi al fondamento delle motivazioni sia della elezione dei temi che dell’impostazione complessiva.
Si ha l’impressione che Ceamanos non approfondisca tali nessi al di là delle biografie degli storici e che non ci permetta di verificare quanto e come militancia e universidad si siano reciprocamente condizionati e stimolati sul piano della metodologia e delle chiavi di lettura. Malgrado l’ampiezza del volume, e dei suoi notevoli meriti conoscitivi e analitici, una riflessione sul metodo e sull’ontologia professionale avrebbe meritato qualche ulteriore spazio. Resta l’ipotesi, al lettore con qualche esperienza in merito, che i due mondi, quello dell’impegno militante e quello della ricerca accademica, possano offrire, nel caso francese e non solo, una sorta di complementarietà: il primo fornisce una spinta morale e dà un senso preciso agli sforzi di produzione scientifica attinenti la storia dei movimenti di emancipazione sociale, il secondo permette di condurre con strumenti adeguati un lavoro che non può essere soltanto ben intenzionato ma che deve corrispondere, per acquisire una validità generale, a una metodologia rigorosa e a una riflessione autenticamente critica. Metodologia e riflessione che rendono i risultati in grado di reggere ad una verifica seria e a un auspicabile dibattito culturale senza comode simpatie o corrive tolleranze.

8. Il recupero del protagonismo degli attori di eventi e movimenti storici trova un convinto sostenitore in Antoine Prost, uno studioso che non si riconosce nella scuola di Labrousse. Egli è autore di un’analisi originale sugli ex combattenti della Prima Guerra Mondiale, un gruppo sociale che ha un’identità forte ma di natura interclassista e non economica. In questo caso la psicologia collettiva sembra prevalere nettamente: fu l’esperienza traumatica della guerra di trincea, con la presenza quotidiana della morte, di una forzata (ma non per questo meno importante) fraternità d’armi e poi del peso ossessivo dei ricordi, a unire molte migliaia di francesi e a influire su non pochi comportamenti sociali di massa e su avvenimenti politici di rilievo nazionale. Il suggerimento che scaturisce dall’opera di Prost per altre storie nazionali, come quella italiana, è evidente e pare sia stato solo in parte ascoltato dalla storiografia.
Il pensionamento e il progressivo declino fisico di Labrousse, nei primi anni Ottanta, con il passaggio ad altri storici di alcuni impegni di prestigio, (come quello di responsabile delle celebrazioni del bicentenario del 1789), portò ad una inevitabile crisi della egemonia della sua scuola storiografica. Un esempio tangibile è fornito, nel volume, dal caso di Furet che compie una inversione di percorso non solo accademica ma anche politica approdando nel giro di pochi anni ad una posizione anticomunista che, secondo l’autore, ruota attorno al concetto, antilabroussiano per eccellenza, di autonomia del fatto politico rispetto a quello economico e sociale.
La nuova svolta della storiografia operaia francese dipende in realtà dall’arrivo, dopo decenni di quasi impermeabilità agli stimoli esterni e di ostinata resistenza intrisa di certo spirito nazionalista, dell’influenza della storiografia britannica. Basti pensare, e Ceamanos lo sottolinea convenientemente, che la classica opera di Edward P. Thompson, The Making of the English Working Class, fu tradotta in francese appena nel 1988, ben 25 anni dopo la sua prima edizione inglese. Secondo Miguel Abensour tale grave ritardo si spiega con la convergenza di una considerevole dose di provincialisme e della accanita difesa di un monopolio ben consolidato. La scuola storiografica inglese, che ruotava attorno al sofferto processo di costruzione della identità della classe operaia, trovò anche in Francia sostenitori sempre più convinti e convincenti. Essi affermarono la centralità della intenzionalità nei comportamenti popolari e soprattutto nella definizione dell’identità di classe che doveva molto a “lo vivido en común” (p. 149). Come succede talvolta, il reietto divenne, nel giro di pochi anni, una sorta di icona sacra e Thompson divenne oggetto di lodi agiografiche. Così Patrick Friedenson pubblicò, nel 1994 poco dopo la morte dello storico inglese, sulla rivista a lui più vicina “Le Mouvement Social” questo epitaffio: “Un géant de l’historie sociale, un champion du militantisme, un gran écrivain” (p. 153).

9. Anche se non pare aver avuto conseguenze dirette sugli studi di storia del movimento operaio, Ceamanos inserisce quale esperienza fondamentale, nella formazione di un’intera generazione, la partecipazione alla lotta contro la guerra coloniale in Algeria che sconvolse la vita francese dal 1954 al 1962. In quel contesto si radicalizzarono non pochi intellettuali in seguito alla delusione per la linea adottata dai partiti di sinistra, giudicata troppo acquiescente col mantenimento dell’Algeria francese. In particolare alcuni storici contemporaneisti, come Pierre Vidal-Naquet e Madeleine Rebérioux (alla quale il giovane storico spagnolo dedicò significative interviste) appoggiarono senza remore la lotta degli indipendentisti algerini, in special modo denunciando la tortura praticata dalle truppe francesi di occupazione. Non mancò chi, in un impeto di solidarietà concreta e non solo propagandistica, si compromise a fondo, fino a procurare armi al FLN algerino. Anche Jacques Julliard, cristiano di sinistra, e René Gallissot, comunista, furono in prima fila nella solidarietà con il movimento anticolonialista. Tra l’altro Gallissot, che aveva risieduto vari anni nel Maghreb contribuendo alla formazione ideologica di molti giovani arabi, diresse, quasi a completare sul piano scientifico il proprio impegno pratico, la compilazione del volume del Dictionnaire Biografique du Mouvement Ouvrier International sul Marocco, un’estensione del maitroniano DBMOF che restò purtroppo incompleta coprendo solo sei paesi. Come effetto di tipo generale e sul piano dei riferimenti ideali, Ceamanos vede un importante cambiamento nell’immaginario utopico rivoluzionario di chi si schierava con l’anticolonialismo: i paesi sottosviluppati stavano prendendo il posto della sempre più deludente Unione Sovietica.
Universalmente noto è l’impatto culturale, in tutti gli ambiti, costituito dal movimento esploso nel maggio 1968 con epicentro a Parigi. Anche se, come rileva lo storico spagnolo, la durata delle agitazioni fu alquanto ridotta (di sicuro meno che in altri paesi, ad esempio in Italia) si può dire che l’università, ma anche l’educazione in generale e i circoli intellettuali, dopo il ‘68 non furono più gli stessi. Sul piano dei cambiamenti introdotti dal potere politico e accademico, quale risposta alle istanze degli studenti, si riscontrano la rottura, o quantomeno la crisi, delle baronie, la partecipazione studentesca alle scelte istituzionali, l’autonomia delle università e il sorgere di molti atenei provinciali oltre che la frammentazione, in realtà già avviata, della gigantesca e ingestibile Sorbona. Tutto questo all’interno della riscoperta della funzione sociale degli atenei troppo a lungo chiusi in se stessi.
Nella storiografia si avviò un processo di rinnovamento analogo, e forse più radicale; di fatto si fece sentire un terremoto che investì le basi stesse del settore: metodologia, tematiche, organizzazione della ricerca si rinnovarono mentre si ampliarono le fonti e si ruppero i limiti temporali con l’irruzione della “storia del tempo presente”. Ben mette in evidenza Ceamanos il ruolo svolto in tale processo dalla rivista “Le Mouvement Social” anche attraverso gli stretti contatti internazionali. Un incontro del 1987 con le riviste italiane (“Italia Contemporanea”, “Memoria”, “Movimento Operaio e Socialista”, “Passato e Presente”) rappresentò la comune volontà di superare nelle ricerche scientifiche le “colonne d’Ercole del 1945”, come affermò Aldo Agosti (p. 186).

10. Varie tendenze già esistenti, come quella favorevole ad una maggiore collaborazione con altre metodologie di indagine sociale (sociologiche, economiche e linguistiche) trovarono un rinnovato impulso dalla spinta innovatrice della fine degli anni Sessanta. In conseguenza gli studi sulla classe operaia finirono per estendersi ad altre categorie di lavoratori subordinati superando un presunto dogma marxista-leninista che vedeva nell’operaio, e specialmente della grande fabbrica, il potenziale protagonista dell’auspicata rivoluzione. Vari sociologi invasero allora il campo tradizionale degli storici e, soprattutto quelli attorno ad Alain Touraine, come Jean-Daniel Reynaud, riscoprirono la dimensione storica della sociologia del lavoro quale “scienza dell’azione sociale” (p. 195). Touraine, che aveva vissuto con entusiasmo il maggio del 1968, definendolo una forma di comunismo utopico, riesaminò la storia del movimento operaio valorizzando in esso elementi prima trascurati come la rivendicazione del diritto effettivo alla salute, all’educazione, alla cultura e, dato estremamente soggettivo, al libero sviluppo della personalità di ognuno e di tutti.
Malgrado la progressiva e tangibile crisi dell’egemonia culturale marxista negli anni Settanta, sostiene Ceamonos, e malgrado la crescente affermazione dei paradigmi liberali in campo politico e intellettuale, identificati nelle attività della Fondation Saint-Simon, la storia del movimento operaio continuò ed anzi si rafforzò. Infatti giunsero sulla scena nuove generazioni di ricercatori e si realizzarono importanti opere come la Histoire général du socialisme(1972-1978), curata da Jacques Droz con la collaborazione di una ventina di storici francesi per lo più affermati docenti universitari. Tale elemento viene a confermare l’avvenuta istituzionalizzazione accademica della storia operaia, un obiettivo che sembrava molto difficile ancora nei primi anni Sessanta. D’altra parte, ricorda lo storico spagnolo, alcune commemorazioni, come quella del Centenario della Prima Internazionale, nel 1964, avevano favorito, con la convergenza a Parigi di un centinaio di specialisti provenienti da una ventina di paesi, un ricco dibattito e avevano dato maggior visibilità al lavoro dei ricercatori francesi di storia operaia. Qualche tempo più tardi, in occasione del Centenario della Comune di Parigi (1971), riprese un serrato confronto di natura interpretativa: chi leggeva negli eventi comunardi la chiusura del ciclo delle rivoluzioni plebee iniziate nel 1789 e chi invece vi individuava la prima rivoluzione proletaria nel cui solco si iscriveva, quanto meno, la rivoluzione sovietica del 1917. La polemica continuò spostandosi sul significato storico del comunismo; da una parte gli storici vicini ad istituzioni culturali legate al PCF, come l’Institut Maurice Thorez, e dall’altra studiosi come la Kriegel e i suoi collaboratori si confrontarono sul grado di autonomia del comunismo francese da quello russo.

11. Al di là dello scontro sul ruolo del comunismo, per Ceamanos, la storia operaia francese risentì del declino della stessa classe operaia che si realizzò in seguito alla ristrutturazione industriale con la chiusura di numerose fabbriche e miniere. Inoltre il grado di sindacalizzazione dei lavoratori, indice indiretto di una certa coscienza di classe, cadde a livelli minimi: dal circa 40% degli anni Cinquanta, si giunse a meno del 18% negli anni Ottanta. Sorse comunque una sensibilità nuova verso la conservazione delle strutture produttive e vari storici, tra i quali Michelle Perrot, si batterono per salvare il patrimonio edilizio e gli impianti di almeno una parte delle fabbriche della Prima rivoluzione industriale dando vita ad una inedita istituzione di archeologia industriale, gli “ecomusées” (p. 258). Parallelamente le ricerche si diressero verso territori prima trascurati e si notò una considerevole corrente verso lo studio delle culture operaie, partendo da aspetti un po’ negletti come le letterature proletarie e il ruolo del cinema nella costruzione della memoria e dell’identità di classe.
Altre tematiche prosperarono, a partire dagli anni Settanta e soprattutto Ottanta, nello sviluppo di una storia sociale che si stava costruendo in collegamento con i nuovi movimenti sociali (dal femminismo al pacifismo, dall’ecologismo al regionalismo). Si avviarono nuove ricerche, ad esempio di Jeanne Gaillard, sui luoghi tradizionali di aggregazione urbana (scuole, ospedali, centri di ristoro e di socializzazione) che spesso avevano portato all’integrazione dei flussi di emigrazione dalle campagne nel corso degli ultimi due secoli. Inoltre si concretarono analisi storiche, come quelle di Yolande Cohen e Claudie Weill, sul ruolo delle aggregazioni giovanili nei movimenti di opposizione e di rivolta. Da parte loro, singoli studiosi si incaricarono di affrontare un problema molto delicato e apparentemente risolto nella Francia unitaria e centralista, quello delle autonomie regionali. Fu il caso di François Bédarida che si confrontò proficuamente con l’inglese Eric J. Hobsbawn e il catalano Josep Termes, impegnati nella ricerca delle radici popolari e progressiste delle spinte autonomiste e indipendentiste in altre aree europee.
Il genere come categoria analitica è diventato, com’è noto, uno strumento di indagine storica e una caratteristica peculiare della “histoire de femmes” che, rileva lo spagnolo, ha fatto i primi passi all’interno della storia operaia, perlomeno in Francia, in quanto studio del lavoro e della condizione femminile nelle famiglie operaie. Ricorda lo spagnolo che a partire dal 1973, per iniziativa della Perrot, nelle università francesi iniziarono seminari e corsi sulla “storia al femminile”. In breve queste iniziative si affermarono e si moltiplicarono sia pure mantenendo dei centri propulsori a Vincennes e a Paris VII-Jussieu.
Particolare interesse riveste la riflessione della Trempé, che lavorò soprattutto a Tolosa e che riunì, già negli anni Settanta, molti storici, sociologi, giuristi, sindacalisti e militanti per riflettere insieme sulle difficoltà di conciliare militanza, testimonianze e obiettività, o perlomeno, distanza critica dello storico. Ecco che il tema centrale di questo analitico lavoro di Ceamanos ritorna, dopo un lungo itinerario fra scuole, leader accademici, ideologie, opere monumentali e riviste prestigiose, nonché polemiche e sorprendenti svolte personali, al punto centrale: la possibilità e l’utilità, di far convivere l’impegno ideale e i limiti pratici della militanza (sindacale, politica, movimentista) con il rigore dell’analisi critica e l’equilibrio di giudizio tipici della storiografia più avveduta.