Marco Gervasoni, L’intellettuale come eroe. Piero Gobetti e la cultura del Novecento, La Nuova Italia, 2000
[ISBN 88-221-4240-3; € 25,31]

Gianluca Scroccu
Università di Cagliari

1. Si è celebrato quest’anno l’ottantesimo anniversario della morte di Piero Gobetti, avvenuta il 26 febbraio 1926 a Parigi, dove il giovane antifascista si era ritirato prostrato dalle bastonature e dalle aggressioni fasciste. Un nome, quello di Gobetti, che è tornato periodicamente nel dibattito pubblico in questi ultimi anni, legato oltre che alla riflessione storiografica intorno alla sua opera anche al richiamo più o meno esplicito che è stato fatto alla sua figura da parte di esponenti del mondo politico e intellettuale. Due di essi, del resto, sono scomparsi proprio negli ultimi tre anni: Norberto Bobbio[1] e Alessandro Galante Garrone[2]. Può essere pertanto utile ritornare su un robusto e accurato volume di Marco Gervasoni come “L’intellettuale come eroe. Piero Gobetti e la cultura del Novecento” specie perchè, anche a distanza di quasi sei anni dalla pubblicazione, riesce a fornire un’analisi innovativa e accurata del pensiero e dei vari filoni interpretativi sorti intorno alla figura del giovane intellettuale antifascista torinese[3]. L’autore, già distintosi per i suoi studi sulla storia della Francia[4] e sui rapporti tra la politica francese e l’Italia[5], dedicatosi recentemente anche alla più vicina storia dei partiti politici italiani con riferimento specifico alla parabola del PSI[6], con questo volume traccia un quadro interpretativo esauriente e stimolante dell’universo gobettiano e del suo rapporto con il mondo intellettuale italiano ed europeo del Novecento.

Si deve subito sottolineare come una delle peculiarità più originali di questa ricerca derivi soprattutto dal solido impianto su cui è articolato il volume. Se nei primi tre capitoli, attraverso una precisa scansione cronologica, si tratteggiano con efficacia i caratteri fondamentali della nascita e dalla maturazione dell’esperienza culturale gobettiana, con pagine significative dedicate alla maturazione che portò il giovane torinese dalla più acerba esperienza di "Energie Nove" a quella più profonda e articolata di "La Rivoluzione Liberale" e al manifestarsi sempre più forte del suo intransigente antifascismo che lo condusse alla morte, i capitoli successivi si segnalano invece come l’elemento più significativo nell’economia generale del volume, con diversi spunti di ricerca realmente originali. Gervasoni centra la sua analisi su un caposaldo primario dell’agire gobettiano: la formazione di una nuova classe dirigente. Gobetti, seppur in maniera frammentaria e poco organica, può essere classificato prima di tutto come un teorico dei processi di formazione delle classi dirigenti[7], da lui individuati attraverso il rinnovamento democratico delle elite generato dalla lotta dei partiti e dei gruppi sociali. Da questo punto di vista, come sottolinea l’autore, il giovane antifascista torinese, pur apprezzando i teorici della classe politica come Mosca e Pareto, se ne distaccava fortemente perché ne criticava i limiti conservatori che non avevano permesso loro di fare i conti con quel movimento operaio che nella visione gobettiana si stava candidando ad acquisire quella funzione libertaria esercitata precedentemente dalla borghesia. Il compito della formazione di un nuovo ceto politico e intellettuale doveva avvenire sulla base di una cesura storica e di un approccio anche formale totalmente diverso rispetto al problema della maturazione dei gruppi dirigenti. Gobetti, evidentemente, non poteva essere solo in questo progetto: aveva bisogno di avere a fianco una “rete” di personalità, studiosi e amici che condividessero il suo progetto e la sua volontà di partecipare. Molto interessante è in quest’ottica il quarto capitolo dedicato ad un vero e proprio esame della “sociologia dei gobettiani”, cioè l’analisi della generazione che visse con Gobetti quel tentativo di rinnovamento e di cui l’autore mette in evidenza aspetti stimolanti come la loro ramificazione sul territorio italiano in una rete proficua di scambi e diffusione che vide un’efficace collaborazione tra intellettuali settentrionali e meridionali (che peraltro testimonia la provenienza solo marginalmente piemontese dei gobettiani di prima generazione), la relativa giovane età ma anche la mancanza di contatti con il mondo dei produttori e dell’imprenditoria (la cerchia dei collaboratori si muoveva per lo più all’interno di professioni come quella dei giornalisti, degli impiegati e degli insegnanti della scuola secondaria e del mondo universitario). Un nuovo modello che si basava dunque sulla giovinezza e sul salto delle tradizionali mediazioni politiche, come si spiega nel quinto capitolo, con un’attenzione particolare dedicata alle caratteristiche del linguaggio politico gobettiano e ai richiami semantici legati al tema della rigenerazione e della giovinezza come strumento per il rilancio delle virtù necessarie alla costruzione di una nuova identità nazionale.

2. Il lavoro di Gervasoni tenta di analizzare la figura di Gobetti da un punto di vista puramente storico, astraendolo cioè tanto dalle letture attualizzanti di certa politica quanto dallo studio del suo pensiero esclusivamente legato alle dinamiche della storia delle dottrine e del pensiero politico. Un pensiero in fieri, quello di Gobetti, e da questo punto di vista sono molto rilevanti le pagine dedicate al passaggio e all’evoluzione dai primi tentativi di “Energie Nove” all’esperienza più completa e matura di “La Rivoluzione Liberale”, che permette all’autore di individuare alcuni tratti salienti dell’azione gobettiana che la precedente storiografia non aveva sufficientemente focalizzato. Si delineano così le analogie, i debiti culturali, i contatti ma anche le fratture e le divergenze (ad esempio con i modelli crociani e salveminiani) tra il giovane intellettuale torinese e i suoi contemporanei. L’ambizione di Gobetti e della sua “rivoluzione liberale” era infatti quella di delineare un nuovo intellettuale, “l’intellettuale politico”, capace di rinnovare il suo profilo liberale attraverso l’apporto di quanto era stato offerto dal pensiero politico contemporaneo. Non a caso nella maturazione gobettiana la cesura fondamentale era stata determinata dalla prima guerra mondiale che nella sua ansia rigeneratrice aveva portato alla necessaria ricerca di una nuova fisionomia di intellettuale, calato sì nella realtà nazionale ma pronto a portare avanti la lotta politica anche da una condizione di minoranza.

3. Rinnovamento culturale che nell’accezione gobettiana doveva passare per una graduale sprovincializzazione a favore di una dimensione più europea (l’autore dedica non a caso molte pagine all’analisi del rapporto fra Gobetti e la Francia, ammirata per la sua solidità frutto del retaggio di uno stato nazionale edificato e costruito nei secoli attraverso processi storici armonici, in un mix di modernità e tradizione), ma soprattutto, e questo è interessante perché fu uno dei punti sostanziali dell’impegno gobettiano, mediante l’azione delle case editrici, rispetto alle quali il paese vantava un ritardo strutturale nei confronti degli altri paesi europei. In quest’ottica il disegno di Gobetti mirava alla valorizzazione di “un editore ideale” capace di avere un’esplicita funzione intellettuale rifiutando prima di tutto il modello delle grandi iniziative editoriali, spesso confuse e goffamente onnicomprensive, a favore invece delle più vivaci esperienze portate avanti dalle medie e piccole case editrici (questa funzione di straordinario talento come “suscitatore culturale” sarebbe anche all’origine, secondo Angelo d’Orsi, della formazione e dell’attività della casa editrice Einaudi)[8].

L’azione concreta sul terreno culturale fu del resto per il giovane Gobetti il punto d’incontro con la politica: l’ansia di rinnovamento della cultura si sposò infatti con quella del rinnovamento delle istituzioni, da conquistare non attraverso una rivoluzione ma con un cambiamento profondo della mentalità e dello spirito pubblico.

4. Certamente la marcia su Roma e l’avvento del fascismo servirono a chiarire meglio quali fossero gli intendimenti del giovane intellettuale; e non a caso Gervasoni disegna in profondità tutto il senso del distacco che matura fra “l’apotismo” di Prezzolini e l’impegno antifascista di Gobetti. In quel momento la frattura fra il modello dell’intellettuale vociano e il giovane torinese si fa sempre più netta, con Gobetti che accusa direttamente Prezzolini di assumere atteggiamenti totalmente astratti rispetto all’evoluzione storica della realtà italiana. Dal libro emerge chiaramente come il fondatore di “La Rivoluzione Liberale” sia stato uno dei primi intellettuali a prendere le distanze in maniera concreta e radicale dal fascismo. Egli vide da subito come la crisi del liberalismo italiano e delle sue chiavi di lettura della società fossero venute pienamente allo scoperto, dato che non si esitava a relativizzare la funzione dei diritti civili individuali e politici all’interno di una visione politica che portava certi ceti a vedere nelle violenze fasciste una male necessario e utile a respingere il rivoluzionarismo operaio ispirato dai fatti di Russia. Da allora il problema divenne quello di continuare a svolgere l’educazione pedagogica della classe dirigente o fare una decisa scelta di campo in favore dell’antifascismo: e Gobetti scelse quest’ultima opzione, anche per mettere in evidenza le fragilità delle basi storiche del liberalismo italiano, capace di fare amministrazione invece che politica, ed individuando nell’assenza di una reale lotta politica la vera causa della degenerazione dell’assetto istituzionale del paese. Finì definitivamente, insomma, l’imparzialità gobettiana legata ad un approccio eccessivamente stretto ad una sfera intellettuale o culturale; da quel momento si evolve la figura dell’intellettuale intransigente “non conciliata né conciliante” per usare una bella espressione di Marco Revelli[9], che si interroga profondamente sul significato ultimo della politica. La missione del liberale è allora quella di condurre il proprio paese allo sviluppo e alla modernità anche attraverso la valorizzazione del ruolo della lotta di classe. Nella sua visione quest’ultima ha un valore permanente di rinvigorimento della civiltà capitalistica anche al di là dei miti messianici del movimento operaio. Non a caso, come mette in evidenza Gervasoni, per Gobetti il mancato progresso liberale e moderno dell’Italia era causato dalle deficienze strutturali del capitalismo locale, dalla mancanza di un vero e proprio spirito imprenditoriale e da una vera volontà di cambiamento; un discorso, evidentemente, che mantiene anche ai nostri giorni una sua straordinaria attualità, a testimonianza di una mancata presa d’atto di quelle che sono ancora oggi alcune delle lacune organiche del sistema economico-imprenditoriale italiano.

5. Non è comunque tra gli intenti dell’autore quello di far emergere un Gobetti cantore acritico delle virtù della classe operaia. Nel volume si sottolinea infatti come nel pensiero e nell’analisi gobettiana, a parte il caso dell’esperienza torinese dei “Consigli di Fabbrica”, sia sempre rimasta una critica molto forte verso quell’universo operaio che non aveva ancora dimostrato capacità di direzione nelle lotte sociali, discorso che portava inevitabilmente ad una dura critica al movimento socialista. Per Gobetti, infatti, sono certamente gli individui ad esercitare la lotta politica ma possono farlo solo se inseriscono la loro attività all’interno di un sistema di valori e di idealità, proponendo poi soluzioni concrete ai problemi della contemporaneità. La concezione della lotta di classe in Gobetti secondo Gervasoni non si configura in sostanza come l’abbattimento del potere sociale e politico della borghesia, ma come la concorrenza tra le classi tradotta su un piano sociale di progresso e avanzamento della democrazia. Su questa linea interpretativa si è posto del resto anche un altro studioso come Massimo Luigi Salvadori, secondo il quale il liberalismo rivoluzionario di Gobetti sarebbe da intendersi come movimento capace di suscitare energie, liberare forze a lungo oppresse e immetterle nella storia; e questo spiegherebbe il suo interesse tanto per la più moderna borghesia capitalistica quanto per l’esperienza delle fabbriche torinesi[10]. Il distacco dai modelli conservatori del liberalismo permette a Gobetti di comprendere e cogliere il ruolo del socialismo e la centralità dell’autorganizzazione operaia come momento di libertà e di sviluppo autonomo di iniziativa politica. E in questo senso la classe operaia di Gobetti doveva esser forgiata dalla tecnica, dalla modernità del capitalismo fordista, acquisendo forza e preparazione grazie all’attività fortemente connotata in senso elitario di politici-intellettuali capaci di guidarla. Gobetti voleva insomma un radicale ripensamento degli istituti del movimento operaio e non a caso furono molto duri i suoi richiami contro il mancato intransigentismo dei socialisti riformisti nei confronti del fascismo. Ma allora il fondatore di “Energie Nove” dimostrò maggiore attenzione verso i comunisti, divenendone di fatto, come è stato ipotizzato da diversi studiosi, la chiave di volta per un loro possibile emergere nel tessuto sociale italiano?

Il problema del rapporto di Gobetti con i comunisti è analizzato con grande attenzione nelle pagine del libro; secondo Gervasoni, infatti, se da un lato ci fu effettivamente in Gobetti un’eccessiva mitizzazione degli ordinovisti che non gli permise di cogliere i limiti strutturali di quella esperienza (come il non aver saputo offrire al paese un modello alternativo di sviluppo), non si possono tuttavia dimenticare le molte critiche disseminate negli scritti gobettiani rivolte contro i tratti antiliberali e burocratici dell’esperienza comunista. Certo, il rapporto fra Gramsci, il gruppo de “l’Ordine Nuovo” e il giovane studioso liberale fu molto intenso (non bisogna dimenticare che Gobetti collaborò come critico teatrale alla rivista dei comunisti torinesi); ma era un’affinità che molto doveva anche alla curiosità di Gobetti per il mondo culturale e lo “spirito” russo e che gli faceva provare contemporaneamente ammirazione e repulsione. Non è comunque improbabile, come sottolineato in passato anche da Norberto Bobbio[11], che sull’origine di questo rapporto abbia giocato nel giovane Piero la forte esigenza di essere politicamente attivo anche in senso radicale e che proprio questa necessità ne abbia limitato la riflessione sul significato reale dell’esperienza dell’occupazione delle fabbriche e della funzione sociale degli operai.

6. Alla ricezione e all’eredità della figura di Gobetti nella storia dell’Italia repubblicana è dedicato il nono capitolo, uno dei più efficaci del volume. Un rapporto vissuto sempre in maniera differente a seconda della stagione e dei principali temi dell’agenda politica, capace di scivolare dall’agiografia derivante dall’esaltazione del martire antifascista (prevalente sino agli Settanta almeno in occasione della commemorazione ufficiali), per riacquistare una sua centralità intellettuale negli anni Ottanta (seppur in chiave critica, in riferimento alla crisi del paradigma di legittimazione dell’antifascismo e della Resistenza) ma soprattutto dopo il biennio 1992-1993, in seguito al quale si assistette ad un periodo assai confuso, che continua tutt’ora, fatto di discutibili attribuzioni e richiami alla lezione gobettiana, tanto da parte della sinistra post-comunista che della destra post-missina.

A dire il vero, come ricorda Gervasoni, tentativi di storicizzare e analizzare criticamente la figura di Gobetti iniziarono sin da subito dopo la sua morte (e in tal senso si citano alcuni interventi apparsi sul “Baretti” e tutta una serie di giudizi di Einaudi, Saragat e di vari appartenenti di “Giustizia e Libertà”). Il primo e più esplicito riferimento a Gobetti da parte di un vero movimento politico fu però quello del Partito d’Azione, dove, come scrive l’autore, «il nome di Gobetti comparve a pieno titolo, con un ruolo fondante ben preciso» (pag. 425). La piena filiazione e il diritto a rivendicare la praticabilità della lezione gobettiana da parte del movimento azionista (anche con elementi di una qualche diversità rispetto alla interpretazione che era stata data da importanti esponenti di “Giustizia e Libertà” quali Rosselli, Levi e Garosci) emersero soprattutto grazie al magistero del professor Augusto Monti, con cui ebbe inizio la genesi di quel “moralismo gobettiano” da intendersi come il richiamo ad un’intransigenza assoluta manifestata in primo luogo dal rifiuto dei costumi e della tradizione italiana (e di cui Spadolini e Bobbio, sia pur con accenti diversi, furono tra i più significativi rappresentanti). Una lettura che contribuì alla costruzione di un «Gobetti di tutti» (pag. 433), attraverso la quale si poteva parlare a tutti gli attori politici del cosiddetto arco costituzionale; una visione che di fatto diveniva universale depauperandosi alla lunga dell’originalità delle proposte politiche gobettiane per cui «il Gobetti moralista, proprio perché del tutto metapolitico, consentiva ai suoi assertori di abbracciare i più diversi programmi e le più diverse soluzioni, motivando le loro scelte con la caducità delle formule gobettiane, di cui era importante conservare lo spirito di intransigenza ma non la lettera» (pag. 433). Paradossalmente, infatti, il partito che nei primi tempi della “Prima Repubblica” rivendicò maggiormente la figura e l’opera di Gobetti, anche se soprattutto nella sua accezione di martire, fu quello liberale, assai più vicino nella sua pratica politica alla visione di un Salandra piuttosto che a quella di Gobetti. In realtà, anche per il fatto che il clima della guerra fredda e degli anni cinquanta dettava gran parte dell’agenda dei partiti, ben poco vi era per una riproposizione delle tematiche gobettiane, specie per quanto riguarda la sua analisi del comunismo, che anzi destava molto perplessità negli ambienti più moderati come quello del «Corriere della Sera». A ben vedere, proprio il problema del rapporto e del dialogo fra Gobetti e i comunisti italiani, almeno quelli dell’esperienza torinese, era destinato a scatenare le interpretazioni storiografiche più controverse. In relazione a questo filone si richiamano gli studi di due intellettuali atipici come Sapegno e Spriano[12], entrambi interessati nell’evocare la figura del giovane torinese come uno di quegli esempi fondamentali del rapporto tra PCI, intellettuali e democrazia progressiva all’interno di quel percorso di dialogo, presentatosi per lo più attraverso processi discontinui, tra i comunisti italiani e le forze liberaldemocratiche e progressiste disponibili al confronto con i rappresentanti della classe operaia.

Pagine assai significative sono parimenti quelle dedicate allo studio della figura del Gobetti che rientra prepotentemente alla ribalta nel dibattito politico e intellettuale degli anni Novanta, subito dopo la scomparsa dei principali partiti politici e l’offuscamento delle correnti e delle tradizioni precedenti; e il fatto «che negli anni Novanta, tra i marosi del vecchio ceto politico, fossero Gobetti e Rosselli ad essere discussi sui quotidiani e settimanali, più che Gramsci e Matteotti, non va spiegato solo con la crisi, pure profondissima, delle proposte politiche comuniste e socialiste» (pag. 458), ma proprio con il fatto che i primi due non erano entrati direttamente nel pantheon dei maggiori partiti né erano stati percepiti come ispiratori di una particolare tradizione. Gervasoni ricorda come in questa riscoperta della vitalità del messaggio gobettiano concorse sicuramente la pubblicazione dell’epistolario fra il giovane Piero e la moglie Ada[13], oltre che un’importante riedizione de “La Rivoluzione Liberale” prefata da Paolo Flores D’Arcais[14], il quale disegnò un Gobetti fustigatore della classe politica e fautore del primato e della supremazia della società civile, in evidente connessione con processi storici come “Mani Pulite” e l’avvento e l’inizio delle fortune politiche di Silvio Berlusconi. Un’interpretazione contro la quale si sono contrapposte le analisi di studiosi come Galli della Loggia, Dino Cofrancesco e Giuseppe Bedeschi, che non hanno esitato a deprecare questo uso strumentale della figura di Gobetti, in quanto, a loro avviso, avrebbe avvantaggiato la legittimazione politica e culturale del PCI e una certa lettura rigidamente manichea, giacobina, antipatriottica, antinazionale e moralistica della storia italiana[15].

7. Si può affermare, in conclusione, che dalla lettura del volume si coglie bene il l’importanza del ruolo di Gobetti all’interno della storia politica dell’Italia del Novecento, soprattutto per il suo contributo al processo di costruzione di un intellettuale “nuovo”, capace di affermarsi all’esterno del circuito più direttamente legato all’universo partitico. Più che come teorico dotato di una sua intrinseca originalità, per Gervasoni Gobetti fu soprattutto un organizzatore di cultura e un suscitatore di speranze di rinnovamento della società italiana da realizzarsi contrapponendo dialetticamente il popolo, inteso come unità uniforme e indefinita, e il governo. La rigenerazione gobettiana nasceva in vista di una riforma della politica e dei tratti caratteriali del popolo italiano per raggiungere l’agognata trasformazione dell’identità nazionale verso la modernità. L’analisi del contributo intellettuale del pensiero di Piero Gobetti contenuta nel volume di Gervasoni mantiene dunque una sua validità, specie se si pensa che il dibattito intorno alla crisi storica dell’identità italiana, alla frammentazione e all’estrema divisione della classe politica, ai ritardi più che sostanziali in determinati settori economici e della pubblica amministrazione occupa ancora una parte consistente della discussione storiografica ma anche del più generale discorso pubblico.

Note

[1] Diversi sono i volumi che raccolgono interventi di storici, filosofi e studiosi del pensiero politico usciti subito dopo la morte del filosofo torinese. Tra questi contributi si segnalano in particolare: Bobbio ad uso di amici e nemici, a cura della redazione di Reset, Marsilio, 2003; Norberto Bobbio tra diritto e politica, a cura di P. Rossi, Laterza, 2005; Lezioni Bobbio. Sette interventi su etica e politica, Einaudi, 2006.

[2] Cfr. P. Borgna, Un paese migliore. Vita di Alessandro Galante Garrone, Laterza, 2006.

[3] Sulla figura di Piero Gobetti vedi anche due volumi pubblicati recentemente e molto ben curati: C. Pianciola, Piero Gobetti, Gribaudo, 2001; V. Panzè (a cura di), Cent’anni. Piero Gobetti nella storia d’Italia, FrancoAngeli, 2004.

[4] Cfr. Il richiamo della Bastiglia. La sinistra francese e l’immagine del potere 1871-1917, Unicopli, 1997.

[5] Cfr. La penna e il movimento. Intellettuali e socialismo tra Milano e Parigi, M&B Publishing 1998; Antonio Gramsci e la Francia, Unicopli, 1998.

[6] Cfr. S. Colarizi-M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, 2005.

[7] Sulla storiografia delle classi dirigenti italiane vedi le interessanti considerazioni contenute nel saggio di B. Bongiovanni-N. Tranfaglia, Le classi dirigenti tra poliarchia e storiografia, in Le classi dirigenti nella storia d’Italia, a cura di B. Bongiovanni e N. Tranfaglia, Laterza, 2006, pp. 333-344.

[8] Cfr. A. d’Orsi, La disperata intransigenza, in «Liberazione» 4 marzo 2001.

[9] Cfr. M. Revelli, Perché non piace ai neo-liberali, in «La Repubblica» 15 febbraio 2005.

[10]Cfr. M. L. Salvadori, La lezione di Croce e quella di Salvemini, in «La Repubblica», 15 febbraio 2005.

[11] Cfr. N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Passigli Editori, 1986, pp. 22-31.

[12] Di Paolo Spriano si veda Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Einaudi, 1977.

[13] Cfr. P. e A. Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere (1918-1926), a cura di E. Alessandrone Perona, Einaudi, 1991.

[14] Cfr. P. Flores D’Arcais, Gobetti, liberale del futuro, in La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, 1995, pp. VII-XXIII.

[15] Cfr. E. Galli della Loggia, La democrazia immaginaria. L’azionismo e “l’ideologia italiana”, “Il Mulino”, XLII, n. 346, marzo-aprile 1992, pp. 255-270 e D. Cofrancesco, Sul gramsciazionismo e dintorni, Marco editore, 2001; G. Bedeschi, Quante Crociate in nome di Gramsci, in «Liberal», anno II, n. 8. Vedi anche C. Nassisi, Interpretazioni storiografiche e dibattito culturale sull’azionismo, in I partiti politici nell’Italia Repubblicana, a cura di G. Nicolosi, Rubbettino, 2006, pp. 238-245.