Massimo Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d'eresia, Brescia, Morcelliana, 2005
[€ 38 – ISBN: 88-372-2044-8]*

Daniele Santarelli

1. La nuova edizione riveduta e ampliata di “Inquisizione romana e Controriforma”, raccoglie 11 saggi (5 in più rispetto all’edizione pubblicata dal Mulino nel 1992) gravitanti attorno alla figura del cardinal Giovanni Morone e al suo processo di eresia, che l’autore ha pubblicato in diverse sedi tra 1981 e 1995, gli stessi anni in cui si è svolta l’avventura dell’edizione del Processo Morone, di cui il Firpo è stato protagonista insieme a Dario Marcatto (3 saggi dei 5 aggiunti rispetto all’edizione del 1992 sono tratti dalle introduzioni ai volumi di quella magistrale opera). Gli 11 saggi che costituiscono i capitoli di questo libro, oltre ad essere stati rivisti e adattati ai fini della nuova edizione, sono stati oggetto di un’ulteriore revisione, alla luce, soprattutto, della documentazione dei Processi Carnesecchi e Soranzo, ovvero le ultime due grandi edizioni critiche di processi inquisitoriali a cui il Firpo ha lavorato (insieme a Dario Marcatto nel primo caso, a Sergio Pagano nel secondo).

Sulla base della vastissima documentazione da lui studiata e pubblicata nel corso di un venticinquennio di lunghe ed approfondite ricerche, Firpo mette in luce il durissimo scontro, verificatosi nei decenni centrali del Cinquecento all’interno della curia romana, tra gli “spirituali”, capeggiati dai cardinali Reginald Pole e Giovanni Morone, e gli intransigenti, capeggiati dal cardinal Gian Pietro Carafa, papa dal 1555 al 1559 col nome di Paolo IV.

Da una parte dunque chi professava una religiosità fortemente interiorizzata che svalutava opere e pratiche esteriori, basata su alcuni fundamentalia fidei, e apriva la porta al dialogo con i protestanti, di cui condivideva alcuni aspetti dottrinari (la giustificazione per fede, innanzi tutto), dall’altra chi, presentandosi come severo custode dell’ortodossia, si faceva portatore di una religiosità rigida, austera e dogmatica e chiudeva ogni porta al dialogo, concependo come unico rimedio al disordine creato dalla Riforma protestante la repressione violenta di ogni forma di deviazione dottrinale.

2. Netto è il rifiuto da parte dell’autore di ogni ricostruzione storica che svilisca o ridimensioni l’importanza straordinaria di tale lotta di potere ai vertici della curia romana: il fortunatissimo concetto di Riforma cattolica coniato da Hubert Jedin e sfruttato dai suoi allievi diretti e indiretti è messo in discussione in modo radicale. Tale concetto presuppone che il rinnovamento post-tridentino vada considerato, più che come una risposta romana alla Riforma protestante (da cui il termine Controriforma), come la maturazione di istanze di riforma della Chiesa già presenti nel cattolicesimo romano molti decenni prima dell’affaire Lutero, perfettamente fedeli alla tradizione e al magistero plurisecolari della Chiesa: ne consegue la svalutazione del carattere eterodosso del Beneficio di Cristo e degli scritti di Juan de Valdés, la rivendicazione della piena ortodossia di personaggi come il Pole e il Morone, i quali sarebbero stati vittime dell’eccessivo zelo e del fanatismo inquisitoriale di papa Paolo IV, gli aspetti repressivi del cui papato, comuni a quello del suo antico “beniamino” Pio V Ghislieri (1566-72), non rappresenterebbero quindi niente di più che una parentesi poco significativa nella storia della Chiesa romana del Cinquecento.

È evidente, secondo Firpo, il carattere apologetico della storiografia jediniana, che propone una tranquillizzante immagine di una curia romana solidale nel comune interesse della riforma della Chiesa. La realtà dei fatti fu, secondo lo studioso, ben diversa: è stridente il contrasto tra i papati di Giulio III Del Monte (1550-55) e Pio IV de’ Medici di Melegnano (1559-65) da una parte, e quelli di Paolo IV Carafa (1555-59) e Pio V Ghislieri (1566-72) dall’altra, come è dimostrato dall’evolversi delle vicende del Morone e degli “spirituali” negli anni centrali del Cinquecento.

3. La vasta documentazione studiata offre allo studioso convincenti conferme alla critica contro la storiografia di impronta jediniana: l’inchiesta contro il cardinal Morone è avviata sotto il papato di Giulio III dall’Inquisizione guidata dal cardinal Carafa all’insaputa dello stesso pontefice; Giulio III impone la cassazione del processo contro un cardinale così potente ed influente in curia, per di più suo amico personale;  il Carafa si rifiuta clamorosamente di obbedire; divenuto papa nel 1555, quindi, dà nuovo impulso all’inchiesta e getta il Morone nelle prigioni di Castel Sant’Angelo (1557), revoca la legazione inglese al cardinal Pole, processa in contumacia il fiorentino Pietro Carnesecchi, già protonotario di Clemente VII, protetto dal duca di Firenze Cosimo de’ Medici, e Vittore Soranzo, vescovo di Bergamo, patrizio veneziano, in quanto tale difeso con estremo vigore dal governo della Serenissima, riavviando di nuovo il processo condotto contro di questi sotto il papato di Giulio III e conclusosi in modo indolore per il vescovo di Bergamo, amico del Pole e del Morone, grazie all’intervento di papa Del Monte. Paolo IV muore prima che il processo Morone si concluda con una prevedibile durissima condanna del cardinale milanese. Il successore, Pio IV de’ Medici fa scagionare il Morone da ogni accusa di eresia e costringe all’immobilismo Michele Ghislieri, al quale ingiunge di apporre la sua firma sul decreto di assoluzione del Morone per obbligarlo a non riprendere l’azione giudiziaria contro costui in futuro; Pio IV impone inoltre la revisione del processo a  Carnesecchi, che viene scagionato anch’egli; e invia il cardinal Morone a dirigere le ultime sessioni, le più importanti e difficili, del concilio di Trento. Il Morone riguadagna terreno in curia ai danni del cardinal Ghislieri, il capo del Sant’Uffizio che lo aveva processato sotto il papato di Paolo IV. Ma il fatto di essere stato imprigionato e processato per eresia, sebbene assolto, ne pregiudica ogni possibilità di essere eletto al papato. E per il Ghislieri arriva finalmente il tempo della vendetta: succeduto a Pio IV sul trono papale col nome di Pio V,  riapre le indagini a carico del Morone ai fini di una ripresa del processo, che si rivela peraltro impossibile, perché “avrebbe solo rischiato di scatenare ancora i conflitti del passato, di riaprire ferite profonde, di rivelare agli occhi di tutti le inestricabili contraddizioni che si annodavano in quella vicenda, di smentire ancora una volta l’autorità di un pontefice, di revocare in dubbio la stessa legittimità del Tridentino” (p. 52). Gli stessi problemi, tuttavia, non si pongono per il Carnesecchi: Pio V  riapre il processo contro di lui e manda a morte l’antico protonotario fiorentino, non più protetto da Cosimo de’ Medici, e, tramite questo processo, chiude definitivamente i conti con la setta degli “spirituali”.

4. Tutte queste vicende fondamentali disegnano una curia profondamente lacerata da aspri conflitti interni, rivalità e brame di vendetta.

Giulio III Del Monte, papa che “ebbe forse la volontà ma non la forza di riprendere in mano il controllo dell’Inquisizione” (p. 310), odiava profondamente il cardinal Carafa:

Non mancano, nei carteggi diplomatici [...] le attestazioni della profonda avversione politica e personale antipatia del papa [Giulio III] nei confronti del Carafa – come si scriveva da Roma il 13 ottobre 1550 [Concilium Tridentinum, vol. XI, pp. 591-592]– “per dirlo in una parola, Sua beatitudine è stomacata non manco che sia forse Sua maestà [Carlo V]”, aggiungendo che “Sua santità è piena fino agli occhi della incostantia et fantasticaria di questo cardinale”, della sua “natura fastidiosa”. Proprio il supremo tribunale della fede fu al centro di frequenti tensioni e di veri e propri scontri tra il Carafa e Giulio III, quest’ultimo “irritato continuamente contro l’officio della santa Inquisitione” e sospettoso che le sue disinvolte procedure fossero suggerite da “malignità et invidia del papato” (p. 309).

Gli stessi sentimenti erano covati da Pio IV de’ Medici di Melegnano, nemico di Paolo IV, nei confronti del cardinal Ghislieri. Nel corso del suo papato, Pio IV abbassò quanto più poté l’Inquisizione ed il Ghislieri “il quale – come Guido Giannetti da Fano scriveva da Venezia a William Cecil – sotto l’altro papa era caporale e spaventevole giudice dell’Inquisitione et hora da papa Pio [...] domandava licentia di ritirarsi a’ suoi bisogni per doi o tre mesi, poi che ad ogni modo per la Inquisitione poco doveva essere operato”. La risposta di Pio IV fu eloquente: “sorridendo rispose dargli volentiere licentia di ritirarsi e per tre mesi e, se gli piacesse, per sempre” (p. 486).

La vittoria del partito degli intransigenti fu il risultato della lotta tenace condotta all’interno della curia romana da parte di Gian Pietro Carafa, il quale tramite la conduzione del Sant’Uffizio a partire dal 1542 acquisì sempre più influenza, prestigio e potere sino all’elezione al trono papale, proseguita da Michele Ghislieri (Pio V), il papato del quale sancì in modo irrevocabile il trionfo dell’Inquisizione: ecco le vere origini della Controriforma, lungi dall’interpretazione jediniana.

Comunque la si pensi in proposito, in questi 11 saggi che si integrano molto bene tra loro, offrendo al lettore un affascinante viaggio nella storia religiosa del Cinquecento, Firpo ci mostra in modo illuminante e magistrale, e il suo magistero si rivolge in particolare ai giovani studiosi (si vedano le splendide parole a p. 7), che la storia si scrive sulla base dei documenti e che lo scavo d’archivio, il rigore, la correttezza filologica e la critica testuale sono gli aspetti più stimolanti, più gratificanti e più edificanti del mestiere di storico.

Note

* Recensione pubblicata anche in “Studi Storici Luigi Simeoni”, LVI, 2006, pp. 782-785.