1. Quale fu l’ambizione di Montesquieu nel compilare l’opera
in cui profuse il massimo delle sue energie e dei suoi studi, e che importanza
riveste L’Esprit des lois nelle indagini politico-sociali e nella
determinazione dei moderni ordinamenti democratici? Questo, in due parole,
il succo dell’ulteriore approfondimento delle tematiche care al Barone
di La Brede, approntato da Domenico Felice, il quale riunisce per la prima
volta in un unico volume tre ampi saggi dedicati ai tre filoni più
incisivi sviluppati nell’Esprit des lois.
In primo luogo, il dispotismo considerato dal filosofo d’Oltralpe come
una forma autonoma di governo, alla stregua del genere repubblica e del genere
monarchia, laddove altri scrittori politici moderni, come Bodin e Machiavelli,
ma anche pensatori antichi come Aristotele e i suoi seguaci, lo degradavano
al rango di sottospecie della specie monarchia. Montesquieu ne delinea la
natura - quel che fa essere tale una forma di governo - e il principio, ossia
ciò che lo fa agire. La natura del dispotismo consiste in una struttura
costituzionale semplice, a poteri concentrati, non moderata e non libera:
tutto il potere è nelle mani di uno solo, che lo esercita assecondando
i suoi capricci, senza il limite di leggi fisse. Quanto al principio, si tratta
della crainte, il timore, la paura, il terrore, che il popolo prova
verso il despota e che non può allentarsi, poiché è l’unica
risorsa dello Stato dispotico. Insomma, il quantum di libertà
politica - vale a dire la sicurezza di ogni cittadino o l’opinione che
ciascuno ha della propria sicurezza - che il dispotismo è in grado
di produrre è prossimo allo zero. Del resto, non può essere
moderato uno Stato in cui l’unico limite posto al despota è la
religione, o meglio il «monumento della religione», quella serie
di testi sacri sui quali neanche il tiranno può imporsi. Tuttavia,
il despota non è solo la suprema autorità civile, ma anche la
suprema autorità religiosa, e ciò è possibile per l’assoluta
mancanza di ulteriori istituzioni quali la casta nobiliare o sacerdotale.
Infatti, sebbene il tiranno spesso deleghi l’amministrazione del governo
a un plenipotenziario, questi agirà sempre pressato dalla crainte di perdere le sue prerogative, e dunque mai oserà frenare il potere
del despota.
In un regno dove il despota è proprietario di tutto e dunque è
assente la proprietà privata, dove il despota esercita la giustizia
a suo piacimento, dove manca un raccordo tra regnante e sudditi, dove manca
un credibile contropotere, che prospettive si offrono al popolo? Nessuna,
è la risposta del Barone: ciascun suddito nasconde il proprio denaro,
e ciò impedisce la circolazione monetaria; nessun suddito è
stimolato al lavoro dei campi, al commercio, e ciò indebolisce l’apparato
economico; nessuno, infine, vorrebbe procreare: il più grave atto d’accusa,
a giudizio di Felice, che Montesquieu rivolge al dispotismo, è proprio
nell’idea che le madri abortiscano, pur di non mettere al mondo figli
costretti a subire il giogo del despota.
2. Il dispotismo, allora, è intrinsecamente autodistruttivo: si conserva
solo quando cause fisiche o morali ne forzano la natura senza cambiarlo, ossia
ammansiscono la sua ferocia per qualche tempo; mitigando la sua crudeltà,
e non esacerbandola, il dispotismo può sussistere. Cause fisiche e
morali che, peraltro, non solo garantiscono sopravvivenza al regime dispotico,
ma ne sono spesso motore primo. Montesquieu crede che i regimi dispotici si
configurino «come una forma di governo naturale» (p. 60) presso i popoli asiatici, sia per cause fisiche - il clima caldo, ad esempio,
opprime anche gli spiriti più combattivi - che morali - la religione
islamica, a differenza di quella cristiana, è strutturalmente organica
al dispotismo orientale, poiché «è una religione crudele e distruttrice» (p. 53) .
Allo stesso tempo, però, l’Islam rende più sopportabile
l’arbitrio del despota, e spiega inoltre il sorprendente rispetto che
i sudditi hanno per il loro sovrano e l’attaccamento che mostrano verso
il loro Stato. Per quanto Montesquieu tenti di allontanare il dispotismo dall’Europa
e di relegarlo in Asia, egli è, tuttavia, consapevole che lo spettro
dispotico si aggira anche all’interno del vecchio continente, data l’irresistibile
sete di potere degli uomini. E, sebbene sia altresì convinto che il
dispotismo avrebbe vita breve in Europa - per le condizioni fisico-climatiche
e storico-culturali - Montesquieu assume talvolta un carattere polemico verso
alcune monarchie europee del suo tempo, paurosamente rivolte al dispotismo[1];
un carattere però secondario, rispetto a quello analitico e scientifico
con cui il filosofo d’Oltralpe traccia una scienza universale dei sistemi
politico-sociali.
Nella trattazione organica e sistematica dello Stato dispotico si innesta
il convincimento che l’autonomia della giustizia - e veniamo alla seconda
disamina proposta da Felice - è la conditio sine qua non di
qualsiasi Stato che ambisca a definirsi moderato o libero. Ecco, allora, il
tema dell’innalzamento del potere giudiziario alla dignità di potere primario - trattato soprattutto nella seconda parte dell’Esprit
des lois - e la conseguente asserzione della sua indipendenza e autonomia rispetto agli altri poteri statuali. Montesquieu, diversamente
da Locke che si disinteressa di tale potere, è il primo pensatore,
in epoca moderna, a proporre una divisione tripartita del potere statuale
(esecutivo, legislativo, giudiziario), e a porre il principio dell’autonomia
e indipendenza della justice come conditio sine qua non di uno Stato moderato che voglia garantire un buon livello di libertà
ai suoi cittadini[2]. Infatti, se
il potere giudiziario fosse unito a quello esecutivo o legislativo, la libertà
verrebbe gravemente compromessa; se poi tutti e tre i poteri fossero cumulati
nelle mani di un singolo individuo, si finirebbe nel dispotismo. È
quel che accade, secondo il Barone di La Brède, nell’Impero turco-ottomano,
condannato ad un continuo dispotismo; quanto all’Europa - destinata
a governi moderati ma talvolta incline anch’essa al dispotismo, sebbene
in via temporanea - è in particolar modo la Francia assolutista che
tende a concentrare il potere giudiziario nelle stesse mani di chi già
esercita il potere esecutivo e quello legislativo. In questo senso, Montesquieu
analizza l’organizzazione del potere giudiziario di Francia e Inghilterra,
che è assunta a modello di governo moderato. Da un lato, la monarchia
francese è in grado di produrre un livello minimo di libertà,
poiché la magistratura è vincolata a una specifica forza sociale
e la sua autonomia è mantenuta attraverso la venalità delle
cariche - oltre al fatto che i giudici francesi possono interpretare la legge
e ricercarne lo spirito a seconda delle situazioni; dall’altro, la monarchia
inglese è in grado di garantire un livello massimo di libertà,
grazie alla totale apoliticità della sua magistratura, la quale non
si identifica con una precisa classe sociale, ma è costituita di uomini
scelti tra il popolo che restano in carica esclusivamente per la durata di
un processo e possono essere ricusati dall’imputato, il quale vede così
garantiti tutti i suoi diritti.
3. In ultimo, Felice si dilunga nel considerare il pensiero di Montesquieu
circa i delitti e la severità delle pene: il pensatore francese, dopo
aver chiarito come la semplicità della procedura penale sia tipica
di un governo dispotico, mentre la complessità, vale a dire la possibilità
di ricorsi da parte del condannato, sia sinonimo di libertà, evidenzia
l’importanza di graduare le pene alla gravità dei reati, perché
si eviti un grande delitto piuttosto che uno piccolo. Per di più, secondo
Montesquieu - che pure ammette la pena di morte per i crimini che violano
la sicurezza personale - le pene non debbono ledere la dignità umana,
e debbono servire a prevenire piuttosto che a punire i delitti. Su questa
linea, sono tiranniche le pene che non derivano dalla necessità, e
la pena di morte deve essere l’extrema ratio cui ricorre il legislatore.
Anche in questo ambito, il messaggio montesquieuiano è «rivoluzionario» (p. 114) .
Il terzo capitolo prende in considerazione l’Essai sur les causes
qui peuvent affecter les esprit et les caractères, che Felice ci
presenta nella prima traduzione italiana integrale nella seconda delle due
appendici al volume; il saggio, senza dubbio il più importante tra
quelli lasciati inediti e incompiuti da Montesquieu, si nutre della convinzione
che, come le istituzioni giuridico-politiche, anche lo spirito e il carattere
di una nazione non siano frutto del caso, ma anzi si producano per ragioni
o cause ben precise. Cause che possono dividersi - secondo una lunga tradizione
di pensiero che risale a Ippocrate - in fisiche e morali, le quali ci condizionano
allo stesso modo e allo stesso tempo, senza che le une prendano il sopravvento
sulle altre.
Le prime, tra le quali si annoverano il clima, i venti, la composizione fisico-chimica
dei territori, influenzano il nostro corpo e la sua capacità di reagire
agli stimoli esterni. Conducendo un esperimento su una lingua di montone,
Montesquieu constatò che, se posta in un luogo caldo, vi comparivano
delle pupille gustative molto pronunciate; se congelata, invece, le papille
si ritraevano sensibilmente; di qui l’idea che i popoli nordici - gli
Europei - siano più robusti, meno sensibili, e che necessitino di nutrimenti
sostanziosi e di bevande alcoliche. Al contrario, i popoli del sud - gli Asiatici
- saranno delicati, sensibili; gli uni dunque sono «bellicosi, amanti
della libertà e delle forme politiche moderate, gli altri vili, imbelli
e inclini alla schiavitù e al dispotismo» (p. 126).
Quanto alle cause morali, esse ci influenzano su un doppio livello: un’influenza
particolare, ossia l’educazione che acquisiamo in famiglia, l’altra
generale, che si riceve dalla società in cui si vive. Si inseriscono
poi le compagnie che frequentiamo, le conoscenze culturali di cui disponiamo
e come le utilizziamo; ancora, ci influenzano il lavoro che svolgiamo e persino
la reputazione che ci siamo guadagnati nel contesto sociale in cui operiamo.
In definitiva, sebbene talvolta Montesquieu teorizzi in termini troppo rigidi,
forse anche semplicistici e privi di fondamento scientifico o non sempre aderenti
alla realtà, il messaggio più duraturo di questo testo montesquieuiano
- poi rielaborato e in parte annesso all’Esprit des lois - è
che tutto, in qualche modo, ci riguarda e ci condiziona, dal clima ai libri
che leggiamo, e sovente è in base a questi condizionamenti che ci diamo
una tale o una tal altra forma di governo, moderata o dispotica.
4. L’ultimo contributo - collocato nella prima appendice - che Felice
propone è forse il più rilevante, se non altro perché
inedito rispetto agli altri già apparsi in diverse sedi[3].
E non deve stupire il fatto che Felice abbia deciso di collocarlo in Appendice:
in un serrato confronto fra due dei massimi filosofi politici moderni - Hobbes
e Montesquieu - lo studioso afferma non troppo velatamente che Hobbes non
è affatto, come gran parte della critica ritiene, il padre del pensiero
politico moderno. Se è vero, sottolinea Felice, che Hobbes invoca la
presenza di un potere forte che reprima e annulli le passioni umane - le passioni
che ci conducono al bellum omnium contra omnes - allora il filosofo
inglese non ha fatto altro che gettare le fondamenta di «un pensiero
politico autoritario o dispotico» (p. 157) .
Se è vero, inoltre, che per il filosofo di Malmesbury la guerra
è connaturata all’uomo nello stato di natura, e che solo un potere
coercitivo e la disuguaglianza tra gli uomini garantiscono la pace - ma si
badi, una pace contingente, perché la vera essenza umana è la
guerra - allora risulta impraticabile ogni scorciatoia o variazione liberale
della filosofia politica hobbesiana.
Al contrario, Montesquieu restaura la priorità ontologica della pace
sulla guerra, ‘spostando’ quest’ultima dalla natura umana
alla società degli uomini. Secondo il Barone, nello stato di natura
l’uomo si occupa esclusivamente della sua conservazione, ma ciò
non lo dispone all’eliminazione dei propri simili; anzi, dopo un periodo
di diffidenza, egli si avvicina ad essi, e forma con loro la società
di natura. Ed è in questa società che l’uomo, acquisendo
la consapevolezza della propria forza e il desiderio di prevalere sugli altri,
precipita nello stato di guerra. Montesquieu, dunque, da un lato rifiuta l’idea
hobbesiana della guerra connaturata alla natura umana - e in tal senso ripristina
la tradizione aristotelica-groziana; dall’altro, pur accettando l’idea
hobbesiana secondo cui le leggi positive presuppongono uno stato di guerra,
‘sposta’ quest’ultimo dall’uomo in quanto tale all’uomo
in società. Ciò gli consente di teorizzare un governo moderato
o libero, poiché è sufficiente attenuare o limitare le passioni
umane, e non distruggerle, per rimediare allo stato di guerra.
In una parola, se Hobbes concentra la propria attenzione sull’insicurezza
derivante dal difetto di potere, Montesquieu invece si preoccupa dell’oppressione
che deriva dall’abuso di potere; se l’uno si sofferma sull’antitesi
anarchia/unità, l’altro su quella oppressione/libertà,
nel suo instancabile sforzo di elaborare sistemi giuridico-politici ed economico-sociali,
oltre che ideologico-culturali, in grado di assicurare l’essenza costitutiva
dell’uomo, vale a dire la libertà.
[1] Secondo alcuni interpreti, tra cui spicca Voltaire, il dispotismo dell’Esprit des lois non è che una costruzione immaginaria volta a demonizzare e ridicolizzare la monarchia francese della seconda metà del XVII sec.
[2] Ė vero che, prima dell’apparizione dell’Esprit des lois, altri autori hanno richiamato l’importanza del principio, come il costituzionalista savoiardo Claude de Seyssel; ma è altrettanto vero che nessuno l’aveva fatto nel quadro di una teoria unitaria e coerente dei poteri statuali, né l’aveva assunto come fattore discriminante di uno stato libero o moderato.
[3] Il primo saggio, Dispotismo e libertà, è apparso in Domenico Felice (a cura di). Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosofico-politico (2 tt., Napoli, Liguori, 2001-2002, t. I, pp. 189-255). Il secondo, Autonomia della giustizia e filosofia della pena, è apparso in Domenico Felice (a cura di). Libertà, necessità e storia. Percorsi dell’«Esprit des lois» di Montesquieu (Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 75-136). Il terzo funge da Introduzione alla traduzione italiana da Felice approntata del Saggio sulle cause, edita nel 2004 dalla casa editrice ETS di Pisa.