Domenico Felice, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali.
Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’
Esprit des lois di Montesquieu
Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2005, pp. 216.
[€ 22 - ISBN: 88 222 5506 2]

Marco Pizzica
Università di Bologna

1. Quale fu l’ambizione di Montesquieu nel compilare l’opera in cui profuse il massimo delle sue energie e dei suoi studi, e che importanza riveste L’Esprit des lois nelle indagini politico-sociali e nella determinazione dei moderni ordinamenti democratici? Questo, in due parole, il succo dell’ulteriore approfondimento delle tematiche care al Barone di La Brede, approntato da Domenico Felice, il quale riunisce per la prima volta in un unico volume tre ampi saggi dedicati ai tre filoni più incisivi sviluppati nell’Esprit des lois.
In primo luogo, il dispotismo considerato dal filosofo d’Oltralpe come una forma autonoma di governo, alla stregua del genere repubblica e del genere monarchia, laddove altri scrittori politici moderni, come Bodin e Machiavelli, ma anche pensatori antichi come Aristotele e i suoi seguaci, lo degradavano al rango di sottospecie della specie monarchia. Montesquieu ne delinea la natura - quel che fa essere tale una forma di governo - e il principio, ossia ciò che lo fa agire. La natura del dispotismo consiste in una struttura costituzionale semplice, a poteri concentrati, non moderata e non libera: tutto il potere è nelle mani di uno solo, che lo esercita assecondando i suoi capricci, senza il limite di leggi fisse. Quanto al principio, si tratta della crainte, il timore, la paura, il terrore, che il popolo prova verso il despota e che non può allentarsi, poiché è l’unica risorsa dello Stato dispotico. Insomma, il quantum di libertà politica - vale a dire la sicurezza di ogni cittadino o l’opinione che ciascuno ha della propria sicurezza - che il dispotismo è in grado di produrre è prossimo allo zero. Del resto, non può essere moderato uno Stato in cui l’unico limite posto al despota è la religione, o meglio il «monumento della religione», quella serie di testi sacri sui quali neanche il tiranno può imporsi. Tuttavia, il despota non è solo la suprema autorità civile, ma anche la suprema autorità religiosa, e ciò è possibile per l’assoluta mancanza di ulteriori istituzioni quali la casta nobiliare o sacerdotale. Infatti, sebbene il tiranno spesso deleghi l’amministrazione del governo a un plenipotenziario, questi agirà sempre pressato dalla crainte di perdere le sue prerogative, e dunque mai oserà frenare il potere del despota.
In un regno dove il despota è proprietario di tutto e dunque è assente la proprietà privata, dove il despota esercita la giustizia a suo piacimento, dove manca un raccordo tra regnante e sudditi, dove manca un credibile contropotere, che prospettive si offrono al popolo? Nessuna, è la risposta del Barone: ciascun suddito nasconde il proprio denaro, e ciò impedisce la circolazione monetaria; nessun suddito è stimolato al lavoro dei campi, al commercio, e ciò indebolisce l’apparato economico; nessuno, infine, vorrebbe procreare: il più grave atto d’accusa, a giudizio di Felice, che Montesquieu rivolge al dispotismo, è proprio nell’idea che le madri abortiscano, pur di non mettere al mondo figli costretti a subire il giogo del despota.

2. Il dispotismo, allora, è intrinsecamente autodistruttivo: si conserva solo quando cause fisiche o morali ne forzano la natura senza cambiarlo, ossia ammansiscono la sua ferocia per qualche tempo; mitigando la sua crudeltà, e non esacerbandola, il dispotismo può sussistere. Cause fisiche e morali che, peraltro, non solo garantiscono sopravvivenza al regime dispotico, ma ne sono spesso motore primo. Montesquieu crede che i regimi dispotici si configurino «come una forma di governo naturale» (p. 60) presso i popoli asiatici, sia per cause fisiche - il clima caldo, ad esempio, opprime anche gli spiriti più combattivi - che morali - la religione islamica, a differenza di quella cristiana, è strutturalmente organica al dispotismo orientale, poiché «è una religione crudele e distruttrice» (p. 53) . Allo stesso tempo, però, l’Islam rende più sopportabile l’arbitrio del despota, e spiega inoltre il sorprendente rispetto che i sudditi hanno per il loro sovrano e l’attaccamento che mostrano verso il loro Stato. Per quanto Montesquieu tenti di allontanare il dispotismo dall’Europa e di relegarlo in Asia, egli è, tuttavia, consapevole che lo spettro dispotico si aggira anche all’interno del vecchio continente, data l’irresistibile sete di potere degli uomini. E, sebbene sia altresì convinto che il dispotismo avrebbe vita breve in Europa - per le condizioni fisico-climatiche e storico-culturali - Montesquieu assume talvolta un carattere polemico verso alcune monarchie europee del suo tempo, paurosamente rivolte al dispotismo[1]; un carattere però secondario, rispetto a quello analitico e scientifico con cui il filosofo d’Oltralpe traccia una scienza universale dei sistemi politico-sociali.
Nella trattazione organica e sistematica dello Stato dispotico si innesta il convincimento che l’autonomia della giustizia - e veniamo alla seconda disamina proposta da Felice - è la conditio sine qua non di qualsiasi Stato che ambisca a definirsi moderato o libero. Ecco, allora, il tema dell’innalzamento del potere giudiziario alla dignità di potere primario - trattato soprattutto nella seconda parte dell’Esprit des lois - e la conseguente asserzione della sua indipendenza e autonomia rispetto agli altri poteri statuali. Montesquieu, diversamente da Locke che si disinteressa di tale potere, è il primo pensatore, in epoca moderna, a proporre una divisione tripartita del potere statuale (esecutivo, legislativo, giudiziario), e a porre il principio dell’autonomia e indipendenza della justice come conditio sine qua non di uno Stato moderato che voglia garantire un buon livello di libertà ai suoi cittadini[2]. Infatti, se il potere giudiziario fosse unito a quello esecutivo o legislativo, la libertà verrebbe gravemente compromessa; se poi tutti e tre i poteri fossero cumulati nelle mani di un singolo individuo, si finirebbe nel dispotismo. È quel che accade, secondo il Barone di La Brède, nell’Impero turco-ottomano, condannato ad un continuo dispotismo; quanto all’Europa - destinata a governi moderati ma talvolta incline anch’essa al dispotismo, sebbene in via temporanea - è in particolar modo la Francia assolutista che tende a concentrare il potere giudiziario nelle stesse mani di chi già esercita il potere esecutivo e quello legislativo. In questo senso, Montesquieu analizza l’organizzazione del potere giudiziario di Francia e Inghilterra, che è assunta a modello di governo moderato. Da un lato, la monarchia francese è in grado di produrre un livello minimo di libertà, poiché la magistratura è vincolata a una specifica forza sociale e la sua autonomia è mantenuta attraverso la venalità delle cariche - oltre al fatto che i giudici francesi possono interpretare la legge e ricercarne lo spirito a seconda delle situazioni; dall’altro, la monarchia inglese è in grado di garantire un livello massimo di libertà, grazie alla totale apoliticità della sua magistratura, la quale non si identifica con una precisa classe sociale, ma è costituita di uomini scelti tra il popolo che restano in carica esclusivamente per la durata di un processo e possono essere ricusati dall’imputato, il quale vede così garantiti tutti i suoi diritti.

3. In ultimo, Felice si dilunga nel considerare il pensiero di Montesquieu circa i delitti e la severità delle pene: il pensatore francese, dopo aver chiarito come la semplicità della procedura penale sia tipica di un governo dispotico, mentre la complessità, vale a dire la possibilità di ricorsi da parte del condannato, sia sinonimo di libertà, evidenzia l’importanza di graduare le pene alla gravità dei reati, perché si eviti un grande delitto piuttosto che uno piccolo. Per di più, secondo Montesquieu - che pure ammette la pena di morte per i crimini che violano la sicurezza personale - le pene non debbono ledere la dignità umana, e debbono servire a prevenire piuttosto che a punire i delitti. Su questa linea, sono tiranniche le pene che non derivano dalla necessità, e la pena di morte deve essere l’extrema ratio cui ricorre il legislatore. Anche in questo ambito, il messaggio montesquieuiano è «rivoluzionario» (p. 114) .
Il terzo capitolo prende in considerazione l’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprit et les caractères, che Felice ci presenta nella prima traduzione italiana integrale nella seconda delle due appendici al volume; il saggio, senza dubbio il più importante tra quelli lasciati inediti e incompiuti da Montesquieu, si nutre della convinzione che, come le istituzioni giuridico-politiche, anche lo spirito e il carattere di una nazione non siano frutto del caso, ma anzi si producano per ragioni o cause ben precise. Cause che possono dividersi - secondo una lunga tradizione di pensiero che risale a Ippocrate - in fisiche e morali, le quali ci condizionano allo stesso modo e allo stesso tempo, senza che le une prendano il sopravvento sulle altre.
Le prime, tra le quali si annoverano il clima, i venti, la composizione fisico-chimica dei territori, influenzano il nostro corpo e la sua capacità di reagire agli stimoli esterni. Conducendo un esperimento su una lingua di montone, Montesquieu constatò che, se posta in un luogo caldo, vi comparivano delle pupille gustative molto pronunciate; se congelata, invece, le papille si ritraevano sensibilmente; di qui l’idea che i popoli nordici - gli Europei - siano più robusti, meno sensibili, e che necessitino di nutrimenti sostanziosi e di bevande alcoliche. Al contrario, i popoli del sud - gli Asiatici - saranno delicati, sensibili; gli uni dunque sono «bellicosi, amanti della libertà e delle forme politiche moderate, gli altri vili, imbelli e inclini alla schiavitù e al dispotismo» (p. 126).
Quanto alle cause morali, esse ci influenzano su un doppio livello: un’influenza particolare, ossia l’educazione che acquisiamo in famiglia, l’altra generale, che si riceve dalla società in cui si vive. Si inseriscono poi le compagnie che frequentiamo, le conoscenze culturali di cui disponiamo e come le utilizziamo; ancora, ci influenzano il lavoro che svolgiamo e persino la reputazione che ci siamo guadagnati nel contesto sociale in cui operiamo.
In definitiva, sebbene talvolta Montesquieu teorizzi in termini troppo rigidi, forse anche semplicistici e privi di fondamento scientifico o non sempre aderenti alla realtà, il messaggio più duraturo di questo testo montesquieuiano - poi rielaborato e in parte annesso all’Esprit des lois - è che tutto, in qualche modo, ci riguarda e ci condiziona, dal clima ai libri che leggiamo, e sovente è in base a questi condizionamenti che ci diamo una tale o una tal altra forma di governo, moderata o dispotica.

4. L’ultimo contributo - collocato nella prima appendice - che Felice propone è forse il più rilevante, se non altro perché inedito rispetto agli altri già apparsi in diverse sedi[3]. E non deve stupire il fatto che Felice abbia deciso di collocarlo in Appendice: in un serrato confronto fra due dei massimi filosofi politici moderni - Hobbes e Montesquieu - lo studioso afferma non troppo velatamente che Hobbes non è affatto, come gran parte della critica ritiene, il padre del pensiero politico moderno. Se è vero, sottolinea Felice, che Hobbes invoca la presenza di un potere forte che reprima e annulli le passioni umane - le passioni che ci conducono al bellum omnium contra omnes - allora il filosofo inglese non ha fatto altro che gettare le fondamenta di «un pensiero politico autoritario o dispotico» (p. 157) . Se è vero, inoltre, che per il filosofo di Malmesbury la guerra è connaturata all’uomo nello stato di natura, e che solo un potere coercitivo e la disuguaglianza tra gli uomini garantiscono la pace - ma si badi, una pace contingente, perché la vera essenza umana è la guerra - allora risulta impraticabile ogni scorciatoia o variazione liberale della filosofia politica hobbesiana.
Al contrario, Montesquieu restaura la priorità ontologica della pace sulla guerra, ‘spostando’ quest’ultima dalla natura umana alla società degli uomini. Secondo il Barone, nello stato di natura l’uomo si occupa esclusivamente della sua conservazione, ma ciò non lo dispone all’eliminazione dei propri simili; anzi, dopo un periodo di diffidenza, egli si avvicina ad essi, e forma con loro la società di natura. Ed è in questa società che l’uomo, acquisendo la consapevolezza della propria forza e il desiderio di prevalere sugli altri, precipita nello stato di guerra. Montesquieu, dunque, da un lato rifiuta l’idea hobbesiana della guerra connaturata alla natura umana - e in tal senso ripristina la tradizione aristotelica-groziana; dall’altro, pur accettando l’idea hobbesiana secondo cui le leggi positive presuppongono uno stato di guerra, ‘sposta’ quest’ultimo dall’uomo in quanto tale all’uomo in società. Ciò gli consente di teorizzare un governo moderato o libero, poiché è sufficiente attenuare o limitare le passioni umane, e non distruggerle, per rimediare allo stato di guerra.
In una parola, se Hobbes concentra la propria attenzione sull’insicurezza derivante dal difetto di potere, Montesquieu invece si preoccupa dell’oppressione che deriva dall’abuso di potere; se l’uno si sofferma sull’antitesi anarchia/unità, l’altro su quella oppressione/libertà, nel suo instancabile sforzo di elaborare sistemi giuridico-politici ed economico-sociali, oltre che ideologico-culturali, in grado di assicurare l’essenza costitutiva dell’uomo, vale a dire la libertà.

Note

[1] Secondo alcuni interpreti, tra cui spicca Voltaire, il dispotismo dell’Esprit des lois non è che una costruzione immaginaria volta a demonizzare e ridicolizzare la monarchia francese della seconda metà del XVII sec.

[2] Ė vero che, prima dell’apparizione dell’Esprit des lois, altri autori hanno richiamato l’importanza del principio, come il costituzionalista savoiardo Claude de Seyssel; ma è altrettanto vero che nessuno l’aveva fatto nel quadro di una teoria unitaria e coerente dei poteri statuali, né l’aveva assunto come fattore discriminante di uno stato libero o moderato.

[3] Il primo saggio, Dispotismo e libertà, è apparso in Domenico Felice (a cura di). Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosofico-politico (2 tt., Napoli, Liguori, 2001-2002, t. I, pp. 189-255). Il secondo, Autonomia della giustizia e filosofia della pena, è apparso in Domenico Felice (a cura di). Libertà, necessità e storia. Percorsi dell’«Esprit des lois» di Montesquieu (Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 75-136). Il terzo funge da Introduzione alla traduzione italiana da Felice approntata del Saggio sulle cause, edita nel 2004 dalla casa editrice ETS di Pisa.