1. Ispirato dagli Essais d’ego-histoire raccolti nel 1987 da Pierre Nora, Jeremy Popkin ha affrontato una ricerca originale, per misurarsi con le autobiografie degli studiosi di storia, una tipologia di pubblicazione che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si è via via arricchita di titoli (74), interessante case study per sondare la più generale fioritura delle scritture di sé degli accademici (14). Popkin ha censito circa trecento testi, fra libri e testimonianze più brevi (69), ma non ne utilizza nell’esposizione che una parte, e si esime da analisi quantitative. Come ogni oggetto, tuttavia, anche questo è frutto di una costruzione, a più livelli. Innanzi tutto il corpus raccoglie materiali eterogenei, prodotti in contesti culturali diversi, e li riallaccia ad una “tradizione” altrettanto discontinua, che corre da Hume ai giorni nostri, passando per gli importanti esempi di Gibbon e Adams (ai “casi-limite” delle loro autobiografie è dedicato il quarto capitolo: a fine Settecento il primo crea un modello secolarizzato - rispetto alle Confessioni agostiniane - di autobiografia eroica, che il secondo decostruisce ai primi del Novecento, descrivendo una pratica storica come fallimento in una vita di fallimenti). In secondo luogo, per quanto vasto, il campione è frutto di una serie di selezioni a monte e rischia di distorcere la riflessione: infatti occorrerebbe interrogarsi sulle condizioni che consentono ad un frammento del mondo degli storici professionisti di emergere alla scrittura autobiografica e ad un nucleo ulteriormente ristretto di vedere pubblicate le proprie pagine, dunque sui filtri disposti dalle gerarchie sociali (di genere, di classe, legate ai campi culturali, etc.). Infine il corpus include quasi esclusivamente vite di universitari “occidentali” e, nonostante che questo studio si serva anche di materiali in francese e tedesco, si concentra particolare su quelli di lingua inglese, la maggior parte dei quali, come l’Autore, di provenienza statunitense. Popkin consegna alle ultime righe del suo volume un assunto centrale: che quel campione minoritario possa esprimere atteggiamenti condivisi dalla maggioranza del campo storiografico (285). Tuttavia è, almeno in parte, consapevole del carattere costruito del suo corpus, ad esempio del fatto che fra gli storici l’autobiografia è una pratica ancora in buona parte elitaria, “bianca” e maschile (cfr. 76 e 83, ma anche 161 sull’effetto-successo). Anche per questo dichiara di rivolgersi alle memorie dei suoi colleghi come articolazione del genere autobiografico più che come fonte storica (9). Di conseguenza, alla presentazione generale del corpus consegnata al terzo capitolo sono premessi due capitoli dedicati ad un’utile riflessione teorica sui rapporti fra storiografia, fiction e autobiografia, ispirata soprattutto alla lezione di Ricoeur. Si noti che per Popkin gli storici non sono generalmente consapevoli di questi problemi mentre si accingono a stendere le proprie memorie, ma sarebbero spontaneamente “ricoeuriani” (55). La natura narrativa del testo storico non implica il suo schiacciamento sulla scrittura di finzione, mentre l’autobiografia rappresenta un tertium narrativo distinto. Lontani da velleità letterarie, ma anche dalle prospettive emancipatorie delle autobiografie dei membri dei gruppi sociali subalterni, i cultori di cose storiche scrivono autobiografie “ordinarie” (57-58). Nondimeno Popkin ritiene che proprio in virtù del loro “mestiere” gli studiosi di storia diano vita ad una particolare, più consapevole declinazione del “patto autobiografico” descritto da Philippe Lejeune.
2. Dopo questa interessante parte introduttiva, la vera e propria riflessione
di Popkin sui testi autobiografici si articola in cinque momenti, cui sono
dedicati altrettanti capitoli. Nonostante che il modello implicito di molte
memorie sia il “romanzo di formazione” (Bildungsroman),
come nell’esemplare autobiografia di Meinecke, Popkin smonta l’idea
della vocazione individuale. La stabilità della vita borghese e delle
strutture educative uniforma le memorie degli storici fino a metà Novecento
(143), ma nell’età della professionalizzazione del lavoro storico
più che il Beruf contano il retroterra socio-culturale e la
formazione (fra seminari universitari e contatto con le fonti, specie archivistiche).
Tuttavia nel quinto capitolo ci si sofferma a lungo sui topoi più
diffusi nella messa in scena della “vocazione”: un’infanzia
urbana senza contatti con la natura ma dedita a precoci e voraci letture,
la scuola e l’incontro con insegnanti influenti; gli eventi storici
ma anche il senso di appartenenza a due mondi, uno che nasce e un altro che
scompare; l’università e l’opzione per la storia ma anche
il peso di modelli e maestri. Se nella narrazione della vocazione resta una
certa reticenza sui motivi della scelta dei terreni specifici di lavoro, nel
capitolo successivo emergono ben altri silenzi. Sulla “carriera”
spesso gli storici sorvolano, talora per modestia, ma anche per reticenza
dinanzi alle pratiche meno edificanti (le manovre e i conflitti accademici
e disciplinari) o più ripetitive (la didattica) della loro professione:
eppure nemmeno le vicende della ricerca stimolano trattazioni più diffuse.
Al confronto in prima persona con la Storia sono dedicati due capitoli. Centrato
sulla partecipazione alle guerre mondiali e ai grandi movimenti del Novecento,
il settimo capitolo sottolinea il nesso fra impegno politico e scelta del
mestiere di storico (185, cfr. 138) e mostra il divario fra la scala degli
eventi e la non significatività dell’esperienza vissuta individualmente
(203), ma anche l’approdo alla storia come redenzione rispetto alla
militanza comunista in Europa oppure in continuità con le lotte statunitensi
degli anni Sessanta (219-20). Nel capitolo seguente sono esaminate le memorie
degli storici di origine ebraica scampati alla Shoah. Il confronto con quelle
più note dei sopravvissuti all’internamento evidenzia una serie
di differenze, come, ad esempio, la capacità di storicizzare l’identità
ebraica. Alla domanda centrale che regna in queste pagine, a proposito della
mancata percezione del pericolo negli anni Trenta, gli storici memorialisti
cercano di rispondere sottolineando le radicate convinzioni riguardo il carattere
temporaneo dell’antisemitismo e il senso di integrazione nelle società
e culture nazionali europee, cioè riflettendo storicamente sui propri
ambienti e famiglie.
Nell’ultimo importante capitolo Popkin segnala alcuni esempi del contributo
offerto dagli storici alle trasformazioni delle narrative del sé. Se
le loro scritture sono parte della tradizione autobiografica, come rivela
sia il caso di Gibbon che la recente espansione del genere, gli storici avrebbero
anche offerto, in piena consapevolezza, alcuni esempi innovativi, tesi ad
andare oltre la prima persona, l’ordine cronologico e la concezione
unitaria del sé. A parte alcuni casi, come quelli di Adams e Kuczinsky,
la più parte delle eccezioni si manifesta dai margini della professione,
a partire dagli anni Settanta, nell’intreccio della propria biografia
con quella di altri individui (Steedman, Fraser, Passerini) o nel travaglio
dell’identità personale a contatto con esperienze estreme (Friedländer,
Clendinnen) o con scelte sessuali stigmatizzate (Duberman, McCloskey).
3. Scritto con l’intento di riscattare le memorie degli studiosi di storia dal “limbo della mediocrità (ordinariness)” (6), questo volume si conclude negando che queste scritture rappresentino un fallimento intellettuale, in quanto offrono un “supplemento ambiguo” non solo all’autobiografia, ma anche alla stessa storiografia, nel cui tessuto manca sempre la “storia individuale dello storico” (277-278). History, Historians & Autobiography mostra persuasivamente che le autobiografie degli storici non sono sempre “ordinarie”, ma resta tuttavia un dubbio in merito a quella funzione “supplementare”: la “storia” del soggetto che studia e scrive la Storia deve essere per forza scritta in prima persona? E, anche accettata quella premessa, dev’essere per forza un’autobiografia? Popkin sottolinea che, salvo parziali eccezioni (ad esempio Ce que j’ai cru comprendre di Annie Kriegel, 65), quando gli storici si cimentano con le proprie memorie accettano le regole del genere e rinunciano agli strumenti del proprio mestiere. In sintonia con questo atteggiamento Popkin ritiene impossibile uno sforzo di oggettivazione (62, 279), cioè di storicizzazione del soggetto della storicizzazione, per parafrasare Pierre Bourdieu, che ha proposto un modello non-autobiografico di ricostruzione della sua traiettoria di studioso[1]. Date queste precise e discutibili premesse non resta che affidarsi alle memorie soggettive: scartate altre vie, l’autobiografia diviene effettivamente l’ultima occasione per ricomprendere, almeno in parte, lo studioso nel dominio della storia. Popkin mostra di condividere non solo l’identificazione con il proprio mestiere che emerge dalle pagine degli storici-memorialisti (84), ma anche la concezione tradizionale e abbastanza generica della storia presente nelle loro pagine: la ricostruzione retrospettiva della vocazione ad un sapere non astratto e legato all’esperienza umana frequente nelle autobiografie (138 e 149) si rispecchia nella definizione di Popkin della storiografia come “disciplina relativamente accessibile e non teoretica” (64). Forse realistica rispetto ad una sociologia della professione, forse un po’ riduttiva rispetto ai suoi risultati più alti, con questa idea di storia si rischia tuttavia di dar ragione ad un meno consolante epitaffio di Momigliano. In un breve discorso pronunciato nel 1977 questi affermò che era impossibile per lo studioso di storia spiegare perché era divenuto tale. Quel fallimento della ragione storica era giudicato da Momigliano uno dei segreti più gelosamente custoditi dalla corporazione degli storici, un gruppo che aveva tuttavia qualche altro tratto inconfessabile: “Writing and teaching history is one of the few profession which are compatible with absolute imbecility, no professional training and less than average literacy”[2].
[1] Pierre Bourdieu, Questa non è un’autobiografia [2004], Milano, Feltrinelli 2005. Cfr. Id., L’illusione biografica [1986], in Ragioni pratiche, Bologna, il Mulino 1995, pp. 71-79.
[2] Arnaldo Momigliano, The historical profession. After-dinner speech, “Belfagor”, n. 2, 1998, p. 160 (già in Ottavo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, a cura di Riccardo Di Donato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1987).