1. L’insegnamento della storia nelle scuole è questione di stretta
attualità, al centro di un ampio dibattito sviluppatosi in diversi
contesti nazionali. Tra questi non manca l’Italia, specialmente da un
decennio, da quando cioè si è riaperta una partita sul terreno
della riforma degli ordinamenti e dei programmi scolastici, avviando un confronto
serrato e spesso aspro. Una nuova voce che arricchisce questo dibattito viene
dalla ricerca su scala europea coordinata da Alessandro Cavalli, sociologo
che al mondo della scuola, e specificamente all’insegnamento della storia,
ha dedicato seri studi. Questa indagine parte dalla constatazione che l’insegnamento
della storia contemporanea – ma sarebbe più esatto parlare di
storia del Novecento, poiché è questa la prospettiva cronologica
presa in esame – è diventato negli anni più recenti estremamente
problematico. Il volume, articolato in saggi volti a illustrare una serie
di singoli casi nazionali, documenta tale situazione, discutendo criticamente
le possibili vie d’uscita.
La storia ha tradizionalmente svolto un ruolo importante nella formazione
civile delle nuove generazioni. Quando venne definitivamente inserita tra
le materie scolastiche, verso la metà del XIX secolo, i relativi programmi
inclusero fin da subito e stabilmente la storia moderna, se non contemporanea,
delle nazioni e degli Stati, ad affiancare e ben presto a sopravanzare per
importanza la storia antica che aveva dominato nell’educazione retorica
e classicista impartita nei collegi d’antico regime. Essa nasceva infatti
in funzione della formazione dell’identità nazionale: tale sentimento
di appartenenza avrebbe dovuto muovere i cittadini ad amare la patria e, se
necessario, a difenderla. Senza queste esigenze, la storia non sarebbe forse
diventata una materia scolastica autonoma: essa è dunque strettamente
intrecciata alla vicenda storica dello Stato nazionale ottocentesco e dei
suoi sviluppi novecenteschi. Tale funzione della storia-materia sembrerebbe
essersi notevolmente indebolita, dopo che essa è degenerata nel nazionalismo
e ha poi attraversato gli orrori delle ideologie totalitarie. Oggi è
pertanto urgente rideclinare l’insegnamento della storia per adeguarlo
alle condizioni presenti della società.
Dal 1945 a oggi questa impasse è stata affrontata, nei vari
contesti nazionali, seguendo quattro diverse strategie che Cavalli illustra
nella sua introduzione al libro. La prima è quella a noi italiani
ben nota: il silenzio. Essa consiste nell’escludere gli argomenti problematici
dalla trattazione prevista dai programmi. Nel nostro paese è stata
praticata per molto tempo, almeno fino al 1960, facendo concludere i programmi
scolastici con la prima guerra mondiale; durante lo stesso periodo, neppure
nella Germania occidentale il tema del nazismo è stato affrontato nelle
scuole.
La seconda è la strategia della neutralità: per evitare un silenzio
che può apparire imbarazzante, si preferisce far parlare esclusivamente
i ‘fatti’, mentre le interpretazioni e le questioni etiche vengono
messe tra parentesi. È la modalità tipica di una politica di
riconciliazione nazionale, applicata, per esempio, nei primi anni della Spagna
post-franchista. In quel contesto, avvicinandosi al presente, l’asettica
trama cronachistica è stata superata e sono state gradualmente introdotte
anche le interpretazioni.
La terza opzione è la storia di regime. È il caso della
Germania orientale e degli altri paesi dell’est europeo, nei quali il
regime era unico depositario della ‘verità’ storica.
2. Per superare queste strategie, evidentemente non più riproponibili,
occorre elaborare nuovi strumenti per raccontare alle giovani generazioni
il passato più recente, il momento storico in cui essi stessi e i loro
familiari si trovano tuttora immersi, non di rado pagando un prezzo in termini
di mancata autoidentificazione. Gli eventi traumatici della storia nazionale,
spiega Cavalli, dividono anche la microsocietà della classe scolastica,
introducendo un conflitto potenziale tra memorie: quella tramandata a livello
familiare e quella trasmessa in ambito scolastico. Di fronte a ciò,
la proposta del sociologo è quella che egli stesso definisce «strategia
del riconoscimento e della riproduzione delle controversie» (p. 26).
Cavalli parte dall’assunto che se i contenuti sono contrastanti non
possono essere passati sotto silenzio: occorre invece trovare dei mezzi per
attuare il confronto. Così facendo si richiede uno sforzo maggiore,
soprattutto agli insegnanti, perché tale soluzione non separa i fatti
dalle interpretazioni. Queste ultime hanno una quota di soggettività
in quanto dipendono da scelte relative ai valori, che hanno componenti soggettive
ineliminabili. Adottare questa strategia non significa però, secondo
Cavalli, abbracciare il relativismo e porre tutti i valori sullo stesso piano,
bensì – come lo stesso autore ha spiegato in diversi convegni
e dibattiti pubblici – richiamarsi alla più alta lezione weberiana.
Sintetizzando il punto di vista di Cavalli e dell’équipe
che egli ha coordinato, l’insegnamento della storia nella scuola dovrebbe
dunque riconoscere la differenza e il conflitto come elementi basilari, addirittura
‘di valore’, della società pluralistica. Tale opzione è
indubbiamente quella preferibile, tuttavia la sua attuazione si è di
fatto rivelata piuttosto problematica. Di qui la necessità –
non solo scientifica, ma anche civile – di conoscere la realtà
dell’insegnamento storico a livello europeo. Da tali presupposti è
nata perciò questa indagine, patrocinata dalla Fondazione per la Scuola
della torinese Compagnia di San Paolo. L’obiettivo è ricostruire
il dibattito sull’insegnamento della storia contemporanea nelle varie
nazioni europee, fornendo quadri ampi e dettagliati sull’organizzazione
del curriculum della materia, sul raccordo tra questa e le altre discipline,
in particolare l’educazione civica, sul rapporto tra storia nazionale,
europea e mondiale.
Le fonti alle quali ricorrono gli autori di questo volume sono principalmente
i programmi di insegnamento e i libri di testo, da sempre le più usate
in questo tipo di ricerche. A questi approcci tradizionali si affiancano però
altre opzioni interessanti: il ricorso al dibattito politico-parlamentare
e a quello condotto sui grandi organi di stampa, e soprattutto un ampio uso
di inchieste svolte nelle scuole, spesso condotte dagli stessi autori, le
quali – pur senza voler attribuire loro un rilievo eccessivo –
aiutano a calarsi meglio nella concreta prassi didattica, superando i limiti
insiti nelle altre fonti.
Le questioni sul tappeto, diverse nei risvolti concreti ma comuni a ogni contesto
nazionale nelle linee generali, spaziano su un ampio arco di tematiche. La
prima di queste è relativa allo spazio della storia rispetto alle altre
materie: quasi ovunque, per effetto dell’aumentato numero di discipline
insegnate, si rileva una riduzione del numero di ore riservato a questo insegnamento;
parallelamente, la storia contemporanea vede aumentare lo spazio attribuitole
nel curriculum complessivo. La seconda attiene invece al peso da riservare
alla storia nazionale in rapporto, da un lato, alla storia universale e alla
storia d’Europa, dall’altro lato, alla storia locale. Emerge qui
chiaramente il problema delle identità e delle appartenenze come problema
di fondo. La riduzione dello spazio riservato alla storia del proprio Stato
nell’ambito di una prospettiva che diventa più sovranazionale
appare come un fatto largamente condiviso; più difficile è la
ricerca di un equilibrio con le storie regionali, il cui ingresso nello spazio
didattico ha in alcuni casi sancito il superamento di una comune prospettiva
unitaria della storia nazionale. La ricerca conferma inoltre l’esplicita
funzione di ‘uso pubblico’, ben al di là della semplice
trasmissione dei contenuti disciplinari, di una materia scelta come strumento
per veicolare alle nuove generazioni il patrimonio culturale e i valori della
nazione. Si registra peraltro come a questa finalità se ne affianchino
altre: l’educazione alla cittadinanza democratica e la necessità
di fornire agli studenti chiavi di lettura della realtà contemporanea.
3. Tutte queste esigenze spingono verso un rinnovamento delle metodologie
didattiche, anche per dare una risposta al livello generalmente basso di interesse
degli studenti verso questa materia. Le attuali tendenza della didattica vedono
l’emergere di un modello connotato da: «Spostamento di accento
da conoscenze a competenze, riflessioni sulla modalità di produzione
della conoscenza storica, ripensamento critico dell’organizzazione cronologica
del curricolo, apertura verso le dimensioni della storia diverse dalla storia
politica, valorizzazione delle esperienze di apprendimento extra-scolastiche»
(p. 29). A queste tendenze corrisponde l’assorbimento di elementi propri
delle scienze sociali da parte dell’insegnamento storico ‘classico’,
con tutti gli interrogativi che ciò comporta.
Su ciascuno di questi problemi, inseriti in ampi resoconti, i singoli autori
forniscono testimonianze e approfondimenti. Il caso francese, illustrato da
Laurent Wirth, si caratterizza per l’apertura universalistica che tradizionalmente
connota l’insegnamento storico in quel paese: il terreno per la creazione
di una identità europea è dunque più fertile. La storia
del XX secolo offre però occasioni di polemiche e di scontri tra memorie
conflittuali, il cui riverberarsi sul terreno scolastico è generato
dalla confusione tra storia e memoria, come sostiene Wirth richiamandosi al
magistero di Ricoeur e di Nora.
In Germania, dove peraltro la situazione registra sensibili differenze da
Land a Land, l’insegnamento della storia pare essere riservato solo
alle scuole di indirizzo più elevato, mentre è purtroppo escluso
da quelle professionali. Molto spazio è riservato dall’autore,
Bodo von Borries, all’analisi delle metodologie didattiche, facendo
ricorso non solo a un confronto tra i manuali (schematicamente suddivisi in
libri «conservatori» e libri «progressisti») ma anche
a inchieste sul campo. Al di là degli utili dati forniti, il saggio
risente di una impostazione assai poco incline alle sfumature: l’autore
incarna infatti il punto di vista dei più accesi fautori della didattica
‘innovativa’. Oltre a ciò, risulta difficile al recensore
riconoscersi in una prospettiva che indica come obiettivo didattico il raggiungimento,
da parte dello studente, di una sensazione di «empatia» nei confronti
delle esperienze vissute da altri uomini nel passato (pp. 107, 130).
Il Regno Unito, a cui è dedicato il saggio di Catherine Clara Davies
e Robert Phillips, presenta situazioni diverse per ciascuna delle realtà
che lo compongono. In Inghilterra il dibattito sull’insegnamento della
storia è stato dominato dal National Curriculum, introdotto nel 1991
dopo lunghe polemiche tra intellettuali, politici e organizzazioni degli insegnanti;
a conclusione dell’iter un nuovo motivo di scontro fu offerto dal Ministro
per l’Educazione, Kenneth Clarke, con la sua decisione, successivamente
accantonata, di escludere dai programmi gli ultimi venti anni, considerati
non ‘storia’ ma ‘attualità’. Quest'ultima tendenza
è stata del tutto estranea alla redazione dei programmi per il Galles
e l’Irlanda del Nord: la commissione che ha preparato il curriculum
nordirlandese, in particolare, ha invitato a utilizzare la storia per
favorire la comprensione reciproca tra le comunità cattoliche e protestanti.
Tratto comune di questi due programmi (come pure di quello adottato in Scozia,
dove peraltro non vige un curriculum nazionale) è l’enfasi
posta sull’autonomo sviluppo storico di queste ‘nazioni’,
sottolineando un senso di appartenenza distinto da quello britannico.
4. Il saggio di Rafael Valls-Montés illustra le successive fasi del
dibattito politico svoltosi in Spagna durante gli anni del governo Aznar,
che hanno portato a una revisione dei programmi emanati negli anni precedenti
dai governi socialisti. La riforma ha ampliato notevolmente la dimensione
contenutistica, ripristinando le indicazioni cronologiche esaustive e prestando
così il fianco ad accuse di nozionismo. I nuovi programmi rischiano
anche di appiattire l’insegnamento su alcune grandi figure storiche,
riducendo lo spazio per la formazione di una interpretazione critica da parte
dello studente. La polemica più aspra ha però toccato lo spazio
e il significato delle storie regionali. Anche in Spagna le spinte autonomistiche
avevano trovato applicazione sul terreno scolastico, arrivando nei primi anni
Novanta alla redazione di programmi basati sui cosiddetti «insegnamenti
minimi»: tali prescrizioni essenziali, che le scuole e le autonomie locali
avevano il diritto/dovere di integrare, creavano spazi per l’approfondimento
della storia locale. Il concetto di «insegnamento minimo», che costituiva
un positivo risvolto del riformismo autonomista, è stato purtroppo
accantonato a favore di un nuovo centralismo; d’altro canto è
noto che diverse regioni avevano esasperato la traccia dei loro programmi
in senso particolaristico, cancellando quasi completamente il senso dell’appartenenza
della propria regione alla comune storia spagnola.
Il lungo dibattito sulla didattica della storia, svoltosi in Italia nel secondo
dopoguerra, è raccontato da Marco Silvani nei suoi passaggi salienti,
quali la polemica degli anni Settanta sui manuali scolastici, giungendo fino
alla discussione sullo spazio didattico del Novecento, che il decreto Berlinguer
ha posto al centro dell’ultimo anno di ciascun corso, e sulle frastagliate
posizioni assunte dalla storiografia professionale in rapporto a tale scelta.
Il segmento centrale del saggio è occupato dall’esame di alcune
indagini sociologiche su insegnanti e allievi, dalle quali scaturisce un quadro
dominato dalle immagini «del docente-testimone non obiettivo del suo
tempo e dello studente-deprivato di memoria» (p. 230). Date queste premesse,
l’autore sostiene che la presenza, nella storia italiana del Novecento,
di temi di difficile trattazione scolastica abbia indotto gli insegnanti a
scegliere prevalentemente la strategia del silenzio, e che la forte polarizzazione
(e talvolta strumentalizzazione) che ha assunto l’uso pubblico della
memoria delle vicende novecentesche contribuisca ad accentuare questa tendenza,
cristallizzandola.
Infine il caso ungherese, esposto da Csaba Dupcsik, è quello che maggiormente
si discosta dai precedenti. Ben più pesante si fa, in quel contesto,
la pressione direttamente esercitata sull’insegnamento della storia
dai partiti politici degli opposti schieramenti, in relazione ai drammatici
eventi della storia ungherese del XX secolo, segnata dal susseguirsi di nove
diversi regimi: l’autore la documenta con intelligenza storica ed equilibrio.
Le interpretazioni della storia nazionale rischiano di generare conflitti,
soprattutto in ambito scolastico; anche in Ungheria viene perciò attuata
una strategia per evitarli, ben diversa purtroppo da quella auspicata da Cavalli:
le sue radici affondano infatti nel «fenomeno del ‘doppio pensiero’»
tipico dei paesi comunisti, in base al quale verità ‘ufficiale’
e convinzioni personali non si confrontano, ma restano su piani diversi senza
che le persone coinvolte tentino di risolvere questa contraddizione (p. 349).
L’insegnamento della storia viene dunque attuato con modalità
sensibilmente diverse da uno Stato all’altro; tuttavia, la fondamentale
identità delle questioni formulate, e di gran parte delle soluzioni
proposte, nei dibattiti svoltisi nei diversi ambiti nazionali dimostra come
il tessuto culturale dell’Europa – esaminato in un contesto cruciale
come quello scolastico – sia più uniforme di quanto si sia talvolta
inclini a ritenere.
5. Va riconosciuto a questo libro il merito di affrontare con decisione alcuni
grandi nodi. Uno di questi è il peso che la storia contemporanea
deve avere nell’ambito complessivo del programma. Fino a non molti anni
fa, la contemporaneità era totalmente assente dai programmi di studio
dei paesi europei, accrescendo, secondo Cavalli, l’estraneità
degli studenti nei confronti della materia, percepita come «noiosa»
(p. 26). Ne consegue che non bisognerebbe fermarsi sulle soglie della contemporaneità
ma spingersi fino all’oggi, se non si vuole generare nella maggior parte
degli studenti la sensazione dell’irrilevanza della materia per la loro
vita.
In ciascuno dei saggi qui raccolti è costantemente riscontrabile un
nesso molto stretto tra storia contemporanea e storia dell’Europa. Nella
costruzione di quella identità europea e democratica che Cavalli e
i suoi collaboratori auspicano va affrontato un momento imprescindibile, il
passaggio dalla storia delle singole nazioni a quella dell’unificazione
europea: si tratta di un canovaccio le cui prime battute risalgono addirittura
agli anni Cinquanta, quando si iniziò a discutere dell’immagine
dell’Europa nei futuri libri di testo (cfr. M. Verga, Storie d’Europa.
Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci, 2004, p. 154 sgg.). L’esigenza
che oggi si pone con forza è creare nel cittadino il senso dell’appartenenza
all’Europa come identità ‘originaria’ e non più
solo ‘supplementare’ rispetto ad altre identità già
acquisite. Ma l’esigenza, o, meglio, la volontà politica di creare
una identità e una coscienza europee si scontra con la storia conflittuale
e frammentata dei diversi Stati: la soluzione può dunque venire solo
dall’adozione di un linguaggio e di una argomentazione basati sulla
strategia pluralistica descritta sopra. Ciò appare tanto più
necessario se si considera che nei manuali di storia è ancora molto
frequente la contrapposizione – ostile e animata dalla volontà
di accentuare le differenze – tra ‘noi’ e ‘gli altri’.
Ciò avviene non solo negli Stati extra-europei, come ha mostrato Giuliano
Procacci nel suo più recente libro (Carte d’identità.
Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Roma,
Carocci, 2005), ma anche nel nostro continente: i gruppi di ricerca sul tema
dell’identità europea nell’insegnamento scolastico della
storia, coordinati da Falk Pingel e dal Georg-Eckert-Institut di Braunschweig,
hanno recentemente illustrato tale realtà, documentando una situazione
particolarmente grave per quanto riguarda la regione balcanica (cfr. in particolare
F. Pingel (a cura di), Insegnare l’Europa: concetti e rappresentazioni
nei libri di testo europei, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2003,
pp. L-LVI).
6. La difficoltà a inserire le storie nazionali nell’alveo della
storia europea è dunque un dato di fatto. Con la crisi dello Stato-nazione,
d’altronde, è entrata in crisi anche la storia-materia, che era
ad esso strettamente legata. Da tale crisi non è uscita forgiata una
nuova identità europea, bensì sono rifioriti i localismi. La
Spagna è l’esempio più evidente, ma considerazioni in
parte simili valgono anche per la Gran Bretagna. L’Europa non può
però essere l’unico orizzonte a cui ancorare l’esposizione
della storia contemporanea: è altresì necessario inserire le
vicende degli Stati europei nel più ampio quadro di una complessiva
world history. Il modo più corretto e fecondo di raccontare
la contemporaneità – ma anche, e soprattutto, la modernità
– dovrebbe mettere al centro della prospettiva le relazioni che l’Europa
ha avuto col resto del mondo. Questo è un altro aspetto essenziale
che – seppure non organicamente – viene sollevato dal libro curato
da Cavalli.
Sull’onda della globalizzazione e dei mutamenti intercorsi nelle nostre
società, infine, viene posto il problema di individuare nella didattica
della storia uno spazio dentro al quale possano agire temi essenziali per
l’educazione civica (intesa come educazione ai valori democratici)
e la formazione del senso critico. La didattica tradizionale è posta
fortemente sotto accusa. Il modello di insegnamento della storia propugnato
nei diversi saggi è orientato non solo al superamento del nozionismo,
ma anche al ridimensionamento della storia politica e alla riconsiderazione
delle basi cronologiche dell’insegnamento stesso: una tendenza che ha
talvolta suscitato, da parte dai fautori della didattica tradizionale, critiche
di ‘sociologismo’. Da questo punto di vista, le ragioni degli
autori di questo volume non sono sempre accompagnate, occorre dirlo, da un
tono aperto al dialogo. Tra le pubblicazioni dedicate ai problemi della didattica,
Insegnare la storia contemporanea in Europa si segnala comunque come
un libro non solo utile e documentato, ma anche percorso da una robusta tensione
etica: un libro da leggere raccogliendone l’invito a pensare la scuola
come uno spazio di confronto, in cui gli ideali civili del Vecchio Continente
possano maturare insieme alle future generazioni dei suoi cittadini.