Alessandro Cavalli, a cura di,
Insegnare la storia contemporanea in Europa, Bologna, Il Mulino, 2005
[€ 26.50– ISBN: 88-15-10274-4]

Filippo Chiocchetti
Università del Piemonte Orientale

1. L’insegnamento della storia nelle scuole è questione di stretta attualità, al centro di un ampio dibattito sviluppatosi in diversi contesti nazionali. Tra questi non manca l’Italia, specialmente da un decennio, da quando cioè si è riaperta una partita sul terreno della riforma degli ordinamenti e dei programmi scolastici, avviando un confronto serrato e spesso aspro. Una nuova voce che arricchisce questo dibattito viene dalla ricerca su scala europea coordinata da Alessandro Cavalli, sociologo che al mondo della scuola, e specificamente all’insegnamento della storia, ha dedicato seri studi. Questa indagine parte dalla constatazione che l’insegnamento della storia contemporanea – ma sarebbe più esatto parlare di storia del Novecento, poiché è questa la prospettiva cronologica presa in esame – è diventato negli anni più recenti estremamente problematico. Il volume, articolato in saggi volti a illustrare una serie di singoli casi nazionali, documenta tale situazione, discutendo criticamente le possibili vie d’uscita.
La storia ha tradizionalmente svolto un ruolo importante nella formazione civile delle nuove generazioni. Quando venne definitivamente inserita tra le materie scolastiche, verso la metà del XIX secolo, i relativi programmi inclusero fin da subito e stabilmente la storia moderna, se non contemporanea, delle nazioni e degli Stati, ad affiancare e ben presto a sopravanzare per importanza la storia antica che aveva dominato nell’educazione retorica e classicista impartita nei collegi d’antico regime. Essa nasceva infatti in funzione della formazione dell’identità nazionale: tale sentimento di appartenenza avrebbe dovuto muovere i cittadini ad amare la patria e, se necessario, a difenderla. Senza queste esigenze, la storia non sarebbe forse diventata una materia scolastica autonoma: essa è dunque strettamente intrecciata alla vicenda storica dello Stato nazionale ottocentesco e dei suoi sviluppi novecenteschi. Tale funzione della storia-materia sembrerebbe essersi notevolmente indebolita, dopo che essa è degenerata nel nazionalismo e ha poi attraversato gli orrori delle ideologie totalitarie. Oggi è pertanto urgente rideclinare l’insegnamento della storia per adeguarlo alle condizioni presenti della società.
Dal 1945 a oggi questa impasse è stata affrontata, nei vari contesti nazionali, seguendo quattro diverse strategie che Cavalli illustra nella sua introduzione al libro. La prima è quella a noi italiani ben nota: il silenzio. Essa consiste nell’escludere gli argomenti problematici dalla trattazione prevista dai programmi. Nel nostro paese è stata praticata per molto tempo, almeno fino al 1960, facendo concludere i programmi scolastici con la prima guerra mondiale; durante lo stesso periodo, neppure nella Germania occidentale il tema del nazismo è stato affrontato nelle scuole.
La seconda è la strategia della neutralità: per evitare un silenzio che può apparire imbarazzante, si preferisce far parlare esclusivamente i ‘fatti’, mentre le interpretazioni e le questioni etiche vengono messe tra parentesi. È la modalità tipica di una politica di riconciliazione nazionale, applicata, per esempio, nei primi anni della Spagna post-franchista. In quel contesto, avvicinandosi al presente, l’asettica trama cronachistica è stata superata e sono state gradualmente introdotte anche le interpretazioni.
La terza opzione è la storia di regime. È il caso della Germania orientale e degli altri paesi dell’est europeo, nei quali il regime era unico depositario della ‘verità’ storica.

2. Per superare queste strategie, evidentemente non più riproponibili, occorre elaborare nuovi strumenti per raccontare alle giovani generazioni il passato più recente, il momento storico in cui essi stessi e i loro familiari si trovano tuttora immersi, non di rado pagando un prezzo in termini di mancata autoidentificazione. Gli eventi traumatici della storia nazionale, spiega Cavalli, dividono anche la microsocietà della classe scolastica, introducendo un conflitto potenziale tra memorie: quella tramandata a livello familiare e quella trasmessa in ambito scolastico. Di fronte a ciò, la proposta del sociologo è quella che egli stesso definisce «strategia del riconoscimento e della riproduzione delle controversie» (p. 26). Cavalli parte dall’assunto che se i contenuti sono contrastanti non possono essere passati sotto silenzio: occorre invece trovare dei mezzi per attuare il confronto. Così facendo si richiede uno sforzo maggiore, soprattutto agli insegnanti, perché tale soluzione non separa i fatti dalle interpretazioni. Queste ultime hanno una quota di soggettività in quanto dipendono da scelte relative ai valori, che hanno componenti soggettive ineliminabili. Adottare questa strategia non significa però, secondo Cavalli, abbracciare il relativismo e porre tutti i valori sullo stesso piano, bensì – come lo stesso autore ha spiegato in diversi convegni e dibattiti pubblici – richiamarsi alla più alta lezione weberiana.
Sintetizzando il punto di vista di Cavalli e dell’équipe che egli ha coordinato, l’insegnamento della storia nella scuola dovrebbe dunque riconoscere la differenza e il conflitto come elementi basilari, addirittura ‘di valore’, della società pluralistica. Tale opzione è indubbiamente quella preferibile, tuttavia la sua attuazione si è di fatto rivelata piuttosto problematica. Di qui la necessità – non solo scientifica, ma anche civile – di conoscere la realtà dell’insegnamento storico a livello europeo. Da tali presupposti è nata perciò questa indagine, patrocinata dalla Fondazione per la Scuola della torinese Compagnia di San Paolo. L’obiettivo è ricostruire il dibattito sull’insegnamento della storia contemporanea nelle varie nazioni europee, fornendo quadri ampi e dettagliati sull’organizzazione del curriculum della materia, sul raccordo tra questa e le altre discipline, in particolare l’educazione civica, sul rapporto tra storia nazionale, europea e mondiale.
Le fonti alle quali ricorrono gli autori di questo volume sono principalmente i programmi di insegnamento e i libri di testo, da sempre le più usate in questo tipo di ricerche. A questi approcci tradizionali si affiancano però altre opzioni interessanti: il ricorso al dibattito politico-parlamentare e a quello condotto sui grandi organi di stampa, e soprattutto un ampio uso di inchieste svolte nelle scuole, spesso condotte dagli stessi autori, le quali – pur senza voler attribuire loro un rilievo eccessivo – aiutano a calarsi meglio nella concreta prassi didattica, superando i limiti insiti nelle altre fonti.
Le questioni sul tappeto, diverse nei risvolti concreti ma comuni a ogni contesto nazionale nelle linee generali, spaziano su un ampio arco di tematiche. La prima di queste è relativa allo spazio della storia rispetto alle altre materie: quasi ovunque, per effetto dell’aumentato numero di discipline insegnate, si rileva una riduzione del numero di ore riservato a questo insegnamento; parallelamente, la storia contemporanea vede aumentare lo spazio attribuitole nel curriculum complessivo. La seconda attiene invece al peso da riservare alla storia nazionale in rapporto, da un lato, alla storia universale e alla storia d’Europa, dall’altro lato, alla storia locale. Emerge qui chiaramente il problema delle identità e delle appartenenze come problema di fondo. La riduzione dello spazio riservato alla storia del proprio Stato nell’ambito di una prospettiva che diventa più sovranazionale appare come un fatto largamente condiviso; più difficile è la ricerca di un equilibrio con le storie regionali, il cui ingresso nello spazio didattico ha in alcuni casi sancito il superamento di una comune prospettiva unitaria della storia nazionale. La ricerca conferma inoltre l’esplicita funzione di ‘uso pubblico’, ben al di là della semplice trasmissione dei contenuti disciplinari, di una materia scelta come strumento per veicolare alle nuove generazioni il patrimonio culturale e i valori della nazione. Si registra peraltro come a questa finalità se ne affianchino altre: l’educazione alla cittadinanza democratica e la necessità di fornire agli studenti chiavi di lettura della realtà contemporanea.

3. Tutte queste esigenze spingono verso un rinnovamento delle metodologie didattiche, anche per dare una risposta al livello generalmente basso di interesse degli studenti verso questa materia. Le attuali tendenza della didattica vedono l’emergere di un modello connotato da: «Spostamento di accento da conoscenze a competenze, riflessioni sulla modalità di produzione della conoscenza storica, ripensamento critico dell’organizzazione cronologica del curricolo, apertura verso le dimensioni della storia diverse dalla storia politica, valorizzazione delle esperienze di apprendimento extra-scolastiche» (p. 29). A queste tendenze corrisponde l’assorbimento di elementi propri delle scienze sociali da parte dell’insegnamento storico ‘classico’, con tutti gli interrogativi che ciò comporta.
Su ciascuno di questi problemi, inseriti in ampi resoconti, i singoli autori forniscono testimonianze e approfondimenti. Il caso francese, illustrato da Laurent Wirth, si caratterizza per l’apertura universalistica che tradizionalmente connota l’insegnamento storico in quel paese: il terreno per la creazione di una identità europea è dunque più fertile. La storia del XX secolo offre però occasioni di polemiche e di scontri tra memorie conflittuali, il cui riverberarsi sul terreno scolastico è generato dalla confusione tra storia e memoria, come sostiene Wirth richiamandosi al magistero di Ricoeur e di Nora.
In Germania, dove peraltro la situazione registra sensibili differenze da Land a Land, l’insegnamento della storia pare essere riservato solo alle scuole di indirizzo più elevato, mentre è purtroppo escluso da quelle professionali. Molto spazio è riservato dall’autore, Bodo von Borries, all’analisi delle metodologie didattiche, facendo ricorso non solo a un confronto tra i manuali (schematicamente suddivisi in libri «conservatori» e libri «progressisti») ma anche a inchieste sul campo. Al di là degli utili dati forniti, il saggio risente di una impostazione assai poco incline alle sfumature: l’autore incarna infatti il punto di vista dei più accesi fautori della didattica ‘innovativa’. Oltre a ciò, risulta difficile al recensore riconoscersi in una prospettiva che indica come obiettivo didattico il raggiungimento, da parte dello studente, di una sensazione di «empatia» nei confronti delle esperienze vissute da altri uomini nel passato (pp. 107, 130).
Il Regno Unito, a cui è dedicato il saggio di Catherine Clara Davies e Robert Phillips, presenta situazioni diverse per ciascuna delle realtà che lo compongono. In Inghilterra il dibattito sull’insegnamento della storia è stato dominato dal National Curriculum, introdotto nel 1991 dopo lunghe polemiche tra intellettuali, politici e organizzazioni degli insegnanti; a conclusione dell’iter un nuovo motivo di scontro fu offerto dal Ministro per l’Educazione, Kenneth Clarke, con la sua decisione, successivamente accantonata, di escludere dai programmi gli ultimi venti anni, considerati non ‘storia’ ma ‘attualità’. Quest'ultima tendenza è stata del tutto estranea alla redazione dei programmi per il Galles e l’Irlanda del Nord: la commissione che ha preparato il curriculum nordirlandese, in particolare, ha invitato a utilizzare la storia per favorire la comprensione reciproca tra le comunità cattoliche e protestanti. Tratto comune di questi due programmi (come pure di quello adottato in Scozia, dove peraltro non vige un curriculum nazionale) è l’enfasi posta sull’autonomo sviluppo storico di queste ‘nazioni’, sottolineando un senso di appartenenza distinto da quello britannico.

4. Il saggio di Rafael Valls-Montés illustra le successive fasi del dibattito politico svoltosi in Spagna durante gli anni del governo Aznar, che hanno portato a una revisione dei programmi emanati negli anni precedenti dai governi socialisti. La riforma ha ampliato notevolmente la dimensione contenutistica, ripristinando le indicazioni cronologiche esaustive e prestando così il fianco ad accuse di nozionismo. I nuovi programmi rischiano anche di appiattire l’insegnamento su alcune grandi figure storiche, riducendo lo spazio per la formazione di una interpretazione critica da parte dello studente. La polemica più aspra ha però toccato lo spazio e il significato delle storie regionali. Anche in Spagna le spinte autonomistiche avevano trovato applicazione sul terreno scolastico, arrivando nei primi anni Novanta alla redazione di programmi basati sui cosiddetti «insegnamenti minimi»: tali prescrizioni essenziali, che le scuole e le autonomie locali avevano il diritto/dovere di integrare, creavano spazi per l’approfondimento della storia locale. Il concetto di «insegnamento minimo», che costituiva un positivo risvolto del riformismo autonomista, è stato purtroppo accantonato a favore di un nuovo centralismo; d’altro canto è noto che diverse regioni avevano esasperato la traccia dei loro programmi in senso particolaristico, cancellando quasi completamente il senso dell’appartenenza della propria regione alla comune storia spagnola.
Il lungo dibattito sulla didattica della storia, svoltosi in Italia nel secondo dopoguerra, è raccontato da Marco Silvani nei suoi passaggi salienti, quali la polemica degli anni Settanta sui manuali scolastici, giungendo fino alla discussione sullo spazio didattico del Novecento, che il decreto Berlinguer ha posto al centro dell’ultimo anno di ciascun corso, e sulle frastagliate posizioni assunte dalla storiografia professionale in rapporto a tale scelta. Il segmento centrale del saggio è occupato dall’esame di alcune indagini sociologiche su insegnanti e allievi, dalle quali scaturisce un quadro dominato dalle immagini «del docente-testimone non obiettivo del suo tempo e dello studente-deprivato di memoria» (p. 230). Date queste premesse, l’autore sostiene che la presenza, nella storia italiana del Novecento, di temi di difficile trattazione scolastica abbia indotto gli insegnanti a scegliere prevalentemente la strategia del silenzio, e che la forte polarizzazione (e talvolta strumentalizzazione) che ha assunto l’uso pubblico della memoria delle vicende novecentesche contribuisca ad accentuare questa tendenza, cristallizzandola.
Infine il caso ungherese, esposto da Csaba Dupcsik, è quello che maggiormente si discosta dai precedenti. Ben più pesante si fa, in quel contesto, la pressione direttamente esercitata sull’insegnamento della storia dai partiti politici degli opposti schieramenti, in relazione ai drammatici eventi della storia ungherese del XX secolo, segnata dal susseguirsi di nove diversi regimi: l’autore la documenta con intelligenza storica ed equilibrio. Le interpretazioni della storia nazionale rischiano di generare conflitti, soprattutto in ambito scolastico; anche in Ungheria viene perciò attuata una strategia per evitarli, ben diversa purtroppo da quella auspicata da Cavalli: le sue radici affondano infatti nel «fenomeno del ‘doppio pensiero’» tipico dei paesi comunisti, in base al quale verità ‘ufficiale’ e convinzioni personali non si confrontano, ma restano su piani diversi senza che le persone coinvolte tentino di risolvere questa contraddizione (p. 349).
L’insegnamento della storia viene dunque attuato con modalità sensibilmente diverse da uno Stato all’altro; tuttavia, la fondamentale identità delle questioni formulate, e di gran parte delle soluzioni proposte, nei dibattiti svoltisi nei diversi ambiti nazionali dimostra come il tessuto culturale dell’Europa – esaminato in un contesto cruciale come quello scolastico – sia più uniforme di quanto si sia talvolta inclini a ritenere.

5. Va riconosciuto a questo libro il merito di affrontare con decisione alcuni grandi nodi. Uno di questi è il peso che la storia contemporanea deve avere nell’ambito complessivo del programma. Fino a non molti anni fa, la contemporaneità era totalmente assente dai programmi di studio dei paesi europei, accrescendo, secondo Cavalli, l’estraneità degli studenti nei confronti della materia, percepita come «noiosa» (p. 26). Ne consegue che non bisognerebbe fermarsi sulle soglie della contemporaneità ma spingersi fino all’oggi, se non si vuole generare nella maggior parte degli studenti la sensazione dell’irrilevanza della materia per la loro vita.
In ciascuno dei saggi qui raccolti è costantemente riscontrabile un nesso molto stretto tra storia contemporanea e storia dell’Europa. Nella costruzione di quella identità europea e democratica che Cavalli e i suoi collaboratori auspicano va affrontato un momento imprescindibile, il passaggio dalla storia delle singole nazioni a quella dell’unificazione europea: si tratta di un canovaccio le cui prime battute risalgono addirittura agli anni Cinquanta, quando si iniziò a discutere dell’immagine dell’Europa nei futuri libri di testo (cfr. M. Verga, Storie d’Europa. Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci, 2004, p. 154 sgg.). L’esigenza che oggi si pone con forza è creare nel cittadino il senso dell’appartenenza all’Europa come identità ‘originaria’ e non più solo ‘supplementare’ rispetto ad altre identità già acquisite. Ma l’esigenza, o, meglio, la volontà politica di creare una identità e una coscienza europee si scontra con la storia conflittuale e frammentata dei diversi Stati: la soluzione può dunque venire solo dall’adozione di un linguaggio e di una argomentazione basati sulla strategia pluralistica descritta sopra. Ciò appare tanto più necessario se si considera che nei manuali di storia è ancora molto frequente la contrapposizione – ostile e animata dalla volontà di accentuare le differenze – tra ‘noi’ e ‘gli altri’. Ciò avviene non solo negli Stati extra-europei, come ha mostrato Giuliano Procacci nel suo più recente libro (Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Roma, Carocci, 2005), ma anche nel nostro continente: i gruppi di ricerca sul tema dell’identità europea nell’insegnamento scolastico della storia, coordinati da Falk Pingel e dal Georg-Eckert-Institut di Braunschweig, hanno recentemente illustrato tale realtà, documentando una situazione particolarmente grave per quanto riguarda la regione balcanica (cfr. in particolare F. Pingel (a cura di), Insegnare l’Europa: concetti e rappresentazioni nei libri di testo europei, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2003, pp. L-LVI).

6. La difficoltà a inserire le storie nazionali nell’alveo della storia europea è dunque un dato di fatto. Con la crisi dello Stato-nazione, d’altronde, è entrata in crisi anche la storia-materia, che era ad esso strettamente legata. Da tale crisi non è uscita forgiata una nuova identità europea, bensì sono rifioriti i localismi. La Spagna è l’esempio più evidente, ma considerazioni in parte simili valgono anche per la Gran Bretagna. L’Europa non può però essere l’unico orizzonte a cui ancorare l’esposizione della storia contemporanea: è altresì necessario inserire le vicende degli Stati europei nel più ampio quadro di una complessiva world history. Il modo più corretto e fecondo di raccontare la contemporaneità – ma anche, e soprattutto, la modernità – dovrebbe mettere al centro della prospettiva le relazioni che l’Europa ha avuto col resto del mondo. Questo è un altro aspetto essenziale che – seppure non organicamente – viene sollevato dal libro curato da Cavalli.
Sull’onda della globalizzazione e dei mutamenti intercorsi nelle nostre società, infine, viene posto il problema di individuare nella didattica della storia uno spazio dentro al quale possano agire temi essenziali per l’educazione civica (intesa come educazione ai valori democratici) e la formazione del senso critico. La didattica tradizionale è posta fortemente sotto accusa. Il modello di insegnamento della storia propugnato nei diversi saggi è orientato non solo al superamento del nozionismo, ma anche al ridimensionamento della storia politica e alla riconsiderazione delle basi cronologiche dell’insegnamento stesso: una tendenza che ha talvolta suscitato, da parte dai fautori della didattica tradizionale, critiche di ‘sociologismo’. Da questo punto di vista, le ragioni degli autori di questo volume non sono sempre accompagnate, occorre dirlo, da un tono aperto al dialogo. Tra le pubblicazioni dedicate ai problemi della didattica, Insegnare la storia contemporanea in Europa si segnala comunque come un libro non solo utile e documentato, ma anche percorso da una robusta tensione etica: un libro da leggere raccogliendone l’invito a pensare la scuola come uno spazio di confronto, in cui gli ideali civili del Vecchio Continente possano maturare insieme alle future generazioni dei suoi cittadini.