Nicola Labanca, Pierluigi Venuta, Bibliografia della Libia coloniale 1911-2000, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2004
[ISBN: 8822253892; € 27.00]

Giulia Albanese
Università di Padova

1. È sicuramente un regalo per l’intera comunità degli studiosi del colonialismo, ma anche della storia d’Italia tra liberalismo e fascismo, questo ricco repertorio – più di millecinquecento titoli – raccolto da Nicola Labanca e Pierluigi Venuta, che documenta lo stato degli studi sulla Libia coloniale. Labanca e Venuta hanno provato a costruire una bibliografia che comprendesse gli studi prodotti in Italia, in Libia e nei principali paesi europei (Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna) nel periodo coloniale e post-coloniale. Il repertorio è suddiviso cronologicamente in due parti. La prima, dedicata agli studi e alle pubblicazioni del periodo coloniale, comprende solo monografie ed esclude non solo i saggi brevi – sotto le 50 pagine di testo -, ma anche tutti quegli scritti prodotti dalle amministrazioni coloniali, i romanzi e le scritture romanzate. La seconda parte, relativa alle pubblicazioni prodotte dopo la colonizzazione, è a sua volta divisa in due – le pubblicazioni e gli studi occidentali e quelli libici. Entrambe le sezioni sono poi articolate a loro volta in utili paragrafi che rendono più agevole il reperimento di opere specifiche da parte del lettore interessato. I paragrafi segnalano le opere generali sul colonialismo italiano, le opere sulla Libia, le bibliografie sul colonialismo italiano e sul colonialismo italiano in Libia, le fonti e le rassegne di documenti, gli studi geografici, quelli economici, quelli relativi alla struttura e alla composizione sociale, quelli storici, gli studi dedicati alla conquista militare, quelli sulla politica coloniale, sulle relazioni internazionali, sulla resistenza coloniale e sulla memorialistica. Gli studi post-coloniali comprendono anche una sezione relativa alla resistenza anticoloniale (tanto nella sezione italiana che in quella libica). Il paragrafo relativo alla resistenza anticoloniale nella sezione libica presenta, non casualmente, una notevole ricchezza di contributi, al punto che gli autori hanno sottoposto questa sezione ad un’ulteriore suddivisione in paragrafi (comprendente, a sua volta, le fonti e gli strumenti, gli aspetti militari, la storiografia, le relazioni internazionali, la composizione sociale, la deportazione, il concentramento e la memorialistica). Già la successione di titoli e paragrafi evidenzia alcuni caratteri specifici della produzione sull’argomento, che saranno poi ripresi nei saggi che accompagnano questo repertorio. Oltre alla ricchezza degli studi relativi alla resistenza libica, si impone all’osservatore attento anche la quasi totale assenza di studi – tanto nella parte libica che in quella italiana – del periodo che va dalla decolonizzazione al colpo di stato di Gheddafi. Nella parte italiana si può poi osservare la forte disparità nella quantità di saggi prodotti nel periodo coloniale o successivamente: una discrepanza nella quantità di studi che si può facilmente spiegare con il tentativo di oblio che l’esperienza coloniale ingenera successivamente al suo insuccesso, in Italia. Più forte è quest’amnesia relativamente al colonialismo in Libia dove il riconoscimento dell’aggressività della colonizzazione, anche in epoca liberale, rende più difficile il dispiegarsi del mito nazionale del “bravo italiano”. La bibliografia si configura quindi – è quanto affermano con forza gli autori, pur senza negare l’esistenza di altri importanti repertori – come il primo strumento di questo genere dedicato alla Libia nel periodo coloniale (1911-43).

2. Nicola Labanca è tra i massimi esperti del colonialismo italiano, e dobbiamo a lui l’importante sintesi sull’esperienza coloniale italiana intitolata Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana (Il Mulino, Bologna 2002). In un lungo saggio introduttivo che precede il repertorio, lo studioso evita di fare il punto sulla produzione scientifica, argomento con il quale si è già misurato altrove (si veda per questo in particolare N. Labanca, Quale nodo, in Id., a cura di, Un nodo. Immagini e documenti sulla repressione italiana in Libia, Mandria, Lacaita 2002), ma spiega in dettaglio gli elementi portanti di questa bibliografia e i suoi limiti. In particolare, l’autore sottolinea il carattere eterogeneo della ricerca fatta, una eterogeneità che riguarda in particolar modo il metodo di rilevazione dei titoli. La raccolta dei saggi occidentali sulla Libia nella colonizzazione è infatti costruita in gran parte su fonti secondarie - e cioè controllando e aggiornando notizie di vari repertori -, tranne per quanto riguarda il periodo più recente, a partire dagli anni ’80, per la quasi totale assenza di repertori utili a partire da questo periodo. La parte dedicata alla bibliografia in lingua araba è frutto invece di una ricerca effettuata in gran parte su fonti primarie. Malgrado l’evidente carattere di servizio e di accompagnamento del saggio, lo scritto di Labanca può essere considerato, pur nei termini pacati che convengono ad una pubblicazione scientifica, uno scritto di denuncia civile: denuncia per l’oblio di questa fase importante e tragica della storia d’Italia e del colonialismo italiano (non solo quello fascista, ma anche quello dell’Italia liberale); denuncia per la scarsa attenzione istituzionale al colonialismo italiano e per la scarsa attenzione al dialogo con le istituzioni culturali libiche, e più in generale denuncia per la scarsità e l’insufficienza degli studi sull’argomento e sul mancato interesse per la Libia anche al di fuori dalla colonizzazione. Una denuncia che non si esime dal cercare – e trovare – le ragioni storiche di queste mancanze. Labanca sottolinea, infatti, come causa primaria della disattenzione degli studiosi italiani e occidentali nei confronti degli studi libici, un potente pregiudizio sullo scarso sviluppo educativo della Libia. Nel momento in cui gli italiani abbandonarono la Libia infatti i libici laureati – a dimostrazione delle manchevolezze della missione civilizzatrice nazionale – erano solo tredici. Gli studiosi ne hanno ricavato che non potesse esservi grande possibilità di sviluppo scientifico in Libia. A peggiorare i pregiudizi degli studiosi occidentali sulla produzione culturale libica è subentrato, dopo la rivoluzione, anche il sospetto nei confronti del carattere propagandistico della ricerca locale. Non è infatti un mistero per nessuno che il regime inaugurato da Gheddafi abbia utilizzato la memoria del periodo coloniale come snodo fondamentale per la costruzione dell’identità collettiva libica e del nuovo regime. Alla sottovalutazione occidentale, e in particolare italiana, relativa alla produzione libica si deve aggiungere l’ignoranza dell’arabo da parte degli studiosi. Un’ignoranza che però Labanca considera un elemento accessorio nella scarsa considerazione di queste opere e non la causa principale. Egli infatti indica, studi alla mano, che negli ultimi anni si è verificato un notevole sviluppo culturale libico e che si debba registrare, proprio in conseguenza dell’enfasi posta dal regime vigente in Libia sulle colpe della colonizzazione italiana, una stagione di studio importante su questo periodo storico, che andrebbe tenuto in considerazione. Labanca sottolinea poi che, proprio per l’uso pubblico di questo passato coloniale, gli studi – non sempre e solo a carattere propagandistico -, hanno avuto la possibilità di svilupparsi, e soprattutto le istituzioni – in particolare il Libyan Studies Center - hanno raccolto le risorse necessarie (carte d’archivio, spesso riprodotte dagli archivi occidentali; studi e fonti orali) per rendere possibile le ricerche presenti e future. E, infatti, in questi ultimi anni non si sono prodotti soltanto studi sulla resistenza araba all’occupazione italiana, ma si è anche cominciato a porre attenzione alla storia economica, sociale e culturale della Libia di quegli anni e agli effetti dell’occupazione italiana. L’altro dato su cui Labanca induce a riflettere è l’importanza degli studi britannici sul colonialismo italiano in Libia, testimoniata dagli studi di Evan Evans-Pritchard e dalla rivista pubblicata a Oxford «The Journal of Libyan Studies». Quest’attenzione solo in tempi recentissimi ha toccato questo campo di studi anche in Italia. Lo scopo della denuncia di Labanca è quindi quello di creare un nuovo interesse e un più ampio progetto di ricerca su questo campo di studi, fornendo una base essenziale – la bibliografia – per produrre un rinnovamento della produzione storiografica e per invitare le istituzioni italiane a produrre ulteriori strumenti atti a questo scopo. Un rinnovato interesse per la colonizzazione italiana in Libia che si rende necessario anche ad una osservazione superficiale della bibliografia italiana sull’argomento: la stragrande maggioranza dei titoli italiani risale al periodo coloniale.

3. Il secondo saggio che accompagna questo repertorio bibliografico è opera di Pierluigi Venuta, studioso di storia ed istituzioni dell’Africa, e si presenta come un contributo di grande importanza perché permette di fare i conti con lo stato della storiografia libica sull’argomento attraverso una riflessione purtroppo breve, ma ragionata, sullo sviluppo degli studi sul periodo del colonialismo italiano in quel paese e sui suoi risvolti politico-culturali, ma anche istituzionali. Il dato più immediatamente registrabile, anche solo scorrendo la bibliografia, è la scarsità degli studi libici nel periodo immediatamente successivo alla fine dell’occupazione coloniale. Questa scarsità di analisi trova un curioso riscontro con gli studi coloniali italiani, anch’essi pochissimo sviluppati in quel periodo, ma che ha origini molto diverse. La ragione principale della scarsità degli studi libici va rinvenuta – è quanto spiega lo studioso nel suo saggio – negli sviluppi politico e sociali della Libia con l’avvento della monarchia di Idris al-Sanusi e nell’esigenza di legittimazione della monarchia e del suo ruolo storico. In questo quadro, non stupisce il mancato approfondimento di un periodo ambiguo per la monarchia e di memorie laceranti riguardanti il periodo del collaborazionismo con l’occupante italiano. La rivoluzione fa registrare un cambiamento radicale nell’uso pubblico della storia, proprio per l’importanza che assume la resistenza arabo-libica come fondamento del regime. È in questo momento di rinnovata importanza degli studi sull’occupazione italiana che nasce, nel 1978, quella che diventerà la principale istituzione per la promozione della ricerca storica coloniale (si tratta del Markaz Dirasad Jihad al-Libiyyin didda al-Ghazw al-Itali, il Centro per lo studio del Jihad Libico contro l’Invasione Italiana, che negli anni ’90 ha cambiato nome divenendo Markaz Jihad al-Libbiyyin li’l Dirasat al-Ta’rikhiyya, ossia Centro del Jihad Libico per gli Studi Storici, più noto come Libyan Studies Center). La carenza di fonti locali sull’argomento è stata alla base di una campagna di acquisizioni di documenti dall’estero e della traduzione di raccolte intere di fonti, che costituiranno la base del lavoro storico successivo. Ma vi è di più, a partire da questo periodo si sviluppa infatti un’imponente raccolta di fonti orali di resistenti libici volta a rimediare all’assenza di uno sguardo libico relativo a quel periodo. La storiografia libica, spiega Venuta, esce rivivificata da questa fase, soprattutto grazie all’impegno profuso da Muhammad al Tahir al-Jarari e alla fondazione di una nuova rivista storica, la «Majallat al-Buhuth al Ta’rikhiyya» (Rivista di studi storici), di cui è caporedattore. Gli studi libici sulla resistenza si sviluppano soprattutto attraverso l’analisi della dimensione militare, delle basi socio-economiche del movimento resistenziale. Dal punto di vista ideologico la storiografia libica ha teso infatti a sottolineare in modo particolare il carattere popolare della resistenza e la sua connotazione religiosa. La compresenza del dato politico e del dato religioso – sottolineato dall’uso della parola Jihad per definire il movimento di resistenza – non ha certo favorito il dialogo con il mondo occidentale. Ciò non toglie che diversi elementi di rilievo siano emersi relativamente alle tecniche della preparazione militare (con la rivendicazione dell’invenzione delle tecniche della guerriglia) e all’atrocità del sistema repressivo italiano, con un’attenzione particolare all’utilizzo della deportazione e alla creazione di campi di concentramento. L’uso pubblico e rivendicativo di questo passato non deve però oscurare il fatto che la storiografia non si è mossa in questi anni nell’isolamento e che gli aspri dibattiti e le polemiche accese nei confronti dei limiti della storiografia occidentale, e italiana in particolare, hanno contribuito anche ad un suo affinamento. D’altronde, il rallentamento delle tensioni diplomatiche a partire dagli anni ’90 è stata un’occasione per riprendere un dialogo tra la storiografia italiana e libica di cui anche la bibliografia di cui si sta parlando è un importante frutto.

4. Non c’è dubbio che questa bibliografia si presenti come uno strumento fondamentale per lo studioso italiano che voglia approfondire il periodo. Unico appunto che sembra opportuno fare a questo lavoro è la divisione tra i titoli occidentali e quelli libici, che, se riproduce la realtà dello sviluppo delle tradizioni di studio (a quanto ci dicono gli autori più quella occidentale che quella libica), reifica però ulteriormente una divisione che questo strumento vuole invece evitare. Importante è anche la richiesta che gli autori fanno che vi sia uno sforzo, anche a livello istituzionale, per sviluppare altre iniziative di questo genere per l’approfondimento delle conoscenze relative al colonialismo italiano in Libia. Più importante ancora sembrerebbe la possibilità di approfondire la conoscenza della percezione di questa esperienza coloniale da parte di chi ne ha sofferto le conseguenze e dei termini istituzionali, politici e sociali in cui quest’occupazione si è sviluppata. Un’opera questa che permetterebbe, insieme con una revisione degli studi relativi all’intera esperienza coloniale italiana, ma anche alle forme dell’intervento bellico italiano nel corso della seconda guerra mondiale, di fare i conti con una faccia diversa dell’Italia, non quella dell’Italia vittima o stracciona, ma quella di un’Italia aggressiva e violenta con la quale, malgrado i richiami di alcuni importanti studiosi negli ultimi anni, continuiamo a faticare a fare i conti.