1. La storia non è il passato, com’è noto, ma una ricostruzione
del passato attraverso i resti documentari che ci sono pervenuti e secondo
l’ottica degli interessi storiografici odierni. In questo intervento
vorrei mettere a fuoco un aspetto particolare della recente storiografia dell’Inquisizione
romana: come l’esigenza di ricostruire il funzionamento istituzionale
del Sant’Ufficio e più in generale il controllo giudiziario del
dissenso religioso in Italia, esigenza nata dai nuovi orientamenti storiografici
e da questioni metodologiche, abbia prodotto un rinnovato interesse per gli
archivi inquisitoriali e più in generale per la documentazione che
li concerne.
Secondo me, nell’articolato quadro dei fattori che hanno influito sugli
studi riguardanti l’Inquisizione romana, si è avuta una svolta
rilevante quando ha cominciato ad interessarsene in modo non più episodico,
ma sistematico e continuo, la ricerca universitaria negli anni ’80 del
Novecento. Il rilancio dell’interesse è stato sollecitato tra
l’altro da libri affascinanti e innovatori, come I benandanti
e Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg[1],
che hanno attirato l’attenzione del grande pubblico e degli storici
professionali su un genere di fonti fino ad allora utilizzate per tematiche
più tradizionali, come la storia della Riforma in Italia, la storia
della censura, delle idee filosofiche e scientifiche, questioni importanti
ma meno avvincenti. Fondamentali e lungimiranti sono state l’intuizione
e le scelte dell’indimenticabile Armando Saitta, presidente dell’Istituto
storico italiano per l’età moderna e contemporanea, organizzatore
del primo convegno internazionale sull’Inquisizione in Italia dal 1°
al 4 ottobre 1981 a Roma e Napoli e dell’Onomasticon dell’Inquisizione
romana[2].
Soltanto negli studi riguardanti la storia delle culture popolari, in particolare
della magia e della stregoneria, gli storici hanno cominciato a riflettere
sull’attendibilità delle fonti inquisitoriali. La questione era
posta in termini alternativi, cioè se i documenti inquisitoriali rispecchiassero
la voce degli inquisiti oppure quella degli inquisitori. La risposta generalmente
accettata fu che attraverso essi si potevano conoscere le credenze e i comportamenti
delle persone processate, anche se tali documenti erano prodotti esclusivamente
da inquisitori e notai, che avevano una cultura dotta e che cercavano di riportare
all’ortodossia le idee e i comportamenti devianti. Ginzburg anzi propose
di vedere l’attività degli inquisitori sotto un’ottica
particolare, cioè come se fossero degli antropologi ante litteram,
perché il loro lavoro aveva delle analogie notevoli con il lavoro appunto
degli antropologi, che si trovano anche essi di fronte a culture diverse e
difficilmente traducibili[3].
Con il rinnovamento e l’ampliamento degli studi sulle culture popolari,
crebbe anche l’esigenza di una metodologia delle fonti inquisitoriali
che fosse chiara e facilmente applicabile. La percezione della grande ricchezza
di queste fonti rischiava di farne sottovalutare le difficoltà interpretative,
comuni d’altra parte a ogni genere di fonti. Riflettendo su queste problematiche,
la questione dell’affidabilità delle fonti inquisitoriali si
può formulare in un altro modo: la documentazione prodotta dal Sant’Ufficio
nell’esercizio delle proprie competenze è una fonte storica sia
per le culture degli inquisiti che per la cultura degli inquisitori, ma in
modo diverso, indiretto nel primo caso, diretto nel secondo. I documenti inquisitoriali
dunque possono servire in primo luogo per ricostruire il funzionamento dell’ufficio
e l’attività di repressione del dissenso, l’azione complessiva
cioè e i comportamenti pratici degli inquisitori, mentre sono utilizzabili
soltanto in forma indiretta per la ricostruzione delle culture e dei comportamenti
degli inquisiti nella vita reale fuori dal tribunale[4].
A ben vedere, anzi, le affermazioni degli inquisiti sono fatte come risposte
alle domande dei giudici di fede, e senza la conoscenza e l’analisi
del comportamento di questi non si possono interpretare correttamente. Lo
studio dell’operato degli inquisitori, della loro cultura e preparazione,
delle procedure da loro adottate, diventa dunque un’operazione previa
all’analisi delle idee e dei comportamenti degli inquisiti.
2. Nella storiografia dell’Inquisizione romana il versante meno frequentato è senza dubbio quello della storia istituzionale, che raccoglie e interpreta cioè quegli elementi che si ricavano con più certezza e immediatezza dalle fonti inquisitoriali. La storia istituzionale dell’Inquisizione è comunque di grande interesse in se stessa, per una più ampia e articolata storia della società e della Chiesa in Italia[5].
Si tratta in primo luogo di ricostruire la macrostoria dell’Inquisizione
romana: le sue strutture centrali e periferiche, la molteplicità dei
giudici di fede, i loro rapporti con le autorità statali, il funzionamento
concreto nel controllo dei vari tipi di dissenso e di comportamenti proscritti
nel corso dei secoli, ciò che finora è stato fatto solo in parte.
Il problema principale di questa ricostruzione è la disponibilità
di pochi archivi. L’archivio più importante e più grosso
è senza dubbio quello della Congregazione per la dottrina della fede,
che ne comprende tre: il Sant’Ufficio, l’Indice, l’Inquisizione
di Siena. È in corso la loro inventariazione con un progetto apposito
e i primi risultati sono davvero incoraggianti, come riferirà dettagliatamente
il dr. Marco Pizzo. Il fondo del Sant’Ufficio è molto carente
per i processi, di cui è rimasto forse il 10%, meno per le lettere
spedite dalle sedi locali, conservate circa la metà.
Per quanto riguarda invece le sedi periferiche dell’Inquisizione romana,
rispetto alle 47 sedi principali italiane i complessi documentari organici
consultabili sono soltanto 5 (Udine, Venezia, Modena, Napoli e Siena) e quello
di Malta per le 5 sedi extra-italiane, oltre a spezzoni in genere piccoli
di altri 20-30 fondi, alcuni solo vescovili[6].
Per uno studio dell’attività complessiva è disponibile
dunque una percentuale bassa della documentazione inquisitoriale originariamente
prodotta.
Constatate ormai in modo definitivo le gravi perdite dell’archivio centrale
del Sant’Ufficio e la grande carenza di fondi locali integri, diventa
ancor più essenziale identificare in modo sistematico e organico tutta
la documentazione inquisitoriale, descriverla con criteri corretti e uniformi,
fornire strumenti di consultazione che facilitino analisi e ricerche approfondite.
Un’impresa del genere – se si propone di ottenere i migliori risultati
– non è praticabile da una singola istituzione, meno che mai
da un singolo studioso, ma risulta possibile soltanto se condotta da più
istituzioni e da più persone e se gestita secondo una pluralità
di competenze.
Quali risultati si ottengano dall’utilizzo di tutti i dati, rispetto
ad una visione parziale, si può vedere a riguardo dell’attività
complessiva dell’Inquisizione romana in Italia valutata attraverso il
numero assoluto degli imputati, cioè non solo i processati in senso
proprio, ma anche le persone semplicemente denunciate, quelle su cui furono
raccolte deposizioni, quelle sottoposte a procedura sommaria. Mentre mancano
dati quantitativi per la sede centrale, sono invece disponibili gli inventari
di Udine, Venezia e Modena, e i dati ricavati dalla lettura diretta dei processi
di Siena. Per quest’ultimi sono debitore a Oscar Di Simplicio. Mentre
i dati di Udine e Venezia rispecchiano la tradizionale convinzione che ci
fosse un numero maggiore di imputati tra fine Cinquecento e primo decennio
del Seicento e un numero basso nel Settecento, i nuovi dati delle altre due
sedi indicano invece un andamento notevolmente diverso: a Modena l’attività
aumentò nella prima metà del Seicento e a Siena si ebbe la massima
attività invece nel primo Settecento. Anche a Malta l’attività
del secondo Settecento è molto alta, ma in questo caso manca l’analisi
dei due secoli precedenti. Il nuovo inventario del Sant’Ufficio di Napoli,
appena pubblicato, riguarda soltanto il primo secolo di attività, dal
1549 al 1647, comprende circa il doppio dei fascicoli precedentemente inventariati
e sembra corrispondere all’andamento delle sedi udinese e veneziana[7].
Altri dati molto parziali si trovano in alcuni archivi inquisitoriali e il
censimento tendenzialmente completo di tutta la documentazione giudiziaria
concernente le sedi locali potrà fornire elementi ulteriori per meglio
determinare l’andamento complessivo dell’Inquisizione romana,
il cui impatto sulla società italiana si può valutare anche
attraverso questi indicatori quantitativi, per quanto abbiano dei limiti evidenti.
3. I dati ricavati dagli inventari permettono alcuni primi confronti, ma
non sono molto attendibili, come dimostra il paragone tra di essi e i dati
raccolti attraverso la lettura dei fascicoli dell’Inquisizione di Venezia
negli anni ’40 e ’50 del Cinquecento e per l’attività
svolta nel Settecento dall’Inquisizione di Modena. La differenza è
davvero notevole: in entrambi i casi il numero degli imputati risulta circa
il doppio[8].
Il modo più corretto per ricostruire e valutare l’attività
di una sede inquisitoriale periferica è dunque la lettura diretta della
serie processuale per ricavarne alcuni elementi fondamentali. Quali siano
questi dati è stato lungamente discusso tra storici e archivisti in
riunioni che si sono tenute negli anni ’90, mettendo a confronto le
diverse competenze, con la consapevolezza che si trattava di un lavoro lungo
e talvolta complicato[9]. Questa
banca dati, che raccoglie una decina di elementi rilevanti, è ora in
corso di elaborazione per la serie processuale dell’Inquisizione di
Aquileia e Concordia, come si può vedere in dettaglio nella relazione
di Giovanna Paolin.
La rappresentatività e la qualità dei dati dipende dalla percentuale
di conservazione dei documenti. Nell’archivio dell’Inquisizione
di Aquileia e Concordia è stato possibile controllare il grado di conservazione
della serie processuale per il Cinquecento sulla base di alcuni inventari
antichi, ed è risultato che tale grado è molto alto. La serie
tuttavia non raccoglie tutta la documentazione processuale, che si trova anche
in una busta di sentenze, quasi esclusivamente cinquecentesche, e in due buste
di denunce. Inoltre altro materiale processuale, sia fascicoli originali interi,
che copie o parti di fascicolo, si trova nella serie miscellanea (bb. 75-98),
così che risulta indispensabile un controllo anche di queste parti
per avere una banca dati completa. Diversa è la situazione dell’archivio
del Sant’Ufficio di Siena, dove ci sono due serie distinte a partire
dal 1580, una dei processi e l’altra delle cause, ma mi chiedo se altro
materiale del genere non si trovi anche in altre parti o serie e se non sia
opportuno censire inoltre il materiale precedente al 1580, conservato in più
archivi a Siena. Nel caso senese l’inventariazione in corso da parte
del team della Congregazione per la Dottrina della Fede darà
senz’altro risultati rilevanti.
La seconda serie fondamentale per analizzare l’attività di un
tribunale del Sant’Ufficio sono le lettere: negli archivi periferici
si trovano in genere quelle spedite dalla Congregazione, ma talvolta anche,
in minuta o in copialettere, quelle inviate a Roma o scambiate tra inquisitori
locali, com’è il caso di Udine. Esistono infine altre parti dell’archivio,
variamente costituite nelle diverse sedi, che è molto utile descrivere,
anche se finora sono state pochissimo utilizzate: libri di atti, raccolte
di editti, decreti delle due Congregazioni, libri e carte contabili.
L’inventario di un archivio intero è uno strumento finora assente,
ma senza dubbio sarebbe molto utile per poter usufruire con facilità
di una documentazione importante, interessante e preziosa per la sua rarità.
4. Se l’identificazione di tutta la documentazione disponibile è un passo preliminare e imprescindibile per lo studio di una istituzione, questo vale anche per il Sant’Ufficio. Oltre all’archivio principale, vanno individuati gli archivi correlati, sia quelli ecclesiastici che quelli statali, a seconda delle diverse situazioni. Non si tratta soltanto di una questione pratica, ma è un problema epistemologico, come hanno rilevato Jean-Pierre Dedieu e René Millar Carvacho nella rassegna degli studi sulle Inquisizioni moderne dell’ultimo decennio, pubblicata sulle «Annales»[10]:
La reconstitution du contexte dans lequel les acteurs ont produit le document devienne une tâche essentielle de l’éditeur. On ne se contente plus de rendre public un objet archivistique déjà constitué, on le construit en rassemblant des éléments épars dans divers dossiers, voire diverses archives. L’étude qui accompagne le texte n’est plus une simple présentation ; elle devient la justification de la reconstruction ainsi menée et, à la limite, de sa nécessité.
Une telle évolution correspond à un mouvement épistémologique de fond. La tentation existe de voir dans les sources inquisitoriales, tant est grande leur richesse, un pur réservoir d’informations ethnographiques (...). Les spécialistes ont depuis longtemps compris qu’une réflexion s’imposait sur la question de la fiabilité des sources inquisitoriales (...). Les interrogatoires ne prennent leur sens que replacés dans le cadre général de l’activité inquisitoriale et doivent être interprétés non seulement en tenant compte de l’ensemble du procès dont ils sont tirés, mais encore de l’ensemble de l’activité du tribunal au moment où ils sont rédigés ; que ce cadre général doit faire l'objet d’une reconstruction précise, commençant par le rassemblement des archives disponibles pour le retracer ; et qui tienne compte des conditions matérielles d’exécutions, des contraintes imposées par le cadre juridique, des déperditions à chacun des stades de son élaboration, plus encore que de déformations mesurables ou les mensonges avérés, les pressions politiques et juridictionnelles. Pour comprendre, il importe de mettre en contexte.
Una ricerca del genere è stata da me fatta per l’Inquisizione
di Aquileia tra 1557 e 1559, per i primi tre anni da quando si formò
un archivio stabile con l’arrivo del vicario patriarcale Giacomo Maracco.
Il modello non è complicato, se si conosce il funzionamento istituzionale
e, anche se non è facilmente applicabile, porta ad ogni modo risultati
notevoli. Data la scarsità dei fondi inquisitoriali disponibili in
Italia, credo che presenti una indiscutibile utilità.
5. Le fonti dell’Inquisizione romana sono state tradizionalmente molto
più utilizzate per la storia delle culture represse o controllate che
per la storia istituzionale. In Italia si è fatta la storia di casi importanti
o particolari, e si è discusso solo di riflesso il problema se sia preferibile
fare la storia dei casi o la storia seriale, la storia qualitativa o la storia
quantitativa, la microstoria o la macrostoria. Nei decenni scorsi queste contrapposizioni
sembravano difficilmente sanabili, per cui si praticava in genere il primo tipo
di storiografia e si disistimava il secondo, mentre ora non suscitano discussioni
e si praticano senza problemi entrambi. Si veda ad esempio come è stato
condotto il rilevante studio di Bartolomé e Lucille Bennassar sui rinnegati,
giocato sia sul piano dell’analisi quantitativa che su quello dei casi
interessanti[11].
Come hanno notato Dedieu e Millar Carvacho, conoscere le condizioni materiali
di produzione dei documenti processuali inquisitoriali e il quadro giuridico
del funzionamento istituzionale sono aspetti importanti della riflessione sulle
fonti e possono portare conseguenze feconde sul piano interpretativo.
Gli studi recenti hanno ormai acquisito definitivamente che giudici di fede
stabilmente presenti non erano soltanto gli inquisitori, ma anche i vicari generali
dei vescovi o i vescovi stessi. Quale formazione essi avessero è una
questione rilevante per l’interpretazione delle fonti inquisitoriali:
gli inquisitori avevano di solito una formazione teologica, mentre i vescovi
e i loro vicari l’avevano giuridica. Ma quello che conta soprattutto per
una corretta ermeneutica è conoscere il modo con cui conducevano gli
interrogatori. Questo modo non corrispondeva all’indagine attenta e severa
attribuita alla figura mitica del grande inquisitore, che non si fermava neppure
davanti a Gesù Cristo. I giudici di fede seguivano il criterio più
elementare di verificare l’attendibilità degli indizi emersi nella
denuncia o nelle testimonianze, secondo quanto indicavano in genere i manuali.
Non scandagliavano a fondo la cultura religiosa e i comportamenti sospetti,
ma cercavano prove giudiziarie per stabilire se uno era colpevole delle eresie
attribuitegli dal denunciante e dai testimoni. Raramente il giudice faceva nuove
domande dottrinali all’imputato. Un lavoro di routine, almeno nei
tribunali locali. Gli imputati non si esprimevano in modo libero, ma rispondevano
a questo tipo di domande e quindi le loro affermazioni vanno valutate all’interno
di tale quadro giudiziario.
Oltre al processo formale, c’era poi una procedura di tipo sommario, che
veniva usata nel caso di comparizione spontanea dell’imputato, cioè
quando questi si presentava al tribunale senza essere citato. In questo caso
poteva esporre a proprio modo le eresie tenute o i comportamenti devianti e
le eventuali domande riguardavano in genere i complici, non le dottrine o i
comportamenti. Le affermazioni dell’imputato in questo secondo tipo di
procedura mi pare vadano considerate in modo diverso che nel processo formale.
6. Oltre al modo di interrogare del giudice, un altro elemento importante da
valutare è il lavoro del notaio nella stesura degli atti giudiziari.
Le affermazioni degli imputati che noi leggiamo sono infatti scritte dal notaio,
che nei primi decenni dell’Inquisizione romana fu un dipendente della
curia vescovile e soltanto in seguito venne nominato dall’inquisitore,
ed era in genere un religioso dello stesso ordine. Finora sono stati studiati
alcuni notai del secondo Cinquecento e risulta che utilizzassero due metodi
nella stesura dei verbali: direttamente durante la seduta, oppure immediatamente
dopo sulla base di una minuta. Erano cioè gli stessi sistemi correnti
per le altre verbalizzazioni, ad esempio quelle delle visite pastorali.
Un altro problema è capire quanto le verbalizzazioni fossero fedeli alle
parole effettivamente pronunciate da giudici e imputati. I pochi studi al riguardo
mostrano come ci potesse essere una buona corrispondenza nella sostanza e talvolta
perfino nei termini, ma anche come avvenissero spesso cambiamenti e soppressioni
di vario genere[12].
Lo studioso che legge oggi le fonti inquisitoriali si rende conto di avere
tra le mani atti giudiziari, cioè testi altamente formalizzati dal punto
di vista giuridico e dal punto di vista teologico, anche se si può superficialmente
avere un’impressione diversa. Che sia uno storico, un antropologo, un
giurista, un linguista, egli comunque persegue gli scopi della sua ricerca,
tenendo presenti ma superando gli scopi per cui i documenti inquisitoriali furono
prodotti.
Per utilizzare correttamente queste fonti è dunque indispensabile conoscere
il funzionamento dell’istituzione che le ha prodotte, le sue strutture
e le sue regole, il modo di operare dei giudici e dei funzionari. La storia
istituzionale, intesa nel senso più ampio, non è importante solo
in sé, per valutare l’impatto dell’Inquisizione nella storia
della società italiana ed europea, ma risulta anche previa alla storia
delle culture controllate e represse nel corso dei secoli, che vengono studiate
all’interno di singoli settori di ricerca, ognuno con propri criteri e
paradigmi.









[1] Cfr. C. GINZBURG, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966; Id., Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 1976.
[2] Gli atti del convegno sono editi in «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», XXXV-XXXVI, 1983-1984, pp. 29-333; XXXVII-XXXVIII, 1985-1986, pp. 9-284.
[3] Cfr. R. KIECKHEFER, European Witch Trials. Their Foundation in Popular and Learned Culture 1300-1500, London, Routledge and Kegan, 1976; G. HENNINGSEN, El banco de datos del Santo Oficio: las relaciones de causas de la Inquisición española (1550-1700), «Boletín de la Real Academia de la Historia», 174, 1977, pp. 547-570; Id., The Archives and the Historiography of the Spanish Inquisition, in The Inquisition in Early Modern Europe. Studies on Sources and Methods, ed. by G. HENNINGSEN and J. TEDESCHI, DeKalb, Illinois, Northern Illinois University Press, 1986, pp. 54-78; C. GINZBURG, L'inquisitore come antropologo, in Studi in onore di Armando Saitta dei suoi allievi pisani, a cura di R. POZZI e A. PROSPERI, Pisa, Giardini, 1989, pp. 23-33.
[4] Cfr. A. DEL COL, I criteri dello storico nell’uso delle fonti inquisitoriali moderne, in L’Inquisizione romana: metodologia delle fonti e storia istituzionale. Atti del Seminario internazionale, Montereale Valcellina, 23-24 settembre 1999, a cura di A. DEL COL e G. PAOLIN, Trieste - Montereale Valcellina, Edizioni Università di Trieste - Circolo Culturale Menocchio, 2000, pp. 51-72.
[5] Cfr. A. DEL COL, Osservazioni preliminari sulla storiografia dell’Inquisizione romana, in Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di C. MOZZARELLI, Roma, Carocci, 2003, pp. 75-137.
[6] Cfr. A. DEL COL, Le strutture territoriali e l’attività dell’Inquisizione romana, in L’Inquisizione. Atti del Simposio internazionale, Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998, a cura di A. BORROMEO, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003 [ma 2004], pp. 345-380, in particolare 350-351, 380.
[7] Cfr. la mia relazione al IV Convegno nazionale di studi storico-antropologici di Triora, 22-24 ottobre 2004, La via occidentale. Antiche tradizioni e caccia alle streghe nel chiostro alpino, in corso di stampa; Il fondo Sant’Ufficio dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli. Inventario (1549-1647), a cura di G. ROMEO, «Campania sacra», 34, 2003. I grafici si trovano in appendice. Il rilevamento dei dati senesi considera i quinquenni con lo schema 1580-1584, 1585-1589 ed è incompleto per gli anni 1630-1634, ma io ho inserito i dati nel mio schema 1581-1585, 1586-1590, sfasandoli quindi di un anno.
[8] Cfr. i dati di Venezia anni ’40 in A. DEL COL, Organizzazione, composizione e giurisdizione dei tribunali dell’Inquisizione romana nella repubblica di Venezia (1500-1550), «Critica storica», XXV, 1988, pp. 244-294; quelli di Modena in C. RIGHI, L’Inquisizione ecclesiastica a Modena nel ’700, in Formazione e controllo dell’opinione pubblica a Modena nel ’700, a cura di A. BIONDI, Modena, Mucchi, 1986, pp. 51-95. I grafici si trovano in appendice.
[9] Cfr. A. DEL COL, Strumenti di ricerca per le fonti inquisitoriali in Italia in età moderna, «Società e Storia», 75, 1997, pp. 143-167, 417-424.
[10] Cfr. J.-P. DEDIEU– R. MILLAR CARVACHO, Entre histoire et mémoire. L’Inquisition à l’époque moderne : dix ans d’historiographie, «Annales H.S.S.», 57, 2002, pp. 349-372, citazione 355-357.
[11] Cfr. B. e L. BENNASSAR, I cristiani di Allah, presentazione di S. BONO, Milano, Rizzoli, 1991.
[12] Cfr. A. DEL COL, I criteri dello storico nell’uso delle fonti inquisitoriali moderne; Id., Minute a confronto con i verbali definitivi nel processo del Sant’Ufficio di Belluno contro Petri Rayther (1557), «Quaderni di storia religiosa», IX, 2002, pp. 201-237.