1. Pochissimi sono gli studi specificatamente rivolti alla molteplice e variegata
produzione documentaria connessa con l’attività degli inquisitores
haereticae pravitatis a sede apostolica deputati operanti nell’Italia
del secondo e tardo medioevo. Non solo: in un importante volume pubblicato
nel 1991 e dedicato a Struttura e geografia delle fonti scritte dell’Italia
medievale non esiste riferimento alcuno alla documentazione connessa e
derivata dall’esercizio dell’azione inquisitoriale[1].
Poiché non è credibile che si tratti di un’omissione voluta
(e, poi, perché mai voluta?), l’omissione rispecchia una situazione
di fatto. L’inquisizione medievale e relativi documenti e fonti continuano
a non attirare l’interesse dei medievisti italiani[2].
Per contro, rarità (preziosa) tra le rarità è quanto
si ricava da un breve saggio di Mariano d’Alatri pubblicato sulla rivista
“Collectanea Franciscana” del 1970[3].
Il lungo titolo, Archivio, offici e titolari dell’Inquisizione toscana
verso la fine del Duecento, lascia intuire, soprattutto nella parola archivio, la straordinaria importanza del contributo documentario dello storico cappuccino:
il quale, in verità, si era avvalso delle indicazioni archivistiche
ricavabili da uno studio del 1933 realizzato da quel formidabile erudito che
fu Gerolamo Biscaro[4]. Dopo alcune
rapide pagine introduttive Mariano d’Alatri forniva la trascrizione
integrale di “un inventario dell’archivio fiorentino dell’inquisizione”[5],
fatto compilare nel 1334 dall’inquisitore Mino da San Quirico al proprio
notaio “magister” Giovanni Bongie “per soddisfare alle pressanti
richieste del nunzio papale Ponzio”[6],
incaricato per conto della Camera apostolica di condurre un’inchiesta
sul non limpidissimo operato “finanziario” del frate Minore titolare
dell’officium inquisitionis di Firenze. Tale inventario risulta
trascritto nel volume 251 delle Collectoriae della Camera apostolica
giacente presso l’Archivio Segreto Vaticano. Non importa qui entrare
nel merito delle ragioni per le quali l’inquisitore, tra l’altro,
dovette esibire e leggere, lunedì 31 gennaio 1334, al rappresentante
del potere pontificio la “papiri cedula” poi ricopiata nel volume
delle Collectoriae camerali. Piuttosto, importa chiarire il contenuto
di tale “papiri cedula”.
In primo luogo, frate Mino elenca quattordici “libri iuris canonici
et civilis sibi resignati per bone memorie fratrem Petrum de Prato, dudum
inquisitorem heretice pravitatis in Tuscia, predecessorem suum”. Si
trattava di un insieme librario che era stato acquisito e conservato dagli
inquisitori nel corso del tempo – anzi da parecchio tempo: “iam
sunt longa et longissima tempora” – per svolgere il proprio ufficio:
in particolare, se ne erano serviti e se ne servivano i “sapientes”
chiamati ad assistere l’inquisitore quando necessitava di un loro parere
“super disputationibus et concertaminibus” inerenti all’attività
inquisitoriale. I libri erano conservati in uno scrigno dotato di due chiusure.
Ad essi si accompagnavano un libello contenente copia delle “constitutiones
papales et imperiales contra hereticos editae”, sei originali di “privilegia
sive littere papales cum bullis plumbatis pendentibus” e altre sparse
lettere pontificie. Insomma, frate Mino da San Quirico aveva ricevuto dal
suo predecessore frate Pietro da Prato gli strumenti giuridici e i diplomi
atti a giustificare e guidare la propria attività: strumenti giuridici
e diplomi che frate Pietro, a sua volta, aveva ricevuto dal suo predecessore.
Il meccanismo di trasmissione di libri e documenti si riproponeva a ogni cambio
di titolare dell’ufficio inquisitoriale. Ma l’archivio pervenuto
a frate Mino da San Quirico conservava assai di più e, ai fini del
nostro discorso, molto più interessante.
2. La seconda serie documentaria della “papiri cedula” del 1344
è costituita da numerosi “libri” strettamente derivanti
dall’azione degli inquisitori. Dodici “libri” contenevano
la registrazione delle “depositiones recepte contra hereticos in inquisitione
Florentina” dai sette inquisitori che si erano succeduti e avevano preceduto
frate Mino nell’ufficio inquisitoriale di Tuscia a partire dal
1275, cioè a partire da frate Guicciardino da San Geminiano. I dodici
“libri depositionum” avevano ricevuto una sistemazione archivistica,
poiché “de foris describuntur XII littere grosse per ordinem
alphabeti” e per ognuno era stato annotato “quo tempore factus
et compositus est”. La puntuale cura archivistica si estendeva ai sette
“libri sententiarum”, che raccoglievano in ordine cronologico
le sentenze emanate da frate Mino da San Quirico e che erano segnati “deforis”
con “littere grosse per ordinem alfabeti”, e ai quattro “libri
de papiro” che riportavano le “depositiones” ricevute da
frate Giacomo da Lucca, contrassegnati ognuno con una lettera dell’alfabeto
“per ordinem usque ad D”. Degno di nota è che da questi
ultimi quattro libri erano state estratte talune “depositiones”
in due diversi “libri cum tabulis ligatis”.
L’elencazione prosegue menzionando, uno per uno, altri venticinque libri,
sulla cui varietà tipologica purtroppo non possiamo soffermarci in
modo analitico. Tuttavia non è da trascurare la distinzione tra “libri
ordinarii” e “libri extraordinarii”: distinzione che presenta
difficoltà interpretative, anche se parrebbe che i primi riportassero
quasi esclusivamente le “depositiones” e le sentenze e che i secondi
contenessero copia di “citationes et fideiussiones et precepta et alie
varie scripture”. Da non trascurare sono ancora i segni esterni apposti
per l’immediata individuazione del contenuto dei codici. Vediamoli.
Il libro del processo fatto contro alcuni apostati di vari Ordini religiosi
riporta “deforis” una “ymago, a cingulo supra, cuiusdam
fratris”: il disegno di un frate a mezzobusto aveva una consapevole
e precisa finalità manifestata dall’espressione “ad designandum
quod ille liber solummodo factus est contra illos fratres et nihil aliud continet”.
Sul libro del processo contra il “dominus” Giovanni Machiavelli
e altri “impeditores” dell’ufficio inquisitoriale è
disegnata una “clavis” per indicare che “ipse liber specialiter
et principaliter factus est contra ipsum dominum Iohannem Malchiavelli”.
Sulla coperta del libro contenente le procedure contro “ser” Lando
da Gubbio, un tempo bargello di Firenze, “foris pictus est quidam ircus”
(e c’è da chiedersi se la raffigurazione del “caprone”
abbia una qualche valenza di pittura infamante).
Oltre ai cinquanta codici sinora menzionati, frate Mino da San Quirico ricevette
dal suo predecessore “multi alii libelli, quaterni copiati et non copiati
et scripture antique curie dicti officii, processum et actorum antiquorum
habitorum contra hereticos, credentes, receptatores, fautores et defensores
eorum”. Si tratta di una memoria documentaria davvero cospicua, di cui
l’inquisitore in carica e i successivi inquisitori potevano servirsi
facilmente, essendo i vari pezzi individuabili in modo agevole mediante segnature
o disegni particolari e talora non meno agevolmente consultabili. Da sottolineare
in proposito la realizzazione di strumenti a metà tra il casellario
giudiziario e lo schedario poliziesco che troviamo in un “liber cartarum
pecudinarum”. Esso era suddiviso in due parti: nella prima era contenuta
la “tabula deponentium et punitarum et punitorum et absolutorum sive
condempnatorum inquisitionis Florentine”, nella seconda la “tabula”
corrispondente all’attività dell’inquisizione di Prato.
3. Queste sia pur sintetiche informazioni offrono un quadro di notevole organizzazione
archivistico-documentaria dell’offitium inquisitionis di Firenze.
Tuttavia c’è da chiedersi se e come ciò corrispondesse
a una realtà inquisitoriale generalizzata oppure fino a qual punto
costituisse un’eccezione. Sotto un altro punto di vista, c’è
da chiedersi se e come la raggiunta efficienza archivistico-documentaria corrispondesse
a una realtà ereticale a cui davvero occorreva opporre una così
organizzata memoria scritta a fini giudiziario-repressivi. Tentare una risposta
a siffatte questioni comporterebbe di inoltrarsi nel fragile e scivoloso terreno
delle ipotesi; ma della storia dell’inquisizione medievale in Italia
– in attesa della annunciata sintesi di Andrea Del Col – sappiamo
poco e quel poco in maniera frammentaria. Limitiamoci pertanto ad alcune suggestioni
problematiche.
Non sarebbe illegittimo pensare che la testimonianza del 1344 corrisponda
a una fase di sistemazione organizzativa dell’ufficio inquisitoriale
in Italia e fuori d’Italia, come altrimenti lascerebbero intendere alcuni
coevi “manuali” quali, per esempio, il De officio inquisitionis
composto nella Lombardia inferior o la Practica inquisitionis
heretice pravitatis del noto – letterariamente sin troppo noto –
frate Predicatore e inquisitore Bernardo Gui[7].
Per contro, altri inquisitori, agenti nella Lombardia superior al volgere
dal XIII al XIV secolo, sembrano incontrare situazioni assai diverse. Per
esempio, dai quaterni racionum dell’inquisitore frate Lanfranco
da Bergamo, assai bene studiati da Marina Benedetti[8],
ricaviamo la seguente significativa dichiarazione:
Quando ivi Papiam ad faciendum officium inquisitionis .MCCLXXXII. non inveni aliquid pertinens ad ipsum officium nec unum scriniolum cum libris officii.
Il frate Predicatore porrà comunque rimedio a tale stato di desolazione:
Emi ego frater Lafranchus unam domum, quia officium ullam habebat (...); item fecit fieri cellam, lectum cum materacio et coopertoria, discum, banchum et archibanchum cum aliis ad cellam pertinentibus, que omnia dimissi inquisitori.
All’inquisitore che a lui sarebbe succeduto dopo più di due
decenni, nel 1305, frate Lanfranco lascia non soltanto una sede decorosa e
arredata, ma pure “omnes libri officii”, “multi libri de
erroribus hereticorum et alios ad refellendum errores” e “omnia
privilegia officii”, compresi due recentissimi privilegi ricevuti da
Benedetto XI. Per altro, nel corso del suo mandato frate Lanfranco acquista
spesso quaderni e pergamene per l’attività scrittoria dei notai
che registrano “processus et acta officii”, “privilegia
et consultationes”, “privilegia, consilia et plura alia”.
Non manca pure la compilazione di una “tabula Pergami officii”,
che con tutta probabilità è da considerarsi un liber analogo
a quello che sarà in possesso di frate Mino da San Quirico con riferimento
agli officia inquisitionis di Firenze e di Prato. Sembrerebbe che sul
finire del XIII secolo gli inquisitori mostrino una particolare cura nei confronti
della documentazione connessa al loro ufficio e al valore di memoria poliziesco-giudiziario
che essa aveva. Ma tale constatazione dipende dagli inevitabili condizionamenti
delle fonti[9] a noi pervenute oppure
indica una evoluzione nel modo di esercitare l’ufficio inquisitoriale?
Se rivolgiamo l’attenzione al dossier relativo all’affaire
Armanno Pungilupo, elaborato sullo scorcio del XIII secolo, vediamo come
i frati Predicatori titolari dell’ufficio inquisitoriale di Ferrara
riuscissero a raccogliere e a ordinare testimonianze estratte dagli acta
inquisitionis, giungendo infine a redigere una sorta di “libello”[10]
da presentare al papato per la soluzione definitiva del non componibile contrasto
con i canonici della cattedrale ferrarese circa la santità o
la ereticità dell’uomo morto in Ferrara nel dicembre 1269
e ivi sepolto nella chiesa maggiore. Il “libello” inquisitoriale
dimostra in modo incontrovertibile come i titolari dell’offitium
haereticorum conservassero i propri “atti” e fossero in grado
così di risalire agli “atti” di coloro che li avevano preceduti
a partire dal 1270 – anno in cui si aprono le procedure per il processo
post mortem ad Armanno Pungilupo – come di procurarsi copie di
“atti” di uffici inquisitoriali di altre città gestiti
da frati sia del proprio Ordine sia dell’Ordine dei Minori.
4. Pur senza averne mai fatto cenno esplicito, si sta profilando l’importanza
del ruolo e della funzione svolti da una insostituibile categoria di “officiales
officii inquisitionis”, ossia i notai: a proposito dei quali è
sorprendente rilevare come nel più o meno recente fiorire di studi
sul notariato, per quanto è a mia conoscenza, non esistano ricerche
specifiche[11]. Non intendo certo
ovviare in questa sede a siffatta lacuna. Mi limiterò a ricordare che
anche soltanto dal punto di vista della conservazione e trasmissione degli
“atti” inquisitoriali un discorso sui notai sia centrale. Ne parlerò
brevemente tra poco.
Dalle sintetiche notazioni fatte a proposito degli uffici inquisitoriali di
Ferrara, di Pavia e di Firenze emerge come la produzione documentaria dei
giudici delegati alla repressione giudiziaria antiereticale nell’Italia
del pieno e tardo medioevo dovette essere di notevoli dimensioni. Eppure se
ne è conservata una parte ridottissima. Il discorso si sposta inevitabilmente
alla storia degli archivi degli Ordini mendicanti, sui quali non manca una
bibliografia più o meno recente, più o meno abbondante[12].
Ciò che manca sono contributi specifici intorno alla documentazione
inquisitoriale che doveva essere conservata presso i conventi nei quali agivano
gli inquisitores haereticae pravitatis. Quando si riesce ad avere qualche
dato, la parola più usata in proposito è “dispersione”.
Dobbiamo prenderne atto: gli “archivi” degli uffici inquisitoriali,
gestiti in Italia da frati Predicatori e frati Minori, più non esistono
e, nei casi più fortunati, a noi ne sono pervenuti frammenti o singoli
pezzi. Le ragioni sono tantissime, per quanto si può intuire. Ma si
impone la necessità di andare al di là delle intuizioni e percorrere
faticosissimi cammini: nella piena consapevolezza che essi per lo più
porteranno a scoprire i motivi, per dir così, di una assenza, porteranno
ad avere la certezza di perdite definitive.
Non è caso che a proposito “d’un archivio così ricco
e ordinato”, quello degli inquisitori fiorentini, Mariano d’Alatri
parli, al termine del ricordato saggio del 1970, della “rovina”
dello stesso archivio precisando che “esso andò completamente
distrutto, non dalle fiamme di un rogo liberatore acceso dai pavidi epigoni
degli inquisitori, ma dall’acqua”[13]
dell’Arno, che scorreva e scorre assai vicino al convento di Santa Croce
di Firenze, dove l’insieme dei “libri” elencati nel 1344
era conservato (non sappiamo sino a quando). C’è ragione di ritenere
però che il materiale librario e documentario della stragrande maggioranza
degli archivi dell’inquisizione medievale sia andato distrutto o disperso
per tanti altri motivi e in tempi difficili da precisare. Per l’Italia
centro-settentrionale un momento determinante dovette avvenire durante il
governo napoleonico: momento di soppressione sia degli Ordini religiosi, in
particolare “mendicanti”[14],
sia dei tribunali del "Sant’Uffizio" (là dove erano
ancora in funzione)[15] Se così
è, ne consegue l’opportunità di intraprendere percorsi
di ricerca che prevedano una piena collaborazione tra medievisti e modernisti:
per indagini comuni che chiariscano le vicende e i destini della documentazione
inquisitoriale non solo di età moderna[16],
ma anche di età medievale[17].
Se ne potranno trarre pure dati di assoluto rilievo giungendo finalmente a
precisare, in primo luogo, dove, quando e in quale misura la documentazione
medievale sia confluita e sia stata conservata negli archivi dell’Inquisizione
moderna e, in secondo luogo, se, perché e come gli inquisitori moderni
si siano avvalsi degli “atti” dei loro antenati medievali.
5. Al di là delle questioni dei rapporti tra le due inquisizioni,
medievale e moderna, pare assai probabile che parte degli acta officii
inquisitionis medievale si sia trasmesso attraverso gli archivi dell’inquisizione
moderna, condividendone il destino di conservazione o di dispersione o di
distruzione. Tuttavia, altri sono i canali attraverso cui si sono conservati
e ci sono pervenuti documenti degli inquisitores haereticae pravitatis
a sede apostolica deputati. Questi canali dipendono soprattutto dal carattere
pubblico dell’azione inquisitoriale e dalle conseguenze patrimoniali
di talune decisioni giudiziarie degli inquisitori. Esemplare al riguardo può
essere riferirsi al Liber sententiarum hereticorum comunis Urbisveteris
exemplatus manu Orvetani, Uguitionis et Rainaldi Boncontis notariorum tempore
capitanerie viri nobilis domini Guidi Cheris de Gallutiis[18].
Si tratta di un codice pergamenaceo del XIII secolo per secoli conservato
nell’Archivio storico del Comune di Orvieto (oggi allogato presso il
locale Archivio di Stato)[19].
Esso contiene il testo di sessantasette sentenze emanate nel biennio 1268-1269
da due frati Minori “inquisitores heretice pravitatis in civitate Urbevetana
et provincia Romana”. Le sentenze sono pressoché tutte di condanna
con pesanti effetti sul piano politico-istituzionale e patrimoniale. Nella
maggior parte i condannati vennero privati di “cuncti honores temporales
et officia publica ac omnis actus legitimus” (con estensione a “filii
et nepotes usque in secundam generationem”). I loro beni “mobili
e immobili” furono sottoposti a confisca e passati alla Chiesa romana
e al comune di Orvieto per essere messi all’incanto. Tutti i “contractus
venditionis, donationis, permutationis, impignorationis, alienationis et cuiuscumque
generis oblationis de bonis suis” stipulati “a tempore commissi
criminis” (crimine d’eresia, s’intende) furono dichiarati
di nessun valore.
Ecco allora come ben si giustifichi il titolo originale del codice che riporta
non il nome degli inquisitori, bensì quello dei notai che avevano “exemplatus”
il Liber sententiarum e del capitano che allora reggeva la massima
carica comunale. Chi avrebbe conservato la memoria di atti emanati sì
da un giudice ecclesiastico, ma aventi gravissime e decisive ricadute nella
vita civile e nei rapporti economici della popolazione di Orvieto? La memoria
era conservata dall’ente comunale e dai notai. D’altronde, questi
ultimi erano particolarmente coinvolti tanto per la diretta collaborazione
“documentaria” con i titolari dell’offitium inquisitionis,
quanto per le conseguenze delle condanne degli inquisitori nella loro
attività professionale quotidiana per lo più fatta di redazione
di “contractus”, cioè atti patrimoniali. È forse
anche possibile che i notai tenessero copia degli atti stilati nella funzione
di “officiales” dell’inquisizione[20].
Per altro verso, nell’ideologia coercitiva e nelle sistemazioni giuridiche
dell’inquisizione si pervenne a definire “officialis officii inquisitionis”
il detentore della più alta magistratura locale (“potestas et
quilibet rector”)[21]. La
superiorità e l’invasività della giurisdizione inquisitoriale
hanno effetti moltiplicatori in ambito documentario[22]:
una giurisdizione la cui normativa prevedeva il più ampio coinvolgimento
dei detentori del potere temporale a livello non solo operativo, ma anche
economico.
A livello economico e finanziario l’attività degli inquisitori[23],
soprattutto a partire dalla metà del XIII secolo, ha risvolti importanti,
tra l’altro, a seguito della confisca dei beni di coloro che venivano
giudicati eretici. Le testimonianze pervenute sono molte. Esemplare al riguardo
è il Liber depositorum, venditionum, emptionum et aliorum variorum
contractuum factorum per fratres Minores in civitatibus Padue et Vicencie,
che raccoglie atti patrimoniali compresi tra gli anni 1263 e 1302[24].
Si tratta di un dossier documentario fatto redigere “a sostegno
delle accuse mosse” dal comune di Padova, unitamente al vescovo locale,
“presso Bonifacio VIII circa l’operato dell’inquisizione
affidata allora ai frati Minori nella Marca Trevigiana”[25]:
documenti notarili dunque per denunciare comportamenti di frati Minori, inquisitori
e non, ritenuti illeciti. E “il quadro di illeciti che ne risultò
ha i contorni – scrive Antonio Rigon – di un vero e proprio “affaire”:
tangenti, interessi privati, indebite pressioni e minacce, operazioni truccate,
che coinvolgevano non solo gli inquisitori, ma anche ministri provinciali,
guardiani, custodi, semplici frati, sono portati alla luce senza reticenze”[26].
La “fortunata” circostanza patavina – fortunata ovviamente
sul piano documentario – suggerisce la necessità di spogli sistematici
di fondi archivistici di enti ecclesiastici e religiosi variamente coinvolti
nelle vicende dei beni confiscati “occasione haereticae pravitatis”
e messi in vendita: un lavoro che si preannuncia certamente lungo e difficile.
6. Altrettanto lunghe e difficili saranno le indagini relative alla documentazione prodotta a seguito della collaborazione tra inquisitori e ordinari diocesani, agli inizi del Trecento resa obbligatoria e regolata con la Multorum querela del concilio di Vienne[27], poi raccolta nelle cosiddette Clementine[28]: collaborazione imposta anche a seguito delle numerose irregolarità rinvenute soprattutto nella gestione finanziaria degli inquisitori appartenenti ai frati sia Minori sia Predicatori. Pertanto a partire dal secondo decennio del XIV secolo “atti” inquisitoriali possono essere rinvenibili negli archivi diocesani e, con una certa probabilità, in quei particolari “libri” che oggi vanno sotto in nome di “registri vescovili”[29], dove gli ordinari diocesani sin dal Duecento facevano registrare, appunto, i loro atti relativi alla sfera sia spirituale sia temporale. Ma qui si apre un altro capitolo su cui si sa poco: e non solo in merito alla documentazione. Il lavoro di ricerca documentaria e testuale è ancora molto: altrettanto numerose e ricche sono le prospettive di indagine che ne derivano o, meglio, ne deriveranno. Oltre a ciò che si intravede nei dati sinora forniti e nelle relative considerazioni, basti pensare a quanto emerge da un importante e utilissimo volume su Texts and the Repression of Medieval Heresy del 2003, ideato e curato da Caterina Bruschi e Peter Biller[30]. Esso dimostra come occuparsi di fonti e documenti non sia mero esercizio erudito, anche se senza erudizione non esiste né esisterà ricerca storica su eretici e inquisitori.
[1] P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1991, che pur sviluppa tre non brevi paragrafi sulle «scritture della Chiesa» (pp. 217-249) e fornisce i relativi supporti strumentali e orientamenti bibliografici (pp. 258-264).
[2] Cfr. G. G. MERLO, “Discorrendo di inquisizione «medievale» e «moderna»”, Bollettino storico vercellese, XXXI, 2002, pp. 5-20.
[3] M. D’ALATRI, “Archivio, offici e titolari dell’inquisizione toscana verso la fine del Duecento”, Collectanea Franciscana, XL, 1970, pp. 169-190: poi in M. D’ALATRI, Eretici e inquisitori in Italia. Studi e documenti, Il Duecento, vol. I, Roma, Collegio San Lorenzo da Brindisi, Istituto storico dei Cappuccini, 1986, pp. 269-295 [da cui qui si cita].
[4] G. BISCARO, “Inquisitori ed eretici a Firenze”, Studi medievali, VI, 1933, pp. 161-207.
[5] M. D’ALATRI, “Archivio, offici e titolari dell’inquisizione toscana verso la fine del Duecento”, cit., pp. 278-288.
[6] Ivi, p. 269.
[7] Cfr. il classico studio di A. DONDAINE, “Le manuel de l’inquisiteur (1230-1330)”, Archivum fratrum Praedicatorum, XVII, 1947, pp. 85-194 [rist. in A. DONDAINE, Les hérésies et l’Inquisition. XIIe-XIIIe siècles, Aldershot, Ashgate Pub Co, 1990], e, da ultimi, T. SCHARFF, “Schrift zur Kontrolle – Kontrolle der Schrift. Italienische und französische Inquisitoren-Handbücher des 13. und frühen 14. Jahrhunderts“, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, 52, 1996, pp. 547-584; R. PARMEGGIANI, “Un secolo di manualistica inquisitoriale (1230-1330): intertestualità e circolazione del diritto”, in Rivista internazionale di diritto comune, 13, 2002, pp. 229-270; L. PAOLINI, “Il modello italiano nella manualistica inquisitoriale (XIII-XIV secolo)”, in L’Inquisizione. Atti del Simposio internazionale: Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998, a cura di A. BORROMEO, Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, 2003.
[8] M. BENEDETTI, Le parole e le opere di frate Lanfranco (1292-1305), in Le scritture e le opere degli inquisitori, Verona, Cierre, 2002, pp. 111-182; M. BENEDETTI, Frate Lanfranco da Bergamo, gli inquisitori, l’Ordine e la curia romana, in Praedicatores, inquisitores. The Dominicans and the Medieval Inquisition. Acts of the 1st International Seminar on the Dominicans and the Inquisition, vol. I, Roma, Istituto storico domenicano, 2004, pp. 157-204.
[9] Esula dall’impianto e dagli intendimenti di questo breve contributo il riferimento alle “fonti letterarie” in quanto possibili testimoni della presenza ereticale e dell’azione inquisitoriale: su cui invece si veda T. SCHARFF, “Die Inquisition in der italienischen Geschichtsschreibung im 13. und frühen 14. Jahrhundert”, in Bene vivere in communitate. Beiträge zum italienischen und deutschen Mittelalter. Hagen Keller zum 60. Geburstag uberreicht von seinen Schulerinnen und Schulern, a cura di T. SCHARFF e T. BEHRMANN, Münster-New York-München-Berlin, Waxmann, 1997, pp. 255-277.
[10] Se ne trova la trascrizione in G. ZANELLA, Itinerari ereticali:patari e catari tra Rimini e Verona, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1986, pp. 48-102, con la errata corrige in ID., Hereticalia. Temi e discussioni, Spoleto, Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, 1995, pp. 225-229; ma sul “libello” vedi ora l’importante contributo di M. G. BASCAPÈ, “In armariis officii inquisitoris Ferrariensis. Ricerche su un frammento inedito del processo Pungilupo”, in Le scritture e le opere degli inquisitori, cit., pp. 31-110.
[11] Importanti suggestioni di studio sulla molteplice attività dei notai nel basso medioevo sono nell’innovativo volume Notai, miracoli e culto dei santi. Pubblicità e autenticazione del sacro tra XII e XV secolo, a cura di R. MICHETTI, Milano, A. Giuffre, 2004.
[12] Si vedano, da ultimo, D. PUNCUH, “Cartulari monastici e conventuali: confronti e osservazioni per un censimento”, in Libro, scrittura, documento della civiltà monastica e conventuale del basso medioevo (secoli XIII-XV), a cura di G. AVARUCCI, R.M. BORRACINI VERDUCCI, G. BORRI, Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, Spoleto 1999, pp. 341-380; A. BARTOLI LANGELI - M. D’ACUNTO, “I documenti degli Ordini mendicanti”, in Libro, scrittura, documento della civiltà monastica e conventuale del basso medioevo (secoli XIII-XV), cit., pp. 390-415.
[13] M. D’ALATRI, Archivio, offici e titolari, cit., p. 275.
[14] Quali risultati positivi possa dare una ricerca archivistica che muova dalla documentazione relativa a enti "medicanti" prodotta al tempo delle soppressioni si ricavano, per esempio, dalle ricerche di A. PIAZZA, I frati e il convento di San Francesco di Pinerolo (1248-1400), Pinerolo, Parlar di storia, 1993, pp. 46-55, 73-86.
[15] Sintetiche informazioni in G. ROMEO, L’Inquisizione nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 110-118, 132 s.
[16] Cfr. L’Inquisizione romana in Italia nell’età moderna. Archivi, problemi di metodo e nuove ricerche, a cura di A. DEL COL, G. PAOLIN, Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1991; A. DEL COL, “Strumenti di ricerca per le fonti inquisitoriali in Italia nell’età moderna”, Società e storia, 75, 1997, pp. 143-167; L’apertura degli Archivi del Sant’Uffizio Romano. Atti dei Convegni Lincei, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1998.
[17] Pionieristico e, pressoché unico, è lo studio di A. BIONDI, “Lunga durata e microanalisi nel territorio di un Ufficio dell’Inquisizione”, Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento /Jahrbuch des Italienisch-Deutschen Historischen Instituts in Trent, VIII, 1982, pp. 73-90.
[18] Esso ha avuto una recente trascrizione a opera di E. BONANNO, Liber inquisitionis, in L’inquisizione francescana nell’Italia centrale del Duecento, a cura di M. D’ALATRI, Roma, Istituto storico dei Cappuccini, 1996, pp. 209-338.
[19] L. RICCETTI, Archivio di Stato. Liber inquisitionis, in Chiese e conventi degli Ordini mendicanti in Umbria nei secoli XIII-XIV. Inventario delle fonti archivistiche e catalogo delle informazioni documentarie. Archivi di Orvieto, a cura di M. ROSSI CAPONERI, L. RICCETTI, Perugia, Editrice umbra cooperativa, 1987, pp. 85-100.
[20] Si veda in proposito la vicenda dei “quaterni imbriviaturarum” di Beltramo Salvagno notaio in Milano illustrata da M. BENEDETTI, Io non sono Dio. Guglielma di Milano e i Figli dello Spirito santo, Milano, Biblioteca francescana, 1998, pp. 11 e ss., 109 e ss.
[21] Il «De officio inquisitionis». La procedura inquisitoriale a Bologna e Ferrara nel Trecento, a cura di L. PAOLINI, Bologna, Ed. universitaria bolognina, 1976, pp. 16 («Secundus officialis post inquisitorem est vicarius inquisitoris»), 17 («Tertius officialis est cruce signatus»), 18 («Quartus officialis est potestas et quilibet rector»), 30 («Ultimo officiales officii inquisitionis sunt notarii, officiales et servitores»).
[22] Un settore documentario particolare (e poco studiato) è dato dalle norme antiereticali o proinquisitoriali nella legislazione pubblica di comuni, signorie e principati della penisola italiana. Si vedano, però, A. PADOVANI, “L’inquisizione del podestà. Disposizioni antiereticali negli statuti cittadini dell’Italia centro-settentrionale nel secolo XIII”, Clio, 21, 1985, pp. 345-393; T. SCHARFF, Häretikerfolgung und Schriftlichkeit. Die Wirkung der Ketzergesetze auf die oberitalienische Kommunalstatuten in 13. Jahrhundert, Lang, Frankfurt am Main 1996.
[23] Su veda, in generale, L. PAOLINI, Le finanze dell’inquisizione in Italia (XIII-XIV sec.), in Gli spazi economici della Chiesa nell’Occidente mediterraneo (secoli XII- metà XIV), Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e d'Arte, 1999, pp. 441-481, e, in particolare, M. BENEDETTI, Le finanze dell’inquisitore, in L’economia dei conventi dei frati Minori e Predicatori fino alla metà del Trecento, Spoleto, Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, 2004, pp. 363-401.
[24] Il «Liber contractuum» dei frati Minori di Padova e di Vicenza (1263-1302), a cura di E. BONATO con la collaborazione di E. BACCIGA, Roma, Viella, 2002. Su tale compilazione documentaria cfr. A. VAUCHEZ – L. PAOLINI, “In merito a una fonte sugli excessus dell’inquisizione medievale”, Rivista di storia e letteratura religiosa, XXXIX, 2003, pp. 561-578.
[25] A. RIGON, Conflitti tra comuni e Ordini mendicanti sulle realtà economiche, in L’economia dei conventi dei frati Minori e Predicatori, cit., p. 341.
[26] A. RIGON, Frati Minori, inquisizione e comune a Padova nel secondo Duecento, in Il «Liber contractuum», cit., pp. XVII e ss.
[27] Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di J. ALBERIGO et alii, Bologna, EDB, 1973, pp. 380-382.
[28] Corpus iuris canonici, vol. II, a cura di A. FRIEDBERG, Leipzig, ex officina Bernhardi Tauchnitz, 1879, coll. 1181 e ss.
[29] Su cui il recente I registri vescovili dell’Italia settentrionale (secoli XII-XV), a cura di A. BARTOLI LANGELI e A. RIGON, Roma, Herder, 2003.
[30] Texts and the Repression of Medieval Heresy, a cura di C. BRUSCHI e P. BILLER, Woodbridge, York 2003.