1. Gli studi di storia dell’Inquisizione sono in pieno sviluppo. Ne è
documento indiretto il volume di atti del simposio organizzato in Vaticano nel
1998 e diventato, nel corso della sua uscita a stampa, una raccolta anche di
contributi ulteriori fioriti a margine di quell’incontro.[1]
Il filone principale delle indagini si è sviluppato com’era
prevedibile in direzione dell’Inquisizione come tribunale e come burocrazia.
Ma non è venuta meno l’indagine sugli inquisiti: sotto le diverse
formalizzazioni giuridico-teologiche dei reati inquisitoriali – eresia,
lettura di libri proibiti, apostasia e false conversioni («marrani»),
stregoneria, magia, bestemmia ereticale, santità ‘affettata’, sollicitatio ad turpia, bigamia, abusi dei sacramenti e così via
– la conoscenza delle varie forme di intervento del tribunale della fede
si è intrecciata a quella dei processati, arricchendo di una folla di
nuovi protagonisti soprattutto il panorama della storia moderna tradizionalmente
intesa. Le novità sono state minori per l’età medievale.
Quella contemporanea rappresenta la frontiera della nuova espansione. Le iniziative
in corso sulla storia della censura e della lettura tra Ottocento e Novecento
e sulla storia delle controversie ideologiche filtrate dal Sant’Uffizio
(antisemitismo, razzismo, comunismo, questione dell’aborto etc.) lasciano
prevedere una decisa crescita appena verranno meno i vincoli posti alle carte
degli archivi ecclesiastici centrali.
La maggiore conoscenza fa sì che antiche forme di rifiuto preconcetto
di accostarsi alla materia sono state sostituite da una tendenza opposta: c’è
una vera e propria moda, alimentata dal ritorno di attualità dei conflitti
di religione e dalla ripresa generale della curiosità verso la religione
come ‘radice’ identitaria, come agenzia di offerta di significati.
Ma accanto a questo c’è anche la scoperta di un territorio sconosciuto
da esplorare senza preconcetti. Vorrei mostrare con un piccolo esempio il modo
in cui si sta trasformando sotto i nostri occhi la storia del tribunale dell’Inquisizione
e dei suoi membri. Un anno fa si è tenuto a Bologna un convegno di studi
dedicato all’opera di fra Leandro Alberti, domenicano e inquisitore a
Bologna intorno alla metà del Cinquecento e autore di una fondamentale Descrittione di tutta Italia, una vasta opera di descrizione geografica
e di narrazione storica nella quale per la prima volta l’Italia assume
il volto che ci è familiare, sia per l’articolazione regionale
sia per i confini che abbracciano non solo l’area peninsulare ma anche
le isole: qui l’Italia è presentata nei suoi connotati storici
e trova le ragioni della sua identità nella memoria della grandezza di
Roma e in quella degli antichi popoli italici, nella suddivisione regionale
disegnata da Roma, nella tradizione culturale e religiosa, nelle opere d’arte
e nei monumenti. Nel momento in cui si fissava il panorama europeo dell’età
moderna, fu dunque un frate inquisitore a fornire la ricognizione più
attenta e precisa della realtà italiana indicando quelle ragioni geografiche
e storiche di una fondamentale unità su cui doveva fare leva il movimento
per l’unità politica nell’epoca dell’emergere degli
ideali nazionali. L’importanza dell’opera dell’Alberti apparve
evidente a Jacob Burchkardt; ma il fatto che il suo autore fosse stato inquisitore
dell’eretica pravità ha contribuito a mantenerne l’opera
ai margini delle storie della cultura italiana di quel grande secolo. Se oggi
ci possiamo accostare a lui senza un pregiudizio ostile è perché
intanto abbiamo cominciato a fare i conti con la realtà storica dei tribunali
dell’Inquisizione e col peso che questa istituzione ha avuto nella formazione
dell’Italia moderna: in una diversa Italia le istituzioni di una mutata
Chiesa cattolica hanno dismesso lo strumento dell’Inquisizione. Perciò
un approfondito e pacato esame storico si va sostituendo alla battaglia ideologica
pro e contro l’Inquisizione. E così scopriamo una quantità
di cose che ignoravamo, sia sull’assetto istituzionale e sulla cultura
di quel tribunale sia sui modi del suo operato nel controllo delle idee, delle
letture e delle pratiche sociali. Questo senso della nostra ignoranza è
il dato nuovo fondamentale: è la curiosità di ciò che non
sappiamo la molla fondamentale che alimenta oggi una straordinaria quantità di ricerche non solo da parte degli storici italiani.
2. L’altro fattore per cui si può pensare con ragionevole ottimismo
che ci troviamo davanti a nuove prospettive di ricerca e ad una fase di forte
progresso degli studi di storia dell’Inquisizione nei nostri anni risiede
nel fatto che esistono nuove fonti disponibili e che per la prima volta si sta
producendo uno sforzo comune e convinto tendente a superare divisioni e mancanza
di comunicazione tra gli studiosi di paesi diversi o di epoche differenti. Il
programma di questa giornata ne è una prova. È lontano il tempo
in cui uno storico – John Tedeschi – avviandosi a studiare il funzionamento
dell’Inquisizione romana, dovette partire da un centone degli errori e
delle lacune delle conoscenze esistenti e da un primo elenco delle disperse
fonti storiche utilizzabili. Oggi il censimento degli archivi è diventato
– grazie anche a quello storico – un obbiettivo raggiungibile perché
perseguito sistematicamente con la collaborazione delle istituzioni e dei poteri
a ciò deputati. I decenni che ci dividono dalle sue prime indagini hanno
visto passi importanti nella duplice direzione di un confronto su metodi e problemi
tra studiosi di diversi paesi e di una sistematica opera di esplorazione delle
fonti: solo così si può sperare di uscire finalmente dalla molecolare
accumulazione di curiosità e di frammenti di storia strappati casualmente
a qualche deposito archivistico con lo stesso animo con cui nel XVI secolo i
«Libri dei martiri» protestanti strappavano alle prigioni dell’Inquisizione
romana frammenti di lettere e notizie di morti eroiche per farne strumento di
propaganda contro l’Anticristo romano.
Ma non è solo una storia di progressi quella che abbiamo davanti. Come
accade sempre nella ricerca scientifica autentica, non in quella raccontata
dai rotocalchi o dalle storie del progresso rettilineo una volta di moda, noi
avanziamo a fatica, con ritardi ed errori, non nell’astratto e asettico
laboratorio ideale ma in un mondo reale dove si tratta di fare i conti col mutare
della nostra stessa condizione e del punto di vista dominante nel nostro tempo.
Alla condanna indiscriminata è succeduta un’altrettanto indiscriminata
rivalutazione: ciò che suscitava discredito e rifiuto al solo nominarlo
come di storia nota e giudicata oggi è materia non solo di analisi specialistiche
ma anche e più spesso di valutazioni sintetiche a scopo divulgativo;
e tanto nei volumi e nei saggi accademici quanto nella letteratura divulgativa
domina il rovesciamento dei giudizi e dei punti di vista. Si tratti dei «supremi
inquisitori» del Cinquecento o dei papi del Novecento, le rivalutazioni
sono merce corrente nella borsa storiografica, tanto più esplicite quanto
più ‘laico’ è lo storico che le formula. Tutto questo
era largamente prevedibile, non solo per le oscillazioni a cui normalmente vanno
incontro temi e valutazioni storiografiche ma anche perché nel caso dell’Inquisizione,
dopo la condanna senza appello che ha dominato i secoli della modernità
europea, niente di più ‘post-moderno’ poteva esserci della
sua integrale rivalutazione.
Non è solo questione di moda: qualcosa di più profondo si cela
dietro l’andamento superficiale delle correnti ascendenti e discendenti
del gusto storiografico. Quando si guarda alla storia degli studi e al modo
in cui le generazioni che si sono succedute hanno portato di volta in volta
i loro contributi alla esplorazione di un grande tema storico come quello dell’Inquisizione
si ha l’impressione di essere pensati dal proprio tempo più di
quanto non si riesca a pensarlo. Su questo tema ogni epoca ha proiettato i problemi
che l’hanno più caratterizzata. Abbiamo alle spalle alcune grandi
fasi storiche che hanno rispecchiato le loro esperienze e le loro passioni nel
modo in cui hanno descritto e studiato, ma anche combattuto o difeso, l’Inquisizione.
C’è stato il tempo della controversia religiosa tra le Chiese,
quella dell’età della Riforma protestante e del Concilio di Trento,
la prima epoca in cui le opinioni su questo tipo di tribunale non solo si sono
confrontate con durezza ma hanno anche potuto avere il sostegno di forze politiche
e religiose di grande entità: l’accusa che il fraticello fra Michele
da Calci, condannato a morte per eresia, rivolgeva a chi lo portava al patibolo
di essere loro i veri colpevoli di un delitto contro la fede, divenne in quest’epoca
qualcosa di più della protesta della vittima. Mentre in Europa si aprivano
spazi di libertà ai dissenzienti e si sviluppava l’emigrazione religionis causa, la forza della propaganda di nuove Chiese e di interi
Stati faceva sue le accuse che i movimenti pauperistici del Medioevo avevano
scagliato contro il fasto della corte papale. Ne sono prova i manifesti a stampa
diffusi nella Germania del Seicento che rappresentavano il papa di Roma sontuosamente
abbigliato a cavallo a fronte della figura di un Cristo poveramente vestito,
a cavallo di un asino.[2] La forza suggestiva di un tema antico, quello del tradimento del modello di
Cristo da parte di una Chiesa corrotta dal potere e dalla ricchezza, trovava
così veicoli nuovi ed efficaci: più tardi la potente fantasia
di Dostoevskij doveva riprendere e rielaborare quel tema mettendo al centro
proprio l’Inquisizione. A quei critici risposero gli apologeti d’ufficio,
con argomenti che l’inquisitore spagnolo Luis de Páramo rielaborò
nella sua storia dell’Inquisizione e che si possono così riassumere:
necessità, provvidenzialità, eternità dell’ufficio
dell’inquisitore, ricoperto all’inizio dei tempi da Dio stesso quando
interrogò Adamo nell’Eden. Nella controversia si inserì
con argomenti nuovi la voce di fra Paolo Sarpi in difesa dell’autonomo
potere della Repubblica di Venezia di governare i comportamenti cristiani dei
sudditi. L’emergere dello Stato come realtà dotata di una sua autonoma
forza di controllo dei comportamenti dei sudditi valse allora a opporre ostacoli
alla pretesa romana di un potere diretto sulle convinzioni dei singoli e del
dovere esclusivo di indirizzarli alla via del Paradiso. Emerse così la
funzione della storia come sapere critico fondato sui documenti di contro alla
visione provvidenziale delle ragioni dell’istituzione inquisitoriale.
E fu proprio fra Paolo Sarpi, svolgendo i suoi compiti di consulente giuridico
della Repubblica di Venezia, a riportare dai cieli della Provvidenza al terreno
della storia la questione delle origini del tribunale: l’Inquisizione
– così Sarpi – non datava dagli inizi del mondo ma era nata
solo qualche secolo prima, per iniziativa papale.
3. Il secolo XVII fu dominato dai conflitti di giurisdizione tra Chiesa e Stato:
vi fu vivo perciò il confronto in materia dei poteri statali di governo
della religione e il conseguente ricorso all’opera del Sarpi insieme ad
altre scritture di tipo giuridico e politico, mentre in area protestante la
minaccia dell’intolleranza calvinista muoveva Philipp van Limborch a elaborare
una sua Historia Inquisitionis che consacrava l’accusa di intolleranza
al papato medievale, considerato come il creatore di un nuovo abnorme sistema
di potere. Sono tutti argomenti che confluirono nella cultura illuministica
a legittimare l’accusa di Montesquieu agli inquisitori di Spagna e le
pagine di Voltaire sulla intolleranza ecclesiastica. La lotta della migliore
cultura illuministica contro la superstizione e l’intolleranza fu dominata
dalla fiducia nella ragione umana e dalla esigenza di porre dei limiti all’arbitrio
del potere fondando nella legge i criteri per garantire libertà di commercio
intellettuale e di scambio tra tutti gli uomini. Era inevitabile che l’Inquisizione
ecclesiastica vi figurasse come l’incarnazione stessa del male. Fu così
che, mentre la pubblicistica storica e giuridica muoveva accuse durissime all’Inquisizione,
l’età delle riforme illuminate, della Rivoluzione francese e del
regime napoleonico portò alla abolizione di molti tribunali, in Italia
e fuori, inclusi quelli dell’Inquisizione spagnola e alla crisi di quella
romana. La vittoria della libertà di coscienza guadagnò allora
tutta l’opinione colta europea e divenne sostanza di legge nei codici
di età napoleonica, mentre la difesa dell’Inquisizione veniva condotta
soltanto dalle retrovie di una Chiesa in aperta rottura col mondo moderno. E
fu allora che cominciarono a uscire documenti dagli archivi e a venire alla
luce opere di storia generale sull’argomento, rinnovandosi il conflitto
tra accusatori ed apologeti, ma con argomenti diversi e nuovi. Si pensi alle
grandi opere di Llorente sull’Inquisizione spagnola, o di Henry Charles
Lea su Inquisizione, celibato ecclesiastico e confessione sacramentale. L’opposizione
fu tra liberali e clericali: da un lato coloro che rifiutando alla struttura
ecclesiastica ogni diritto di intromissione nella sfera pubblica, affidavano
alla legge dello Stato la tutela della libertà di coscienza e relegavano
la scelta religiosa nell’interiorità delle convinzioni individuali;
dall’altro lato ci fu una difesa accanita soprattutto – ma non solo
– da parte di ordini religiosi fedeli al Papato tesi a dimostrare che
l’Inquisizione era stato un tribunale tanto necessario quanto giusto;
storici cattolici come Cesare Cantù sostennero il buon fondamento dell’azione
inquisitoriale nella presenza di tendenze ereticali forti e diffuse. L’apologetica
trovò alimento nella diffusa cultura romantica reazionaria per la quale
l’Inquisizione aveva svolto una fondamentale funzione sociale nel conservare
e tutelare l’ordine armonioso di un mondo gerarchicamente strutturato:
l’argomento è al centro delle Lettres à un gentilhomme
russe sur l’Inquisition espagnole di Joseph de Maistre. L’apologetica
non è mai venuta meno e ha potuto anche dare voce ad aspetti che non
trovavano posto nelle sommarie condanne di un tribunale visto come arbitrario,
dispotico, superstizioso e crudele. Dal vivo della controversia è stata
stimolata una curiosità aguzza e implacabile concentrata sulle fonti
storiche. Così per l’eterogenesi dei fini la ricerca storica è
andata avanti sulla base delle fonti disponibili, cosicché il confronto
non è rimasto una guerra di trincea ma si è spostato via via sul
terreno dell’analisi filologica e storica di fonti e di casi. Oggi è
su questo terreno della conoscenza precisa e concreta di istituzioni, norme,
giudici e vittime che gli storici si misurano. Non è certo venuta meno
la divergenza di punti di vista né è scomparsa la polemica sul
posto da assegnare all’Inquisizione nella storia europea: ma i tentativi
di rivitalizzarla appaiono spesso pretestuosi, forme di ricerca del clamore
e della notorietà, sfruttamento degli effetti pubblicitari da sempre
garantiti a chi fa mostra di muoversi con sicurezza nelle «caves du Vatican»
e di scoprirvi clamorose novità sui temi scottanti della storia del papato,
dai tempi di Machiavelli a quelli di Hitler. Ma in generale vale l’osservazione
di Grado Giovanni Merlo: «Per nostra fortuna, sono lontani i tempi così
del pur benemerito Henry Charles Lea come dell’altrettanto benemerito
Jean-Baptiste Guiraud. Siamo molto più liberi, anzi siamo liberi da pregiudizi
anticlericali e da esigenze apologetiche».[3] Un segno positivo del nostro tempo è costituito dal fatto che gli storici
laici dialogano pacatamente sulla base delle fonti con i membri dell’ordine
domenicano che portano senza vergognarsene l’eredità storica dei
tribunali inquisitoriali. Naturalmente questo non ci deve far dimenticare una
cosa importante: dietro le concrete conoscenze storiche è rimasta una
divaricazione di orizzonti ideali tra i sostenitori della bontà del sistema
che si espresse col tribunale dell’Inquisizione e coloro che lo considerano
una pagina nera del nostro passato, qualcosa di cui bisogna combattere sopravvivenze
e metamorfosi.
Ma poiché stiamo percorrendo a rapidi passi lo scenario della storiografia
del passato e poiché siamo giunti alla fase del trionfo dello Stato nazionale
e dell’ideologia liberale, dobbiamo ricordare un fatto importante: proprio
allora doveva fare nuovi progressi l’intuizione della forza della religione
come energia suscitatrice di realtà politiche ma anche come mezzo per
sottomettere all’obbedienza le società – intuizione che aveva
caratterizzato l’opera di Niccolò Machiavelli e gli aveva suscitato
contro una reazione di violenta ostilità. L’età dello Stato
nazione coincise con l’affermazione del liberalismo. Chi credette nei
valori del mondo moderno condannati da Pio IX col Sillabo cercò nella
storia la conferma della progressiva affermazione dei principi di libertà
della coscienza individuale. Per i paesi come l’Italia e la Spagna la
questione riguardava il loro diritto a entrare in un concerto europeo da cui
l’intolleranza le aveva escluse. Si avviò così una storia
delle vittime dell’Inquisizione, restando sullo sfondo la macchina feroce
dell’intolleranza come realtà immobilmente astorica, da combattere.
Storia di eterodossi in Spagna, di eretici in Italia. La materia passò
dalla controversia confessionale all’ambito della riflessione sulle culture
e sulle storie nazionali e lì doveva rimanere a lungo.
4. Nei movimenti ereticali del Medioevo e nelle idee degli eretici dell’età
moderna la cultura storica italiana tra Ottocento e Novecento (si pensi in particolare
alla storiografia valdese e all’opera di Gioacchino Volpe e di Giuseppe
Saitta) andò ricercando le tracce dello sviluppo di una moderna religiosità
del popolo italiano ostacolata dalla superstizione e dall’intolleranza.
La macchina inquisitoriale restava sullo sfondo, oggetto fuori della storia,
relitto di un passato che non meritava investimento di ricerca consegnato com’era
alla negatività pura e semplice. Questa semplificata visione della nostra
storia rispondeva al bisogno di considerare soprattutto le premesse storiche
che potevano consentire di integrare l’Italia nel mondo moderno: il dissenso
dottrinale figurava in questo disegno come un fattore di modernità, i
‘nostri protestanti’ permettevano di trovare linee di continuità
con l’evoluzione dell’Europa più avanzata economicamente
e politicamente. Storia di minoranze perseguitate e di esuli per motivi di religione,
la modernità italiana era come un rivolo nascosto, un filo rosso da raccogliere
nel momento in cui, scrollandosi da dosso l’arretratezza economica e la
chiusura culturale, l’Italia bussava alla porta delle grandi nazioni europee
e chiedeva di essere riconosciuta come loro pari. Il celebre modello di Max
Weber che ritrovava l’origine del capitalismo moderno nella razionalità
dei comportamenti governati dalla morale ascetica del protestantesimo relegava
ai margini del mondo moderno le nazioni del lato mediterraneo del continente
europeo. Fu qui che le ricostruzioni dei movimenti religiosi e delle sette ereticali
nel lungo passato medievale e moderno assunsero il valore di una esplorazione
della società che, al di sotto della apparente immobilità di un’ortodossia
di facciata, ribolliva di conflitti e di tensioni e preparava l’affermazione
di valori combattuti dalla struttura ecclesiastica in discorde concordia con
le classi dominanti.
Il caso italiano fa parte del più generale percorso delle storiografie
nazionali, ciascuna più o meno legata alla questione della legittimazione
di quella che oggi si chiama identità e un tempo si chiamava nazionalità:
dal loro punto di vista l’Inquisizione in Italia coincideva con la presenza
stessa della Chiesa di Roma, ostacolo alla unità politica e gli eretici
erano visti come gli eredi della grande cultura del Rinascimento; in Spagna
e in Portogallo l’Inquisizione era la religione guerriera e compatta,
il vessillo dell’unità e della cattolicità del popolo contro
le tendenze centrifughe di gruppi minori. E così via.
La percezione di nuove inquietanti dimensioni del problema storico dell’Inquisizione
doveva venire dall’opera di uno scrittore e non di uno storico. La «leggenda
del Grande Inquisitore» di Dostoevskii, nutrita di un cristianesimo ortodosso
diffidente verso la Chiesa di Roma e verso la cultura teologica e politica del
cristianesimo occidentale, doveva dar vita al modello di un controllo integrale
del mondo in conflitto con la forza trasformatrice e inquietante del Vangelo:
potere totale sui pensieri, capace di soddisfare le esigenze umane mentre elimina
la libertà, il Grande Inquisitore dà forma a uno spettro destinato
a diventare reale nel secolo successivo. Se ne ha la prova nel modo in cui il
sogno del Grande Inquisitore doveva ripresentarsi negli scritti di sapore escatologico
di pensatori russi – Vladimir Soloviev e Nicolai Berdiaiev – riaffacciandosi
infine nella concezione di Carl Schmitt come secolarizzazione di un concetto
teologico: la garanzia di un ordine giuridico affidata a valori religiosi, che
risulterebbe dall’equilibrio tra un regno di Dio atteso e una fondazione
religiosa del potere come se il regno di Dio fosse già qui.[4] Su questa interpretazione di tipo per così dire apocalittico-reazionario,
elaborata da pensatori profondamente critici nei confronti della modernità,
è nata a ben vedere anche l’attuale moda di una Controriforma vista
come età di straordinaria ricchezza e fioritura culturale ma anche come
epoca di originale interpretazione del proprio ruolo da parte della Chiesa cattolica
nei confronti della crescente potenza dello Stato assoluto. Da questo punto
di vista l’Inquisizione non è che uno degli strumenti attraverso
i quali si mantiene in vita l’ordine del dover essere cristiano e viene
arginata l’avanzata dello Stato moderno verso il controllo di un potere
totale. Ciò che consentirebbe alla Chiesa della Controriforma di frenare
l’avanzata del moderno Anticristo – la sovversione della Riforma
calvinista (XVI secolo) del libero pensiero illuminista (Settecento), della
rivoluzione (nel Novecento) – e di ostacolare quello Stato moderno che
garantisce uno spazio neutro aperto a tutti, è proprio il suo sistema
giuridico messo al servizio di una missione universale di salvezza. In questo
rientra dunque l’Inquisizione.
Vale la pena ricordare questo orientamento per renderci conto che la crisi della
modernità non ha risparmiato le più apparentemente tranquille
sistemazioni della nostra galleria di antenati, talché – mentre
la Chiesa cattolica ha liberato le coscienze dei credenti con un atto di purificazione
fondato sul riconoscimento del carattere poco evangelico di sue antiche realtà
inclusa l’Inquisizione – sono i punti di vista di tipo reazionario
a riproporre come merce nuova la difesa un tempo normale del potere della Chiesa
di legare le coscienze al carro di un sovrano o di un capo politico (come scriveva
Botero nella Ragion di Stato secoli orsono). E si ricorda questa tesi
più o meno esplicitamente articolata perché essa influenza certamente
qualche rivolo della storiografia recente, dimostrando una volta di più
che gli storici vedono spesso nel passato ciò che il loro tempo consente
di vedere o ha bisogno di vedere. L’ombra di Carl Schmitt e della sua
idea della «teologia politica» grava sulle riflessioni del nostro
tempo come l’incarnazione del «grande Inquisitore» di Dostoevskii:
lo ha scritto Jacob Taubes, ricordando un colloquio nel quale «Schmitt
mi disse effettivamente che chi non comprende che il Grande Inquisitore ha completamente
ragione nei confronti di ogni pietà esaltata verso Gesù, non capisce
né la realtà della Chiesa né ciò di cui Dostoevskii
si era fatto inconsapevolmente portatore, spinto dalla verità intrinseca
del problema affondato».[5]
L’esposizione del percorso del tema sia pur sommariamente considerato
permette di affermare che l’argomento «Inquisizione» gode oggi
di una nuova attualità. È bene evocare le ragioni di questo per
evitare che inconsapevoli o non ben chiarite ragioni di carattere ideologico
facciano ombra al nostro lavoro di storici, che è quello di accertare
la verità. E su tutte sovrasta una ragione di carattere generale: dopo
l’11 settembre – ha scritto qualcuno – i politici farebbero
bene a studiare la teologia. Non solo loro, visto che le azioni politiche anche
le più sconvolgenti e terribili, le scelte dei poteri mondiali incluse
le campagne militari, si esprimono con linguaggi e immagini religiose. Tutto
questo impone che si torni a riflettere su qualcosa che altre generazioni hanno
sperimentato e conosciuto: la forza della religione come fattore di storia.
Come fare fronte all’intolleranza che rialza la testa in un mondo che
sembrava fino a poco fa avviato al trionfo della razionalità e dei diritti
civili? Studiare attentamente la più grande realtà di un tribunale
armato in difesa della fede con potere esteso sulle coscienze sembra il compito
più urgente per la nostra cultura.
5. Siamo giunti così a evocare le condizioni presenti – quelle
reali, disegnate dai rapporti di forza – in cui si svolge la nostra ricerca.
Concluderemo ora con qualche osservazione sulle ragioni che ci fanno ritenere
possibile di giungere per la nostra parte a segnare un momento importante di
avanzata e di consolidamento delle conoscenze storiche.
E qui passiamo a vedere le ragioni che militano a favore del nostro progetto:
che è semplicemente quello di favorire con strumenti adeguati l’unificazione
del campo di studio e la creazione di strumenti di conoscenza di una qualità
adeguata ai mezzi e alle curiosità del nostro tempo.
Oggi col deperimento e secondo alcuni con la prossima scomparsa dello Stato
nazionale e con l’avvio della costruzione di grandi sistemi sovranazionali
appare superato il lavoro delle storiografie dell’Ottocento e del primo
Novecento, legate ai limiti e ai confini degli Stati nazionali e si pone per
la prima volta in tutta evidenza la necessità di studiare l’Inquisizione
come fenomeno unitario. Una necessità che oggi ha trovato la via per
diventare realtà grazie all’apertura dell’archivio storico
dell’Inquisizione romana. Gli storici sono legati alle fonti e quando
si aprono nuovi archivi è il panorama delle conoscenze che si allarga
e si rinnova. Questa è precisamente la situazione odierna, che è
mutata da quando con una serie di ricerche si sono conquistati nuovi fondi archivistici,
ma anche e soprattutto da quando per iniziativa dello stesso pontefice regnante
la Chiesa cattolica ha avviato l’apertura dell’archivio del Sant’Uffizio.
Come esempio di ciò che vi abbiamo guadagnato si potrebbero citare molti
casi di vicende e di personaggi e di libri che i tanti studiosi confluiti a
sfogliare quelle carte stanno portando alla luce. Ma qui preme piuttosto un
altro punto, per spiegare il quale possiamo citare l’osservazione con
cui il cardinal Roger Etchegaray ha presentato il volume frutto del convegno
vaticano del 1998 giustificando il titolo di «Inquisizione» al singolare.
È un punto fondamentale: contro ogni tendenza a sciogliere l’argomento
in tanti rivoli e a riporlo negli alvei degli Stati si tratta invece di mettere
in primo piano l’assetto istituzionale e il carattere ecclesiastico del
tribunale. Questo è ciò che la distingue dalle altre magistrature
che nella storia hanno perseguito eretici o censurato testi: il fatto che un
preciso tribunale ecclesiastico assume il compito di giudicare in materia di
eresia come scelta difforme dalla ortodossia. Ed ecco che, da questo punto di
vista, si chiarisce anche il modo di lavorare degli storici: si tratta di unificare
il campo dell’indagine e di mettere in primo piano il punto della delega
papale del potere di giudicare. È questo che costituisce il carattere
proprio dell’Inquisizione ecclesiastica. La piuttosto affollata storia
di quelle che Borges avrebbe definito altre Inquisizioni mostra che molti altri
tribunali e poteri hanno processato eretici e censurato idee e testi, in nome
dell’obbedienza ad un potere e ad una ideologia. Ma si trattava di tutt’altra
cosa rispetto al tribunale dell’Inquisizione nato dalla delega papale
e destinato a preoccuparsi per la salvezza delle anime.
Intorno a questo centro immobile ruotano i pianeti delle varie diramazioni statali
e locali. È per questo che l’apertura dell’archivio della
Congregazione Vaticana per la Dottrina della Fede ha permesso di scoprire il
centro dei segmenti della circonferenza sui quali ci eravamo affaticati. E partendo
da questo centro e approfittando della conseguente augurabile apertura dei depositi
documentari residui ancora non studiati possiamo porci l’obbiettivo di
ricostruire il disegno nel suo insieme e di rispondere alla domanda: che cosa
era la macchina inquisitoriale? Per fare questo, è urgente un cambiamento
di ottica negli stessi studiosi che li ponga al giusto livello dei problemi
che si pongono. Nel lavoro di collaborazione intellettuale la messa in comune
degli strumenti e la possibilità di verifica rappresentano una condizione
indiscutibilmente preliminare. È finito il tempo in cui il frammento
di processo scovato in un deposito ignoto a tutti o addirittura precluso alla
consultazione ordinaria poteva segnare il successo di un fortunato scopritore.
Oggi l’accessibilità delle fonti, la loro rapida consultabilità
via Internet avvicinano alla curiosità di ogni indagatore ciò
che una volta era riservato ai pochi esperti in grado di accedere ad archivi
remoti. La cultura universitaria deve rispondere alle esigenze attuali dimostrando
di poter guidare nella maniera migliore la creazione degli strumenti, pena una
ulteriore avanzata della minaccia di irrilevanza e di marginalità che
oggi la riguarda. Nel campo della storia dell’Inquisizione il censimento
degli archivi in un paese come l’Italia che possiede tra le altre sue
ricchezze culturali un vasto deposito di fonti primarie rappresenta un passo
avanti decisivo e non più rinviabile. E poi davanti a noi resta una vasta
gamma di strumenti informativi di qualità che sarebbe lungo elencare.
Alcuni di noi stanno lavorando ad esempio alla redazione di un Dizionario dell’Inquisizione
che dovrà raccogliere l’informazione essenziale su tribunali e
vittime di aree diversissime, dall’America Latina a Goa, dal Portogallo
alla Francia. E tutto questo senza interrompere indagini che hanno dato vita
a studi di grande qualità. L’ingegno non manca agli storici italiani,
anche a quelli di nuove generazioni che lavorano per ora al di fuori del recinto
universitario sempre più gravemente inaccessibile ai giovani. A loro
si devono opere di grande importanza che hanno portato nuova luce sulla storia
delle Inquisizioni del Portogallo e della Spagna, per fare qualche esempio.
Ma nella creazione di strumenti di lavoro collettivo occorre un salto di qualità,
non potendosi progettare la loro realizzazione senza un impegno serio da parte
delle istituzioni che governano la ricerca nel nostro paese. Già all’epoca
della prima notizia dell’apertura dell’archivio dell’Inquisizione
chi parla fece presente in una memoria per l’allora ministro dell’Università
e della ricerca scientifica che non si doveva ripetere il fenomeno dell’assenza
italiana da una impresa di studio che richiedeva istituzioni e mezzi appositi,
come era accaduto quando Leone XIII aveva aperto l’Archivio segreto vaticano.
Quella memoria rimase senza risposta: e gli istituti di altri paesi avviarono
invece programmi di ricerche organiche attraverso i loro istituti romani. Da
noi, l’opera pionieristica dello storico Armando Saitta aveva progettato
negli anni settanta sia un’opera collettiva che fu intitolata «Onomasticon
dell’Inquisizione», sia un confronto fra storiografie coinvolgendo
in particolare l’allora giovane storiografia spagnola. Ma la scomparsa
prematura di Saitta e la precarietà dei mezzi fecero arenare il progetto.
Ai nostri giorni, la cultura accademica italiana è capace di mettere
bastoni fra le ruote agli studi altrui, come dimostra la relazione anonima che
ha consentito di non erogare un finanziamento alla ricerca nazionale sulla storia
dell’Inquisizione da me diretta, ma non è altrettanto brava nel
creare occasioni e strumenti di lavoro. Ci auguriamo che almeno questa proposta
possa trovare un clima diverso e una adeguata sensibilità.
6. Una considerazione conclusiva su di un case study permetterà di esemplificare gli intrecci tra storia della macchina inquisitoriale e forme simboliche del potere in età moderna. Il documento che fa da sfondo al programma a stampa di questo seminario di studio evoca alcune caratteristiche dell’istituzione di cui parliamo in questa occasione. Si tratta della definizione di una dottrina relativa alla Madonna, madre di Dio e al suo rapporto col peccato originale. Il dogma dell’Immacolata Concezione doveva essere definito come tale solo alcuni secoli dopo, ma quel documento del 31 agosto 1617 (qui riprodotto sullo sfondo del programma) siglò un passaggio importante di una crisi che oppose Spagna e Santa Sede. La Spagna dei sovrani asburgici era il più grande impero che l’Europa avesse mai visto, abbracciando l’intera penisola iberica, le dipendenze italiane, i possedimenti coloniali estesi in tutto il mondo. Un vincolo forte lo univa con l’impero germanico attraverso l’altro ramo degli Asburgo che dominava in Austria. Era un impero che nella sua sterminata grandezza raccoglieva una quantità di tensioni e di conflitti: c’era la guerra coi Paesi Bassi da cui doveva uscire l’indipendenza dell’Olanda, stava per scoppiare la guerra dei Trent’anni, in America ardeva il conflitto con gli Araucani in Cile e una serie di contrasti minori, mentre all’interno del territorio spagnolo propriamente detto era in corso un processo di accentramento e di unificazione avviato da tempo ma ancora ricco di difficoltà: paese abitato da popolazioni diverse per lingua, religione e cultura, la Spagna aveva avviato un processo di nazionalizzazione a base religiosa espellendo o costringendo alla conversione i membri della minoranza ebraica e ora stava battendo la stessa strada con l’altra minoranza, quella musulmana di origine o ‘morisca’. Cancellate le differenze religiose, fu imposta una capitale nuova di zecca, Madrid e si dispose la cancellazione delle differenze di lingua, di costumi, di tradizioni. La finale espulsione dei moriscos che il grande pittore Velázquez rappresentò con la scena straziante di un popolo assiepato sulla riva del mare pronto a imbarcarsi per l’Africa, rappresentò una tappa significativa del processo di unificazione nazionale, dominato dalla volontà di una dinastia che fece della religione lo strumento di compattamento identitario di un popolo dalle diversissime tradizioni. Fu proprio osservando l’esperimento avviato in Spagna dal re Ferdinando il Cattolico che gli storici e politici italiani Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini ragionarono sull’uso della religione come strumento di potere, instrumentum regni, ponendo i fondamenti di una interpretazione delle funzioni di potere della religione ben nota nella storia europea e che ha goduto nel secolo scorso di rinnovata attualità sotto il nome di «teologia politica». In tutto questo la devozione alla Madonna Immacolata ebbe una funzione decisiva. La tradizione devota che voleva la Madonna immune fin dal primo istante di vita dalla macchia del peccato originale aveva una lunga storia alle spalle quando nel primo Seicento proprio in Spagna fu dato avvio a una forte propaganda a favore della dottrina del concepimento immacolato di Maria: propaganda sostenuta da potenti ordini religiosi, i Francescani e i Gesuiti, e appoggiata decisamente dalla monarchia. Sull’episodio lo scrivente sta portando avanti da qualche tempo una ricerca, di cui qui si indica sommariamente il tema solo per segnalare come intorno alle deliberazioni della Congregazione del Sant’Uffizio si concentrassero e si scontrassero nuove forme del moderno processo di nazionalizzazione. Ma per seguire in modo sistematico il frangersi e rifrangersi di ondate devote, di forme di propaganda e di costruzione di identità collettive in cui furono coinvolte le reti del controllo ecclesiastico è indispensabile la messa a punto di uno strumento adeguato di informazione sugli archivi inquisitoriali. È dunque augurabile che l’iniziativa promossa e pazientemente messa in piedi da esperti studiosi ed archivisti abbia il successo che merita.
[1] L’Inquisizione. Atti del simposio internazionale (Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998), a cura di A. BORROMEO, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003 [ma 2004] (Studi e testi, 417).
[2] I manifesti di questo tipo sono riprodotti in German Political Broadsheet.
[3] Praedicatores, Inquisitores I: The Dominicans and the Mediaeval Inquisition, Acts of the 1st International Seminar on the Dominicans and the Inquisition (Rome, 23-25 February 2002), ed. W. HOYER O.P., Romae, Institutum Historicum Fratrum Praedicatorum, 2004, p. 15.
[4] Su Carl Schmitt e la questione della teologia politica si è scritto e si continua a scrivere moltissimo. Qui basti rinviare al recente lavoro, disuguale e spesso confuso ma comunque utile, di T. PALÉOLOGUE, Sous l’oeil du Grand Inquisiteur. Carl Schmitt et l’héritage de la théologie politique, Paris, Cerf, 2004, rielaborazione di una tesi di dottorato sulla filosofia di Soloviev.
[5] J. TAUBES, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, Berlin 1987, p.15 (il testo è citato da T. PALÉOLOGUE, Sous l’oeil cit., p.12).