Massoni, streghe e vampiri nella storiografia italiana del primo Settecento

Davide Arecco - Giovanni Ghiglione

La repubblica letteraria e le pratiche latomistiche

1. In un passo poco letto degli Annali d’Italia, composto presumibilmente verso il 1750, il Muratori scrisse che

era negli anni addietro nata in Inghilterra una setta appellata de’ Liberi Muratori, consistente nell’unione di più persone, e queste ordinariamente nobili, ricche o di qualche merito particolare, inclinate a solazzarsi in maniera diversa dal volgo. Con solennità venivano ammessi i nuovi fratelli a questo istituto, e loro si dava giuramento di non rivelare i segreti della società. Raunavansi costoro di tanto in tanto in una casa eletta per loro congresso, chiamata la Loggia, dove passavano il tempo in lieti ragionamenti e in deliziosi conviti, conditi per lo più da sinfonie musicali. Verisimilmente aveano essi preso il modello di sì fatte conversazioni dagli antichi Epicurei, i quali, per attestato di Cicerone e di Numenio, con somma giovialità e concordia passavano l’ore in somiglianti ridotti. D’Inghilterra fece passaggio in Francia e in Germania questo rito. E in Parigi fu creduto che si contassero sedici loggie, alle quali erano ascritti personaggi della primaria nobiltà.[1]

Nell’anno 1738, proseguiva lo storico modenese,

si tenne per certo che anche in alcune città d’Italia penetrasse e prendesse piede la medesima novità. Contuttoché protestassero costoro essere prescritto dalle loro leggi di non parlare di religione né del pubblico governo in quelle combricole e fosse fuor di dubbio che non si ammetteva il sesso femineo, né ragionamento di cose oscene, né v’era sentore d’altra sorte di libidine: nondimeno i sovrani, e molto più i sacri pastori, stavano in continuo batticuore che sotto il segreto di tale adunanze, renduto impenetrabile pel preso giuramento, si covasse qualche magagna pericolosa e fosse pregiudiziale alla pubblica quiete e ai buoni costumi. Però il sommo pontefice Clemente XII nell’anno presente stimò suo debito di proibire e di sottoporre alle censure la setta de’ Liberi Muratori. Anche in Francia l’autorità regia s’interpose per dissipar queste nuvole, che infatti da lì a non molto tempo si ridussero in nulla, almeno in quelle parti e in Italia. Fu poi cagione un tal divieto e rovina, che più non credendosi tenuti al segreto, i membri d’essa repubblica, dopo il piacere d’aver dato lungo tempo la corda alla pubblica curiosità, rompessero gli argini e divolgassero anche con pubblici libri tutto il sistema e rituale di quella novità. Trovossi terminare essa in un’invenzione di darsi bel tempo con riti ridicolosi, ma sostenuti con gran gravità, né altra maggior deformità vi comparve se non quella del giuramento del segreto preso sul Vangelo per occultar così fatte inezie.[2]


2. Secondo Muratori, dunque, da una parte l’“epicureismo” di Cicerone e del pitagorico Numenio di Apamea – cristianizzato appena un anno prima, nel 1737, dal Bertin – e dall’altra la filosofia di deisti e libertini sono, a metà del XVIII secolo, le vere fonti occulte della Massoneria.[3] Come ha fatto osservare Giuseppe Giarrizzo, l’abate doveva allora avere già letto il lemma “Muratori Liberi”, incluso nel tomo VI del Nuovo Dizionario (1747) di Gian Francesco Pivati.[4] Muratori non dice quanto la guerra avesse potuto rappresentare per l’istituto massonico un’occasione realmente imperdibile, per rinascere a nuova vita, per dilatare – sia pure nella centralità rivestita dall’ispirazione lucreziana e spinozista – lo spazio socio-culturale venutosi a creare e ora occupato ricorrendo sempre più spesso alla trama esoterica. In Austria, nei primi anni quaranta del secolo, sono del resto attivi fratelli già iniziati in Inghilterra oppure in Olanda, stretti attorno all’osservanza prussiana. Nonostante lo scioglimento repentino della prima grande loggia viennese, fondata nel 1742, la nuova guerra di successione avrebbe reso possibile – anzi facilitato sul piano politico ed istituzionale – la straordinaria diffusione europea della Massoneria. E, a guerra finita, militari e diplomatici sarebbero tornati a tessere sul continente la tela muratoria.[5] Nelle zone limitrofe dell’Impero asburgico era lo stesso. Fin dall’ottobre del 1740, a testimoniare una sempre viva attenzione di parte ecclesiastica, il Gaspari scrisse a Muratori una lettera, in cui lo informava che

a Innsprugg, capitale del Tirolo, sonovi alcuni cavalieri di spirito, amanti delle buone lettere. Or questi, ad imitazione di Salisburgo, sono ivi da tutto il popolaccio proclamati per liberi Muratori.[6]


Analoghi percorsi, mentre Muratori attendeva alla stesura degli Annali, faceva registrare in quegli anni la Francia di Luigi XV. Qui, il decollo latomistico venne avvertito soprattutto in provincia e fece registrare alla fine del decennio una costante accelerazione. Quanto mai vario era il contesto sociale – si andava dai nobili più tradizionalisti agli alchimisti in odore di ciarlataneria – cui il rinnovato quadro massonico francese concorreva. Come ha segnalato ancora Giarrizzo, la scelta papale consacrata nella bolla In eminenti di Clemente XII – e inopportuna per lo stesso Muratori – finì per contribuire a fare della Massoneria e dei suoi adepti un oggetto d’interesse crescente da parte dell’opinione pubblica – lo attestano le gazzette dell’epoca – aprendo il capitolo, destinato a risultare in futuro sempre più ricco di presenze anche ingombranti e tendenziose, della letteratura anti-massonica e della libellistica cosiddetta d’inchiesta. Lo stesso caso Crudeli non si chiuse con la scomparsa del poeta toscano.[7] I fratelli inglesi, i quali ebbero un ruolo fondamentale nella creazione e nel reclutamento, auspice l’intervento di Antonio Cocchi,[8] della loggia fiorentina, non si lasciarono sfuggire l’occasione per reiterate denunce contro la ferma invadenza pontificia. Nell’aspra critica ai vistosi limiti della politica anti-latomistica romana, il modello di fondo era quello di una repubblica massonica, intesa quale società di pensiero alla Toland,[9] in cui la rilettura panteistica di Cicerone – quello del De senectute, delle Tusculanae e naturalmente del De divinatione – si sposava con una filosofia della libertà di stampo egualitario, a sua volta fondata sul giuramento in verba magistri. Suggestioni, i cui echi si riverberavano pure nella traduzione, di Antonio Conti, del Rape of the Lock di Alexander Pope, di cui si esaltava il debito verso il Conte di Gabalis.[10]

3. Il confronto, o meglio la sfida dell’Inquisizione – non solo nella vicenda drammatica patita dal Crudeli – pose inevitabilmente in primo piano, anche agli occhi attenti ed illuminati di Muratori, l’Inghilterra, patria della Massoneria e della scienza newtoniana, della tolleranza religiosa e della libertà di opinione e di stampa.[11] Il variopinto mondo delle logge non fu, dunque, solo una delle molteplici vie attraversate dalla crescente anglomania europea. La Massoneria finì presto con il rappresentare il modello stesso di cultura inglese, al pari se non meglio dei Principia di Newton (comprensibili a tutti solo nei compendi del Pemberton). Così guardarono ad essa il Cocchi e il Pivati, con la loro concezione di una medicina al servizio del “pubblico bene”, così Francesco Algarotti, nell’immediata vigilia della sua lunga trasferta berlinese,[12] Scipione Maffei e lo stesso Muratori, quest’ultimo vicino anche agli ambienti di Vienna, dove operavano Bernardo Andrea Lama e gli altri intellettuali – fautori del metodo storico-filologico negli studi biblici – della cerchia raccolta intorno a Pietro Giannone.[13]
Non meno utile, ad arricchire ulteriormente un quadro già di per sé molto colorato, fu la celebre controversia a distanza tra Muratori e Maffei in merito alla stregoneria.[14] In realtà, non si trattò di un vero e proprio scontro, ma più precisamente della disputa che oppose il muratoriano Tartarotti, il quale terminò nel 1744 il secondo libro Del congresso notturno delle lammie,[15] ed il maffeiano Gian Rinaldo Carli, che ne prese visione nell’autunno dell’anno successivo.[16]
Al centro della discussione stava la distinzione tra le streghe e i maghi, distinzione che né il Carli né il medico Antonio Rossi – un amico di entrambi i contendenti – accettavano. Il Rossi riconduceva la magia alla stregoneria. Da parte sua, Carli argomentava che la magia era da ritenersi una sorta di figlia spuria del pitagorismo, basata su una rappresentazione animistica del mondo e sull’idea rinascimentale di una riposta corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo.[17]
Era l’illusione di potere commerciare con la realtà soprannaturale, a parere di Carli, a sostenere le povere streghe. Una tesi respinta dal Tartarotti, il quale insisteva sulla diversità tra magia e stregoneria, facendo notare – muratorianamente – che, se la prima pare una corruzione del pensiero, la seconda si configura come un prodotto della fantasia umana. La magia era per Tartarotti soprattutto un parto della umana ignoranza, al più il frutto di un’impostura sacerdotale, motivo squisitamente legato al filone del libertinismo del tardo XVII secolo.[18] Insomma, una pseudo-scienza, mentre la stregoneria veniva intesa dal seguace di Muratori come una semplice chimera, non lontana dal fanatismo popolare. Fu la disputa a convincere Tartarotti, sino ad allora riluttante, a scrivere un primo libro sulla identità della Società Dianiana con la moderna stregoneria e un terzo sulle gravi conseguenze della “opinione del Congresso notturno”. I tre libri videro la luce a Rovereto, stampati dal Pasquali, nel 1749, insieme con la lettera di Carli e una sua apologia, risalenti al 15 giugno di tre anni prima.[19]

4. Il Maffei, in quale – a partire dal 1729 – era maestro in una loggia di rito inglese, intervenne da parte sua a difesa del “fratello” Carli, pubblicando in favore dell’illuminista istriano una Arte magica dileguata (1749). Muratori, a questo punto, non poté più esimersi dall’intervenire in prima persona, con una lettera a sostegno delle idee di Tartarotti, datata 18 luglio 1749 e indirizzata a Giovanni Lami,[20] che la fece uscire sulle “Novelle letterarie di Firenze” il 24 aprile 1750.[21] La lucidità epistemologica della proposta avanzata da Muratori e Tartarotti è lampante. Tuttavia, con gli scritti di Maffei e Carli, tutti e due massoni, il lettore entra in uno degli spazi più suggestivi della trattatistica magico-stregonesca, che porta direttamente al cuore della loro ideologia massonica. Libertini in ogni caso entrambi, vedevano nella stregoneria una forma di superstizione volgare e nella magia un ramo senz’altro deviato della filosofia latomistica.[22]
Alla metà del secolo, del resto, il pubblico colto italiano poteva già disporre di un trattato sulla Massoneria, fonte tra l’altro del passo contenuto negli Annali muratoriani. Si trattava della grande voce sui liberi muratori presente nel sesto volume (1747) del già ricordato Dizionario di Pivati. Un interesse siffatto si spiegava ponendo mente alla condanna del Sant’Uffizio, al processo Crudeli e agli echi della pamphlettistica anti-massonica (non solo italiana). A ciò si aggiunse un dato indubitabile, trascurato dal Muratori e riportato alla luce da Giarrizzo, quello legato alla funzione influente degli eserciti nazionali e professionali. Alla fine degli anni quaranta del Settecento, infatti, le scuole militari si affermarono sia come modelli indiscussi di sociabilità aristocratica sia come occasione per trasformare in profondità le strutture cavalleresche. Al tempo della polemica che vide opposti il fronte Tartarotti-Muratori e quello Maffei-Carli, le logge militari fecero le prove generali, in vista del ruolo che avrebbero assunto di lì a poco. Spesso, un’accademia o una società di conversazione potevano preparare il terreno, specialmente nelle città e nelle aree in cui la comunità inglese (mercanti, diplomatici, soldati) era più forte. Non solo negli antichi stati italiani di vecchio ordine, ma anche nella repubblica ginevrina si potevano riscontrare situazioni simili. E’ la storia, si sa, raccontata nelle famose missive di Rousseau a d’Alembert.[23]
Tra le carte frisiane custodite presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano vi è una lettera scritta allo scienziato barnabita da Maffei. L’epistola, scoperta da Salvatore Rotta, è di vivo interesse per il nostro discorso. L’atteggiamento maffeiano di fronte al giovane Frisi è certamente di stima, ma non manca un qualche momento di dissenso. L’erudito veronese difende, in maniera puntigliosa, il proprio modo di portare avanti la polemica anti-magica, rifiutando con fermezza l’impostazione suggerita dal fisico ed astronomo lombardo. Il contrasto evidenzia bene la differenza di mentalità tra due generazioni, ancora più che tra due savants, segnatamente tra la generazione razionalistica della prima metà del Settecento e quella più propriamente illuministica della seconda. Nella lettera, firmata da Verona, il 3 novembre del 1754, il Maffei precisava al Frisi che

la mia Arte magica annichilata si stampa da più di due mesi, e in un altro mese sarà a Dio piacendo terminata. Cercherò occasione di farla subito capitar a lei. Tutto quello che mi accenna è lontanissimo dalla mia idea. Gli avversari non negano che molti errori non siano stati presi in questo, onde il farne registro non servirebbe a niente. Non mi è mai passato per la mente di veder processi. L’addurre ragioni deboli, e non concludenti fa danno. Vedrò ciò ch’io ho saputo dire, e sarà facilmente l’ultima mia operetta, perché la salute si va sempre facendo peggiore. Mi conservi la sua pregiatissima grazia.[24]


5. Il Frisi, proprio nei primi mesi di quell’anno, aveva pubblicato, per i tipi di Federico Agnello, una curiosa operetta, la De existentia et perfectionibus Dei dissertatio una cum aliis Logico-metaphysicis conclusionibus, con cui si era inserito nel dibattito allora in corso tra Carli e Tartarotti, “s’il y avoit des magiciens et point des sorcières”, come riassunse la questione il bresciano Carlantonio Pilati, “ou s’il n’y avoit ni sorcières ni magiciens”.[25] L’operetta, consegnata forse di persona dall’autore a Maffei, non era dispiaciuta al grande epigrafista veneto. Proprio nell’Arte magica annichilata, infatti, questi ne parlò in termini abbastanza lusinghieri, dicendo che

appare da tutto questo con quanto fondamento poche settimane fa, in solenne tesi, si sia difeso in Sant’Alessandro di Milano, parlando de’ maghi operativi, ed efficaci, la sentenza, che si è sinor propugnata.[26]

Seguivano le parole frisiane, fedelmente riportate, atte a spiegare che

XIII Tum eiusdem Scripturae, et sanctorum patrum authoritate freti, negamus extitisse eos post Christi adventum. XIV Ex tot iis magicarum artium prodigiis, quae passim narrari solent, alia mere naturalia esse volumus, alia prorsus immaginaria, alia tantum supposita. XV Immerito autem hacce in re nobis imponunt cum Martino del Rio alii magicarum artium assertores, dum integrae antiquitatis consensum nobis contrarium esse obiiciunt.[27]

Il Maffei lavorava alla stesura dell’Arte magica annichilata nel corso del mese di gennaio 1754 e si trattava di un argomento difficile, teologicamente pericoloso, che peraltro non doveva spaventare il suo carattere tenace e orgoglioso, aduso alle polemiche. Alla fine di febbraio, il tema lo coinvolgeva un po’ meno. Per “poter proseguire contro l’arte magica” gli mancavano “tempo, libri e voglia”.[28]  
Ai primi di giugno, tuttavia, l’operetta era terminata, come l’ottantenne autore scrisse con la sua abituale solennità a conclusione dello stesso volume. Il 5 di settembre, il Maffei poteva comunicare ad Annibale Olivieri che il libro era in stampa, “grand’ardimento, perché ho tutto il mondo contrario, ma questo è il mio destino”.[29] L’opera venne licenziata a novembre, tre mesi appena prima della morte del Maffei. Questi, al momento della polemica sulla stregoneria, era tornato a legarsi al mondo granducale, soprattutto grazie alle sue frequentazioni latomistiche. In particolare, Maffei aveva conosciuto il Cocchi personalmente, durante la sua lunghissima permanenza a Firenze, tra il 1720 e il 1722.[30] Il naturalista e fisiatra toscano era all’epoca sul punto d’intraprendere il suo grande viaggio europeo. Il rapporto tra i due si mantenne nel tempo. Fu poi la volta del Marmi, corrispondente anche di Muratori, scomparso il quale Maffei rimase privo di informatori e agenti, fino a quando non si consolidò l’amicizia con Lami, che fu – per diversi anni, sino al 1751 – il più attivo uomo di fiducia del Maffei nel milieu fiorentino. In Toscana, proprio in quel periodo e per opera dell’entourage maffeiano, si andava intensificando quella battaglia contro l’intolleranza religiosa che portò a non pochi urti con l’autorità costituita. Le lettere, non a caso, appartengono tutte a questa fase di scontri, anche piuttosto aspri. Sono gli anni, lo abbiamo visto, dell’affaire Crudeli e della persecuzione dei massoni fiorentini.

Il filosofo e la strega: una lezione di metodo storico

6. L’impegno muratoriano di ripresa e di rifondazione, protratto con immutata coerenza per diversi decenni, di una forma di cristianesimo ripensato in termini di povertà – intesa quale scelta – nonché di atteggiamento caritatevole verso il prossimo, ci conduce sostanzialmente di fronte ad un filantropismo devoto, non esente da quelle suggestioni giansenistiche vivissime intorno a metà Settecento, tra Italia e Europa centro-occidentale. Ma Muratori si muoveva in ogni caso e più di ogni altra cosa lungo la linea di tolleranza introdotta da papa Benedetto XIV (1675-1758), con il quale egli ebbe soltanto minimi urti, rivolgendosi a quel complesso movimento di incontro fra tradizione cattolica e cultura dei Lumi che che è oggi noto come Katholischen Aufklärung, pur preferendo chi scrive l’espressione di cattolicesimo illuminato, moto destinato a protrarsi sino al tardo Settecento, come attesta il caso dell’abate romagnolo Giovanni Cristofano Amaduzzi, autore nel 1778 di una dissertazione Della filosofia alleata della religione, sulla scia proprio della lezione muratoriana. Nella Filosofia morale, in particolare, il Muratori raccomandava ai regnanti l’osservanza di una missione affidata loro da Dio, da esprimersi attraverso l’assicurazione della “pubblica felicità” ai loro sudditi, esaltando la naturale inclinazione cristiana alla libertà e all’uguaglianza dinanzi a Dio. Inclinazioni che precorrono analoghe prese di posizione, laiche, del riformismo illuministica lombardo. Le necessità umanitarie e di comune convenienza economico-sociale e politico-istituzionale erano le altre direttrici del celebre scritto muratoriano.
Strettamente legati agli studi religiosi del Muratori sono quelli da lui svolti in relazione alla storia della stregoneria. D’altra parte, la tendenza a lottare contro il fanatismo e l’intolleranza religiosa fu, in lui, costantemente viva. Lo attestano inequivocabilmente, all’interno della sua sterminata produzione, tanto le grandi opere erudite quanto quelle della tarda maturità. La situazione politica italiana del tempo si andava infatti evolvendo verso una condizione generale di stabilità e di equilibrio, finalmente al di fuori dello scacchiere dei grandi conflitti europei. E’ in questo torno di anni – grosso modo dal 1730 al 1748 – che il Muratori, sentitosi tradire in quello che Marco Cerruti ha definito il suo “ghibellinismo”, ma senza abbandonare i propositi riformisti, andò accentuando la polemica religiosa contro l’ignoranza e la superstizione del volgo.
In tale senso, un testo come il trattato Della forza della fantasia umana – apparso a Venezia, per il Pasquali, nel 1745, insieme all’opera gemella Delle forze dell’intendimento umano – ci appare come una filiazione diretta dei propositi di rinnovamento spirituale contenuti sia nella Regolata divozione sia nella citata Filosofia morale. Lo studioso mirava a distinguere la sua azione da quella del molinismo gesuitico, così come da quella dell’opposto rigorismo di stampo agostiniano. Ai due poli del tentativo muratoriano stavano la giovanile stima per il cardinale Noris, la vicinanza in età più avanzata con il Tamburini ed i tentativi di riunione delle chiese. Ma l’origine di adesione non va ricercata soltanto nella sua profonda religiosità, quanto piuttosto nei suoi interessi storico-eruditi. Muratori mirò sempre a difendere la libertà dello storico – e la sua libertà di storico – difesa intrapresa inizialmente da maurini e bollandisti, in contrapposizione con tutto quanto nella storia rinviava alla rivelazione miracolosa ed al teofanico.[31] Il rifiuto critico di tutto l’insieme di mistificazioni e falsificazioni, di cui egli andava con pazienza ricostruendo la storia, veniva da lui condotto sino agli estremi limiti consentiti dal suo stesso credo religioso. Non appare un caso, in proposito, il fatto che la sua critica si arrestasse alle soglie della Chiesa primitiva, rifiutandosi di affrontarne il problema delle origini. I suoi limiti di libertà entro lo studio della storia ecclesiastica iniziavano e terminavano nel mondo medievale, oggetto di uno studio attento e particolareggiato, anche e soprattutto in relazione al suddetto problema della stregoneria.

7. Ne La filosofia morale, ed in particolare nei venti capitoli de La forza della fantasia umana, il Muratori ricostruisce con una scrittura persuasiva, piana e lucida, in cui si può avvertire pienamente la lezione del nascente Illuminismo, le diverse operazioni compiute dalle numerose credenze superstiziose che hanno insanguinato il mondo. L’Autore riconosce nella fantasia umana sia un ammirevole signum della potenza e saggezza divine sia un elemento storicamente pericoloso, da fare qui oggetto di critica militante. Si avvertono in ogni caso gli echi della sua formazione scolastica e le fiere posizioni religiose proprie di una fede poco conformista ma senza dubbio saldamente ortodossa, guida sicura per l’uomo e per lo studioso. La magia viene da lui definita alla stregua di

un gran bosco, dove è qualche verità, molta semplicità, assaissime imposture [...]. Tutto ciò che ha dell’insolito, ha secondo essi da essere magico. [...] E qui si vuol avvertire, darsi delle malattie epidemiche di fantasia, dalle quali non si sanno guardar molte persone, e quelle spezialmente di temperamento melanconico [...]. Se in un paese niun conosce streghe, niuno ne parla, potete dire che elle ne son bandite. Ma se voce ne corre, se una sola si sospetta rea di tanta malignità, e il debole sesso ascolta le relazioni di quel tanto, di cui si spacciano capaci le streghe: eccoti questa opinione dilatarsi e invasarne la fantasia di chi non sa distinguere il vero dal falso, e produrre poscia dei perniciosi effetti.[32]


Indubbiamente, chi ha consuetudine con lo stile greve dei trattati cinque e seicenteschi in materia di stregoneria e pratiche magiche trova di sicuro piacevole la lettura delle pagine muratoriane, che, se non altro, hanno il non secondario merito di aver ridotto la stregoneria a fatti naturali e ad eccessi della fantasia popolare. L’olimpica e superiore altezza raggiunta qui dal Muratori non poteva certo tornargli utile nella pratica, in quanto i veri nemici, i cacciatori di streghe, andavano affrontati e sconfitti sul loro stesso campo. E’ su quest’ultimo che scese, ben agguerrito nella sua polemica contro i maffeiani, il Tartarotti.[33]
Un quadro d’insieme organico e lineare quello dipinto da Muratori, sensibile alle istanze e alle esigenze culturali più avanzate, andate maturando negli ultimi tempi. Mi riferisco qui alla fiducia nello sperimentalismo galileiano, all’integrazione tra ricerca erudita e sensibilità filosofica, alla competente attenzione mostrata per la complessa realtà storica, al suo rifiuto – così caratteristico del XVIII secolo – per l’isolamento culturale dello studioso e per la tendenza opposta a lavorare illuministicamente in un modo ampiamente partecipato, al fine di costituire una vera e propria enciclopedia del sapere a più voci. La risonanza fu estremamente vasta per i tempi in esame, segnatamente nell’ambito dei circoli intellettuali attivi in area padano-veneta. Tale progetto, così scopertamente utopico ed illuministico ad un tempo, ma proprio perciò altamente rappresentativo di quel mito dell’uomo di cultura fattivamente e felicemente inserito nella realtà civile che alimenta l’immaginazione dell’intellighenzia italiana nel nostro primo Settecento – pensiamo qui solo alle coeve Orazioni inaugurali di Vico,[34] ed in particolare alla quarta di esse, scritta nel 1704 – sarebbe stato concretamente ripreso, trascorsi solo pochi anni ed in esplicito richiamo al Muratori, da Scipione Maffei,[35] Apostolo Zeno e Antonio Vallisneri,[36] vale a dire gli iniziatori del “Giornale de’ letterati d’Italia”.[37]

8. Con Muratori essi condividevano soprattutto la polemica contro i ritardi della cultura italiana del tempo e l’avere, lui tra i primi, stabilito alcuni principi fondamentali della metodologia storiografica e critico-scientifica, quali la messa fra parentesi della tradizione, l’accertamento della vera realtà dei fatti e dell’autenticità delle fonti documentarie, il rispetto ineludibile per l’oggettività storica.[38] Riflessioni di carattere etico e civile, rintracciabili anche in innumerevoli luoghi del suo ricchissimo epistolario e che tornano alla luce nello studio sulla stregoneria.[39]
Nella Dissertazione sopra le antichità italiane – edita a Milano da Pasquali nel 1751 – domina, pressoché incontrastata, la rivendicazione del rigore nell’accertamento delle fonti documentarie, contro l’impostura apologetica quale fondamento della ricerca genealogica. Sotto il segno di una più compiuta ricostruzione storica vivono moltissime splendide pagine degli Annali, come quella più sopra citata, in cui la ricchezza delle implicazioni interpretative è abilmente sottesa alla veste puramente filologica. In merito al lavoro stesso dello storico scrive Muratori che

ogni tempo ha veduto chi per brama di far comparire illustre, o più illustre, l’origine, le prerogative e la nobiltà della sua famiglia, città, congregazione, s’è industriato di provare con documenti falsi ciò che non poteva con veri.[40]


Il Muratori offre al lettore una straordinaria operosità di ricerca e di raccolta documentaria, un elegante e corposo insieme di vedute storiche e diversi spunti, varie intuizioni dal notevole acume. Egli indica con buon senso i moventi politici che hanno presieduto all’azione concreta di singoli personaggi.
Se, spesso, emergono le simpatie filo-ghibelline del nostro (nella ricostruzione di storia teologica, in giudizi cauti ma senza essere né retorici né tantomeno di adulazione per pontefici o uomini di Stato dell’età moderna), l’erudizione storica e il razionalismo metodologico portano il Muratori a tutta una serie di revisioni storiografiche, che si esprimono pienamente nel rifiuto settecentesco della ragion di stato e nell’onesto umanitarismo. In ogni caso, l’auspicio del bene delle nazioni non si scontra mai, nelle sue pagine, con il rispetto per l’autorità e le più articolate esigenze dell’attività politica.[41] Fu nel corso del suo prolungato studio del mondo medievale che Muratori andò maturando anche una sua metodologia storiografica, originale e creativa, la stessa che avrebbe portato, negli ultimi dieci anni di vita, alle pagine degli Annali, ristampati ancora nel 1773 a Napoli dal Gravier, per quattordici volumi in ottavo.[42]
La metodologia storiografica scientificamente perseguita da Muratori riecheggia da vicino quella guicciardiniana delle Storie fiorentine, fondata com’è sul riscontro e sulla presentazione degli autentici fatti, interpretati in maniera corretta ed individuandone le relative cause e conseguenze.[43] Si devono cercare qui la grandezza ed i limiti storici del Muratori. Si è giustamente detto, da più parti, che gli Annali riassumono e concludono un’intera vita di ricerche, meditazioni ed esperienze condotte in nome della battaglia sincera per il trionfo della verità storica ed in costante riferimento al passato, per la comprensione degli ideali e dei problemi del presente. L’abate modenese adottò criteri di selezione valutativa indispensabili e sicuri. La sua erudizione, molto differente dall’enciclopedismo ignaziano di età barocca, il gusto per il contrasto ed il reciproco riferimento tra il passato e il presente, dischiudono profondi motivi che la ricerca storica successiva, non soltanto settecentesca, saprà far fruttare.[44]

L’apologetica newtoniana di fronte al vampirismo

9. Il 4 luglio 1714, Giuseppe Davanzati, il futuro arcivescovo di Trani, scrisse da Roma a Leibniz, per metterlo a parte dei progressi compiuti nell’Accademia scientifica che si riuniva nell’abitazione del cardinale Filippo Antonio Gualtieri. Davanzati scrisse del nuovo centro di ricerca, di cui era un assiduo frequentatore, che

in proprio eminentissimi Gualterii, bonis literis ornatissimi literatorumque mecenatis palatio, recens academia erecta est; quo plures peritissimi viri conveniunt, discutiendo varia puncta et hypotheses celeberrimorum authorum, via iurium et experimentali methodo; materia de lumine, quomodo formetur et propagatur, in praesenti stricto examine discutitur strictoque iure agitur de hypothesi Renati Descartes, Petri Gassendi, et angli Neutonis opus physico-mathematicum. Nam hic ultimus sua nova hypothesi circa lumen omnes alias, etiam vetustas, destruere et condemnare videtur.[45]


Fiorentino di origine, il Davanzati si era formato presso i Gesuiti, ma ne aveva presto rigettato lo stanco e vuoto aristotelismo. Spirito tanto curioso quanto indipendente, studiò quindi teologia e diritto a Napoli, allora una delle capitali della cultura europea, ove Newton stava prendendo il posto di Cartesio nei programmi universitari. Seguì l’insegnamento delle discipline fisiche e matematiche nell’ateneo felsineo.
Non pago, il Davanzati compì il suo Grand tour, un lungo viaggio di formazione che lo vide, tra l’altro, in Svizzera, Francia, Portogallo e Olanda, dove a Rotterdam conobbe Pierre Bayle. A Parigi, la città che forse amò più di ogni altra, rimase alcuni anni, assimilandone la cultura, ad un tempo dotta e salottiera. Favorevole, come il Muratori, ad una riduzione delle pratiche liturgiche e devozionali, ebbe – al rientro in patria – alcune noie. La stima dei superiori, tuttavia, non gli venne mai meno. Visse a lungo – come ha ricordato Francesco Paolo de Ceglia, al quale si deve la sua riscoperta – nella Roma del Papa Re. Proprio Clemente XI decise di mandarlo alla corte di Vienna, presso l’imperatore Carlo VI, per risolvere alcuni delicati problemi giurisdizionali. La missione si risolse in un completo successo. In riva al Danubio, il Davanzati ebbe modo di avvicinarsi alla cultura tedesca e di entrare in rapporti con Leibniz, con il quale rimase da allora in contatto epistolare.[46]
Tornato in Italia, non esitò a schierarsi al fianco dell’amico e corrispondente Celestino Galiani, la punta di diamante dell’Illuminismo scientifico napoletano, lottando per bandire una volta per tutte supersizione e magia, anche a costo di sottrarre alla Chiesa il potere che essa aveva assunto gestendo e talvolta usando tali pratiche per intimorire i fedeli. Nel 1746 fu promosso al patriarcato di Alessandria. La porpora cardinalizia, forse, gli sfuggì proprio a causa dell’eccessiva disinvoltura mostrata nelle materie liturgiche, in cui radicalizzò la lezione muratoriana.[47] La produzione letteraria di Davanzati è rimasta interamente manoscritta. Egli si dedicò all’analisi di fenomeni cui la tradizione aveva attribuito origine soprannaturale o addirittura magica. Dai cieli, come ha scritto de Ceglia, lo scienziato newtoniano li ricondusse sulla terra. Scrisse alcune Dissertazioni sulle comete, due lunghissime lettere al Galiani Sulla tarantola e sul tarantismo, in cui faceva mostra di conoscere Linneo,[48] nonché una celeberrima Dissertazione sopra i vampiri. Quest’ultima fu pubblicata postuma dal nipote e primo biografo, Domenico Forges Davanzati, soltanto nel 1774 e, fortemente richiesta da chi non era riuscito ad acquistarla nella prima edizione, una seconda volta nel 1789, introdotta dalla lettera-prefazione di un grande vecchio, Pietro Metastasio.[49]

10. A Vienna, alla fine degli anni trenta del Settecento, giornali e periodici non parlavano d’altro che dell’epidemia di vampirismo diffusasi ai confini dell’Impero. Moravia, Slesia e Ungheria sembravano infestate. Fu richiesto l’invio di ufficiali, di cancellieri e notai, per fronteggiare l’emergenza. I sudditi andavano rassicurati, ma i burocrati asburgici non potevano che certificare l’avvenuto. L’atmosfera era sicuramente irreale. Non era la prima volta, peraltro, che si parlava di apparizioni di spettri e fantasmi, ma il fenomeno non aveva mai assunto un carattere così inquientantemente epidemico, come ha segnalato de Ceglia.
Fu in questa circostanza che il Davanzati si decise ad investigare, attraverso i lumi della ragione e la fermezza della fede, quei misteriosi avvenimenti, scrivendo un testo destinato a diventare uno dei più celebri classici della letteratura sui non-morti. La Dissertazione sopra i vampiri era forse già pronta nel 1739, ma Davanzati preferì non pubblicarla allora, consentendo che avesse nondimeno una circolazione manoscritta. L’opera si ergeva su un apparato di fonti classiche e moderne, sacre e profane. L’autore rivelava una buona conoscenza della letteratura filosofica e medica del XVI e XVII secolo. Tra i cultori di magia naturale, il suo prediletto sembrava essere Girolamo Cardano, l’irrequieto medico e astrologo rinascimentale, il quale, trattando di simpatie e antipatie tra i corpi, era riuscito a spiegare le apparizioni inquadrandole come immagini prodotte da esalazioni o effluvi di non ben definite particelle. Fantasmi e vampiri non erano dunque anime perse preda del demonio, bensì il frutto di una sorta di suggestione collettiva. Chi ne denunciava l’avvistamento non era per Davanzati sempre degno di fede. D’altronde perché – suggeriva muratorianamente Davanzati – fenomeni del genere si verificavano sempre in lande desolate e mai nei luoghi delle lettere e delle scienze, come Roma, Parigi, Londra o la stessa Napoli? “La soluzione di questo gran fenomeno non si trova fuori di noi, ma in noi medesimi”, concludeva il prelato. Superstizioso era per lui tutto quanto non si poteva riportare alla regolarità delle leggi naturali. In questo, per dirla con de Ceglia, la sua generazione fu più risoluta delle successive. Davanzati era un uomo colto e la sua formazione scientifico-letteraria, tipica del primo Illuminismo italiano, non poteva che condurlo ad un tentativo di generale interpretazione filosofica del vampirismo. Oltre vi era la physique, l’insieme delle scienze sperimentali, il cui armamentario metodologico fu da lui assunto come stimolo all’esercizio di una equilibrata razionalità analitica. Quindi, come ha suggerito, de Ceglia, la nuova scienza esercitò un ruolo di stimolo. Davanzati fu comunque un apripista negli studi scientifici circa vampiri, streghe e fantasmi. Lo seguirono Augustin Calmet, con la sua Dissertation sur les apparitions des anges, des démons et des esprits et sur les revenans et vampires (Paris, 1746), che, nella seconda edizione del 1759, avrebbe incluso una lettera del Maffei,[50] il Lenglet du Fresnoy,[51] gli stessi Tartarotti e Carli, con Muratori spettatore interessato e stavolta silenzioso, sempre quanto dietro le quinte.

11. A conclusioni non troppo diverse da quelle del Davanzati giunse lo stesso Papa Benedetto XIV,[52] quel Prospero Lambertini che l’arcivescovo di Trani aveva conosciuto durante uno dei soggiorni romani. In quei tempi, difficili per la Chiesa di Roma, i pamphlets dei filosofi francese ponevano in dubbio i dogmi della fede e i teologi protestanti (specie inglesi) avanzavano diverse perplessità sull’esistenza del Purgatorio. Ammettendo che i vampiri fossero veramente dei non-morti, si sarebbe così posta in discussione la dottrina cattolica del terzo regno dell’aldilà. Forse, a fare credere nei vampiri, furono gli effetti di quella “fantasia” brillantemente indagata da Muratori e da Davanzati. È inoltre plausibile che una qualche epidemia abbia davvero funestato le regioni dell’Europa centro-orientale, rendendo le masse popolari inclini a credere che fossero i vampiri e a mietere le vittime. Non solo. Tipica della fine del Seicento era la paura di rimanere sepolti vivi, anch’essa, per alcuni versi, epidemica. De Ceglia ha ben ricostruito tale situazione in cui politica e religione finivano con l’intrecciarsi.
A fronte di una credenza che fu la grande paura popolare tra la fine del secolo XVII secolo e gli inizi del XVIII, la Dissertazione sopra i vampiri rappresentava una testimonianza originale e creativa della reazione intellettuale da parte di uno dei prelati italiani più aperti alle discussioni scientifiche del tempo. Quando il vescovo di Olmütz, il cardinale austriaco Wolfgang Schrattenbach, descrisse in modo colorito al Davanzati i misfatti compiuti dai vampiri nelle contrade orientali dell’Impero asburgico, lo scienziato newtoniano si mostrò piuttosto scettico e riluttante a prestarvi fede incondizionatamente. La lettura, però, della gazzetta di Vienna, che informava in dettaglio sulla storia dei vampiri, gli suggerì una diversa strategia. Fu allora che Davanzati si mise a consultare gli autori antichi e recenti. I vampiri erano da lui accostati a spiriti ed altri revenans più familiari alla cultura italiana. La questione andava spiegata facendo uso dei soli criteri razionali. Le teorie dei filosofi antichi non lo convincevano, così come quelle degli scrittori coevi. Quanto poi al sapere scolastico, le vecchie categorie di Aristotele non potevano che palesare tutta la loro inadeguatezza.

12. L’esistenza dei vampiri, secondo il Davanzati, non era l’effetto di un intervento soprannaturale o miracoloso, né di un’illusione diabolica. Si tratta, al contrario, di un fatto puramente naturale, del quale indagare meccanicisticamente le cause. L’origine della presunta “certezza storica de’ vampiri” era, per il religioso vicino ai Lumi, da cercarsi unicamente nell’immaginazione umana. Il segno di un moderato razionalismo critico, che precorre più celebri pagine muratoriane. Il meraviglioso e l’inconsueto erano soltanto il prodotto della fantasia dell’uomo, null’altro. Tutto l’argomentare del “novatore” fiorentino era rivolto a dimostrare, senza più ombra di dubbio, che i vampiri non esistevano. La negazione di una realtà che coinvolgeva anche altre apparizioni insolite (larve, monaci scomparsi).
Si tratta di un atteggiamento sicuramente nuovo e coraggioso, per un uomo di Chiesa del nostro primo Settecento, che finiva per affiancarsi alle posizioni variamente espresse dai filosofi e dai giuristi napoletani, i quali – qualche decennio prima, all’epoca del “processo agli ateisti” – avevano chiesto in maniera esplicita la soppressione della censura e dell’Inquisizione nel Viceregno.[53] Le radici di quella cultura tanto ampia quanto spregiudicata di cui Davanzati faceva mostra nella Dissertazione erano così il galileismo e il cartesianesimo del tardo Seicento. Le ambiquità, certo, non mancavano. Il Davanzati, comunque, negava che potessero esistere i diavoli tramandati dalla tradizione e non credeva nemmeno alle streghe o all’efficacia delle loro fatture. Sentiva, prima di tutto, la sua fede come ortodossa. Nelle pagine della Dissertazione sopra i vampiri, tutto l’immaginario affastellato dall’Occidente medievale e moderno veniva riesumato e sottoposto a decisa revisione storica. Accanto ai nomi di Muratori, Maffei, Tartarotti e Carli merita, quindi, di venire rammentato anche quello del Davanzati. La battaglia per i Lumi passò anche per i deserti della Puglia.
Si può affermare che, con l’opera di Davanzati, ai più ancora sconosciuta, maturi e venga portato a compimento il discorso muratoriano e maffeiano, visto, in precedenza, all’opera in merito a massoni e streghe. Anzi, l’arcivescovo di Trani si muove, proprio, tra le tesi esposte nel Della pubblica felicità e quelle delineate nella Storia teologica, in un certo senso coronando il discorso sin ad allora svolto dagli esponenti del nostro nascente razionalismo newtoniano. La continuità (e tematica e ideologica) tra la metodologia storica usata dal Davanzati per parlare di vampiri e quella impiegata da Carli e Tartarotti, per trattare di lamnie e liberi muratori, è in effetti palese, quasi la stessa in più punti.
Argomentazioni assai prossime a quelle davanzatiane, ritroviamo nell’opera succitata del Calmet, la cui anonima traduzione italiana apparve purtroppo prima della seconda edizione francese, sprovvista pertanto della lettera maffeiana. Ad ogni modo, la lezione ricalca da vicino lo spirito “scientifico” della storiografia italiana coeva. Eruditissimo, il Calmet combina in maniera efficace filologia e filosofia, per riprendere qui le note categorie vichiane. Egli fa opera di raccolta e interpretazione delle fonti storiche, severo quanto basta nel lavoro di spoglio dei dati. La contiguità con la produzione nostrana in materia è resa esplicita anche dal fatto che la stampa in italiano sia apparsa a Venezia, segno ulteriore di quanto il mondo degli stampatori e illuministi lagunari fosse intenzionato a proseguire una ben precisa battaglia culturale, non lasciandosi sfuggire quelle opere straniere che – per la vicinanza sul piano e del metodo e dei valori – potessero ritornare utili al discorso storico contro la superstizione.

13. Perché Simone Occhi potesse licenziare il volume dai propri torchi, fu necessario il via libera dei riformatori dello Studio di Padova, controfirmato nel 1751 e pubblicato in appendice al testo, insieme a due documenti emessi dalla Sorbona. Il primo era la deliberazione ufficiale sull’argomento, promulgata nel lontano 1693 (dai supremi teologi Fromageau, De Precelles e Durieraz), il secondo l’approvazione alla stampa francese del 16 dicembre 1745. Le citazioni paoline, che chiudono la prefazione, servono al Calmet (anche e soprattutto) per inscrivere la propria opera all’interno della tradizione cristiana, meglio dell’ortodossia cattolica. Vecchio espediente strategico di chi vuol da subito porre se stesso e il proprio scritto al riparo da critiche tutt’altro che ipotetiche, visto il tema affrontato.
La prima Dissertazione dell’abate di Senones riguarda le “apparizioni di spiriti” e occupa oltre la metà del libro, quasi due terzi complessivi. La materia è organizzata dall’Autore, dialetticamente, per obiezioni e risposte. L’inizio è affidato agli exempla dell’angelologia vetero e neo-testamentaria, per poi passare all'“opinione degli ebrei [...], dei maomettani e degli orientali” (capitolo IV),[54] “dei greci e dei romani” (capitolo V).[55] Orazio, Virgilio e Stazio, in proposito, i riferimenti maggiori. Le citazioni seguono per lo più da vicino il modello biblico ed evangelico, diversamente, in questo caso, da Lenglet du Fresnoy, il quale – editore di Lattanzio – preferiva fonti patristiche. I capitoli dal VII al XVI hanno, per argomento, la magia nelle varie sue forme storiche. In particolare, il Calmet tratta dei pagani e degli oracoli caldaici.[56] Il taglio può ricordare Muratori. Illuminista moderato, l’abate di Senones ritiene che “la certezza dell’avvenimento non è sempre una prova, che la predizione venga da Dio”.[57] Gli inganni sacerdotali stanno spesso dietro a simili credenze e apparizioni.
I capitoli dal XVII al XX concernono “streghe e stregoni”.[58] Qui Calmet fonde i padri bollandisti (per il metodo storico-filologico) e la lectio tartarottiana, evidente non solo sul piano della spiegazione teorica, ma anche su quello lessicale, superando talora di molto il letteralismo scritturale. Il vocabolario è il medesimo utilizzato nel Congresso notturno delle Lamnie, peraltro mai citato espressamente. Del resto, manca in Calmet pressoché qualsiasi richiamo ai nomi moderni (eccezion fatta per quello iniziale di Newton, più di circostanza che altro). Una scelta precisa, indubbiamente. Il resto della Dissertazione I prosegue e termina esaminando, in modo minuziosamente dettagliato, demonologia ed occultismo. Le citazioni da Lutero sono coraggiosissime, l’intento demitizzante esplicito. Significativo che Calmet si provi sempre a scrivere confortato dalle prove della storia. Un lungo excursus sul caso di San Mauro è utilizzato dall’Autore per chiudere questa estesa sezione del suo libro.

14. La seconda dissertazione – quella che, come detto, tanto si avvicina allo scritto del Davanzati – è dedicata a “quelli che ritornan dopo morte col proprio corpo”, siano essi scomunicati o vampiri.[59] Se il Calmet resta fermamente convinto, conformemente alla fede, che “la risurrezione d’un morto è opera solamente di Dio”,[60] la casistica presa in esame è ugualmente ampia. Scrupoloso e interessato al rigore dell’indagine, l’abate di Senones organizza in maniera chiara e razionale il materiale a disposizione. Le sepolture premature, argomento forte a favore del fronte illuminista contro i presunti vampiri, occupa, stranamente, solo il capitolo II (brevissimo tra l’altro).[61] Ma questo soltanto perché il Calmet preferisce smontare la storia, smascherare le false credenze, abilmente travestite da fatti incontrovertibili. Critica delle fonti, per dirla con una formula felice e un po’ abusata.
Dopo avere trattato dei miracoli di San Stanislao, i soli ai quali mostra di potere dare credito,[62] il Calmet passa in rassegna altri casi dubbi e giunge, quindi, sino al centro della questione, rappresentato da “risurgenti di Moravia” e “morti d’Ungheria, che succhiano il sangue dei vivi”.[63] Le fonti impiegate da Calmet sono le più varie: relazioni e ragionamenti presenti nelle Lettere giudaiche (dall’edizione del 1738), lo “Spicilegio d’Olanda” (ossia il Graneur Holandois, del 1733), altre notizie ancora tratte dalle gazzette dell’epoca, prima tra tutte il Mercurio galante (anni 1693 e 1694). Le “conghietture” sopra i “rusurgenti” sono diverse. Ecco dunque la storia vera e propria: Calmet ricostruisce le pretese vestigia di vampirismo nell’antichità, nei paesi settentrionali e in Inghilterra, in Perù e in Lapponia. L’abate di Senones passa disinvoltamente dai martirologi alla storia naturale di Tournefort (forse il più importante botanico europeo prima di Linneo),[64] riesaminando numerosi tipi di incantesimo. Attraverso un sistema di caute comparazioni, Calmet si chiede se e fino a quale punto gli esempi riportati si possano applicare ai “redivivi d’Ungheria”.[65] La risposta è l’esortazione alla prudenza, sempre e comunque. I vampiri di Calmet non sono infatti autentici morti. Pure le visioni, sia che esse vengano riferite dall’arcivescovo di Reims sia che a riportarle sia un protestante di York vanno sottoposte al dubbio.[66] In conclusione della sua vasta dissertazione, lo storico francese sottolinea ancora una volta e con energia l’impossibilità, sia morale sia materiale, “che i vampiri escano dai loro sepolcri”.[67] Quanto poi, infine, alle “tradizioni de’ gentili intorno l’altra vita”,[68] provengono dagli egiziani. In una parola, sono miti. Non storia.[69]

Note

[1] L.A. MURATORI, Annali d’Italia, XVI, Milano, 1820, pp. 142-143.

[2] L.A. MURATORI, Annali d’Italia, cit., pp. 143-144.

[3] G. SPINI – F. VENTURI, “Dai libertini agli illuministi”, Rassegna storica del Risorgimento, XLI, 1954, p. 791; G.C. GIBBS, “The Radical Enlightenment”, British Journal for the History of Science, XVIII, 1984, pp. 67-79.

[4] D. BO, “La medicina elettrica di Gian Francesco Pivati”, Miscellanea storica ligure, XV, 1984, pp. 49-67; M. INFELISE, “Giuristi e giurisdizionalisti nella pubblicistica veneziana di metà Settecento”, in I Gesuiti a Venezia, Venezia, 1994, pp. 663-683; H.H.M. VAN LIESHOUT, “Dictionnaires et diffusion du savoir”, in H. BOTS – F. WAQUET (eds.), Commercium litterarium. La communication dans la République des Lettres, Amsterdam, 1994, pp. 131-150; M. INFELISE, “Enciclopedie e pubblico a Venezia a metà Settecento: Gian Francesco Pivati e i suoi dizionari”, Studi settecenteschi, XVI, 1996, p. 161.
[5] G. GIARRIZZO, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia, 1994, pp. 97 e segg., 444.

[6] H. REINALTER, Geheimbuende in Tyrol, Bolzano, 1982, pp. 49-50.

[7] F. SBIGOLI, Tommaso Crudeli ed i primi frammassoni in Firenze, Milano, 1884; R. RABBONI, “Per Tommaso Crudeli”, Italianistica, XXVII, 1998, pp. 258-280; M.A. MORELLI TIMPANARO, Tommaso Crudeli. Contributo per uno studio sulla Inquisizione a Firenze nella prima metà del XVIII secolo, Firenze, 2004.

[8] L. GUERRINI, Antonio Cocchi naturalista e filosofo, Firenze, 2002.

[9] D. PANIZZA, “Osservazioni sul fenomeno libertino”, Il pensiero politico, II, 1969, pp. 78-82; A. SABETTI, John Toland, Napoli, 1978; V.I. COMPARATO, “Il pensiero politico dei libertini”, in L. FIRPO (ed.), Storia delle idee politiche, giuridiche e sociali, IV, Torino, 1980, pp. 95-164; S. BERTELLI, “Il libertinismo in Europa”, in M. FIRPO – N. TRANFAGLIA (eds.), La storia, IV, Torino, 1986, pp. 565-597; G. CHERCHI, Pantheisticon. Eterodossia e dissimulazione nella filosofia di John Toland, Pisa, 1990; J.I. ISRAEL, Locke, Spinoza and the philosophical debate concerning toleration in the early Enlightenment (1670-1750), Amsterdam, 1999.

[10] G. GIARRIZZO, Massoneria e Illuminismo, cit., pp. 82-84.

[11] A. GRAF, L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Torino, 1911.

[12] E. SESTAN, Europa settecentesca e altri saggi, Milano – Napoli, 1951, pp. 47 e segg.; E. BONORA, “Francesco Algarotti”, Dizionario biografico degli italiani, II, 1961, p. 357; G. RITTER, Federico il Grande, tr. it. Bologna, 1970, pp. 58, 99; T.C.W. BLANNING, “Frederik the Great and the Enlightened Absolutism”, in H.M. SCOTT (ed.), Enlightened Absolutism, Basingstoke, 1990, pp. 265-288; T.C.W. BLANNING, “Frederik the Great and German Culture”, in R. ORESKO – G.C. GIBBS – H.M. SCOTT (eds.), Royal and Republican Sovereignty in Early Modern Europe, Cambridge, 1997, pp. 527-550; E. TORTAROLO, La ragione interpretata. La mediazione culturale tra Italia e Germania nell’età dell’Illuminismo, Roma, 2003, pp. 32, 51.

[13] G. RICUPERATI, “La difesa dei Rerum Italicarum Scriptores di L.A. Muratori in un inedito giannoniano”, Giornale storico della letteratura italiana, I, 1965, pp. 388-418; G. RICUPERATI, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano – Napoli, 1970, pp. 3-78.

[14] G.P. MARCHI, Un italiano in Europa. Scipione Maffei tra passione antiquaria e impegno civile, Verona, 1992; G.P. MARCHI, “Un confronto ineludibile: Scipione Maffei e Ludovico Antonio Muratori”, in G.P. ROMAGNANI (ed.), Scipione Maffei nell’Europa del Settecento, Verona, 1998, pp. 363-397.

[15] G.P. ROMAGNANI, Sotto la bandiera dell’istoria. Eruditi e uomini di lettere nell’Italia del Settecento, Verona, 1999, pp. 131, 160.

[16] F. PASINI, “Tra Gianrinaldo Carli e Girolamo Tartarotti”, Atti e memorie della Società istriana di storia patria, XX, 1905, p. 197; F. VENTURI, Riformatori lombardi del Settecento, Torino, 1978, pp. 179-240; E. APIH, “Gian Rinaldo Carli”, Dizionario biografico degli italiani, XX, 1977, pp. 162-164; A. TRAMPUS, “Gian Rinaldo Carli ed il processo a Cagliostro (lettere di Alessandro Verri)”, Atti del Centro di ricerche storiche di Rovigo, XX, 1989-1990, pp. 333-350; A. TRAMPUS, “Minerva e Mercurio nel tempio di Cibele. Accademie e gazzette, intellettuali ed eruditi tra le sponde dell’Adriatico”, in Tradizione storica e rinnovamento politico. La cultura nel litorale adriatico e nell’Istria tra Settecento e Ottocento, Gorizia, 1990, pp. 101-135; A. TRAMPUS, “Nuovi orientamenti metodologici e prospettive storiografiche nella ricerca sulla vita e l'opera di Gianrinaldo Carli”, Archeografo triestino, LI, 1991, pp. 275-295; A. TRAMPUS, “Riforme politiche e pubblica felicita negli scritti di Carli sul problema dell'educazione”, Quaderni istriani, V-VI, 1991-1992, pp. 14-40; A TRAMPUS, “L’Illuminismo e la nuova politica nel tardo Settecento italiano. L’uomo libero di Gian Rinaldo Carli”, Rivista storica italiana, CVI, 1994, pp. 42-114; A. TRAMPUS, “Dottrina magica e scienza cabalistica nei rapporti tra Tartarotti, Gianrinaldo Carli e Scipione Maffei”, Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati, VI, 1997, pp. 1-138.

[17] F. TRENTAFONTE, Giurisdizionalismo, Illuminismo e Massoneria nel tramonto della Repubblica veneta, Venezia, 1984, pp. 4-7.

[18] M.M. ROSSI, Alle fonti del deismo e del materialismo moderno, Firenze, 1942; G. SPINI, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Roma, 1950; G. RICUPERATI, “Alle origini del Triregno. La philosophia adamito-noetica di Antonio Costantino”, Rivista storica italiana, LXXVII, 1965, pp. 602-638.

[19] D. PROVENZAL, Scipione Maffei e Girolamo Tartarotti a Roma nel 1739, Teramo, 1900; D. PROVENZAL, Una polemica diabolica nel secolo XVIII, Rocca San Casciano, 1901; L. PARINETTO, Magia e ragione. Una polemica sulle streghe in Italia intorno al 1750, Firenze, 1974, pp. 33-39; H. TREVOR-ROPER, “La caccia alle streghe in Europa”, in Protestantesimo e trasformazione sociale, Roma – Bari, 1994, pp. 133-240.

[20] E. COCHRANE, “Giovanni Lami”, in G. RICUPERATI (ed.), Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti nel primo Settecento, Milano – Napoli, 1978, pp. 451-494.

[21] G. RICUPERATI, “Giornali e società nell’Italia dell’Ancien Régime (1668-1789)”, in V. CASTRONOVO et alii (eds.), La stampa in Italia, I, Bari, 1976, pp. 167-187.

[22] G. GIARRIZZO, Massoneria e Illuminismo, cit., p. 100.

[23] G. GIARRIZZO, Massoneria e Illuminismo, cit., p. 101.

[24] S. ROTTA, “Sette lettere inedite di Scipione Maffei”, Rassegna della letteratura italiana, III, 1958, pp. 347-348.

[25] C. PILATI, Voyages en differens Pays de l’Europe, La Haye, 1777, lettera X.

[26] S. MAFFEI, L’arte magica annichilata, Verona, 1754, p. 288.

[27] P. FRISI, De existentia et perfectionibus Dei dissertatio una cum aliis logico-metaphysicis conclusionibus, Milano, 1754, p. 64.

[28] S. MAFFEI, Epistolario (1700-1755), a cura di C. GARIBOTTO, Milano, 1755, p. 1375.

[29] S. MAFFEI, Epistolario, cit., p. 1379.

[30] S. MAFFEI, Epistolario, cit., pp. 361, 431.

[31] S. BERTELLI, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli, 1960; S. BERTELLI, Giannoniana, Napoli, 1968.

[32] A. ABBIATE – A. AGNOLETTO – M.R. LAZZATI (eds.), La stregoneria, Milano, 1984, pp. 289-291.

[33] G. BORELLI, “La magia in Tartarotti e in Maffei rivisitata”, in C. MOZZARELLI – G. OLMI (eds.), Il Trentino nel Settecento fra Sacro Romano Impero e antichi stati italiani, Bologna, 1985, pp. 523-606.

[34] G. GENTILE, Studi vichiani, Firenze, 1927.

[35] S. MAFFEI, Opere, Venezia, 1790; S. ROSSI, Un precursore del Montesquieu. Scipione Maffei, Milano, 1941; G. SILVESTRI, Un europeo del Settecento, Treviso, 1954; G. GASPERONI, Scipione Maffei e la Verona settecentesca, Firenze, 1955; F. FORTI, “Studi maffeiani”, Giornale storico della letteratura italiana, LXXIII, 1956, pp. 585-603.

[36] G.A. PORCIA, Notizie della vita e degli studi di Antonio Vallisneri, Venezia, 1733; G. ARRIGHI, “Antonio Vallisneri”, La provincia di Lucca, IV, 1961, pp. 41-49; D. ARECCO, “Antonio Vallisneri scienziato europeo”, Dire on line, settembre 2004, pp. 1-3.

[37] G. MAUGAIN, Etudes sur l’évolution de l’Italie de 1657 à 1750, Paris, 1909; M. FUBINI, Sensibilità e razionalità nel Settecento, Venezia, 1967.

[38] G.F. SOLI MURATORI, Vita del proposto Ludovico Antonio Muratori già bibliotecario del serenissimo duca di Modena, Venezia, 1756; A. DUPRONT, Ludovico Antonio Muratori et la societé européenne des pré-Lumière, Firenze, 1976.

[39] Opere del proposto Ludovico Antonio Muratori, I-XIX, Arezzo, 1767-1780; Opere minori di Ludovico Antonio Muratori, I-X, Napoli, 1757-1770; Scritti inediti di Ludovico Antonio Muratori, Modena, 1782; Elogi e lettere inedite di Ludovico Antonio Muratori, Venezia, 1789.

[40] L.A. MURATORI, Dissertazione sopra le antichità italiane, Milano, 1751, p. 34.

[41] L.A. MURATORI, Opere, a cura di G. FALCO – F. FORTI, Milano – Napoli, 1964.

[42] La prima edizione dell’opera era iniziata a Venezia, per i tipi del Pasquali, nel 1744 (nove tomi complessivi) ed era proseguita sino al 1749, l’anno precedente la morte dell’autore, con la stampa milanese in dodici tomi. In essa, l’attenzione manifestata da Giannone nella Istoria civile verso non più solo le vicende politico-diplomatiche e militari ma per la concreta realtà civile (P. GIANNONE, Vita scritta da lui medesimo, a cura di S. BERTELLI, Napoli, 1960; P. GIANNONE, Opere, a cura di S. BERTELLI – G. RICUPERATI, Milano – Napoli, 1971), del costituirsi e del progredire di istituzioni e costumi (mores), si trova ripresa e risolta in un raccontare pacato e nitido, animato da una schietta fiducia eudemonistica.

[43] S. ROTTA, “Francesco Guicciardini”, in W. BINNI (ed.), Classici italiani nella storia della critica, Firenze, 1955, pp. 399-459.

[44] E. RAIMONDI, I lumi dell’erudizione, Milano, 1989, pp. 79 e segg.

[45] Hannover, Niedersächsische Landesbibliothek, Ms. 197, cc. 2v-3r.; E. BODEMANN, Der Briefwechsel des Gottfried Wilhelm Leibniz in der Königlichen öffentlichen Bibliothek zu Hannover, Hildesheim, 1966.

[46] F.P. DE CEGLIA, “Quando in Puglia arrivarono i vampiri. Nel Settecento un’epidemia di vampirismo funestò vaste regioni dell’Europa. Giuseppe Davanzati, arcivescovo di Trani, ne indagò le cause”, Historia Medicinae, I, 2005, pp. 19-25. Altre notizie in J.M. SALLMANN, “Giuseppe Antonio Davanzati”, Dizionario biografico degli italiani, XXXIII, 1987, pp. 109-112; P. SISTO, “La Dissertazione sopra i vampiri di Giuseppe Davanzati tra regolata devozione e magia naturale”, in I fantasmi della ragione. Letteratura scientifica in Puglia tra Illuminismo e Restaurazione, Fasano, 2002, pp. 7-42. Si vedano inoltre FERRONE, I profeti dell’Illuminismo, Roma – Bari, 1989, pp. 29-37, 383; D. GENTILCORE, Il vescovo e la strega. Il sistema del sacro in terra d’Otranto all’alba dell’età moderna, Nardò (LE), 1992, passim.

[47] Davanzati si accorse presto di dover frenare le proprie ambizioni riformatrici, a fronte della realtà politico-religiosa del Mezzogiorno (G. GIARRIZZO, “Un regno governato in provincia. Napoli tra Austria e Spagna”, in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento e tradizione, Lecce, 1985, pp. 311-325). Nel 1742, il patrizio fiorentino inviò all’amico Benedetto XIV una sua Lettera sopra la riforma delle feste, in cui veniva da lui ripreso il progetto di Juan Caramuel (M. TORRINI, “Juan Caramuel e l’Accademia napoletana degli Investiganti”, in Juan Caramuel, 1606-1682. Le meraviglie del probabile, Vigevano, 1991, pp. 29-33). Per giustificare tale riforma del calendario, il Davanzati avanzò considerazioni di natura prettamente etica. La rottura con la tradizione tridentina era netta. La Lettera, in particolare, rappresentava una interessante eco, nell’Italia meridionale, della polemica settecentesca contro le troppe festività popolari, viste come corruttrici dei veri costumi morali e dannose per le attività economiche. Muratori, un Muratori persino assai estremizzato, era ben presente al Davanzati.

[48] A. BORRELLI, “Lettere di Francesco Serao a Giambattista Morgagni”, Giornale critico della filosofia italiana, LXXVI, 1997, pp. 263-285.

[49] G. GIARRIZZO, “L’ideologia di Metastasio tra cartesianesimo e Illuminismo”, in Atti del Convegno in occasione del II centenario della morte, Roma, 1985, pp. 404.

[50] La traduzione tedesca apparve ad Augusta nel 1751, quella italiana a Venezia (Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri o i redivivi d’Ungheria e di Moravia), per i tipi di Simone Occhi, nel 1756, e quella inglese a Londra, appena tre anni più tardi, a cura di Michael Cooper.

[51] Storico della monarchia francese, autore di manuali di geografia a uso dei fanciulli, Lenglet du Fresnoy fu uno dei campioni – in vero mai troppo studiati, anzi ancora in attesa di un severo approfondimento – del Settecento conservatore. Lo scrittore francese espose la propria metodologia storica, una metodologia ad un tempo originale e rigorosa nella sua fedeltà alla tradizione teologica del gallicanesimo, in diverse opere di cronologia universale (sacra e profana). Celebre rimase la sua polemica con la storiografia giannoniana (G. RICUPERATI, “Giannone e i suoi contemporanei. Lenglet du Fresnoy, Matteo Egizio e Gregorio Grimaldi”, in Miscellanea Walter Maturi, Torino, 1966, pp. 55-81; G. RICUPERATI, Nella costellazione del Triregno. Testi e contesti giannoniani, San Marco in Lamis, 2004). Interessato all’alchimia – scrisse una fortunatissima Histoire de la philosophie hermetique (La Haye, 1742) e collaborò poi alla Bibliothèque des philosophes chimiques (Paris, 1741) di Nicolas Salmon – trattò di vampirismo nel suo Recueil de dissertations, anciennes et nouvelles, sur les apparitions, les visions et les songes, stampato ad Avignone nel 1751 e largamente circolante lungo tutto il secolo, anche in Italia.

[52] Mi riferisco, in particolare, alla ferma volontà di conciliare cattolicesimo e ragione illuminista, o piuttosto di porre la seconda al servizio della fede, che il Lambertini tentò nel suo De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, inteso a giustificare e a codificare, anche su di un piano più propriamente scientifico, il sovrannaturale della santità.

[53] S. MASTELLONE, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina – Firenze, 1965; S. MASTELLONE, Francesco D’Andrea politico e giurista (1648-1698). L’ascesa del ceto civile, Firenze, 1969; V.I. COMPARATO, “Due lettere di Francesco D’Andrea a Francesco Redi e la Apologia in difesa degli atomisti”, Il pensiero politico, XI, 1978, pp. 74-80.

[54] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri o i redivivi d’Ungheria e di Moravia, Venezia, 1756, p. 7.

[55] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., p. 9.

[56] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., pp. 15-40.

[57] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., p. 37.

[58] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., pp. 43-56.

[59] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., p. 159.

[60] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., p. 161.

[61] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., pp. 162-163.

[62] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., pp. 163-165.

[63] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., pp. 170, 172.

[64] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., p. 201.

[65] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., p. 212.

[66] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., pp. 240, 242.

[67] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., 244.

[68] A. CALMET, Dissertazioni sopra le apparizioni de’ spiriti e sopra i vampiri, cit., p. 237.

[69] I primi due paragrafi del presente contributo sono di Davide Arecco, mentre il terzo è di Giovanni Ghiglione. A lui si deve, inoltre, la revisione dell’intero lavoro. Gli autori ringraziano, per i preziosi consigli ed i suggerimenti ricevuti, gli amici Francesco Paolo de Ceglia, Gian Paolo Marchi, Rolando Minuti, Giuseppe Ricuperati e Corrado Viola.