1. Il volume si pone l’obiettivo di riscoprire il profilo biografico
ed intellettuale di un celebre, quanto colpevolmente ignorato, giurista spagnolo
del primo Seicento, Juan Bautista Larrea, nato nel 1589 a Madrid e morto nel
1645. Si tratta di un libro che costituisce il frutto precipuo di una poderosa
e pluriennale serie di ricerche che hanno impegnato Paola Volpini in terra
spagnola.
La prima parte del libro è dedicata all’illustrazione della vita
e delle tappe della carriera, condite attraverso importanti ragguagli sulle
due principali opere di Larrea, le Decisiones granatenses (1636-9)
e le Allegationes fiscales (1642-5). La ricostruzione biografica dettagliata,
effettuata sulla scorta di un vasto lavoro di scavo condotto in vari archivi
e biblioteche di Valladolid e Madrid, permette di scorgere nel Larrea le qualità
precipue del giurista del tardo diritto comune: assai versatile, capace di
una rapida intercambiabilità nel civile come nel criminale, dimostrò
anche di esser abile nel campo dell’insegnamento, al quale, tuttavia,
si dedicò solamente nella sua giovinezza, dal 1613 al 1621, anni nei
quali gli vennero affidate cattedre di assoluto primo piano, come quelle di
Instituta, Codigo e di Vispera de Leyes. Ma fu un incarico
quale quello di oydor nella chancilleria di Granada, nel 1621,
ad assicurare un salto di qualità alla sua carriera, immettendolo nel
mondo delle istituzioni giudiziarie e solo una grande sagacia e capacità
di adattamento gli fecero superare momenti delicati, come quello rappresentato
dal sindacato sul suo operato, la così detta visita, avvenuto
nel 1628, da cui emersero nei suoi confronti svariati cargos, ovvero
capi d’imputazione legati ad una condotta di vita non propriamente irreprensibile.
Saranno proprio queste sue qualità umane a permettergli di mantenere
per molti anni, praticamente dal 1634 alla morte, un ruolo di primo piano
come fiscale nel consiglio delle finanze e successivamente nel consiglio di
Castiglia, in un periodo di grande incertezza politica, per le difficoltà
del gran ciambellano Conte-Duca di Olivares (che venne sollevato dal suo incarico
proprio nel 1643) e per le costanti esigenze finanziarie di uno stato, quello
spagnolo appunto, impegnato in un notevole sforzo bellico.
Le opere di Larrea riflettono e sono profondamente radicate nella realtà
del tempo: se le Decisiones granatenses – osserva opportunamente
l’Autrice – vedono la ragione del loro successo nel fatto di esser
l’unica raccolta «del regno di Castiglia che contenga la decisione»,
cioè, in altri termini, il voto degli oydores, «tentando
di rompere una prassi contraria radicata» (pp. 41-2), anche le Allegationes
fiscales sono composte «a partire dall’attività ‘sul
campo’» (p. 157). Si tratta, invero, di rielaborazioni dei prodotti
del lavoro quotidiano del giurista, volutamente astrattizzate a tal punto
che «non sempre emergono con la necessaria evidenza le sue pressanti
esigenze e difficoltà» (ibidem).
2. Se con la prima delle due opere, quindi, l’autore calcava
un genere oramai classico, quello delle Decisiones, che aveva trovato
la propria ragion d’essere nel sorgere dei primi tribunali supremi e
che nel Seicento continuerà ad avere ampio successo, con la seconda,
al contrario, Larrea si cimentava in un campo non particolarmente battuto
e che stava gradualmente emergendo. In effetti, non erano mancate nei secoli
precedenti, col formarsi dei primi stati territoriali, schiere di ufficiali
aventi il compito di difendere i diritti del fisco, particolarmente in sede
contenziosa; non erano mancati neanche le dissertazioni teoriche sulla nozione
di fisco, ma non possiamo annoverare molti esempi di raccolte aventi scopi
eminentemente pratici. E’ proprio nel Seicento, secolo in cui il potere
assoluto si scontra inevitabilmente con esigenze finanziarie pressanti, con
resistenze e fronde politiche, che si sente l’opportunità di
realizzare una letteratura ad hoc, caratterizzata dalla composizione,
omogeneizzazione e pubblicazione dei sedimenti dell’attività
svolta a vantaggio del fisco. E ne troviamo conferma proprio nel moltiplicarsi
di simili scritti nei circuiti culturali che ruotavano nell’orbita spagnola,
dalle Iuris allegationum fiscalium Mediolani di Diego Antonio Fajardo
(1671) alle Disceptationes fiscales siciliane di Ignazio Gastone (1684-1696).
Nel quadro di questa attività, Larrea si schierò anche a fianco
della politica regalista di Filippo IV, perorando le prerogative regie (in
particolare quelle schiettamente giurisdizionali, come il «recurso de
fuerza») sulle istituzioni ecclesiastiche e questo gli costò anche
la messa all’Indice a Roma delle proprie pubblicazioni.
Dopo la ricostruzione biografica, ecco che lo studio si volge ad esaminare
gli aspetti salienti del pensiero giuridico di Larrea in riferimento al tema
della giustizia. Paola Volpini con grande oggettività mette in risalto
i punti cardine della visione ideale che il giurista aveva del sistema giudiziario.
Una visione che richiedeva una stretta quanto coerente cooperazione di due
centri di potere: da un lato il re, titolare della estrema iurisdictio
ed, in quanto tale, supremo giudice e dall’altro la magistratura,
che avrebbe dovuto esser tutelata e messa in condizione di esercitare autorevolmente
la propria funzione.
Di qui l’opportuno biforcarsi del percorso dell’Autrice, che dapprima
si sofferma sul tema del sostegno in primis, ma non soltanto, di carattere
economico, che il sovrano avrebbe dovuto garantire ed in seguito sulla problematica
della venalità e delle conseguenti alienazioni degli uffici giurisdizionali.
Il primo motivo è incentrato sulla difesa delle prerogative del ceto
dei magistrati, arduamente sostenuta da Larrea in varie allegazioni riscoperte
e poste all’attenzione del lettore. Il giurista intendeva con esse valorizzare
l’autorità dei magistrati «che nell’esercitare il
loro ufficio stavano al posto di Dio e dei monarchi» (p. 113) ed invitare,
in modo nemmeno tanto implicito, Filippo IV a proteggere i propri ministri
dai numerosi libelli anonimi che spesso mettevano a repentaglio il loro cursus
honorum. Si ripropongono, così, soggetti trattati in filoni letterari
tipici del diritto comune ‘maturo’: quelli volti a sviluppare
argomenti atti a nobilitare professioni o gruppi sociali e, conseguentemente,
ad appoggiare la conservazione delle loro prerogative, nonché quelli
calcati nell’ambito della trattatistica apologetica. Penso, in particolare
a quella tradizione di scritti, che evidentemente ben aveva attecchito nel
mondo spagnolo (ne sono testimonianze i trattati di Gabriel Alvarez de Velasco,
Giovanni Paolo Xammar, nonché il più noto ed appropriatamente
richiamato Garsia Mastrilli), volta ad esaltare la figura del giudice, al
quale si volevano dare precetti non tanto di carattere giuridico, quanto di
ordine morale ed attinenti al foro interiore, più che a quello esteriore.
3. Paola Volpini illustra le due maggiori rivendicazioni del
magistrato, così come vengono interpretate dal Larrea: quelle di tutela
verso l’eccessiva facilità con cui questi poteva esser oggetto
di minacce, rappresaglie e sottoposto a processo e quelle di carattere economico,
con l’obiettivo di ottenere un congruo salario per mantenere un tenore
di vita consono allo status acquisito. Sul primo versante, era implicita
l’aspirazione a che il magistrato, tenuto all’osservanza della
legge, potesse almeno esigere l’ubbidienza dei sudditi, come qualche
decennio più avanti dirà, sia pure nel contesto decisamente
differente della Toscana medicea, Marc’Antonio Savelli nella sua Pratica
universale (cfr. Prefazione alla Pratica universale, Firenze,
Cocchini, 1665), riproponendo una visione armonica della società e
della giustizia, che trovava la sua anima nella collaborazione e nel rispetto
reciproco del ruolo dei vari ordini.
Si passa quindi all’esame del tema della venalità degli uffici,
pratica assai diffusa nel Seicento spagnolo, alla quale Larrea si opponeva
con fervore. Eppure, si trovò costretto, per attendere alle sue mansioni,
a difendere la liceità dell’alienazione degli uffici di alcalde
ordinario, un giusdicente a livello locale e di alguacil mayor (con
funzioni di polizia) ed è qui che, a nostro avviso, si rivela il volto
camaleontico del giurista, abile e spregiudicato nel volgere a favore del
potere politico tutti gli argomenti a propria disposizione, a partire da quelli
fattuali, come i costanti tumulti che si verificavano nei municipi in coincidenza
coll’elezione degli alcaldes. E l’Autrice coglie con perspicacia
questi aspetti, col mettere in risalto l’icastica frase del giurista
spagnolo «Ego interim animum non exprimo».
A questo punto, l’Autrice sposta la propria attenzione verso lo studio
dell’azione del Larrea all’interno delle strutture di potere:
nei confronti dei potenti e protetti uomini d’affari da un lato, della
monarchia, del valido e della nobiltà dall’altro. Lo sforzo
del letrado è diretto sempre e comunque non tanto a vantaggio
di Filippo IV, quanto dell’istituzione monarchica, o meglio dell’immagine
tutta ideale della monarchia, che Larrea aspirava a veder concretizzata: un
sovrano onnipotente, con potere assoluto, che, appoggiandosi su giuristi e
magistrati, perseguisse il bene comune, mettendo a tacere le rivendicazioni
di quella folta schiera di personaggi a cui nella realtà era legato
con un doppio filo.
Tuttavia, i tentativi del fiscale Larrea, perlomeno in varie occasioni, si
vanificano: egli impegna tutto se stesso nella lotta – che si svolge
interamente nelle arene del foro – contro gli hombres de negocios
stranieri (molti i genovesi), appaltatori di imposte e sovente anche membri
di consigli di finanze, ma viene nella maggior parte dei casi fermato dallo
stesso Filippo IV, troppo bisognoso del loro apporto finanziario. Ancor più
alterne furono, nel complesso, le sorti della battaglia intrapresa dall’Olivares,
ma sul campo combattuta da Larrea, contro la nobiltà, per recuperare
alcune alcabalas, le imposte principali del regno di Castiglia. Fu
questa a procurare le più scottanti umiliazioni al fiscale, che si
trovò anche ad esser privato della facoltà di proseguire alcune
cause da lui intentate, come quella contro il contestabile di Castiglia.
4. In queste ultime vicende si percepisce appieno il carattere
contraddittorio dell’accentramento nella Spagna di Filippo IV: ondivago
ed in tutto legato alle singole evenienze, il sovrano difettò di quella
sistematicità che, contemporaneamente, stava ispirando l’operato
della monarchia francese. Solo dopo la guerra di successione, con la dinastia
borbonica sul trono, venne creato uno stato accentrato sul modello francese
e solo allora, come sottolinea Perry Anderson, «i grandi del regno [...]
furono messi in posizioni subordinate ed esclusi dalla gestione del potere
centrale» (cfr. Lo Stato assoluto, Milano, Mondadori, 1980, p.77)
Il libro si conclude con due appendici contenenti, la prima, una esaustiva
elencazione delle edizioni delle due maggiori opere a stampa di Larrea, nonché
delle altre allegazioni sciolte e degli altri scritti rinvenuti dall’Autrice
e, la seconda, la trascrizione di alcuni documenti parzialmente inediti.
La laboriosa ricerca di Paola Volpini è riuscita, attraverso una accurata
e puntuale ricostruzione, dei tratti di una biografia ignota alla maggioranza
degli studiosi, anche specialisti della materia, a riportare l’attenzione
sulla centralità della classe dei giuristi nelle consolidate (nel caso
spagnolo) o nascenti (in altri orizzonti) strutture della stato moderno. Il
potere politico aveva necessità di un sostrato giuridico per legittimare
ognuna delle sempre più frequenti e spregiudicate manovre di ampliamento
dei propri campi d’azione – e di qui l’uso, ripetutamente
segnalato dalla Volpini della ratio status – e non esitava ad
avvalersi dei giuristi come funzionari. Giuristi che in ciò intravedevano
la possibilità di realizzare una vera e propria «respublica
dei togati» (per mutuare un’espressione che è poi divenuta
il titolo di un volume di Pier Luigi Rovito), assurgendo ad esclusivi esecutori
della volontà sovrana, riuscivano a scalare posizioni ed a portarsi
fino alle seconde linee, a scorgere quel vertice dal quale, tuttavia, erano
esclusi. Il reale dato di fatto è che – lo ha detto quasi quaranta
anni fa, con una formula sintetica e tuttora valida, Guido Astuti –
anche i magistrati, come tutti gli altri burocrati erano «privi di uno
stato giuridico» che gli conferisse «una qualche sicurezza e stabilità
di diritti» (La formazione dello stato moderno in Italia, Torino,
1967, p. 207).
L’avvincente inquadramento storico-giuridico della materia, impreziosito
da una fin troppo ampia rassegna della storiografia spagnola e della trattatistica
politica coeva, oltre ad avere il grande pregio di presentarci una realtà
assai differente da quella nostrana e di illustrarci strumenti e meccanismi
giuridici della stessa propri (valga per tutti l’esempio della visita,
avvicinabile, ma certamente non assimilabile in toto, al nostro sindacato
sui giusdicenti), conferisce validità ad una metodologia d’indagine
che, prendendo spunto dalla singola esperienza dei protagonisti, conduce ad
affrontare i grandi temi istituzionali ad essa inscindibilmente connessi.