1. Vi è stato un periodo, non molto tempo fa, quando parlare di «radicalismo»
nella Rivoluzione inglese era generalmente considerato negli studi anglofoni
l’ingombrante residuo di un obsoleto passato storiografico. Il suo impiego
nei dipartimenti di letteratura sembrava l’ultimo rifugio di un concetto
che non si rassegnava a scomparire. Da qualche anno sembra si sia aperta una
fase di riscoperta. Dagli studi letterari i «radicali» della Rivoluzione
tornano alla storia: una storia che si designa sempre più spesso come
«culturale» e unisce all’analisi dei «testi» intesi
come «eventi» l’indagine archivistica e biografica, dei contesti
editoriali e di lettura accanto a quelli politici e sociali. “Gold
tried in the fire”. The prophet Theauraujohn and the Puritan Revolution,
(PhD Thesis, University of Cambridge, 1996), l’indagine di Ariel Hessayon
su una personalissima lettura di Boehme, dello spiritualismo e dell’alchimia
da parte di TheaurauJohn ne è un esempio magistrale di cui si attende
a breve la pubblicazione. Un altro è il lavoro, uscito recentemente,
di Ann Hughes sul Gangraena di Thomas Edwards (Gangraena and the
Struggle for the English Revolution, Oxford U.P., 2004) che attraverso
un approccio di questo tipo fa molto per giungere a una nuova cognizione del
movimento e della pubblicistica presbiteriana nella Rivoluzione. Jonathan
Scott, da parte sua, ha scritto in una delle più recenti sintesi del
‘600 inglese che il «radicalismo è la Rivoluzione inglese»
(England's Troubles: Seventeenth-century English Political Instability
in European Context, Cambridge 2000).
In generale, i nuovi studi hanno in comune un punto di partenza: le tesi di
John C. Davis – che a cavallo degli anni ’80 e ’90 del ‘900
contribuirono in maniera determinante ad affondare il colpo contro l’interpretazione
del radicalismo rivoluzionario di Christopher Hill – rappresentano,
per dirla con Hughes, «un’influenza e una provocazione». Davis
ha mostrato la costruzione discorsiva, per così dire ‘mediatica’,
delle identità eterodosse da parte di una pubblicistica a stampa ostile,
che spesso ha costituito la fonte primaria delle passate ricostruzioni storiche.
Da qui ci si è mossi verso uno sforzo di comprensione della tradizione
eresiografica come fatto culturale, che dimostra che le forme da essa assunte
durante la Rivoluzione non possono scindersi dall’autorappresentazione
delle sue «vittime» — questione molto sottovalutata da Davis.
Tali forme non vanno esenti da una relazione, per quanto distorta, con una
«realtà» indipendente dalla rappresentazione stessa.
2. The English Radical Imagination. Culture, Religion, and Revolution,
1630-1660 di Nicholas McDowell si colloca in questo quadro. Nato da quel
filone di studi letterari che attraverso l’influenza di Nigel Smith
hanno mantenuto la memoria del radicalismo durante gli anni ingrati del «regno
di Conrad Russell», il libro corregge in maniera chiara e sintetica un
aspetto importante, forse qualificante, del «mondo alla rovescia»
di Christopher Hill. McDowell ricostruisce prima di tutto l’origine
dell’assunto che quest’ultimo e molti con lui avevano ereditato
dalla tradizione di scritti antiereticali: l’identificazione dell’eretico
con l’incolto e l’illetterato, il «popolare». Seekers,
levellers, diggers, ranters, quaccheri sono stati consegnati
al ‘900 come espressione, politica, sociale e letteraria della «cultura
delle classi inferiori», dei «discorsi delle persone ordinarie»,
di artigiani e lavoratori e ad essi rivolti. L’«immaginazione radicale»
sbiadisce questa immagine «plebea» del radicalismo rivoluzionario.
McDowell ripercorre il contesto culturale in cui le idee eterodosse, dal Medioevo
al Seicento, vengono associate costantemente allo stereotipo del laicus
illitteratus; attaccate, quindi, come parto dell’ignoranza tipica
di un «popolo» che, privo di cultura latina e umanistica, è
incline a rovesciare la parola di Dio in libertinismo. Destino gramo delle
voci critiche fu questa infamia, prima gettata sui «puritani» dai
sostenitori ortodossi della Chiesa anglicana sotto i primi re Stuart, poi,
ironia della sorte e della storia, dai presbiteriani sui loro avversari nei
concitati anni ’40, in controversie che coinvolgevano sezioni concorrenti
della comunità colta e istruita, spesso membri del clero. Mossa radicale
fu l’appropriazione del tema da parte delle sue vittime e la sua trasformazione,
con richiamo autorevole all’elogio dell’«ignoranza»
e dell’«umiltà» apostolica, in un’arma critica
nei confronti dell’establishment politico e culturale. Molti
di coloro che condussero l’attacco generalizzato ai curricula delle
università nel periodo rivoluzionario si erano formati al loro interno
negli anni ’30 – tra loro gli spiritualisti come William Dell,
John Saltmarsh, William Erbury, John Webster che figurano cospicuamente nella
narrazione hilliana dell’esplosione dei «predicatori meccanici».
Milton poi, gigante della letteratura inglese, capovolse nella sua Areopagitica
l’infamia in dignità proiettando su quella degli studiosi l’immagine
di lavoratori intenti a provare ogni cosa per coltivare la verità.
È il panorama della Londra radicale descritto, in termini meno trasfigurati,
nello scritto contemporaneo di Willliam Walwyn, The Compassionate Samaritane,
dove i protagonisti dello studio del vero sono uomini e donne comuni che,
nelle chiese separatiste e semiseparatiste, non assentono a nient’altro
che a quello di cui sono convinti dalla discussione e dal dibattito.
3. La tesi estremamente convincente di The English Radical Imagination
è che i radicali, anche quelli più facilmente associabili con
il versante popolare della Rivoluzione inglese, si rappresentavano come alternativi
alla corruzione del sapere accademico e umanistico proprio facendone un uso
intenso e originale. I capitoli centrali del libro sono dedicati alla dimostrazione
di questo punto attraverso l’analisi degli scritti dei livellatori Richard
Overton e William Walwyn, del ranter Abiezer Coppe e del quacchero
Samuel Fisher.
McDowell costruisce sulle biografie dei leaders livellatori: uomini
ai limiti dell’élite sociale e culturale che avevano quel
tanto in comune con le classi più povere e sufficiente sicurezza sociale
e culturale da agire da loro portavoce. Da questa posizione, Richard Overton
o William Walwyn fornirono ai propri lettori un’identità politica
radicale impiegando i materiali culturali dell’establishment stesso.
Vengono ampiamente dimostrate le radici filosofiche del materialismo del Mans
Mortalitie di Overton, con tutte le conseguenze antigerarchiche associate
all’abolizione dell’anima, e si pone così sotto nuova luce
la sua sfida, nelle vesti di Martin Marpriest, al monopolio della predicazione
e alla vena persecutoria della ‘casta’ clericale. La sua è
una strategia dell’ironia e del sarcasmo che cerca di minare le mura
erette tra laicato e clero dal privilegio del latino: mettendo in mostra la
propria conoscenza delle lingue e del teatro classico e dislocandola in un
contesto testuale che attinge alla tradizione festiva e popolare Overton fa
implodere l’identificazione di «radicale» e «illiteratus»
e dà fondamento «a una visione decentralizzata di autodeterminazione
e auto-organizzazione».
La capacità culturale e di rapporto libero con il divino che egli in
questo modo difendeva contro lo stereotipo dei «meccanici illetterati»,
diffuso dagli scrittori antiereticali come Edwards, trovò concreta
realizzazione nell’esperienza e nella scrittura di William Walwyn. Questi,
privo dell’educazione accademica del suo compagno livellatore, sottrasse
da autodidatta la pedagogia umanistica alla riproduzione della gerarchia sociale
cui veniva asservita nelle università.
McDowell dimostra che la lezione scettica di Montaigne e Charron pervade gli
scritti di Walwyn al di là degli occasionali, e da tempo noti, riconoscimenti
espliciti. Le sue idee si erano formate, all’esterno della chiusa cittadella
del latino, sulla lettura attenta delle traduzioni delle opere umanistiche
che sin dagli anni ’30 rientravano nelle possibilità economiche
di un mercante benestante. Ma Walwyn conduceva l’esposizione dei limiti
della ragione con gli strumenti della ragione stessa a conclusioni opposte
a quelle tirate, durante le guerre di religione francesi, da Montaigne e Charron:
in luogo del conformismo esteriore e della giustificazione dell’assolutismo
politico, la crisi pirroniana dava origine alle idee livellatrici di libertà
di coscienza, determinazione individuale e democrazia. Walwyn portava l’argomento
sul libero scambio del sapere laddove Milton sul piano religioso si rifiutò
di andare – la tolleranza di episcopalisti e cattolici – e sul
piano politico si ritrasse optando per una forma elitaria di repubblicanesimo.
4. Lo scetticismo umanistico tenne Walwyn lontano dall’«entusiasmo»
che, invece, caratterizzò molti altri radicali e compagni di strada.
Il capitolo sul ranter Abiezer Coppe, che rielabora gli argomenti di
un saggio di una decina di anni fa, è forse il più originale
del libro. Tema fondamentale è la costruzione dell’identità
«entusiastica» a partire da una destrutturazione creativa della
cultura universitaria. L’analisi testuale di scritti come Some Sweet
Sips of Spiritual Knowledge (1648) o la sorprendente prefazione ai Divine
Teachings (1649) di Richard Coppin trovano anche qui fondamento
nelle conoscenze biografiche. È infatti ormai sufficientemente accertato
che colui che Hill aveva eletto ad esempio dell’immediatezza della prosa
popolare fatta emergere dalla Rivoluzione ebbe in realtà una solida
formazione accademica. Coppe fece parte degli ambienti puritani degli anni
’30: gli stessi frequentati anche dal ministro del clero e neoplatonico
Peter Sterry – i cui principi antinomiani sono da sempre stati sospettati
di una pericolosa, o intrigante, secondo i punti di vista, vicinanza con quelli
ranter – e dal suo patrono e primo difensore in Parlamento della
libertà di coscienza dei «settari», il Lord Brooke lodato
in Areopagitica da Milton. Viene allora ben in luce che gli scritti
di Coppe del 1648-1649 schierano la cultura umanistica universitaria contro
se stessa. Dall’eco dell’argomentare sillogistico alla riproduzione
in chiave ironica e dissacratoria delle caratteristiche grafiche della grammatica
ufficiale di William Lily, Coppe mette in parodia il sapere accademico e le
sue forme di socialità. Un divertito, provocatoriamente lunatico e
volutamente libertino «abbecedario» o «catechismo dell’eretico»
riduce a nonsenso quell’ordine delle parole posto a fondamento dell’ordine
gerarchico delle cose: è dunque una scrittura complessa e per niente
spontanea quella con cui Coppe libera il lettore dalle pastoie dell’ortodossia
religiosa e dall’ossessione per le sette nel «modo infinito»
dell’«infinito amore» del Dio ranter.
5. «Entusiasmo» e «ragione», sin qui separati, trovano
infine un altrimenti imprevisto terreno comune nell’esperienza quacchera.
Samuel Fisher, l’autore preso in esame da McDowell, è ancora
uno dei personaggi «laici» ma non «illetterati» riscoperti
nel «mondo alla rovescia» di Hill. Questi, collocandolo nel milieu
di predicatori meccanici delle lower classes che caratterizzarono gli
esordi del quaccherismo, lo accreditava di aver precorso l’Illuminismo
in ragione di una critica radicale all’autorità del testo biblico.
Richard Popkin ha poi sottolineato che Fisher aveva una profonda conoscenza
delle lingue classiche e dell’ebraico e ha avanzato la tesi di una possibile
influenza su Spinoza, che potrebbe aver conosciuto in quanto figura di spicco
della prima missione quacchera nell’Olanda degli anni ’50 La lettura
di McDowell congiunge questa volta i due contesti interpretativi: da una parte,
vengono messi in evidenza gli aspetti eruditi che avvalorano la tesi di un
passaggio dalla «luce interiore» quacchera alla ragione dell’Illuminismo
radicale; dall’altra, viene fatto emergere l’impiego di registri
ironici e anti-intellettuali popolari, ispirati forse dal Martin Marpriest
di Overton e rivolti al pubblico di artigiani e mercanti del milieu
quacchero. L’appropriazione e lo svuotamento dall’interno dello
stereotipo del «laicus illitteratus» si conferma perciò il
filo rosso di un’analisi che sfocia, con Fisher, in una singolare «difesa
dell’entusiasmo quacchero nei termini di una critica razionale e scettica
del valore epistemologico dell’esegesi scritturale».
6. McDowell elabora, così, un percorso inglese all’Illuminismo
attraverso la secolarizzazione dell’escatologia che il «puritanesimo
rivoluzionario» aveva usato contro la possibile affermazione di un potere
clericale. Tale prospettiva richiama alcune osservazioni sulla via peculiare
del pensiero britannico illuminato, sans philosophes, di John G. A.
Pocock. Non segue, tuttavia, le orme del discusso versante «conservatore»
che quest’ultimo ha poi privilegiato, e rimane piuttosto sul tracciato
hilliano che dagli «entusiasti» della Rivoluzione va a quello che
si usa ora designare «Illuminismo radicale». La singolare congiunzione
di «ragione» e «rivelazione» tese, infatti, trasformare
la «luce interiore» e l’ispirazione individuale in «retta
ragione» comune a tutti proprio nell’ambito dell’ala più
entusiasta dello stesso movimento quacchero.
McDowell pone giustamente Fisher in relazione con il percorso spirituale del
mercante londinese Robert Rich, fedele seguace di James Nayler e come tale
estraniatosi dai quaccheri per l’affermarsi di un’ortodossia al
loro interno sotto la guida di George Fox. Portata all’attenzione degli
studi da un paio di fondamentali saggi di Geoffrey Nuttall e Nigel Smith,
l’esperienza di Rich – un lettore di Montaigne, Charron e Hobbes
– mostra, insieme alla critica biblica di Fisher, come lo scetticismo
razionale, diversamente che in Walwyn, potesse integrarsi in un’esperienza
«entusiastica». Essa è una possibile strada alle prospettive
deistiche della fine del secolo, che con Fisher potrebbe, ricorda McDowell,
aver incrociato Spinoza nell’ambiente dei collegianti olandesi: in contatto
con i primi quaccheri questi ultimi vi entrarono poi in conflitto proprio
a causa degli sviluppi razionalistici del proprio spiritualismo. Rich, da
parte sua, interpretò la «luce interiore» in tutti gli uomini
e donne non solo come fondamento della libertà di coscienza e dell’inutilità
della controversia sul testo biblico, ma come principio che affermava la presenza
di una parte di verità in tutte le religioni esistenti, muovendosi
verso qualcosa di simile all’idea di una religione naturale e traendone
come conseguenza il rifiuto del conformismo nei confronti di qualunque Chiesa
- quella istituita, ma anche quelle dissenzienti.
7 Si tracciano in questo modo i contorni di un contesto delle origini dell’«Illuminismo
radicale» dove si coniugano le strade autonome del radicalismo verso
Blount, Toland e Collins e quelle che incrociano in Olanda lo spinozismo.
Un contesto possibile, non sufficientemente esplorato da Israel, cui si potrebbero
aggiungere altri elementi, oltre all’ormai nota funzione di tramite
culturale di Benjamin Furly e della sua biblioteca, o a quella di Henry Stubbe.
Una delle relazioni intellettuali e spirituali più importanti per Rich
fu Joshua Sprigge, cappellano e sodale del protettore di Stubbe – il
mistico parlamentare Henry Vane – e tra i più radicali interpreti
dell’idea del Cristo interiore: riconosciuto da coloro che si unirono
a Nayler e Fox come una fonte ispiratrice, alla metà degli anni ’50
i suoi sermoni vennero tradotti in Olanda nell’ambiente dei collegianti
pressoché in contemporanea con i primi scritti quaccheri. Il collegiante
Pieter Cornelius Plockoy – accreditato da Israel di un’influenza
su un uomo importante nella formazione di Spinoza come Franciscus Van den
Enden – tra il 1659 e il 1660 pubblicò i propri scritti in Inghilterra
nell’ambiente del libraio Giles Calvert, che era in stretti rapporti
sia con Sprigge che con Rich e come loro si era distaccato dai quaccheri dopo
la caduta in disgrazia di Nayler.
Il percorso di Robert Rich, le sue letture e il milieu degli anni della
Rivoluzione rievocato dai suoi scritti sollevano questioni che McDowell sembra
trascurare. Egli non entra nel merito del legame diretto che Rich instaura,
fra gli altri, con il ranter Coppe (e con Coppin). Soprattutto, non
dà il dovuto peso alla presenza forte di Jacob Boehme nell’esperienza
di quel milieu. Manca ancora una ricerca soddisfacente su ricezione,
lettura, travisamento e appropriazione del mistico tedesco da parte degli
«entusiasti» della Rivoluzione inglese. Si tratta tuttavia di una
questione che è difficile considerare estranea all’«immaginazione
radicale» e che peraltro potrebbe porre interessanti interrogativi, dato
il contesto pietistico in cui prende piede il pensiero illuminato, e moderato,
dell’area tedesca.
8. McDowell mette a fuoco, dunque, un’«immaginazione radicale»
inglese che per molti versi si inserisce nella lettura con cui Jonathan Scott
l’ha re-investita di un rilevante significato storico: un fenomeno «intellettuale
e culturale» di immaginazione del processo di cambiamento, profondamente
innervato dall’esperienza religiosa inglese che esso «rifrange»
verso l’Illuminismo. Come ricordato, i protagonisti sono, nonostante
tutto, quelli riportati alla luce trent’anni fa da Christopher Hill.
Ma la ‘luce’ della nuova immagine è cambiata: i movimenti
– il livellatore o il quacchero per esempio – o, in termini più
generali, i contesti d’azione individuale e collettiva sono uno sfondo
indistinto. McDowell spiega correttamente le sue scelte nel capitolo iniziale
e avverte il lettore che, intorno a Fisher, Overton, Walwyn, c’è
un mondo concreto, non meno interessante, di «predicatori meccanici»:
artigiani appartenenti alla fascia meno prospera della middling sort
– tra i quali i più noti sono Samuel How, Gerrard Winstanley,
Thomas Totney alias TheaurauJohn, George Fox – e donne profeta
come Anna Trapnel Il fine, raggiunto, di The English Radical Imagination
è la riscoperta della dimensione colta dei radicali «più
estremi», importante in effetti per comprendere l’interazione,
il «bricolage», «la fusione radicale del linguaggio popolare
e dell’élite», «la diversità e complessità
dell’immaginazione radicale inglese»: essa, precisa ancora McDowell,
non fu «un fenomeno puramente testuale» e «individui con differenti
retroterra culturali si mossero nello stesso milieu sociale».
A chi scrive, pare, tuttavia, riduttiva rispetto a queste osservazioni preliminari
la conclusione che sia meno incredibile l’apprezzamento da parte di
Milton della satira di Coppe o del materialismo di Overton – ancora
un antico tema di Hill: “Milton e i radicali” – in quanto
essi attingevano alla stessa formazione umanistica e universitaria. Ci si
chiede se in questa impostazione del problema non sia sottinteso che, insieme
a Milton, il lettore dovrebbe dar maggior peso al radicalismo in quanto tradizione
colta, che questo contesto intellettuale sia in effetti più rilevante
della contaminazione con l’ambiente dei Winstanely, dei Coppin, dei
Totney e dei Calvert, e in definitiva che questi ultimi non potessero avere
una comprensione ‘esatta’ della radicalità di Coppe e Overton.
Il pericolo è che nel tornare dalla letteratura alla storia il radicalismo
rimanga chiuso nell’ambito delle mosse e contromosse testuali e l’eversione
nel solo campo intellettuale. Il libro di Ann Hughes su Thomas Edwards e la
politica presbiteriana ha, invece, dimostrato in maniera stringente come la
porosità della comunicazione a stampa, manoscritta e orale avesse reso
possibile nella Rivoluzione inglese lo strutturarsi di movimenti di massa.
Chi scrive nutre dei dubbi sul fatto che quello presbiteriano sia stato «radicale»,
come suggerisce l’autrice, ma certamente fu «popolare»: il
«testo» non fu solo «evento», divenne pratica politica
L’impressione è che riaffrontare questo orizzonte problematico,
come fine e azione concreta esposti al successo e alla sconfitta, restituirebbe
forse anche in questo caso un’immagine meno nitida, più articolata
e forse contraddittoria, delle origini inglesi dell’Illuminismo.