1. Un contributo alla storia dell’ateismo settecentesco: il recente libro di Giovanni Cristani, già studioso di Boulanger e d’Alembert, è soprattutto questo. All’Autore premeva, in particolare, evidenziare l’intreccio di idee filosofiche e pratiche scientifiche nel secolo dei Lumi, esaminando in profondità gli interessi geologici e mineralogici del barone D’Holbach. Pur essendo più di tutto uno storico della filosofia, Cristani dimostra una sicura competenza nel trattare i principali temi dell’Illuminismo scientifico, quali si riverberano nell’opera di D’Holbach: dalla via aperta dalla nouvelle chimie sino alle rivoluzioni che hanno caratterizzato la storia del nostra pianeta, l’analisi rimane dettagliata e attenta. Cristani riesce a dire qualcosa di nuovo (la geologia del barone francese non era mai stata, fino ad oggi, molto studiata) in un campo nel quale è stato scritto tanto, in particolare negli ultimi vent’anni. Ora, anche sul piano più propriamente storiografico, l’indagine si rivela assai aggiornata, come si può notare dalla cospicua bibliografia che chiude il volume. I primi due capitoli del libro sono, necessariamente, quelli più tecnici. I successivi due ci mostrano un Autore a suo agio nell’esame dei dibattitici filosofici e scientifici, politici e religiosi entro cui si collocarono gli studi d’holbachisti. Così, il discorso storico sulla scienza si collega da vicino a quello circa gli esiti scettici e apertamente materialistici a cui condussero le nuove scoperte geologiche e mineralogiche. Ne emerge la concezione di un ordine naturale che, nel caso di D’Holbach e dei più radicali tra i philosophes, si presenta come sostanzialmente lucreziano: il modello biblico del diluvio universale è posto in crisi e sostituito da una visione ciclica della storia (alla quale attinsero numerosi enciclopedisti, non ultimo Diderot). D’Holbach era un convinto profeta dell’eterno circolo della natura, vista quest’ultima nel suo perenne e dinamico fluire. Le leggi geo-fisiche che governano il mondo erano da lui intese alla stregua di meccanismi uniformi. Una teoria della materia che esclude sia la presenza sia l’intervento della divinità, un’indubbia radicalizzazione del “deismo spinozista” d’inizio Settecento, al quale avevano aderito i libertini inglesi e italiani (da Toland a Tindal, da Collins sino al nostro Radicati). Nel caso di D’Holbach, che Cristani mette utilmente a confronto con Boulanger (oggetto di uno studio pionieristico da parte del grande Franco Venturi nel lontano 1947), la teoria dell’impostura teologica raggiunge il suo apice e si colora di tratti originali. Il mondo ateo di D’Holbach è la prova della rottura che si consuma a metà Settecento, in maniera non più ricomponibile, tra un’immagine ancora ‘devota’ del mondo e una rappresentazione di esso riplasmata dal savant illuminato sulla scorta di quanto le nuove scienze vanno, ogni giorno, mettendo in luce. A questo confronto tra antichi e moderni, memore di vecchie querelles, penso che Cristani dedichi le sue pagine migliori. Il pregio maggiore del libro è infatti, secondo me, quello di saper offrire un esempio di storia della geologia che evita le secche della lettura esclusivamente “internista”, andando a leggere anche il significato degli eventi in gioco ed inquadrando nel suo reale contesto di appartenenza una disciplina allora ancora in fase di faticosa istituzionalizzazione. Una storia filosofica della scienza, che guarda alla circolazione di uomini e idee: il saggio di Cristani è specialmente questo. Non per nulla, esso è il quinto di una giovane collana inaugurata da Olschki al fine di ospitare testi e studi sulla modernità, dal titolo, molto significativo, di Pansophia.
2. Il lettore finisce, così, per trovarsi di fronte ad una proposta di lettura senz’altro interessante, indirizzata a privilegiare lo studio dell’integrazione tra i diversi saperi: un metodo corretto al fine di comprendere la rete dei complessi cambiamenti filosofico-scientifici che vennero a maturazione nel corso del Settecento francese ed europeo. Il settore della geologia d’holbachiana è sempre stato poco battuto. Cristani osserva all’inizio del libro che, malgrado una mole ingente di studi volti a ridefinire, storicamente, i mutamenti che segnarono le scienze della terra tra età barocca e Illuminismo, in pochi hanno cercato di praticare una (necessaria, credo di poter aggiungere) storia culturale della scienza. Segnatamente, scrive l’Autore, poco è stato investigato circa il “possibile ruolo svolto in questo ambito dalle indagini sui fossili e sugli strati” (IX). Oltre che curatore dei lemmi politici, accanto a e sotto la guida di Diderot e Jaucourt, il barone D’Holbach fu l’autore delle voci di geologia dell’Encyclopédie. Inoltre, fece tradurre e conoscere, presso i dotti francesi, le più rappresentative opere chimico-mineralogiche tedesche. Cristani avverte subito il suo pubblico riguardo ai motivi ispiratori che lo hanno sorretto nel suo lungo lavoro di ricerca, evidenziando “da una parte, l’intento di individuare le molteplici relazioni dell’opera scientifica di d’Holbach coi temi centrali del dibattito settecentesco sulle scienze della Terra”, e, “dall’altra, il proposito di ricostruire le implicazioni filosofiche, polemiche e anti-apologetiche che quelle tematiche scientifiche assumevano nell’opera filosofica e nell’attività ‘pubblicistica’ del barone” (X). Prima di Cristani, Rhoda Rappaport aveva accentuato l’innovativa e radicale originalità del progetto riformatore di D’Holbach, la sostanziale autonomia di quest’ultimo nell’approcciarsi alle discipline mineralogiche. Una tesi che Cristani condivide, ritenendo, tuttavia, che l’operazione svolta dal barone in tale settore sia stata “di più ampio respiro, ponendosi ambiziosamente sul piano della teoria generale della Terra e forse anche della filosofia della natura” (pp. 28-29). Toglierei tranquillamente l’“anche”. L’analisi verte su quelle “rivoluzioni generali del globo” (p. 36) che impongono un serio confronto tra la posizione epistemica di D’Holbach e le teorie esposte negli Anecdotes de la nature da Boulanger. Se ci interroghiamo sul ruolo che le tesi geologiche del barone possono avere assunto, a loro volta, in quello che fu l’impianto concettuale e argomentativo del Système de la nature, scopriamo che le asserzioni centrali della sua filosofia (l’eternità della materia, critica dell’idea di ordine naturale, l’indicazione di cause fisiche alla base delle manifestazioni religiose) trovano un plausibile sostegno nel catastrofismo sottoscritto dal philosophe. Scrive il Cristani che “per d’Holbach, la natura, con le sue periodiche rivoluzioni, aveva ricacciato più volte l’umanità nelle tenebre dello stato selvaggio e non era escluso che ciò potesse ancora avvenire” (p. 86). Le conclusioni d’holbachiste sulla teoria del nostro pianeta sposavano dunque la tesi dell’eternità del mondo, entro il quadro generale di un’accesa polemica anti-creazionista. Ora, è noto che il principio di una materia increata ed eterna è una delle grandi idee esposte nel Système, ribadita più e più volte, strettamente connessa con la ciclicità dei processi naturali. E’ evidente la convergenza con le teorie sull’antichità e la durata del globo terracqueo di Buffon, il che poi contribuisce, secondo Cristani, a “rendere inconsistente l’identificazione, spesso accolta dalla tradizione manualistica, fra ‘catastrofismo’ geologico e cronologia biblica” (p. 90). Pertanto, il Système riprodusse felicemente “il modello di storia e teoria della terra già tracciato nelle voci dell’Encyclopédie e nelle prefazioni agli autori tedeschi” (p. 110). Il D’Holbach di Cristani finisce, inevitabilmente, per riportarci al Boulanger e alla sua costante presenza nella cultura degli enciclopedisti. Fonte privilegiata, gli Anecdotes furono un punto di riferimento importante anche per diversi altri autori, tra i quali Nicolas Desmarest e Antoine Fabre d’Olivet, il quale – tra l’altro – fu uno dei primi a spostare la discussione sul tema dell’esistenza di Atlantide dal versante geologico-scientifico a quello invece teosofico e latomistico, riconsegnando alla sfera del mito l’eredità di Platone. Ricordo, almeno di passaggio, che la questione atlantidea divenne oggetto di vivaci dibattiti nell’Illuminismo francese, coinvolgendo nomi quali Tournefort e Bailly, Voltaire e Fréret. Anche D’Holbach se ne occupò, nella voce dell’Encyclopédie da lui dedicata ai movimenti della crosta terrestre. La rovina della fantastica isola atlantica rappresentava per lui nient’altro che uno dei numerosi fenomeni storici generati dall’azione del materiale infiammabile esistente nelle immense cavità del nostro sferoide. Chi scrive non può non pensare qui ai “fuochi sotterranei” cari, tra XVII e XVIII secolo, ad Athanasius Kircher e Anton Lazzaro Moro. Il segno, palese, di una circolazione di immagini e idee tanto ricca quanto varia, capillarmente diffusa nei milieux più diversi della ‘Repubblica delle Lettere’.
3. Da sempre, Atlantide, il leggendario continente perduto descritto per a
prima volta da Platone nel Crizia e nel Timeo, ispira interesse
e curiosità, stimolando assai spesso vivi dibattiti ed accese polemiche.
Nel libro di Ciardi, un agevole saggio scritto da uno storico della scienza
di professione, viene ricostruita rigorosamente e secondo i più aggiornati
criteri metodologici la storia della controversia circa l’esistenza
dell’isola atlantidea tra la fine del secolo XV, con la scoperta dell’America
da parte di Colombo, e la prima metà del XIX, con le ricerche humboldtiane
sulle conoscenze degli antichi e quelle darwiniane circa l’evoluzione
delle specie. La sezione più ricca e interessante è senz’altro
dedicata al Seicento, inaugurato dalla grande utopia baconiana e caratterizzato
dagli studi su vulcani e terremoti compiuti da Kircher, Hooke e Stenone. Altrettanto
riuscita è la parte che Ciardi dedica al Settecento, secolo all’Autore
particolarmente caro. L’età dei Lumi si apre, com’è
noto, con le ipotesi del Tournefort, forse il più importante botanico
francese del periodo, e prosegue con la “cronologia degli antichi regni
emendata” da Newton, tradotta in italiano (nel 1757) dal poeta arcade
Paolo Rolli. Trattarono di Atlantide, non senza lasciarsi coinvolgere, anche
i maggiori protagonisti dell’Illuminismo francese (philosophes come Diderot e Voltaire, naturalisti come De La Métherie e Buffon,
ma soprattutti astronomi come il Bailly) ed italiano (il grande Spallanzani
su tutti). Tutti diedero prova, con varie sfumature, di un atteggiamento fortemente
critico e razionalistico, ostile ai “romanzi filosofici” ed attento
unicamente al vero delle prove fattuali. Né manca, nel completo ed
esauriente quadro d’insieme delineato da Ciardi, il necessario richiamo
alla realtà britannica sei-settecentesca, che vide – più
che altrove – un significativo e rassicurante tentativo di ricomposizione
tra nuove conquiste geologiche e impianto tradizionale della teologia anglicana.
Nell’Inghilterra della Royal Society, il dibattito su Atlantide si ricollegava,
da vicino, a quello sulla “terra cava”, l’altra affascinante
ipotesi mitica che sedusse non pochi tra i più importanti scienziati
britannici del tempo (Halley, Burnet, Whiston su tutti). In Inghilterra, argomenti
come quelli relativi ad Atlantide ed alla “terra cava” venivano
ripresi e ridiscussi alla luce della teologia naturale lockiano-newtoniana,
scongiurando, in tale modo, certe conclusioni dal sapore deistico e libertino,
sottilmente materialiste, destinate invece ad incontrare maggiore fortuna
in Francia, dove si registrarono le già viste oscillazioni di autori
quali D’Holbach e Boulanger, nonché le radicali prese di posizione
del voltairiano Dortous de Mairan. Il “mito di Atlantide” rinasceva
pertanto, sulle pagine dei maggiori filosofi e scienziati di età moderna,
come un frammento della querelle des anciens et des modernes che vide
dividersi i letterati francesi e inglesi tra la fine del XVII secolo ed i
primi anni del XVIII. Tuttavia, il discorso di fondo, stanti le sue implicazioni
ed i suoi risvolti, andava anche molto più oltre il processo di razionalizzazione
dell’elemento favolistico e del Genesi biblico, come nel caso
della “terra cava”, a cui pure un matematico severo come lo svizzero
Eulero pareva ancora disposto a sacrificare generosamente. Strettamente legata
a problematiche ed a suggestioni d’importanza tutt’altro che marginale,
al pari della storia della terra e dell’origine della civiltà
umana, l’accesa discussione in merito alla veridicità o meno
del mito atlantideo raccolse sulla tomba di Platone la migliore intellettualità
europea di età moderna, ora più scettica ora più convinta.
Il libro di Ciardi ha il merito indiscutibile di dimostrare come lo studio
di Atlantide venisse allora considerato da molti un campo di ricerca degno
della massima rilevanza scientifica e riconosciuto a livello istituzionale,
come l’attività delle accademie sta a dimostrare. Ricca e di
particolari e di episodi inediti, l’Atlantide di Ciardi riemerge dalle
profonde acque di un passato del quale si era persa la memoria, come un affascinante
viaggio tra le conquiste della scienza e i miti delle vichiane “sterminate
antichità”. Si tratta di un libro che riesce, senza fatica, ad
attestare la consistenza storica della leggenda atlantidea in quel cruciale
lasso di tempo che vide la nascita ed i primi sviluppi della scienza moderna.
Il volumetto si rivela inoltre capace di colmare una lacuna, dando ragione
dei contesti intellettuali in cui ebbe a svolgersi la controversia, di quei
luoghi del sapere che fecero allora da sfondo socio-culturale alle diverse
discussioni. Ad essere in gioco erano, all’epoca, soprattutto la reale
collocazione geografica dell’isola atlantica e la determinazione temporale
dei racconti contenuti nei dialoghi platonici: problemi per i quali il ricorso
al nuovo metodo storico-filologico parve un ausilio eccellente. Né
va dimenticato che, a partire già dal secondo Seicento, le conoscenze
archeologiche erano notevolmente migliorate – anche in Italia, nella
Roma di Bianchini e Ciampini –, portando quasi ovunque ad un sempre
più accentuato rigore in seno all’indagine. Se la geologia seppe
pertanto crescere e maturare, pare suggerire Ciardi, fu grazie anche a tali
fattori ed in rapporto a vexatae quaestiones come quella relativa all’inabissamento
dell’isola favoleggiata da Platone nei suoi dialoghi. Una prospettiva,
sul piano storiografico, decisamente nuova e non priva di un certo coraggio;
forse anche un monito per tutti quegli storici delle scienze geologiche che
dimenticano di riferire le opere degli autori al loro ambiente di appartenenza,
privilegiando così il testo a (grave) scapito del contesto, quando
– in realtà – il secondo si rivela essenziale alla corretta
comprensione del primo. Come nel caso di Cristani, anche con Ciardi ci troviamo
di fronte a un felice esempio di storia delle idee, lontana dalla vuota astrattezza
di tanta epistemologia contemporanea e capace, altresì, di oltrepassare
un taglio meramente descrittivo per ricostruire in dettaglio l’effettiva
circolazione di un tema. Fuse e confuse insieme, ancora sulle pagine di un
d’Alembert, la scienza e la storia s’incontrarono, per un’ultima
volta, nei palazzi decaduti di un mondo sommerso.
F. Venturi, L’antichità svelata e l’idea di progresso
in Nicolas-Antoine Boulanger 1722-1759, Bari, Laterza, 1947; F. Venturi,
“Postille inedite di Voltaire ad alcune opere di Boulanger e del barone
d’Holbach”, Studi francesi, V, 1958, pp. 231-240; G. Cantelli,
Jean Leclerc e l’interpretazione storica delle favole antiche,
in Id., Vico e Bayle. Premesse per un confronto, Napoli, Guida, 1971,
pp. 31-54; M. Sartori, “Voltaire, Newton, Fréret: la cronologia
e la storia delle antiche nazioni”, Studi settecenteschi, VII-VIII,
1985-1986, pp. 125-165; M. Pasini, “L’astronomie antédiluvienne.
Storia della scienza e origini della civiltà in Jean-Silvain Bailly”,
Studi settecenteschi, XII, 1988-1989, pp. 197-235; G. Cristani, “Tradizione
biblica, miti e rivoluzioni geologiche negli Anecdotes de la nature
di Nicolas-Antoine Boulanger”, Giornale critico della filosofia italiana,
XIV, 1994, pp. 92-123; L. Sprague De Camp, Il Mito di Atlantide e i Continenti
Scomparsi (1970), Milano, Fanucci, 1998; G. Cristani, “D’Holbach,
Boulanger e le scienze della Terra”, Rivista di storia della filosofia,
LV, 2000, pp. 473-510; M. Ciardi, “Scoperte geografiche, missionari,
viaggiatori, geologi”, Nuncius, XIX, 2004, pp. 421-422.