«Ξένους ξένιζε
και σύ γαρ ξένος
γ΄έ̉σή»
(«Accogli gli stranieri anche tu infatti sarai straniero un giorno»).
Anonimo.
(Grozio, Excerpta ex tragoedis et comoedis graecis, 1626, p. 938).
1. Quando l’abate Guillaume Raynal, nell’edizione dell’Histoire
de deux Indes del 1780, informava i suoi lettori del progetto di un’Histoire
de la Révocation de l’Edict de Nantes, annunciava un’opera
che non avrebbe mai raggiunto la pubblicazione. Ciononostante, l’autore
lavorò per essa a lungo e intensamente al fine di proporre un’analisi
documentata e dettagliata degli effetti che la politica religiosa di Luigi XIV
aveva procurato al suo paese:
Ce ne sera pas un détail des atrocités qui accompagnèrent cet événement malheureusement célèbre – avvertiva l’autore – Je suivrai sur le globe entier les réfugiés françois; et je retracerai, le mieux qu’il me sera possible, le bien qu’ils firent aux régions diverses où ils portèrent leur activité, leurs larmes et leur industrie[1].
Raynal intendeva mostrare ciò che la Francia aveva perduto, attraverso
lo specchio delle tante realtà estere in cui l’industria e le
competenze dei profughi francesi avevano potuto dispiegarsi. A questo scopo,
per buona parte degli anni ’80 del Settecento, tempestò di richieste
i suoi corrispondenti esteri, perché gli procurassero notizie sugli
esuli francesi giunti in quegli Stati; altre informazioni poté raccoglierle
personalmente durante l’esilio seguito alla condanna dell’Histoire
des deux Indes. Estraneo a preoccupazioni apologetiche e a coinvolgimenti
diretti nella vicenda dei protestanti francesi, Raynal tentò di raccogliere
dati sugli effetti economici e sociali della revoca senza indulgere a memorie
e ricordi agiografici di martiri perseguitati, che pur costituivano una parte
consistente della letteratura ugonotta in Europa. A conferma del fatto che
quest’ambizioso progetto aveva il suo motivo ispiratore nello studio
di una determinata realtà storica, condotto in modo scientifico, l’autore
stilò un questionario a cui i suoi corrispondenti avrebbero dovuto
attenersi nello svolgere le loro inchieste. Della mancata realizzazione dell’opera
ancora oggi s’ignorano le cause; certo è che Raynal incontrò
numerose difficoltà, non ultima l’assenza di un editore disposto
a farsi coinvolgere in un’impresa certamente impopolare, al fianco di
un autore già censurato[2].
È superfluo sottolineare che la storiografia contemporanea, impegnata
a ricostruire la vicenda dei protestanti francesi, avrebbe enormemente beneficiato
di un materiale documentario così ricco e, al tempo stesso, selezionato
con criteri netti: criteri sui quali si sono basati alcuni dei più
recenti studi sul comportamento della minoranza ugonotta in patria e nei paesi
di adozione[3]. Fino ad oggi non
è stato neppure possibile ricostruire, nella sua completezza, tutto
il materiale preparatorio dell’Histoire de la Révocation
che amici di Raynal, conoscenti e intellettuali solidali inviarono a Parigi
sotto forma di biografie, censimenti, repertori etc. Di tanto in tanto un
nuovo tassello si aggiunge alla composizione del mosaico che l’insieme
delle fonti dell’Histoire costituisce[4].
Uno di questi contributi fu pubblicato poco dopo la sua composizione, nel
1784, nella forma epistolare in cui era stato redatto, con il titolo: Lettre
à l’Abbé Guillaume-Thomas Raynal sur la vie de feu M.
Pierre de Roques[5]. L’autore,
Johann Rudolf Frey, era un militare di carriera, cittadino svizzero al servizio
della Francia, comandante della piazza di Basilea. Sua era stata la scelta
di soddisfare le richieste di Raynal circa il soggiorno di esuli francesi
nel cantone di Basilea, rievocando la vicenda del pastore Roques, che qui
aveva vissuto «à l’ombre de la liberté»[6]
per circa quarant’anni.
Nella compagine svizzera Basilea non era tra le città che avevano potuto
garantire un rifugio sicuro agli esuli ugonotti: gli impegni commerciali e
militari che la legavano al sovrano francese limitavano la sua autonomia;
inoltre, qualche anno prima della revoca, Luigi XIV aveva fatto costruire,
proprio alle porte di Basilea la fortezza francese di Hüningen, rendendo
difficile e rischiosa la sosta dei profughi nella città renana. Furono
piuttosto le città della Svizzera romanza, Ginevra, Losanna, Neuchâtel,
le prime e le più operose nell’allestire una rete di solidarietà,
mentre nella Svizzera tedesca fu Berna ad agire con efficacia maggiore di
tutte le altre[7]. A Basilea, però,
l’industria e l’intraprendenza degli ugonotti che erano stati
accolti sin dalla fine del XVI secolo, aveva fatto sì che si costituisse
una piccola, ma attivissima comunità francese intorno a una Chiesa
in cui si officiava il rito francese. Nel corso del XVII secolo la Chiesa
francese di Basilea era divenuta così popolare da richiamare costantemente
anche molti riformati svizzeri, che stimavano i predicatori ugonotti i migliori
della regione[8]. Non deve pertanto
destare meraviglia il fatto che, pochi anni dopo la pubblicazione della biografia
di Roques a cura di Frey, un secondo contributo destinato all’Histoire
di Raynal provenisse da quella stessa città, dove il pastore Petitpierre
aveva stilato una Histoire de l’origine et des progrès de
l’Eglise française de Bâle depuis l’an 1569 jusqu’à
l’an 1780. Il manoscritto, tutt’oggi conservato allo Staatsarchiv
di Basilea, ripercorre la storia della minoranza francese già presente
in città qualche anno prima della Saint Barthélemy e nutrita,
nel secolo successivo, dall’arrivo di sempre nuovi esuli[9].
Di questa comunità – che pur aveva avuto ospiti eccellenti –
era stato illustrissimo rappresentante e certo uno dei più attivi promotori
il pastore Pierre Roques, che Abraham-Henry Petitpierre portava a modello
di virtù nel suo scritto.
2. Il personaggio di Roques è di quelli che Raynal andava cercando
per l’Europa per dimostrare, documenti alla mano, il danno che Luigi
XIV aveva arrecato al suo paese con la revoca dell’editto di tolleranza.
Un uomo mite e profondamente religioso, benestante, di nobili origini, che
solo l’esilio e le difficoltà originate dalla persecuzione avevano
spinto a seminare per l’Europa fermenti di lotta e di sovversione, che
ora minacciavano l’autorità del re dei francesi. Nella piccola
Basilea Pierre Roques aveva trovato la libertà di scrivere e pubblicare
testi che alimentavano la resistenza dei protestanti francesi rimasti in patria
e il desiderio di riscatto degli esuli del Refuge. A Ginevra aveva
amici influenti e apprezzati in Europa, che si dicevano disposti a sostenere
la sua causa e quella dei suoi compatrioti perseguitati. Con l’abilità
e il senso pratico che a volte si accompagna all’ingegno di pochi, ma
eccellenti, uomini di lettere, Roques si servì delle stamperie basileesi
come di una potentissima cassa di risonanza per diffondere idee di condanna
del potere tirannico. I suoi libri, stampati in Svizzera in molteplici edizioni
e poi tradotti, furono sempre scritti in francese affinché più
facilmente potessero circolare, una volta penetrati clandestinamente in Francia.
Ancora oggi gli esemplari conservati nelle biblioteche francesi testimoniano
dell’ampia fortuna che l’opera di Roques incontrò in patria.
Fu un intellettuale partecipe e critico dei problemi della società
a lui contemporanea. Non si limitò mai al solo ufficio pastorale: sotto
l’apparenza di testi di edificazione morale scrisse di legislazione
civile e di giustizia, s’interessò di teoria politica e di ermeneutica
biblica, sempre attento agli ultimi sviluppi che ciascuna di queste discipline
aveva subito negli anni più recenti.
Era nato l’anno stesso della revoca dell’Editto di Nantes[10].
La sua biografia si prestava in modo suggestivo a diventare il modello di
un’intera generazione, che era nata sul suolo francese, ma non vi aveva
mai vissuto. Così la dovettero percepire anche i contemporanei che
in lui identificarono un soggetto ideale per l’Histoire di Raynal.
Il ricordo scritto da Johann Rudolf Frey non è più che una testimonianza
resa da un allievo e amico devoto, che nella vita ebbe tutt’altri interessi[11].
Purtroppo Frey si limitò a qualche accenno circostanziato all’intensa
attività letteraria di Roques e alle reazioni che essa suscitò
ben oltre i confini dei paesi di lingua francese; ma l’improvvisato
biografo, avvisato dell’uso che Raynal avrebbe fatto delle sue informazioni,
si rendeva perfettamente conto del significato esemplare che la vicenda di
Roques poteva assumere, pertanto non mancava di menzionare, seppure brevemente,
tutti i dibattiti, le relazioni epistolari, i contributi giornalistici e le
amicizie letterarie che quel profugo intraprendente aveva stretto nella sua
lunga e operosa vita basileese. Infine, non trascurava di segnalare le vicende
dei numerosi figli di costui, che portarono ancora più lontano, fin
nell’Hannover e in Danimarca, l’esempio paterno di un intelletto
critico e attivo. Così concludeva il suo ricordo Johann Rudolf Frey:
Vous pouvez à présent, Monsieur, juger d’après cette seule famille des effets qu’ont dû produire, en Hollande, en Angleterre, en Suisse, dans toute l’Allemagne protestante, et jusqu’au fond du Nord, tant de milliers de familles que la révocation de l’Edit de Nantes y a répandues. C’est à un homme de votre pénétration à démêler ... ce qui a dû naturellement résulter, dans toutes ces différentes contrées, de l’heureuse effervescence que le mélange des esprits, des lumières, des caractères y a fait naître dans le moral, indépendamment de ce que l’accroissement des races, et tant d’autres causes ont pu opérer dans le physique[12].
3. L’anno stesso della revoca la famiglia Roques aveva deciso di lasciare
la Francia e cercare asilo in Svizzera. Erano stati accolti nel cantone di
Vaud grazie all’interessamento di influenti amici di famiglia che avevano
vegliato sul lungo viaggio oltre i confini francesi, assicurando l’incolumità
di tutti i membri. Una tradizione familiare nobile e facoltosa impedì,
più tardi, che il giovane Pierre trascorresse il resto della sua vita
in una regione essenzialmente rurale; nel 1700 egli partì da solo per
compiere gli studi universitari a Ginevra. Qui frequentò la Facoltà
di filosofia e poi quella di teologia, sotto la guida di celebri maestri allora
docenti in quell’accademia: Antoine Léger, Jean Gautier, Benedict
Pictet e Jean-Alphonse Turrettini. A Ginevra ebbe inizio anche la sua attività
pastorale; Roques si distinse tra i coetanei per un’eccellente preparazione,
per la vivacità, per una naturale amabilità e per un «feu
qu’il avoit quelque fois peine à retenir», secondo l’espressione
del suo biografo[13]. Ginevra
era allora luogo d’incontri eccellenti, meta di profughi da tutta Europa,
sede di un’accademia incline a recepire criticamente le moderne dottrine
filosofiche, che contava fra i suoi membri alcuni sostenitori del cartesianesimo
ed era attenta a quanto produceva la Francia di Port Royal. A una sostanziale
vivacità degli studi filosofici si accompagnava, poi, un incipiente
rinnovamento degli studi di teologia, che avevano in Jean-Alphonse Turrettini
il loro più noto e apprezzato esponente[14].
Infine, gran parte della Vénérable Compagnie des Pasteurs era
coinvolta nell’attività di sostegno ai protestanti francesi promossa
da Antoine Court e disponibile ad appoggiare la causa dei perseguitati[15].
È probabile che proprio l’interesse e la partecipazione del giovane
Roques ai progetti di rinnovamento teologico, di cui Turrettini era promotore,
lo abbiano condotto da Ginevra a Basilea. Nel 1710 la comunità francese
della città, rimasta priva di una guida spirituale alla morte dell’abate
Paul Reboulet, offrì l’incarico a Roques. La profonda amicizia
che legava allora Turrettini al teologo basileese Samuel Werenfels e lo sforzo
comune di aggiornare i contenuti della dottrina calvinista alle esigenze di
generazioni cresciute alla scuola di Cartesio, di Locke e di Leibniz, influì
probabilmente sulla scelta di un giovane e appassionato pastore, la cui formazione
teologica era nutrita della moderna filosofia. Roques accettò di trasferirsi
a Basilea non senza qualche esitazione, per il timore di fare ritorno a un
ambiente provinciale e lontano dall’animato mondo ginevrino; ma nella
Basilea della prima metà del XVIII secolo, ricca di fermenti intellettuali,
trovò una situazione culturale e amicizie non meno stimolanti che a
Ginevra. Appena giunto in città fu ospite per qualche tempo della famiglia
Bernoulli; da questo osservatorio privilegiato, fu testimone della rapida
ascesa di alcuni giovani scienziati basileesi i cui nomi sarebbero divenuti
famosi in tutta Europa pochi anni più tardi: i matematici Johann Bernoulli,
Leonhard Euler e Jakob Hermann. Inoltre si legò di un’amicizia
profonda e duratura a Samuel Werenfels, del quale sostenne l’opera di
moderazione e razionalizzazione degli aspri dibattiti teologici che dilaniavano
le Chiese protestanti. L’eccellente preparazione che aveva ricevuto
a Ginevra gli valse ben presto la stima dei colleghi universitari, che gli
affidarono un corso di filosofia. Per anni Roques garantì agli studenti
basileesi intense lezioni – nove ore settimanali – i cui metodi
e contenuti saranno ricordati come eccezionali da molti dei suoi ascoltatori[16].
Si trattava probabilmente di uno dei tanti corsi privati che i docenti basileesi
tenevano per una parte selezionata dei propri scolari, spesso presso la propria
abitazione, per non interferire con le lezioni ufficiali e godere così
di maggiore libertà nella scelta dei contenuti. Dei corsi di Roques
non resta traccia nei programmi della Facoltà di filosofia, né
sono riuscita a trovare appunti delle sue lezioni nei fondi manoscritti della
Universitätsbibliothek. Quanto ci è giunto è riportato
da coloro che ebbero l’opportunità di ascoltarlo. Roques alternava
letture dai testi a seminari in cui gli studenti potevano – e dovevano
– porre domande, palesare dubbi e fare osservazioni critiche. Un modo
di procedere che ancora provocava scandalo un secolo più tardi nell’Università
di Glasgow[17].
4. L’attività del pastore Roques animò la vita basileese
per quasi quarant’anni, contribuendo alla rinascita culturale della
città e al suo inserimento sui percorsi ideali dei dibattiti internazionali.
Fu interlocutore dei giornalisti delle riviste di lingua francese che si leggevano
in tutta Europa e collaboratore della Bibliothèque Germanique;
instancabile sostenitore della rete di solidarietà edificata per il
sostegno degli esuli e mirabilmente gestita in quegli anni da Antoine Court,
ma anche interprete attento e recettivo delle istanze di rinnovamento della
teologia e della teoria politica che attraversavano l’Europa di quei
decenni. Quando uno dei principali animatori del Refuge olandese, Jacques
Saurin, morì improvvisamente, lasciando appena iniziata la grande opera
di divulgazione che si era proposto, Roques fu indicato come l’unico
in grado di completare adeguatamente il suo ambizioso progetto; tra il 1735
e il 1736 egli portò a termine e fece pubblicare il terzo e il quarto
volume dei Discours historiques, critiques, théologiques et moraux
sur les évènements le plus mémorables de l’Ecriture
Sainte[18]. L’opera
meriterebbe da sola uno studio più approfondito, per mettere in luce
tutta l’importanza strategica che essa rivestiva nel progetto di divulgazione
altamente qualificata che Saurin aveva sperato di realizzare, e che la premessa
al testo esemplificava con grande chiarezza[19].
Essa s’inseriva a pieno titolo in quel disegno di diffusione di un calvinismo
mitigato, improntato al razionalismo e fondato su un’attenta critica
testuale, che alcuni dei migliori allievi di Louis Cappel elaborarono nel
Refuge[20]. Roques
accettò l’incarico di completare l’Antico Testamento rimasto
incompiuto per la scomparsa di Saurin; fu poi Charles Louis de Beausobre a
terminare i Discours, pubblicando un’edizione priva, per sua
stessa ammissione, del rigore filologico e dell’erudizione che Roques
aveva voluto garantire nel rispetto degli intendimenti del suo predecessore[21].
Non meno significativo, per rivelare la statura del personaggio, è
il fatto che l’esordio della sua vasta produzione coincise con la pubblicazione
di una lettera apologetica in difesa del teologo di Neuchâtel, Jean
Frédéric Ostervald, investito dalle aspre critiche di molti
esponenti dell’ortodossia a causa delle posizioni espresse nel Traité
des sources de la corruption[22]
e poi nel Catechisme[23].
Ostervald era allora conosciuto in tutto il mondo riformato e indicato come
terzo componente del «Triumvirat der vernünftige Orthodoxie»
insieme a Werenfels e Turrettini; in Inghilterra riscuoteva l’apprezzamento
dei latitudinari. La sua opera suscitava, insomma, un dibattito internazionale,
che coinvolgeva illustri rappresentanti delle Chiese riformate[24].
Ciò non impedì che il giovane Roques fosse tra i primi a dichiarare
la sua più sincera adesione ai principi espressi da Ostervald e replicare
alle obiezioni sollevate dai teologi ortodossi[25].
Come primo atto pubblico del suo ministero, Roques s’inseriva così
in un’ accesa controversia che opponeva i fautori dell’ortodossia
calvinista ai sostenitori di un cristianesimo essenzialmente etico, fondamentalmente
razionale e improntato al rispetto della coscienza. Era una posizione decisamente
minoritaria all’interno della Chiesa riformata svizzera e pericolosa
perché suscettibile dell’accusa d’indifferentismo. Roques
non solo si espose in prima persona in questa controversia, ma negli anni
successivi s’impegnò caparbiamente nell’attività
di divulgazione di queste stesse idee, richiamando su di sé l’attenzione
internazionale. Nel 1723 il suo nome divenne noto all’estero grazie
alla pubblicazione del Pasteur évangélique, tradotto,
poco dopo la sua prima apparizione, in tedesco, in olandese e in danese[26].
Frey sostiene che William Wake, arcivescovo di Canterbury, si adoperò
perché il testo fosse rapidamente tradotto anche in inglese, ma l’opera
non fu mai condotta a termine[27].
Pochi anni più tardi, nel 1728, Roques dette alle stampe un vero e
proprio catechismo, adottato ufficialmente dalla chiesa francese di Basilea,
il cui titolo era Eléments des vérités des écrites
sacrés[28]. Ben
presto, però, l’attivismo riformatore del pastore basileese s’indirizzò
verso temi più ampi; il problema della convivenza religiosa, sempre
presente nelle sue opere, si affermava come uno dei temi centrali della sua
riflessione, rivelando allo stesso tempo la consapevolezza che la sua soluzione
non era l’ufficio di ecclesiastici zelanti, ma passava attraverso un
complessivo ripensamento di tutta la società civile.
5. Nei molti saggi dedicati ai protagonisti del Refuge e all’elaborazione
politica che all’interno di esso ebbe alcuni dei suoi migliori interpreti
tra Seicento e Settecento, Elisabeth Labrousse ha sottolineato la rilevanza
che lo statuto di esuli ebbe nella formazione di una cultura civile e politica
nuova, che rispondesse alle esigenze poste dall’identità di profughi[29].
Il Refuge fu un laboratorio fertilissimo di teorie sociali, politiche
ed economiche, che nascevano dall’esigenza di riscrivere le regole della
convivenza; esso provocò un’ingente accelerazione del dibattito
che su questi temi si svolgeva in Europa in quegli anni. In ciascuno di questi
ambiti, ora così sommariamente distinti, ma che nella realtà
delle biografie individuali degli esuli si sovrapposero continuamente, i profughi
di Francia e i loro discendenti furono latori di contributi importanti, a
volte determinanti. Dai giornalisti riparati ad Amsterdam e a Berlino, che
seppero fare delle riviste il più efficace strumento di diffusione
delle idee del Refuge, ai grandi tessitori delle città artigiane
e mercantili del Sud della Francia, che importarono all’estero tecniche
di lavorazione industriale sconosciute altrove, ai religiosi che si opposero
alla codificazione di una nuova ortodossia nei paesi protestanti, in difesa
di una tollerante convivenza fra cristiani di confessioni diverse; nell’arco
di una generazione, essi trasformarono una minoranza in fuga in un’élite
socialmente e culturalmente definita, che divenne punto di riferimento e modello
di comportamenti spesso anticonformisti. Quando ormai la speranza di un prossimo
ritorno in patria si era rivelata illusoria, l’esigenza di elaborare
e definire i fondamenti di una società diversa, di cui essere membri
con pari diritti, portò a un ripensamento complessivo e a una riformulazione
dei poteri attivi nello Stato, che influirono profondamente sulla teoria politica
e sulla riflessione religiosa del Settecento. In entrambi i casi lo scopo
fu quello di sottrarre gli spazi della coscienza individuale alle intrusioni
di ogni potere organizzato, fosse esso politico o ecclesiastico[30].
L’idea di una Chiesa che vegliasse sulla religiosità dei suoi
aderenti, ma priva di ogni potere coercitivo, andava delineandosi insieme
alla definizione di un’autorità sovrana non più illimitata
nell’esercizio del potere. La tradizione arminiana, che aveva cercato
nello Stato un garante contro gli abusi dell’autorità ecclesiastica,
era nuovamente corretta sulla base dell’esperienza delle persecuzioni
ugonotte.
Dal punto di vista della riflessione politica, il contributo dei teorici ugonotti
trasse i suoi più significativi risultati dall’innesto sulla
riflessione giusnaturalistica, che aveva cominciato a diffondersi per tutte
le università d’Europa tra la fine del secolo XVII e l’inizio
del nuovo. Nei paesi in cui non vigeva la censura preventiva, come in Olanda,
e là dove l’istituto della censura conviveva con uno straordinario
sviluppo delle scienze e delle lettere, come nei paesi di lingua tedesca,
l’arrivo dei profughi ugonotti provocò una rapidissima dilatazione
del dibattito, che passò dai confini nazionali e dai circuiti accademici,
alle riviste di diffusione europea. L’opera di traduzione e annotazione
compiuta da Barbeyrac sui testi di Grozio e di Pufendorf ne è l’esempio
più esauriente. Ferme restando le differenze che separano la teorizzazione
politica dei profughi di prima generazione, ancorati alla speranza di fare
ritorno in patria, da quella delle generazioni successive, cresciute e radicate
socialmente in realtà straniere, tutti trovarono nella riflessione
giusnaturalistica i presupposti essenziali per una nuova teoria del potere
e della giustizia[31]. Roques
fu uno di loro. Uno dei temi centrali di tutta la sua produzione – che
spazia dai testi di edificazione morale alla compilazione enciclopedica realizzata
nel supplemento basileese de Le grand dictionnaire di Moreri[32]
– è una ridefinizione del potere sovrano, in base agli assunti
del contrattualismo, tale da sancire le regole di una nuova convivenza civile.
A conferma di ciò può essere citato l’insegnamento trentennale
ch’egli tenne presso l’Università di Basilea, dedicando
una gran parte dei suoi corsi all’illustrazione dei temi del diritto
naturale. Emer de Vattel, uno dei grandi teorici del giusnaturalismo in Svizzera,
discepolo di Barbeyrac e Burlamaqui, fu tra coloro che ricordavano l’insegnamento
di Roques come un’esperienza fondamentale della loro formazione, per
contenuti e metodi[33]. Grazie
a Vattel, e alla testimonianza di Frey, sappiamo che Roques lesse e commentò
a lezione il De officio hominis et civis nella traduzione di Barbeyrac
e, inoltre, che tenne sempre il suo corso in francese, affinché tutti,
anche quanti non erano destinati a proseguire gli studi, potessero accedervi[34].
In una delle sue opere più tarde, il Traité des tribunaux
de judicature, sarà lui stesso a esprimere la convinzione che ogni
componente attiva della società avrebbe dovuto conoscere i fondamenti
del diritto naturale e che soltanto su queste basi sarebbe stato possibile
costruire una società giusta[35].
Diversamente dai grandi giuristi della tradizione ugonotta, Roques non centrò
la sua indagine sul rapporto suddito-sovrano, soffermandosi sui limiti che
il contratto pone all’operato del re, ma dedicò la stessa attenzione
a tutte le componenti sociali dello Stato, prospettando la soluzione di un
equilibrio tra poteri indipendenti che, qualche anno più tardi, avrebbe
trovato la sua più compiuta formulazione nel De l’esprit des
Lois. Tra il 1730 e il 1740 l’analisi e la definizione dei rapporti
che legano le varie parti della società civile secondo le norme del
diritto naturale divennero il tema principale della sua produzione. È
indubbio che dietro a opere voluminose e documentate con attenzione, nelle
quali il pastore ugonotto tentava di definire il ruolo del suddito fedele,
del sovrano, del ministro della Chiesa, del giudice, del dissidente religioso,
si celasse una competenza delle dottrine politiche e giuridiche tutt’altro
che scontata per il parroco di una comunità di profughi. L’impressione
che se ne ricava è quella di un’incessante opera d’informazione
e aggiornamento su questi temi – che va dai classici dell’antichità
fino a Barbeyrac – volta a procurare la più completa definizione
dei rapporti di convivenza in uno Stato; da Platone a Bodin, da Aristotele
a Grozio, Roques non trascura nessuna delle auctoritates sulla cui
traccia concepire un nuova teoria del potere.
6. Les sujets. L’esame dei diritti e dei doveri che regolano il rapporto del suddito con il sovrano costituisce il primo punto della riflessione di Roques. L’opera che inaugura un decennio di fervida attività è quella che più ci può interessare in questa sede, perché tocca direttamente il problema dei modelli di comportamento di una minoranza religiosa. Nel 1730 e poi nel 1735, in un’edizione notevolmente arricchita, Roques fece pubblicare anonime, e prive dell’indicazione del luogo di stampa, sei Lettres écrites à un Protestant de France au sujet des mariages des Reformés et du baptême de leurs enfans dans l’Eglise Romaine par un Pasteur de l’Eglise Reformée. Il tema centrale delle Lettres era quello dei riti cattolici a cui si sottoponevano spontaneamente i protestanti rimasti in Francia per sfuggire alla persecuzione. Fin dalle prime righe dell’opera Roques negava ogni legittimità a una professione di fede nicodemitica, così come condannava apertamente la persecuzione religiosa dello Stato contro i sudditi dissidenti:
On combat dans cet ecrit deux erreurs fort dangereuses, mais malgré cela très-communes. L’un, qu’il est permis d’user de dissimulation en matière de religion, lors que l’on court le risque d’être persécuté, si l’on dit sincèrement ce qu’on pense; et l’autre, que l’on est en droit de maltraiter ceux que l’on regarde comme hérétiques, et de les engager par là à renoncer à leurs sentiments. Les hypocrites et les persécuteurs ne trouvent aucun fondement à leur pratique, ni dans les lumières d’une raison éclairée, ni dans les décisions des auteurs approuvés[36].
Tutto il resto del testo era dedicato a sostenere le affermazioni iniziali e a prevenire le possibili obiezioni di coloro che sostenevano il dovere d’intervento del re in materia di religione e di quanti ritenevano inaccettabile una condanna del nicodemismo proferita da chi si trovava al sicuro, lontano dai confini francesi. La posizione di Roques era, del resto, quella comune a molti politiques del Refuge nella prima metà del Settecento: la denuncia della persecuzione e il rifiuto della dissimulazione avevano la loro ragion d’essere in un unico argomento, la pertinenza dello spazio della coscienza a una giurisdizione ultraterrena sulla quale né il dissidente, né il sovrano avevano autorità [37].
7. Negli anni ’30 del Settecento, quando Pierre Roques cominciava a
pubblicare le sue opere, la teoria politica dei giuristi e dei filosofi ugonotti
sparsi per l’Europa, si era già spogliata di ogni residua illusione
nei confronti delle garanzie offerte da un regime assolutistico. Jurieu aveva
già scritto a favore di una resistenza al potere tirannico che violava
il contratto e Barbeyrac andava trasformando la teoria del volontarismo di
Pufendorf in qualcosa di sostanzialmente diverso; il rispetto dell’autorità
era condizionato dalla legittimità del comportamento di quell’autorità
stessa, il cui limite era stabilito dalla giurisdizione divina[38].
Lo spazio della coscienza rappresentava il limite della giurisdizione terrena
e la sua violazione autorizzava un atto di resistenza, in nome di un dovere
superiore a quello che legava il suddito alla legge del sovrano.
L’opera di Roques si colloca proprio su questa linea di riflessione,
che ebbe i suoi interpreti più celebri in Barbeyrac e poi in Burlamaqui.
Nel 1737, due anni dopo la nuova edizione delle Lettres, Roques tornava
sull’argomento della dissidenza religiosa con Les devoirs des sujets[39];
nel nuovo testo non esitava a denunciare come atto illegittimo ogni azione
del sovrano che violasse i limiti delle sue competenze, sancite dal contratto.
L’obbedienza dovuta al sovrano non poteva dirsi illimitata: «La
soumission des sujets doit être ni plus ni moins étendue que
l’autorité légitime qui a été conféré
aux souverains»[40]. Le leggi
della società civile non dovevano interferire con quelle che Dio dettava
agli uomini; quando ciò accadeva i sudditi avevano il dovere morale
di non obbedire. L’atto di resistenza del dissidente non si configura
come atto violento, eversivo dell’ordine sociale, ma come resistenza
passiva alle sanzioni minacciate dal potere. Su questo punto Roques seguiva
pedissequamente Barbeyrac, prospettando come uniche possibilità di
disobbedienza il martirio o la fuga. Il dissidente religioso è, e resta,
un suddito fedele del sovrano, di cui rispetta l’autorità, ma
rifiuta la tirannia.
Al tema del rispetto della coscienza, quale primo argomento a sostegno di
un’aperta professione di fede, Roques aggiungeva una seconda motivazione,
che rivela piuttosto l’intellettuale attento e abile nel cogliere gli
umori e i cambiamenti della società. Il rifiuto della dissimulazione
non si basa esclusivamente su di un principio etico, ma è sostenuto
anche da un’attenta considerazione del momento storico:
Il me semble – scriveva l’autore nella quarta delle Lettres... à un protestant – qu’on commence à se familiariser avec les idées de la tolérance. Tant d’auteurs ont mis en opposition les maximes sanguinaires et barbares des intolérants, avec la douceur et l’équité d’une tolérance raisonnable et chrétienne, que l’on a, ce semble, que rien n’étoit plus faux que la politique des premiers; et qu’au contraire la méthode des princes qui abandonnent à Dieu la conscience de leurs sujets est la plus conforme à la raison et à l’Evangile[41].
Comprovavano tale affermazione alcuni passi tratti dalle opere di letterati (Voltaire e La Mothe) ed ecclesiastici (Fenelon), che attestavano la diffusione tra gli uomini di cultura di un sostanziale rifiuto della persecuzione. Sono queste considerazioni, ben più che la polemica sui riti cattolici, a definire storicamente il comportamento della minoranza ugonotta dispersa in Europa, nelle sue linee fondamentali, e a fare di Roques un personaggio esemplare. La preveggenza con cui i più abili tra gli esuli francesi costruirono e tennero in vita gli strumenti di direzione dell’opinione pubblica che si andava formando, la consapevolezza che una cultura critica e una competenza diversificata erano ormai indispensabili per intervenire adeguatamente nei dibattiti europei, sono gli elementi che contraddistinguono i grandi personaggi del Refuge nel XVIII secolo. La lucidità con cui stimarono indispensabile coinvolgere gli intellettuali nelle loro causa e fare del tema della persecuzione uno dei grandi temi del Settecento[42]; fu questa la strategia vincente per i protestanti di Francia, ben più che la pur solidissima rete di ricostruzione delle Eglise du desért a cui Antoine Court dedicò la sua vita.
8. Les ecclesiastiques. La seconda componente importante della società che Roques individua come elemento chiave nella gestione del potere è costituita dagli ecclesiastici. Al tema degli obblighi e delle funzioni dei ministri di Dio – già affrontato nel Pasteur évangélique – è dedicata una seconda opera pubblicata nel 1731: Le vray piétisme[43]. Roques vi illustrava, con l’abituale ricchezza di esempi e di citazioni dotte, la sua idea di cristianesimo. Intenzionale era la scelta del termine «piétisme» – suscettibile di ambiguità – per definire una religiosità i cui elementi caratteristici fossero la pietà e la comprensione; già nel sottotitolo, l’autore annunciava quello che sarebbe stato uno dei temi principali della trattazione: «ou l’on fait connoitre comment la piété nous dispose à l’égard de ceux qui ne pensent pas comme nous en matière de religion». In passato, Roques si era dichiarato contrario a ogni forma di settarismo e alle manifestazioni di fanatismo religioso; con il nuovo testo si proponeva di esaminare il comportamento del buon cristiano nei confronti delle minoranze religiose, con particolare attenzione per quelle più deboli, organizzate in piccole conventicole e prive del sostegno di una Chiesa riconosciuta. Senza mezzi termini Roques negava che i ministri di una Chiesa di Stato avessero il benché minimo diritto di sollecitare la condanna dei dissidenti religiosi, se la loro professione di fede non turbava la tranquillità dello Stato. L’esempio degli anabattisti, dei pietisti o dei quaccheri, che si rifiutavano d’imbracciare le armi in caso di guerra, serviva a Roques per fornire una definizione di disobbedienza civile perseguibile, limitata ai soli atti eversivi. Il crimine è quello che deliberatamente danneggia lo Stato, non l’atto religioso che implica un comportamento non conforme alle leggi vigenti, ma neppure lesivo di esse. Molti e diversi erano i modi in cui il singolo poteva e doveva contribuire al benessere dello Stato in cui risiedeva, con la propria arte, la propria ricchezza, il proprio intelletto, la propria forza fisica; tale era il dovere a cui nessuno poteva legittimamente sottrarsi[44]. Nell’ultima parte dell’opera, tutta dedicata al ruolo decisivo degli ecclesiastici in casi di dissenso religioso, Roques non si peritava di definire eretica la condanna dei dissidenti pronunciata dagli uomini di Chiesa:
Il n’y a presque point d’hérésie plus odieuse, ni plus à craindre que le dogme de l’intolérance, à l’égard de ceux qui n’ont pas de la religion les idées que nous en avons. C’est une hérésie grossière, parce qu’elle est opposée aux déclarations les plus expresses de l’Ecriture, qui permet tout au plus d’éviter l’hérétique après la première et la seconde Sommation; mais qui ne met jamais les armes entre les mains de l’Eglise, ou du magistrat pour dominer sur les consciences[45].
Il vero zelo religioso non è quello che costringe colui che erra a
dissimulare e a vivere nell’ipocrisia, ma quello che si rifiuta di usurpare
i diritti esclusivi di Dio sulla coscienza, attribuendosi una giurisdizione
che non gli compete. Compito del pastore cristiano è quello di persuadere,
di predicare, di rendere noto a tutti il messaggio evangelico; soprattutto
di essere ben informato circa i contenuti di una diversa confessione religiosa,
prima di esprimere su di essa un giudizio di condanna. Solo con un’ampia
competenza dei motivi di contrasto sarà possibile indurre l’errante
a rivedere le proprie posizioni[46].
Se poi l’opera di conversione dovesse fallire nonostante questi tentativi,
la Chiesa potrà procedere alla scomunica, «c’est là
toute la jurisdiction écclesiastique»[47].
Il passo estremo che la gerarchia ecclesiastica può compiere contro
chi non vuole condividerne la professione di fede è dunque un atto
formale. «Ils n’ont aucune puissance temporelle coactive»
ricordava l’autore in un’ampia sezione dedicata a distinguere
gli uffici del magistrato da quelli del pastore[48].
Entrambi vegliano sulla pace e sul benessere della società, ma l’uno
può minacciare ed eseguire condanne contro chi mette a repentaglio
l’ordine sociale, l’altro ha tre soli strumenti per ricondurre
i peccatori in seno alla Chiesa: «les discours, les censures écclesiastiques
et l’éxcommunication»[49].
La pratica – frequente anche nei paesi protestanti – di costringere
i dissidenti ad assistere al culto della religione ufficiale è essa
stessa una violazione della coscienza, perché il sentimento religioso
è un atto libero e volontario. La fede non è istintiva, ma mediata
dalla ragione, non si manifesta e scompare con atti repentini. Uno spirito
non si disinganna d’un tratto per un’illuminazione, ma attraverso
la riflessione e la possibilità di rivalutare e riconoscere i propri
errori.
La conseguenza di tali affermazioni è il rifiuto di ogni collusione
tra potere spirituale e potere coattivo. Non ci sono, né ci devono
essere obblighi di delazione o deferimento da un potere all’altro, perché
le giurisdizioni su cui operano sono distinte[50].
Il crimine, secondo la distinzione indicata da Pufendorf[51],
è valutato con criteri diversi e indipendenti da quelli adottati per
il peccato, pertanto nessuna collaborazione tra tribunali ecclesiastici e
tribunali civili può essere giustificata. Separando nettamente i due
ambiti, Roques rivendicava per la Chiesa un’autonomia e una libertà
di giudizio nelle questioni religiose di cui doveva rendere conto soltanto
a Dio. Gli ecclesiastici, in quanto sudditi del sovrano, non dovevano avere
alcun trattamento di privilegio, né beneficiare di esenzioni che li
mettessero al di sopra degli altri cittadini, ma potevano esigere un’assoluta
indipendenza dal sovrano in materia di disciplina religiosa, nella misura
in cui ciò non compromettesse l’ordine sociale.
9. Les Juges. L’ultima impegnativa opera, terminata da Roques
qualche anno prima della morte, esaminava il ruolo del giudice. Nel 1740,
il pastore ugonotto dette alle stampe uno scritto voluminoso, il cui titolo
e il cui contenuto non fanno sospettare che l’autore sia un parroco
di provincia: Traité des tribunaux de judicature ou l’on examine
ce que la religion exige des juges, des plaideurs, des avocats et des temoins.
L’opera era dedicata al Borgomastro e ai Tribuni del Cantone di Basilea.
L’autore esprimeva in una lunga premessa la persuasione che la giustizia
fosse l’unica fonte della tranquillità, della gloria e del benessere
degli Stati civili e che, pertanto, la formazione e la scelta di coloro che
dovevano esercitarla per delega collettiva era una questione pubblica e fondamentale.
In questo senso Roques non intendeva invadere lo spazio di competenze non
sue, ma riflettere sulle norme che, come membro di quella società,
lui stesso era tenuto ad osservare. L’opera è davvero corposa,
suddivisa in venti capitoli che analizzano minuziosamente, non soltanto i
requisiti essenziali per chi deve amministrare la giustizia, ma anche le forme
con cui le parti in causa in una vicenda processuale devono entrare in relazione
con i giudici. La competenza dei procedimenti processuali è mirabile,
l’erudizione dispiegata di tutto rilievo. Un grande esperto di diritto
civile come Justus Boehmer ritenne l’opera del pastore Roques meritevole
di essere tradotta per arricchire la letteratura giuridica tedesca[52].
Il concetto di giustizia, che sta alla base del Traité, non
è un principio laico, bensì intriso di contenuti religiosi.
L’ateo è escluso dalla società che Roques prende in considerazione;
ma, allo stesso tempo, la scelta del termine «humanité»,
adottato frequentemente come sinonimo di «justice», rivela l’intenzione
di dilatare il significato di un sostantivo cui si vogliono attribuire contenuti
razionali e universali. La giustizia terrena si configura come proporzionata
sanzione nei confronti di azioni dannose, o eversive, ed equo compenso per
atti di pubblica utilità. Compito del giudice non è soltanto
quello di reprimere la colpa, ma anche di gratificare il contributo del singolo
al benessere dello Stato[53].
Il giudice è garante nei confronti di tutti i componenti dello Stato
– sudditi e sovrano – che gli accordi stabiliti nel contratto
vengano rispettati[54]. Egli deve,
pertanto, comportarsi univocamente con gli imputati e con tutti coloro che
ricorrono alla sua competenza, trascurandone la posizione sociale, il censo,
le raccomandazioni, l’origine, la professione di fede[55].
La giustizia è fonte di tranquillità là dove agisce legittimamente,
cioè proporzionatamente ai fini per i quali è stata istituita:
mantenere la pace e il benessere dello Stato.
Tre sono gli aspetti fondamentali, tra quelli presi in esame da Roques, che
riassumono e definiscono le funzioni del giudice: 1) la selezione e l’applicazione
di pene commisurate ai reati; 2) il rifiuto di qualsiasi contiguità
con i tribunali ecclesiastici; 3) il rispetto di un codice che non è
la legge emanata dal sovrano, ma un imperativo morale-razionale, superiore
alle leggi nazionali e condiviso da tutti i popoli civili.
10. Il giudice deve garantire un equo trattamento a quanti si sottomettono
al suo giudizio e promulgare sanzioni eque. La sproporzione tra reato e pena
mina, infatti, la fiducia dei sudditi nella giustizia e semina protesta e
ribellione[56]; ma l’obbligo
di comminare pene adeguate ai reati commessi ha il suo fondamento in qualcosa
di più che una valutazione utilitaristica. È un imperativo morale
– cui Roques dà il nome di «humanité» –
a impedire che il giudice infierisca sul colpevole o sull’indagato.
La condanna di un supplizio efferato si estende a quella della tortura, definita
anch’essa «pratique barbare», contraria a quell’idea
di umanità che dovrebbe accomunare i popoli civili[57].
La requisitoria che Roques dedicava al tema della tortura costituisce, da
sola, un piccolo mirabile saggio giuridico[58].
Egli ne dimostrava l’infondatezza, ricordando che la pratica era quasi
sconosciuta nell’antichità e che le Sacre Scritture non solo
non la legittimavano, ma non ne facevano menzione. Ne contestava l’efficacia
allo scopo di stabilire la verità, richiamando le opere di Montaigne[59],
di Charron[60], di Grozio[61],
di Johann Greve[62], e infine
il mirabile articolo del Dictionnaire di Bayle sul Greve. Inoltre,
ne denunciava l’illegittimità, poiché con la tortura il
giudice infliggeva una pena a chi era soltanto sospettato di colpevolezza
e, qualora lo si fosse scoperto innocente, non sarebbe mai stato possibile
risarcirlo. Recuperando onore e libertà – scriveva Roques –
l’imputato avrebbe ottenuto ciò che già era suo, ma era
stato irrimediabilmente violato[63].
Il giudice è chiamato a vegliare sulla sicurezza della società
ed è tenuto a sospettare e indagare quanti sono accusati con prove
convincenti, ma la sicurezza della società non richiede affatto che
il giudice torturi l’accusato, perché dispone di altri mezzi
per ottenere un risultato migliore di quello garantito dalla tortura. Se ne
conclude che essa è un atto illegittimo, poiché non adeguato
a raggiungere lo scopo che si propone e contrario alla giustizia[64].
In secondo luogo, l’esercizio della giustizia deve essere e rimanere
distinto dall’operato della Chiesa, che cura le necessità spirituali
degli individui. Ogni commistione tra tribunali civili e tribunali ecclesiastici
viola quanto stabilito dal contratto. Per questo motivo non soltanto è
inaccettabile che i magistrati eseguano condanne pronunciate o suggerite da
ecclesiastici, ma si dovrebbe impedire che gli ecclesiastici sedessero tra
i giudici[65]. Essi hanno competenze
e uffici diversi e mancano delle conoscenze necessarie all’esercizio
della legge[66]. La moralità
non è sufficiente garanzia di giustizia; essenziale alla sua corretta
applicazione è, infatti, la conoscenza dei fondamenti del diritto e
la comparazione fra le norme, sottoposte a continui aggiornamenti. Non diversamente
dai grandi riformatori della giurisprudenza, che già in quegli anni
stanno scardinando l’impalcatura dei codici civili nazionali in cui
si sovrappongono e si mescolano in modo inestricabile il diritto canonico,
il diritto romano e quello dei moderni Stati, Roques ricorda la complessità,
il disordine, a volte l’ambiguità stessa di cui soffre il diritto
moderno. A ciò deve corrispondere un’estrema cautela dei giureconsulti
nel valutare, nel distinguere le norme e nel segnalarle ai giudici, di quest’ultimi
nell’applicarle[67].
Il terzo aspetto, affrontato nel Traité, inerente il rapporto
tra giudice e sovrano, riassume in sé i due precedenti. Nel definire
il ruolo del giudice nei confronti dell’autorità sovrana vale
infatti lo stesso criterio di qualificazione che distingue il giudice dall’ecclesiastico.
Il giudice è al servizio di una norma universale cui lo stesso principe
è sottoposto, pertanto agisce come impiegato del sovrano soltanto nella
misura in cui le leggi da costui espresse aderiscono a criteri di giustizia.
Il giudice ha la responsabilità morale degli individui che si rimettono
al suo discernimento, e se si persuade che una legge è ingiusta, cioè
che punisce degli innocenti, deve rifiutarsi di applicarla e adoperarsi affinché
il sovrano la revochi.[68] Senza
complessi il pastore Roques impugnava nel Traité il testo dell’amato
Pufendorf e negava che il giudice fosse legato al sovrano da obbedienza necessaria:
C’étoit là la pensée d’Hobbes, – scriveva l’autore – et je n’en suis pas surpris, puisqu’il sembloit déifier tous les souverains et leur donner une autorité illimitée. Ma je suis très fâché de voir, que le célèbre et judicieux Puffendorf entre ici dans la même pensée. «On peut sans contredit – ces sont ses termes – exécuter, en qualité de simple instrument, une action ordonnée par le souverain, qui en est regardé comme l’unique auteur, sur qui toute la faute ne tombe» (Le Droit de la Nature et Gens, cit., l. VIII, c. I, § 6)[69].
11. Il soggetto – scriveva Roques –, in questo caso il giudice,
non è uno strumento fisico, come un’ascia o una spada, ma poiché
conosce distintamente la natura dell’ordine che gli viene impartito,
è un agente morale e libero, che partecipa del bene e del male che
gli viene ingiunto di compiere[70].
Per quanto la sua libertà sia limitata dalla sovranità del re
e minacciata da una condanna a morte, nel caso si sottragga all’ordine,
ciò nondimeno non viene privato di essa. La minaccia e la pena non
cambiamo la natura di un’azione, più di quanto non lo faccia
una ricompensa. Roques faceva proprie le glosse di Barbeyrac al passo succitato
di Pufendorf, ricordando che nessuna azione ingiusta o criminale compiuta
deliberatamente e consapevolmente può essere legittimata dall’autorità
di un superiore, o dal timore di una sanzione[71].
La responsabilità individuale del giudice è sovrana nell’esercizio
delle sue funzioni e non può subire deroghe, neanche a favore del potere
regale. Roques indugiava a lungo su questo tema, riportando – infine
– uno splendido passo dalla République di Bodin, che narrava
il caso dell’unico giudice virtuoso in una giuria di corrotti; la sua
virtù e il suo senso di responsabilità possono riuscire a vincere
le maglie segrete dei rapporti di clientela e di corruzione che asserviscono
il giudizio degli altri e far mutare il verdetto di un’intera giuria[72].
Il gesto dell’anziano pastore che, pochi anni prima della morte, consegna
agli amministratori della città che lo ha accolto, straniero, l’apologo
di Bodin, affinché ricordino che un solo uomo può essere sufficiente
a ristabilire la giustizia, è forse il più bel testamento che
un perseguitato possa consegnare alla società civile.
Sudditi informati, buoni conoscitori del diritto naturale che fossero in grado
di discernere il legittimo potere del sovrano dall’abuso tirannico e
pronti a denunciarlo. Pastori disponibili alla convivenza religiosa, inclini
a ridurre il credo religioso a un numero esiguo di precetti etici, tolleranti
verso le deviazioni dottrinali e contrari a ogni violenza. Giudici liberi,
in grado di dettare legge al sovrano che intendesse asservire una norma universale
al suo capriccio, o al suo tornaconto. Questo è lo Stato vagheggiato
da Roques per garantire una pacifica convivenza; uno Stato che si basa essenzialmente
sulla convivenza di poteri solidali, ma autonomi fra loro. Pur attingendo
frequentemente ai creatori delle utopie cinquecentesche, Roques non disegnava
una società utopica, bensì prossima a quelli che sarebbero stati
i grandi modelli dello Stato europeo del Settecento. La sua riflessione si
nutre dei frutti migliori di una comunità intellettuale fertilissima
e attiva, che si fa promotrice di alcune delle istanze più liberali
della teoria politica e sociale moderna. Sarebbe impossibile immaginare un
Roques che scrive le sue glosse a Pufendorf e a Barbeyrac in un esilio dorato
sulle rive del Reno. La contiguità geografica e cronologica tra tre
testi che propongono la separazione dei poteri come garanzia essenziale di
un esercizio legittimo del potere, può servire a sottolineare la rete
di scambi e di rapporti intellettuali in cui nacquero queste riflessioni.
Pochi anni dopo la pubblicazione del Traité a Basilea, giungevano
a Ginevra le bozze del De l’Esprit des Lois; Montesquieu sperava
di riuscire a pubblicarlo fuori dalla Francia grazie al consiglio e all’intraprendenza
di alcune conoscenze ugonotte che già avevano portato a buon fine la
stampa olandese delle Lettres Persanes[73].
Qualche anno più tardi, nel 1751, il ginevrino Burlamaqui faceva pubblicare
ad Amsterdam i suoi Principes des droit politique in cui configurava
già una divisione dei poteri, alternativa a quella di Montesquieu[74].
Perfino un biografo occasionale come Johann Rudolf Frey mostrava di cogliere
la contiguità ideale che legava il pensiero politico di Roques alle
formulazioni più moderne della riflessione politica coeva; scriveva
a proposito della ricezione del Traité de Tribunaux: «Cet
ouvrage ne fit pas une bien grande sensation en France, où l’Esprit
des Lois n’avoit point encore tourné les esprits vers
les sciences politiques»[75].
[*] Questo saggio è stato pubblicato anche in Essere minoranza. Comportamenti culturali e sociali delle minoranze religiose tra medioevo ed età moderna a cura di M. Benedetti e S. Peyronel, Claudiana, 2004.
[1] Guillaume Thomas Raynal, Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes, Genève, Pellet, 1780, Avvertissement, pp. IX-X.
[2] Sulle possibili motivazioni della mancata pubblicazione dell’opera vedi C. Lauriol, L’Histoire de la révocation de l’Edit de Nantes de Raynal, in Raynal, de la polémique à l’histoire, par G. Bancarel et G. Goggi, Oxford, Voltaire Foundation, 2000, pp. 51-52; G. Adams, The Huguenots and the French opinion 1685-1787: the Enlightenment debate on toleration, Ontario, Wilfrid Laurier University Press, 1991, p. 250.
[3] D. Boisson,Les protestants de l’ancien Colloque du Berry de la révocation de l’Edit de Nantes à la fin de l’Ancien Régime (1679-1789) ou l’inégal résistance des minorités religieuses, Paris, Honoré Champion, 2000.
[4] C. Lauriol, L’Histoire de la révocation, cit., p. 352, segnala i principali contributi all’opera di Raynal, da quelli già noti alla fine dell’Ottocento fino alle scoperte più recenti, e indica possibili indirizzi di ricerca.
[5] Johann Rudolf Frey, Lettre à Mr. l’Abbé Guillaume Thomas Raynal sur la vie de feu Mr. Pierre de Roques par Mr. Frey, Bâle-Leipzig, 1784, s. e.
[6] Ivi, p. 5.
[7] J. K. Mörikofer, Geschichte der evangelischen Flüchtlinge in der Schweiz, Hirzel, Leipzig, 1876; E. Combe, Les Réfugiés de la Révocation en Suisse, Lausanne, Bridel, 1885.
[8] L. Junod, Histoire de l’Eglise Françoise de Bâle, Lausanne, Bridel, 1868.
[9] Basilea, Staatsarchiv, Kirchenarchiv, F. F. 1-2. Per la notizia che lo scritto di Petitpierre era destinato all’Histoire di Raynal cfr. «Société d’Histoire du Protestantisme Français. Bulletin Historique et Littéraire», 1890, t. XXXIX, p. 40, n. 2.
[10] Su Roques, oltre al ricordo di Frey già menzionato, esiste una biografia manoscritta conservata a Basilea, Staatsarchiv, Privatarchiv 141, M 6 fol. 398, Notizien über das Leben und die Arbeiten von Pfarrer Pierre Roques, von Pfarrer Ebray (1769-1840). Informazioni generali sulla vita e le opere di Roques si trovano in C. Dardier, voce Pierre Roques, in Encyclopédie des Sciences Religieuses, XI, 1881, pp. 291-294; J. Van den Berg, Le vray Piétisme: Die aufgeklärte Frömmigkeit des Basler Pfarrers Pierre Roques, «Zwingliana», XVI, 1983-1985, pp. 35-53. E. De Budé, Lettres inédites adressées de 1686 à 1737 à J.-A. Turrettini, Paris, Librairie de la Suisse Française, 1887, ha pubblicato otto lettere indirizzate da Roques a Jean-Alphonse Turrettini tra il 1720 e il 1735.
[11] Sul corrispondente basileese di Raynal vedi D. Flach, Johann Rudolf Frey 1727-1799. Freund Isaak Iselins, Zürich, Fluntern, 1954.
[12] Frey, Lettre a Mr. l’Abbé Guillaume Thomas Raynal, cit., pp. 53-54.
[13] Ivi, p. 11.
[14] Cfr. M.- C. Pitassi, De l’orthodoxie aux lumières. Genève 1670-1737, Genève, Labor et Fides, 1992.
[15] P. Haour, Antoine Court and refugee political thought (1719-1752), in New Essays on the political thought of the Huguenots of the “Refuge”, edited by J. C. Laursen, Leiden, Brill, 1995, p. 135.
[16] D. Brühlmeier, Natural law and early economic thought in Barbeyrac, Burlamaqui, and Vattel, in New essays, cit., pp. 66-67.
[17] Ibid.
[18] Discours historiques, critiques, théologiques et moraux sur les évènements les plus mémorables du vieux et du nouveau Testament par M. Jacques Saurin, Ministre du Saint Evangile à la Haye. Avec des figures gravées sur les desseins de Mrs. Hoet, Houbraken et Picart, continuez par M. Roques, pasteur de L’Eglise Françoise de Basle, III-IV, a la Haye, chez Pierre de Hondt, 1735-1736.
[19] Discours historiques, cit, ed. 1728, t. I, Discours préliminaire: «Ce n’est pas même une simple histoire de la Bible. Nous avons emprunté les lumières des savans; nous avons puisé dans leurs écrits des secours que nous ne pouvions pas trouver dans notre propre fonds, pour éclaircir les faits narrez par les auteurs. [...] Ils [les lecteurs] voudroient avoir une idée générale des questions qui s’agitent dans la République des Lettres au sujet de l’histoire sainte. Nous leur proposons ici les sentimens de Bocharts, de Seldens, de Grotius et de ce qu’il y a eu de plus illustres écrivains [...] Nous avons aussi puisé dans l’antiquité profane tout ce que nous avons pû découvrir de plus propre à éclaircir les faits narrez par les auteurs sacrez...».
[20] Basti pensare a due testi come Le Nouveau Testament de Notre Seigneur Jésus-Christ traduit en français sur l’original grec avec des notes littérales pour éclaircir le texte par Mrs. de Beausobre et Lenfant, Amsterdam, 1718; Remarques historiques, critiques et philologiques sur le Nouveau Testament par feu Monsieur de Beausobre le père, La Haye, P. de Hondt, 1742. Cfr. B. Schwarzbach, Politics and ethics in the huguenots diaspora: Isaac de Beausobre in Berlin, in New essays, pp. 109-130, in part. pp. 111-112, 115.
[21]Discours Historiques, critiques, continuez par M. C. S. de Beausobre, pasteur de l’Eglise Françoise de Berlin, Avertissement au V tome.
[22] Traité des sources de la corruption qui règne aujourd’huy parmi les chrestiens, Amsterdam, Desbordes, 1700.
[23] Catéchisme ou instruction dans la religion chrestienne par Jean-Frédéric Ostervald, Genève, pour la Compagnie des Libraries, 1702.
[24] R. Gretillat, Jean-Frédéric Ostervald. 1663-1747, Neuchâtel, Paul Attinger, 1904.
[25] Lettre apologétique en faveur de M. Ostervald, contre les remarques de M. Naudé professeur à Berlin, 1716. Sulla circolazione del testo manoscritto di Roques e sulla sua pubblicazione, cfr. Dardier, Pierre Roques, cit., p. 292.
[26] Pasteur évangélique, ou Essai sur la nature et l’excellence du saint ministère; sur ce qu’il exige de ceux qui en sont revêtus et sur les sources du peu de progrès que fait aujourd’hui la prédication de l’Evangile. Avec un discours préliminaire, où l’on montre, historiquement, comment la parole de Dieu a été annoncée dans l’Eglise juive et chrêtienne, Basle, chèz Jean Louis König, 1723.
[27] Frey, Lettre a Mr. l’Abbé Guillaume Thomas Raynal, p. 30.
[28] Basle, 1728.
[29] In particolare, si fa riferimento a E. Labrousse, The political ideas of the Huguenot Diaspora (Bayle and Jurieu), in Church, State and Society under the Bourbon kings, ed. by R. M. Golden, Lawrence, Kansas, 1982, pp. 222-283, in part. pp. 229-232.
[30] T. J. Hochstrasser, The claims of conscience: natural law, theory, obligation and resistance in the Huguenot Diaspora, in New essays, cit., pp. 15-52.
[31] New essays, cit., con bibliografia.
[32] Le grand dictionnaire historique, ou le mélange curieux de l’histoire sacrée et profane, le tout enrichi des remarques tirées du Dictionnaire critique de Mr. Bayle, commencé en 1674 par M. Louis de Moreri et continué par le même et par plusieurs auteurs. Première ed. de Basle par Pierre Roques, Brandmuller, 1731.
[33] Brühlmeier, Natural law and early, cit., p. 66.
[34] Ibid.; Frey, Lettre a Mr. l’Abbé Guillaume Thomas Raynal, cit., p. 40.
[35] Traité des Tribunaux de judicature, ou l’on examine ce que la religion exiges des juges des plaideurs, des avocats et des témoins, par Pierre Roques, pasteur de l’Eglise Françoise de Basle, Basle, Imprimerie a la Chasse, 1740, p. 70: «Il seroit a souhaiter qu’ils [les juges] eussent tous fait un cours du droit naturel sous un maître habile, ou pour le moins qu’ils eussent lû et relû, avec attention, Grotius et Pufendorf avec les judicieuses notes de M. Barbeyrac. [...] La science du droit naturel, qui est la base et la clé de toute la jurisprudence, a été négligée pendant longtemps. Mais enfin on a senti, presque partout, la nécessité de cette science pour les théologiens, pour les jurisconsultes, et pour tous ceux qui veulent connoitre la religion dans ses prémiers principes».
[36] Lettres écrites à un protestant de France, s.d.n.l., Avis au Lecteur.
[37] Ibid.: «La persécution n’autorise point la feinte de ceux qui ne confessent pas la vérité, lors que Dieu les appelle à souffrir pour elle. Les hypocrites ont beau donner à leur dissimulation le nom spécieux de prudence louable; ils ne laissent pas d’ être réellement des lâches et des apostats. Vainement aussi les persécuteurs se donnent-ils pour zélateurs de la loi de Dieu et de la gloire de sa maison; ils n’en sont pas moins regardez de Dieu comme usurpateurs de ses droits».
[38] Hochstrasser, The claims of conscience, cit., pp. 20-46.
[39] Les devoirs des sujets expliqués en quatre discours par Pierre Roques, pasteur de l’Eglise Françoise de Basle, Basle, E. et J. R. Thourneisen, 1737.
[40] Ivi, p. 16.
[41] Lettres écrites à un protestant, cit., p. 130.
[42] Adams, The Huguenots and French opinion 1685-1787, cit.
[43] Le vray piétisme, ou traité dans le quel on explique la nature et les effets de la piété..., par Pierre Roques, pasteur de l’Eglise française de Basle, Basle, chez Brandmüller, 1731.
[44] Ivi, Conduite des pasteurs envers les erreurs, Cinquième partie, chap. V, in part. pp. 591-594.
[45] Ivi, p. 574.
[46] Ivi, p. 567.
[47] Ivi, p. 585.
[48] Ibid.
[49] Ibid.
[50] Ivi, p. 588: «Lorsque l’on sollicite les magistrats à punir des errants, qui d’ailleurs ne troublent point la société civile, on engage les puissances de la terre à s’arroger une autorité qui n’appartient qu’à Dieu seul. Chacun naît avec le droit de ne soumettre sa foi qu’aux lumières infaillibles de Dieu».
[51] Samuelis Pufendorfii De habitu religionis Christianae ad vitam civilem, § 9 sgg.
[52] Frey, Lettre a Mr. l’Abbé Guillaume Thomas Raynal, cit., p. 36: «il en parut incontinent une traduction allemand très-élégante, que l’illustre Boehmer, un des plus grands jurisconsultes de l’Allemagne, décora d’une préface de sa composition, qui prouve le cas qu’il faisoit de l’original et de son auteur». La segnalazione di Frey è l’unica traccia di una traduzione tedesca del Traité di cui, a mia conoscenza, non restano copie.
[53] Traité des tribunaux, Préface, cit., p. XXIII.
[54] Ivi, p. XXIII: «La justice distributive ne se borne pas à punir des particuliers coupables, à récompenser ceux qui ce sont distingués par un mérite solide, et à terminer ou à assoupir les différences d’une manière également équitable et prompte; elle se signale surtout dans les articles qui se terminent à tout le corps de la société et elle y donne d’autant plus d’attention que les conséquences en sont plus étendues».
[55] Ivi, p. 127: «Un homme public se doit au public qu’il sert [...]. Non seulement l’audience doit être également ouverte aux petits et aux grands d’entre les citoyens de l’Etat, mais aussi aux étrangers, soit qu’il s’agisse de ceux qui ne font que passer sur les terres de l’Etat, soit à ceux qui y sont domiciliés avec l’agrément du souverain».
[56] Ivi, Préface, cit., pp. V-VI: «...le législateur ne doit pas être cruel, mais prudent [...]. Lorsque les supplices son poussés trop loin, et qu’ils n’ont pas de la proportion avec l’atrocité du crime, le juge passe pour barbare et pour se plaire à voir les tourments des coupables. Les spectateurs des ces exécutions inhumaines sont plus touchés de compassion pour le criminel, que d’horreur pour les fautes qu’il a commises; le juge est ouvertement blâmé et sa juridiction est traitée de tyrannie».
[57] Ivi, p. 181: «Ceux qui ont écrit contre la torture ne la regardent pas simplement comme injuste, mais de plus comme une pratique barbare [...] l’humanité et la charité n’empêchent pas de réprimer et de punir le crime [...] Mais l’humanité modère les punitions et n’en inflige jamais sans une nécessité urgente [...]. De là vient, que l’on déteste ces suplices barbares qui inspirent plus d’aversion pour ceux qui les décernent, que d’horreur pour le crime qui a été commis».
[58] Ivi, pp. 166-194.
[59] Essais, l. II, cap. 5.
[60] De la sagesse, l. I, cap. 37.
[61] Roques cita i passi di Montaigne, di Charron e di Grozio già segnalati da Barbeyrac nell’apparato critico a Le Droit de la nature et des gens, l. VIII, c. III, § 4, art. 4, nota 10. Il testo di Grozio è tratto dalla lettera 693 (Hugonis Grotii Epistolae quotquot reperiri potuerunt, Amstelodami, P. J. Blaeu, 1687) indirizzata a Georg Slupeck de Conari, da Parigi, il 12 dicembre 1636: «Nulla fides autem est, cui minus fidei esse debebat, quam tormentorum. Mentietur, ut ait vetus quidam, qui ferre potuerit, mentietur, qui ferre non potuerit. Infinita mihi exempla suppetunt isto tam fluxo argumento inique interfectorum...».
[62] Tribunal reformatorum, in quo sanioris et tutioris iustitiae via iudici christiano in processu criminali commonstratur, reiecta et fugata tortura, cuius iniquitatem, multiplicem fallaciam, atque illicitum inter christianos usum libera et necessaria dissertatione aperuit Johannes Graevius Clivens, quam captivus scripsit in ergastulo Amsterodamensi, Hamburgi, typis Henr. Carstens, 1624.
[63] Traité des tribunaux, cit., pp. 176-177: «De toutes ces graves autorités, [...] on conclut 1. que la torture est une pratique injuste. C’est une véritable peine, et même quelquefois si grande qu’on lui préfère la mort. Les peines ne doivent s’infliger qu’à ceux qui sont manifestement coupables. Cependant on torture ceux des crimes desquels on est encore en doute» e p. 180: «...la pratique actuelle de la torture paraît d’autant plus injuste, qu’on ne pense pas même à réparer le tort qui a été fait à l’innocent reconnu pour tel. On s’imagine que c’est assez de l’absoudre e de lui rendre sa première liberté et sa première réputation. Mais que fait on par là, que de lui laisser un bien qui lui apartenoit de droit, et qu’on ne pouvoit lui retenir sans la plus grande injustice?».
[64] Ivi, pp. 180-181: «...la sûreté de la société n’exige point que le juge torture l’accusé, d’un coté, parce qu’il y a d’autres moyens de découvrir la vérité, et de l’autre coté, parce que la question est insuffisante pour atteindre le but qu’on se propose».
[65] Ivi, pp. 37-47.
[66] Ivi, pp. 39-40.
[67] Traité des tribunaux, cit., p. 196: «On est effrayé à la vue de cet énorme corps de Droit, qui n’est pas seulement un océan, où se noie la justice par la multiplicité des ordonnances, mais surtout un labyrinthe à cause de leur obscurité, et de leur opposition, tantôt entre elles, et tantôt avec les principes du Droit naturel».
[68] Ivi, p. 203: «...s’il voit clairement que la loi est injuste, et qu’elle prescrive la punition de gens qui ne sont rien moins que criminels, il doit respecter sa conscience, ne point suivre une loi dont l’iniquité lui paroit sensible, et travailler à faire en sorte que ces loix, qui sont l’opprobre de l’Etat, soient incessamment abrogées par le souverain».
[69] Ivi, p. 143.
[70] Ivi, p. 144: «... le sujet ou le juge ne peut pas être ici comparé à un instrument physique, à une épée et à une hache [...] dans le temps que le sujet connoit, distinctement la nature de l’ordre qu’on lui donne, il est un agent moral et libre, qui participe au bien et au mal qu’on lui fait exécuter» Roques richiama il passo del De officio hominis et civis, l. I, cap. I, § 24: «Imputari quoque non possunt, quae quis coacte patitur, aut agit...».
[71] Ibid.: «M. Barbeyrac réfute solidement la penses de Puffendorf et montre que cette contrainte n’enlève pas la liberté d’agir et que quiconque obéit dans ses rencontres le fait volontairement, et par conséquence qu’il se rend responsable de la violation de la loi divine».
[72] Ibid.: «Bodin, dans sa République (liv. 4, ch. IV), raisonnant sur les principes que nous avons posé, les justifie par un exemple incontestable. Souvent – dit il – un bon et vertueux juge relèvera toute une Compagnie, et rompra les factions et secrettes pratiques des juges corrompus, ou qui sont fort gens de bien, mais toutefois prévenus des calomniateurs et tricoteurs de procès, ne peuvent connoitre la vérité. Comme j’ai sçeu qu’un juge seul fit changer d’avis toute une Compagnie, qui avoit résolu et arresté de faire mourir une femme innocente, et par vives raisons la fit absoudre à pur et plein. Cestui là mérite d’être nommé. Ce fut le Conseiller Potier, Sieur de Blanc-Ménil...».
[73] Cfr. Adams, The Huguenots, cit., pp. 61-73: Montesquieu and the Huguenots: a conservatives view of minority rights.
[74] Cfr. S. Zurbuchen, Jaucourt, Republicanism and Toleration, in New Essays, cit., pp. 155-167.
[75] Frey, Lettre a Mr. l’Abbé Guillaume Thomas Raynal, cit., pp. 35-36.