1. Dalle numerose lettere inviate da Franco Venturi a Giulio Einaudi e ai
collaboratori della casa editrice torinese, nonché dalle sue lunghe
missive agli amici più intimi (Leo Valiani, Alessandro Galante Garrone
e Giorgio Agosti), sappiamo che durante il primo anno di soggiorno a Mosca
egli non si dedicò allo studio del populismo russo, ma seguì
con avida curiosità l’intera produzione culturale sovietica,
dalla storiografia alla letteratura, dalla filosofia alle arti figurative.
Se per quest’ultimo aspetto della vita intellettuale del chiuso e misterioso
mondo, dinanzi al quale egli si sentiva allora come rapito e stregato, il
giovane addetto culturale dell’ambasciata italiana tenne sempre un atteggiamento
assai critico e ironico, i saggi e i dibattiti storici e filosofici destavano
invece il suo più vivo (e, talora, entusiastico) interesse. Soprattutto
nelle lettere al responsabile e ai collaboratori della casa editrice Einaudi,
Venturi descriveva minuziosamente quel che si pubblicava di significativo
nell’URSS, esprimendo il suo parere su saggi e romanzi e segnalando
le opere secondo lui meritevoli d’esser conosciute dal pubblico colto
italiano. Lo scambio epistolare di quegli anni tra Einaudi e Venturi, finora
negletto, getta tantissima luce sulla biografia intellettuale del secondo
e illumina altresì alcuni dettagli della politica culturale del primo.
Tale carteggio è istruttivo anche per il periodo antecedente al soggiorno
moscovita di Venturi (il quale giunse nella capitale sovietica il 15 giugno
1947 e vi restò fino al 1° luglio 1950) e per gli anni immediatamente
successivi. Grazie ad esso, infatti, possiamo seguire i progetti di studio
e gl’interessi culturali del giovane intellettuale, nonché i
suoi giudizi a caldo su opere e autori stranieri (verso alcuni dei quali egli
avrebbe in seguito mutato parere, anche in modo radicale).
Ma non è di questo che debbo occuparmi adesso. Il mio intento è
quello di dire qualcosa degli studi di Franco Venturi sul Settecento russo,
alcuni dei quali sono lunghi abbozzi stesi durante il soggiorno in Russia
e mai pubblicati. Per capirne la genesi, occorre compulsare le lettere inedite
dello storico torinese. Dopo avere, per mesi e mesi, letto voracemente quanto
si pubblicava nell’URSS, il giovane addetto culturale decise di raccoglier
materiali nella biblioteca «Lenin» per alcuni studi d’argomento
russo. Quali? L’apprendiamo nei dettagli da una lettera (inedita) a
Galante Garrone del 27 febbraio 1949:
Ecco i miei progetti, che come al solito sono troppo grossi, e che sono ritardati da questa benedetta lingua in cui più uno legge e meno riesce ad accelerare il ritmo di lettura. Vorrei fare una cosa sul ‘700 russo, senza nessuna ambizione di completezza. Semplicemente una serie di cinque o sei studi di una 50 o centinaio di pagine sugli scrittori e pensatori più interessanti di questo periodo. Il primo è Feofan Prokopovic, l’uomo che ispirò ed eseguì le riforme ecclesiastiche di Pietro il grande, un uomo veramente interessante, attraverso il quale si vede tutto il problema degli inizi della Russia moderna. I suoi libri sono difficili a trovare. Uno di essi, la sua Arte poetica, scritto in latino, non mi è stato possibile leggere né qui né a Leningrado. L’ultimo della serie è Karamzine, lo storico romantico che è il parallelo russo di Sismondi. In mezzo dovrebbe esserci Lomonosov, il wolfiano russo, l’enciclopedista di tipo Aufklärung, con tuttavia una larga anima russa, Novikov, l’uomo che creò l’organizzazione editoriale, pedagogica ed in parte massonica dell’illuminismo della seconda parte del ‘700 russo, Scerbatov, il più interessante scrittore dell’epoca di Caterina nell’ambiente dell’alta nobiltà, e poi soprattutto Radiscev, il primo rivoluzionario russo, l’illuminista formato [sic] su Mably, finito in Siberia e morto suicida nei primissimi anni dell’ ’800. Il programma non pare molto grosso ma in realtà molti di loro scrissero ampiamente, il russo del ‘700 non è sempre pane per i miei denti, e per dire qualcosa su di loro devo pur cercare di conoscere i reali problemi di quel secolo in questo paese[1].
2. Gli altri due progetti di ricerca, che il giovane Venturi andava allora
coltivando, riguardavano «una storia della storiografia sovietica, o
per lo meno una serie di appunti su questo problema» (indagine che gli
pareva «forse ancora più interessante dal punto di vista politico
che non storico») e un’ampia «cronaca del populismo russo
e cioè di tutto il movimento rivoluzionario dell’ottocento russo
che va dal 1861 al 1881». Quest’ultima ricerca sboccherà,
come sappiamo, nell’imponente e celebre opera apparsa nel 1952[2].
Il lavoro sulla storia della storiografia fu invece abbandonato, sebbene Venturi
ne avesse parlato anche in altre missive come d’un tema appassionante
e degno di studio[3].
Quanto allo studio sul Settecento russo, articolato in ritratti di pensatori
significativi di quell’epoca, esso procedette quasi in parallelo con
l’impegnativa indagine sul populismo. Alla vigilia della definitiva
partenza da Mosca, infatti, Venturi poteva annunciare ad Agosti: «Quanto
agli studi tornerò giù con due lavori già quasi finiti,
sul secondo dei quali, e cioè sulla storia del populismo russo, ho
tra l’altro da chiederti non pochi aiuti e consigli»[4].
Eppure, tornato in Italia, egli non pubblicherà sul Settecento russo
che il primo della serie di ritratti annunciati agli amici torinesi, quello
cioè su Feofan Prokopovič, il consigliere di Pietro il Grande
in materia di riforme ecclesiastiche[5].
In realtà, Venturi scrisse a Mosca almeno altri due lunghi schizzi
biografici (su Ščerbatov e su Novikov), che il figlio Antonello
ha ritrovato tra le carte paterne.
Furono entrambi redatti, come si deduce dalla data che ognuno di essi reca,
tra il settembre e il novembre 1949. Sono dei veri e propri saggi storici
corredati di note bibliografiche, sebbene non del tutto rifiniti e pronti
per la stampa. L’ostica grafia e le numerose cancellature e correzioni
ne rendono ardua la lettura e indecifrabili talune parole. E’ un peccato
che l’autore non abbia avuto il tempo o la voglia di ritoccarli e pubblicarli,
impedendo a chi è ignaro di russo e di Russia di venire a conoscenza
di personaggi e fatti importanti dell’età di Elisabetta e di
Caterina.
Il principe Michail Michajlovič Ščerbatov, rampollo d’una
delle più antiche e autorevoli famiglie aristocratiche, è stato
solitamente visto dalla storiografia marxisteggiante come il massimo ideologo
della nobiltà russa nel XVIII secolo. È proprio tale rude giudizio
che Venturi, pur animato a quell’epoca da una viva simpatia per il marxismo,
intende rivedere e sfumare nel suo saggio. Per lui Ščerbatov «non
diventò mai un “predicatore di libertà”, un philosophe
settecentesco, creatore di un nuovo mondo ideale, contrapposto all’antico
regime», perché «restò sempre un rappresentante di
un mondo ben determinato, di quell’alta nobiltà russa di cui
faceva parte». Tuttavia, egli non fu «ideologo della classe nobile
e cioè creatore di un movimento capace di interpretare i suoi interessi»,
così come non fu un philosophe: «Ščerbatov è
insieme il miglior conoscitore dei problemi dell’aristocrazia russa
del suo tempo e l’utopista di questa, il creatore cioè di un
ideale che questa non era in grado storicamente di realizzare» (p. 2
del manoscritto).
Dopo aver assegnato a Ščerbatov, con un lucido giudizio d’insieme,
il posto che gli compete nella storia del pensiero politico settecentesco,
Venturi ne traccia la biografia intellettuale e politica, ricordando la sua
ricca formazione culturale (oltre alle lingue classiche, il principe padroneggiava
il francese e l’italiano), l’appassionata partecipazione ai lavori
della commissione legislativa di Caterina II, l’intensa attività
storiografica (alla quale è però dedicato troppo poco spazio),
il celebre scritto di critica dei costumi dell’epoca, il romanzo utopistico
Viaggio nella terra di Ofir. Mentre l’opera Sulla corruzione
dei costumi in Russia è trattata in modo un po’ sommario,
più acuta a me pare l’analisi dedicata all’utopia di Ščerbatov
racchiusa nel romanzo Viaggio nella terra di Ofir. Il paese qui vagheggiato
«è davvero il regno del neoclassico russo, che trova in Ščerbatov,
e soprattutto in quest’opera, un suo fedele interprete» (p. 39)[6].
L’ideale d’una sobria eleganza aristocratica «ha trovato
effettivamente una espressione nelle bianche ville che sorgono nelle campagne
russe» (p. 39); il «regno di Ofir è veramente un’utopia
della civiltà delle usadby [sic][ville di campagna] settecentesche»
(p. 40). L’ideale vagheggiato da Ščerbatov (quello cioè
«di uno stato che costasse meno e di una nobiltà che più
razionalmente si occupasse dei propri possedimenti») nasceva «da
problemi simili a quelli che hanno suscitato il nascere ed il diffondersi
della fisiocrazia»; ma in Ščerbatov «essi non sono ragionati
economicamente e piuttosto presentati appunto come ideali, come utopie morali,
di generico colorito illuminista» (p. 40).
3. Venturi mostra come nel Viaggio nella terra di Ofir Ščerbatov riprendesse temi trattati nella letteratura illuministica, usandoli però a sostegno del suo progetto politico-sociale, che era tuttora quello difeso ai tempi della commissione legislativa del 1767-1768. Sin dai primi anni del regno di Caterina il principe s’era sforzato di «concentrare tutta la sua azione su un punto solo, anche se per lui fondamentale: la fissazione in leggi dei costumi nobiliari, la costituzione di un corpo preciso di privilegi per quella casta che era la sua e che sola poteva, a suo avviso, imprimere un carattere diverso all’impero russo», da lui giudicato «un regime dispotico, nel senso che Montesquieu gli aveva chiarito» (p. 12). Quali erano dunque gli obiettivi politici di Ščerbatov?
La sua non è soltanto una apologia delle vecchie famiglie, non è soltanto una difesa immediata dei loro interessi economici contingenti. Attraverso questo si tratta per lui di creare una aristocrazia coscente [sic] dei propri diritti e dei propri doveri e per questo stesso fatto capace di indipendenza e di una vita politica propria. [...] Fissare i limiti esatti di questa aristocrazia, far sì che il corpo dei suoi privilegi diventasse parte fondamentale delle leggi dello stato e far sì che essa stessa combattesse apertamente per essi contro tutte le altre classi e contro la stessa volontà dell’imperatrice, questo fu il programma politico sul quale Ščerbatov si fece eleggere dalla nobiltà della sua regione di Jaroslavl’ alla Commissione per la formazione del nuovo Codice, nel 1767(p. 12).
Pur affondando le sue radici nella realtà russa, il programma politico e ideale di Ščerbatov aveva punti di contatto con quanto accadeva in quei decenni nel resto d’Europa. Venturi non mancava d’osservarlo, ligio alla promessa (fatta agli amici torinesi, oltre che a se stesso) di studiare, attraverso le biografie di alcuni intellettuali, i rapporti tra la Russia e l’Europa occidentale nel XVIII secolo:
Siamo di fronte ad un esempio interessante di quella “reazione nobiliare” che tanta importanza ha per capire il settecento in tutta Europa e che, come sempre più le ricerche vanno mettendo in luce, tanto peso ebbe anche nello scatenare la rivoluzione francese. Creare nuovi privilegi per la nobiltà e darle una nuova coscenza [sic] della sua posizione di classe dirigente, nell’economia come nella politica – queste le linee fondamentali di questa “reazione feudale”. Che poi di fronte allo stato monarchico e alle nuove forze sociali che salgono queste tendenze prenderanno spesso un carattere assurdo e utopico non è cosa che possa far meraviglia. E anche l’esempio di Ščerbatov potrà essere in materia istruttivo. Tuttavia, proprio in Russia, dove appunto lo stato assoluto era assiso su fondamenta meno moderne che non altrove e dove le forze sociali nuove erano molto meno sviluppate, una simile ricreazione della funzione dirigente della nobiltà, un simile tentativo di crearle privilegi e compiti nuovi era ben più giustificabile che non altrove e costituì infatti, in forme diverse, uno dei fatti fondamentali della storia russa per un secolo ancora (pp. 12-13).
Un’intrinseca debolezza, tuttavia, minava anche il sofisticato e utopistico
progetto di Ščerbatov: «Fissare o creare dei privilegi e nel
medesimo tempo porsi come la forza politica dirigente era, anche se ciò
egli non vide, una contraddizione fondamentale di tutta la “reazione
nobiliare” settecentesca» (p. 17).
In uno studio biografico dedicato ad un uomo di penna e di lettere quale Ščerbatov,
è rimarchevole (lo si sarà notato dai passi finora citati) l’attenzione
ai fenomeni economico-sociali e ai rapporti tra questi ultimi e la storia
delle idee e delle ideologie. Ciò non deve stupirci, se pensiamo agl’interessi
culturali e alle simpatie politiche del giovane Venturi e alla volontà
di dialogo con il marxismo, dalla quale egli era allora animato (come testimoniano
le lettere di quegli anni che, ripeto, sono una fonte preziosa per la biografia
intellettuale dello storico torinese).
4. Un’altra cosa che colpisce subito, leggendo il saggio inedito su
Ščerbatov, è la cura (tutta venturiana, questa, e mantenutasi
inalterata negli studi successivi) nel segnalare contatti e rapporti tra intellettuali
russi e cultura occidentale. Ščerbatov è stato definito,
da uno studioso italiano, un «reazionario illuminato»[7].
Nel suo saggio inedito Venturi mostra appunto come il colto principe russo,
nutritosi di letture illuministiche, attingesse ai fisiocratici e agli enciclopedisti
gli argomenti per sostanziare e nobilitare il progetto politico-sociale che
più gli stava a cuore. Lo scritto in difesa del regime della servitù
della gleba «è uno degli esempi più interessanti, nella
letteratura settecentesca russa, di utilizzazione di argomenti illuministi
a difesa di una situazione sociale che era proprio l’opposto degli ideali
degli enciclopedisti e dei fisiocratici»; infatti, «gli stessi miglioramenti
tecnici che egli esige sono chiaramente intesi come dei mezzi di cui soltanto
la nobiltà è in grado di servirsi e che perciò debbono
essere a lei riservati» (p. 26).
Alcune pagine del ritratto di Ščerbatov sono dedicate a un’intricata
ed essenziale questione storica, quella cioè dell’atteggiamento
di Caterina la Grande verso la cultura dei lumi e il moto riformatore. Parlando
della commissione legislativa e del ruolo che vi ebbe Ščerbatov,
Venturi coglie il destro di soffermarsi sul celebre Nakaz, l’Istruzione
con la quale l’imperatrice intendeva orientare i lavori dell’assemblea
di deputati convenuti da tutta la Russia. Nella scia dello studio di Georg
Sacke, lo storico di Leipzig che aveva demolito le fortunate interpretazioni
«liberali» e «parlamentari» del Nakaz cateriniano[8],
Venturi sottolinea la volontà «assolutistica» della zarina,
la quale «controllò strettamente i lavori della Commissione»
impedendole d’assumere poteri legislativi (p. 17). Egli si dissocia
invece dall’ipotesi interpretativa di Sacke, formulata peraltro in maniera
cauta e dubitativa, che Caterina si proponesse di resuscitare i vecchi zemskie
sobory (gli stati generali della Russia medievale) per legittimare e rinsaldare
il proprio trono, offuscato dal ricordo della sanguinosa congiura di palazzo
del 1762[9]. Ha ragione Venturi
nel dire che «non verso il passato russo guardava allora Caterina, ma
verso le idee che venivano da Parigi» (p. 17). In quegli anni, infatti,
la più innovativa cultura europea stava penetrando in Russia:
Il sesto decennio del secolo è effettivamente il periodo in cui con maggior entusiasmo le classi dirigenti russe assimilano le idee illuministiche soprattutto francesi, ma anche italiane (Beccaria) e inglesi (Locke e Hume). La commissione per la redazione del nuovo Codice è anche il risultato di questa atmosfera e non soltanto una manovra politica di una intelligente imperatrice male assisa sul trono(p. 18).
Certo, osservando da vicino le modalità di convocazione e i dibattiti della commissione, balzava agli occhi «la distanza tra le idee illuministiche e la realtà russa di quella età» (p. 18). Che ruolo ebbero dunque le progredite concezioni dei philosophes nell’arretrato impero zarista? La risposta di Venturi non è priva d’acutezza e originalità: «Uno degli effetti più durevoli delle idee illuministiche nella Russia del seicento [sic]» fu che «esse permisero di conoscere una realtà prima meno nota, di inventariare un paese» (p. 18).
5. Sul complesso rapporto tra Caterina II e i lumi Venturi ritorna nell’altro saggio inedito, quello su Nikolaj Ivanovič Novikov, scritto tra il 28 ottobre e il 30 novembre 1949. Anche qui la vita e l’opera del personaggio studiato sono ritratte con dovizia di particolari: molto apprendiamo sull’attività di Novikov come segretario d’una delle sezioni della commissione legislativa, sulle sue molteplici e audaci iniziative editoriali e filantropiche, sull’adesione alla massoneria; e puntuali riferimenti troviamo alle vivaci riviste satiriche (dal «Truten’» allo «Živopisec»), che Novikov diresse e che finirono per metterlo in urto con l’imperatrice. Si ha comunque l’impressione che il manoscritto sia rimasto incompiuto, perché poco o nulla si dice degli ultimi anni dello scrittore (che Caterina, inciprignita dalla rivoluzione francese e dall’affare Radiščev, fece arrestare nel 1792, e che poté tornare in libertà solo dopo l’avvento al trono di Paolo I). Le pagine più interessanti sono, tuttavia, quelle relative al Nakaz cateriniano e al ruolo che le idee illuministiche ebbero nella Russia d’allora. Caterina prese sul serio la cultura dei lumi o la considerò solo un orpello ideologico?
La lettura di Voltaire, degli Enciclopedisti, di Montesquieu, di Beccaria non sarà per lei soltanto curiosità intellettuale di una donna particolarmente intelligente gettata in un mondo a lei ostile, non sarà unicamente un mirabile strumento di comprensione del mondo politico e sociale che l’attorniava (p. 3 del manoscritto).
Avendo assimilato le formule del pensiero politico occidentale «con
almeno altrettanta avidità di quanto non facessero contemporaneamente
altri giovani», Caterina finì con l’avere un rapporto tutt’altro
che semplice con la cultura illuministica: «Le idee che trovò
negli scritti dei “philosophes” servirono troppo bene a rivelar
Caterina a sé stessa perché non si creasse con queste teorie
un legame importante nell’animo suo» (p. 3). Tuttavia, «politicamente
la cosa più importante, per Caterina, consiste nella volontà
di aver voluto voluto [sic] fare di questa cultura illuminista l’ideologia
del suo governo» (p. 3). In ogni caso, «l’iniziativa di mettere
a diretto contatto le idee illuministiche ed i problemi politici della Russia
fu soprattutto sua e con tutte le sue limitazioni, incertezze e incongruenze
era destinata a fruttare» (p. 4). Fu proprio il Nakaz, con le
sue numerose citazioni da Beccaria e da Montesquieu, «l’atto politico
più importante in cui venivano proclamati alcuni principii illuministici».
Esso, dunque, «non era né un esercizio letterario, come sembrava
far credere a Voltaire, né una pura maschera, era un atto di politica
ed insieme di diffusione dei lumi. Soltanto con la chiusura della commissione
questo Nakaz tendette [sic] a diventare sempre più uno
strumento di propaganda all’estero» (pp. 4-5).
Seguito ideale dei due saggi inediti su Ščerbatov e Novikov va considerato
l’articolo Beccaria in Russia[10]
il quale, pur nella sua brevità, è un piccolo gioiello ed una
delle cose migliori uscite dalla penna di Venturi. Il tema generale è
la ricezione in Russia delle idee esposte in Dei delitti e delle pene,
dagli anni ‘60 del Settecento fino ai decabristi ed anche oltre; e vi
si trovano altresì accenni alle obiezioni che Ščerbatov mosse
allo scritto di Beccaria. Ma le pagine più dense e vive sono, ancora
una volta, quelle dedicate al Nakaz di Caterina e all’atteggiamento
dell’imperatrice verso il mondo dei lumi. Perché essa volle inserire
frammenti del testo beccariano nella sua Istruzione ai deputati della
commissione legislativa? Quali erano gli obiettivi del Nakaz e che
posto esso ha nella storia russa? La risposta di Venturi coglie felicemente
l’ambigua complessità dell’operazione ideologica e politica
condotta da Caterina:
Per l’imperatrice si trattava di servirsi delle nuove idee per tentar di compiere dall’alto alcune riforme e rafforzare il suo ancora incerto potere, per alcuni nobili illuminati poteva parere un primo germe d’un regime rappresentativo. I contrasti impedirono che la Commissione giungesse ad alcuna conclusione pratica, ma le discussioni che essa suscitò nel suo interno e nella società russa dovevano pur sempre lasciare una traccia importante nella storia della Russia. L’Istruzione di Caterina, questo manifesto che circolò per tutta Europa, rifletteva perfettamente l’ambiguità della situazione. Così come i passi tratti da Montesquieu erano scelti e modificati onde servire di giustificazione alla propria politica, così anche alcune pagine che a prima vista paiono semplicemente copiate da Beccaria, si trasformano anch’esse e rendono un suono diverso, una volta inserite nell’opera di Caterina[11].
6. Comunque, «le idee fondamentali» restavano; ed «era già una gran cosa che questi principi fossero riconosciuti come tali, fossero posti al limite d’uno sforzo di rinnovamento, anche se qua e là la ragion di Stato ritornava a fare la sua apparizione con il consueto pretesto delle situazioni eccezionali e straordinarie»[12]. Illuminante, e nel complesso da condividere, è l’articolato giudizio d’insieme sulla politica di Caterina, che leggiamo poche righe dopo:
Il problema centrale era infatti quello dell’applicazione. Nella lotta politica, nel reprimere i complotti e nello schiacciare le rivolte contadine Caterina sarà ispirata da una volontà ben diversa da quella che aveva animato la sua Istruzione. Ben poco sarà fatto per porre un limite all’arbitrio dei nobili, più duro per i contadini, anche dal punto di vista dell’amministrazione della giustizia, che non le leggi dello stato, le quali del resto poco s’occupavano di loro lasciandoli quasi integralmente nelle mani dei loro padroni. Caterina abolirà la tortura in Russia, ma beninteso le eccezioni non mancheranno. Col rafforzarsi del suo potere, l’imperatrice appesantirà anche il suo assoluto dominio e alla fine del secolo ben poco restava dei lumi che s’erano accesi a Pietroburgo intorno agli anni in cui Beccaria pubblicava il suo libro. Eppure, quando già a Parigi si era in piena rivoluzione e le idee dei suoi amici philosophes stavan sommovendo tutta l’Europa, Caterina seppe ancora commutare la pena di morte a cui era stato condannato Radiščev, seppe cioè rinunziare al sangue per punire il più grave delitto di pensiero commesso durante il suo regno. Le contraddizioni nelle quali si era inserito il libretto di Beccaria fin dal suo primo apparire a Pietroburgo, eran così destinate a rimaner vive ed aperte[13].
Nel medesimo anno in cui uscivano le noterelle sull’influenza di Beccaria
in Russia, Venturi dava alle stampe un lunghissimo e denso articolo su Feofan
Prokopovič (il personaggio sul quale, come si ricorderà, egli
aveva annunciato uno studio particolareggiato nelle lettere da Mosca del 1948-1949)[14].
Il manoscritto, come ho appreso da Antonello Venturi, non reca alcuna data;
possiamo però ipotizzare che esso (o per lo meno il suo nucleo fondamentale)
sia stato redatto a Mosca, magari nello stesso periodo in cui venivano stesi
i due saggi inediti su Ščerbatov e su Novikov. Mi pare, anzi, che
una tale supposizione sia verosimile, sulla base di quanto Venturi scriveva
agli amici poco prima d’abbandonare la capitale sovietica, che cioè
era quasi pronto un suo studio su personaggi del Settecento russo: le lunghe
pagine su Prokopovič, unite a quelle su Ščerbatov e Novikov,
possono infatti considerarsi un volumetto di tutto riguardo.
Ad ogni modo, che sia stato composto a Mosca o dopo il rientro in Italia,
il saggio su Prokopovič è diverso dai due inediti dianzi esaminati,
e non solo per la compiutezza e l’accurata elaborazione le quali, per
forza di cose, contraddistinguono un’opera data alle stampe rispetto
ai manoscritti rimasti nel cassetto. Diverso è, soprattutto, il problema
storico indagato, che adesso concerneva – attraverso il pensiero e l’opera
di Prokopovič – l’età di Pietro il Grande e l’irruzione
della cultura moderna nell’impero russo. Se i ritratti di Ščerbatov
e di Novikov avevano offerto a Venturi il destro d’abbozzare una storia
della penetrazione e della varia ricezione delle idee illuministiche nella
Russia di Caterina II, la biografia del dotto ispiratore e promotore delle
riforme ecclesiastiche di Pietro consentiva di tracciare un bilancio della
grande metamorfosi subita dalla Moscovia nei primi decenni del Settecento.
Com’era sua consuetudine intellettuale, Venturi trattava quel gigantesco
e arduo problema scegliendo una personalità significativa, della quale
veniva ripercorso nei dettagli l’itinerario di vita.
La figura di Prokopovič (un uomo di chiesa, nato a Kiev nel 1681 ed istruito
nei collegi cattolici della Polonia prima di proseguire gli studi in occidente)
si prestava in modo esemplare ad una ricerca sui mutamenti culturali intervenuti
in Russia tra Sei e Settecento. Se il soggiorno di tre anni a Roma fornì
al futuro vescovo ortodosso una solida erudizione umanistica, il successivo
viaggio nella Svizzera protestante lo mise a contatto con un mondo teologico
e dottrinario, dal quale egli avrebbe molto imparato e attinto. Tornato in
patria, al pari di tanti altri giovani ortodossi recatisi all’estero
per perfezionare le loro conoscenze, Prokopovič abiurò la religione
cattolica e riabbracciò la fede dei padri. Ma tutto quel che aveva
imparato in Polonia e in occidente (lettura di classici latini e di testi
dell’umanesimo, di trattatisti cattolici e di teologi protestanti) allargò
e arricchì la sua mente. Oltre agli scrittori rinascimentali, furono
soprattutto gli autori protestanti, studiati durante il giovanile soggiorno
all’estero, a influire sulla formazione intellettuale di Prokopovič,
cosmopolitica e quasi preilluministica. Proprio quest’uomo di ampie
letture e di solida dottrina fu scelto da Pietro il Grande per realizzare
la riforma ecclesiastica che, se per certi versi riecheggiava la tradizione
cesaropapistica del mondo bizantino, ebbe comunque il merito, «col fatto
stesso di porre così chiaramente e duramente un controllo dello Stato
sulla religione», di favorire «il nascere della cultura laica in
Russia»[15]. Per parte sua,
Prokopovič si mostrò sempre, anche dopo la morte dell’imperatore,
un fervente ammiratore di Pietro e un convinto sostenitore del potere assoluto
del monarca. Fino al 1736, quando lasciò il mondo terreno, egli si
batté contro qualsiasi tentativo di riforma, per il mantenimento delle
prerogative autocratiche del sovrano. Il seme culturale da lui gettato non
fu vano: suoi allievi ideali, nonché continuatori della sua opera intellettuale,
debbono considerarsi lo storico Vasilij N. Tatiščev e lo scrittore
di satire Antioch D. Kantemir.
7. Sono questi i tratti essenziali del ritratto di Prokopovič, che Venturi
disegna per oltre 50 pagine sulla base d’un copioso materiale documentario
e bibliografico. Corrisponde esso, in tutto e per tutto, alla realtà?
Oppure l’autore, innamoratosi del suo personaggio, visto quasi come
un precursore della cultura dei lumi, ha troppo insistito sulla formazione
cosmopolitica e sull’armonia tra pensiero e azione nell’opera
dell’alto prelato? Io propendo senz’altro per questa seconda interpretazione.
V’è da osservare, anzitutto, la novità dell’istruzione
ricevuta da Prokopovič nell’Ucraina di fine Seicento, d’una
terra cioè che, da poco annessa alla Moscovia, era permeata di cultura
polacca e occidentale (benché salda e maggioritaria vi si fosse mantenuta
la religione ortodossa). Un tale fatto pone, già di per sé,
un problema storico grandioso e affascinante – quello dell’apporto
dell’Ucraina polonizzata all’introduzione della cultura moderna
nella Russia moscovita –, problema che ai nostri tempi è assai
studiato e dibattuto, ma che mezzo secolo fa non poteva appassionare chi avesse
una visione russocentrica dell’impero zarista e del mondo sovietico.
Del resto, non sono ancor oggi tanti i russisti e i sovietologi, per i quali
l’Ucraina non è che una vasta propaggine meridionale della Grande
Russia?
Prokopovič fu un personaggio complesso e multiforme, dotto di raffinata
cultura e battagliero uomo d’azione. Ma fu sempre illuminata la sua
attività intellettuale e positivo il suo impegno a sostegno dell’assolutismo
petrino? Dobbiamo giudicare con sguardo indulgente, seguendo il consiglio
di Venturi, le sue reiterate e sperticate lodi del primo imperatore russo
e i feroci intrighi ai quali egli partecipò dopo la morte di Pietro?
La risposta a tali interrogativi è legata, in primo luogo, al giudizio
storico che si formula sull’opera del fondatore dell’impero russo
e sugli effetti di lungo periodo delle cosiddette riforme petrine. Circa il
posto che a Pietro il Grande spetta nella storia della Russia, oltre che dell’Europa
moderna, Venturi ebbe sempre le idee chiarissime e mai venne sfiorato dal
dubbio. Pur con i metodi violenti e primitivi, che gli derivavano e dal suo
temperamento e dall’ambiente circostante, e magari senz’aver piena
coscienza di quel che stava compiendo, lo zar ammiratore dell’occidente
introdusse di fatto nell’impero da lui creato molti elementi della moderna
civiltà. Tale interpretazione, che sentiamo ripetere da quasi tre secoli
e che si ritrova in tutti i testi di storia, Venturi l’accettò
e la fece sua, semmai insistendo maggiormente sui contraddittori aspetti della
personalità e dell’opera dell’energico zar. Nel saggio
su Prokopovič leggiamo:
Ci fu effettivamente in Pietro uno squilibrio tra pensiero ed azione, tra coscienza e volontà, squilibrio che non è di puro carattere politico, chè anzi è noto come egli sapesse manovrare e condurre a fondo le imprese che ebbe tra mano, nè di puro carattere psicologico (pur con tutto quello che di barbarico rimaneva nel suo temperamento indomito), ma che stava più nel profondo: un vero squilibrio storico – che è suo come di tutta la sua epoca – tra l’energia politica che in lui e nella Russia si andava sprigionando e la coscienza riflessa della natura, delle origini e dei limiti di questa stessa energia.
Per Venturi, un personaggio come Prokopovič «in cui maggiore era
l’equilibrio tra pensiero ed azione, in cui più forte era il
legame tra la volontà e la coscienza» permetteva di comprendere
meglio «i reali problemi dell’età di Pietro». Fu lui,
infatti, «che, a modo suo, realizzò veramente» il precetto
ora et labora che l’imperatore pare abbia un giorno rammentato
ad un gruppo di vecchi moscoviti «quasi ad incitarli a trovare l’equilibrio
che, nelle forme più varie, tanto difficile egli sentiva per sè»[16].
Che Pietro il Grande, pur con tutti i suoi limiti, avesse avvicinato la Russia
all’Europa e aperto una nuova e gloriosa epoca nella storia di quello
sterminato paese, Venturi ebbe occasione di ribadirlo, in forma più
compiuta, in un corso monografico tenuto all’università di Torino
nell’anno accademico 1965-1966[17].
Sebbene obiettivo precipuo delle lezioni e delle dispense, come si può
ben comprendere, fosse quello di narrare e informare (minuziosa è infatti
la cronaca delle vicende politiche e militari del lungo regno petrino), Venturi
non si sottrasse al dovere intellettuale di tracciare un bilancio critico
dell’opera dell’imperatore. Pur citando con profonda stima gli
storici che, come Ključevskij e Gerschenkron, s’erano pronunciati
in termini assai severi nei riguardi di Pietro, Venturi rivelò qual
era l’autore da cui egli aveva tratto ispirazione nell’interpretare
la metamorfosi della Russia nel primo quarto del Settecento:
Voltaire sapeva genialmente unire l’elogio e magari l’adulazione al giudizio profondo e rinnovatore. Egli aveva intravisto in Pietro una doppia natura, aveva intuito in lui il barbaro e il civilizzatore, “mezzo eroe e mezzo tigre”, “mezzo lupo cerviero e mezzo uomo”, “centauro, mezzo uomo e mezzo cavallo, distruggendo tanti uomini per suo piacere, mentre stava civilizzando tanti altri”[18].
8. Era stato Voltaire, in effetti, il geniale artefice della leggenda di
Pietro il Grande, destinata a fornire la base delle polemiche pubblicistiche
e dei dibattiti storiografici per due secoli e mezzo. Sia nelle brevi Anecdotes
sur le czar Pierre le Grand del 1748 sia nella successiva e ampia Histoire
de l’empire de Russie sous Pierre le Grand (uscita, in due parti,
nel 1760 e nel 1763), il sire di Ferney tesseva le lodi del barbaro imperatore
russo che aveva introdotto in Russia la moderna civiltà europea[19].
Il ritratto di Pietro, scolpito con elegante maestria da Voltaire, nel volgere
di pochi decenni s’impose dappertutto come il più somigliante
all’originale, fino a diventare il solo autentico. Da allora tutti guardarono
alle riforme petrine come al momento della più brusca e radicale svolta
nella storia della Russia. Non devono trarci in inganno le furibonde e laceranti
dispute che in Russia, specie nell’Ottocento, s’accesero sul giudizio
da dare delle innovazioni introdotte da Pietro, da taluni apprezzate perché
promotrici dello svecchiamento dell’arcaica Moscovia e, da altri, stigmatizzate
per il ruolo nefasto che esse avrebbero avuto nel distruggere lo spirito e
i costumi nazionali. Gli uni e gli altri, in realtà, eran concordi
nel giudicare enorme la portata – positiva o negativa – dei cambiamenti
avvenuti nei primi decenni del Settecento.
Rispetto a Voltaire, il quale aveva magnificato le pubbliche virtù
del sovrano russo (accennando fugacemente ai suoi vizi privati, ossia al suo
temperamento focoso e primitivo), Venturi formulava un giudizio storico meno
semplicistico e più attento alle tensioni ed alle contraddizioni dell’epoca
petrina. La passione per Prokopovič nasceva, come abbiam visto, dal desiderio
di studiare una figura di notevole statura intellettuale, che avesse in qualche
modo tentato di sanare quelle drammatiche contraddizioni storiche; in ogni
caso, il giudizio venturiano sul riformatore della Chiesa russa coincideva
con quello di Voltaire, che aveva definito Prokopovič «savant et
sage»[20].
Se l’ammirazione per l’opera riformatrice di Pietro gli veniva
dalla lunga e amorevole consuetudine con il grande philosophe ed era
senza dubbio precedente al soggiorno a Mosca, la successiva lettura di Herzen
rafforzò in Venturi la convinzione che il fondatore di San Pietroburgo
fosse stato «un despota alla maniera del Comitato di Salute Pubblica,
despota in suo nome e nel nome di una grande idea che gli assicurava un’incontestabile
superiorità su tutto ciò che lo circondava», insomma «il
primo individuo emancipato della Russia e, per questo, un rivoluzionario incoronato»[21].
Queste parole del padre del populismo, che Venturi amò sopra tutti
i rivoluzionari russi, dovettero fargli velo quando lesse gli scritti di un
altro grande autore scoperto e studiato a Mosca, Nikolaj Gavrilovič Černyševskij.
Eppure, questi aveva saputo disegnare un ritratto del vulcanico zar ben più
acuto e originale mostrando, in sarcastica polemica sia con gli slavofili
che con gli occidentalisti, come il taglio delle barbe e l’introduzione
della moda occidentale (dell’«abito tedesco», come si diceva
ai tempi di Pietro) fossero bensì cambiamenti spettacolari (e, per
molti, traumatici), ma non influissero più di tanto sull’organizzazione
generale della società russa: «È vano credere che le riforme
di Pietro il Grande abbiano in qualche modo cambiato le condizioni interne
della nazione russa. Hanno solo cambiato la posizione degli zar russi nel
concerto degli Stati europei. Prima essi non avevano voce in capitolo nei
consessi internazionali, ora ce l’hanno grazie al forte esercito creato
da Pietro»[22]. La voce di
Černyševskij rimase solitaria e non riuscì a scalfire la
suggestiva e tenace leggenda forgiata da Voltaire.
9. Del resto, neppure uno storico famoso e ammirato come Vasilij O. Ključevskij, il quale dedicò all’epoca petrina le pagine forse più interessanti del suo voluminoso Corso di storia russa, poté aprire una breccia ampia e durevole nel tetragono mito dello zar riformatore e occidentalizzatore. Anche dopo che egli ebbe mostrato, sulla base d’una solida documentazione, la limitatezza e contraddittorietà delle disordinate trasformazioni volute da Pietro, l’aurea leggenda sopravvisse e proseguì la sua inarrestabile marcia. Quel che qui c’interessa maggiormente è che, scrivendo nel 1986 una breve prefazione alla bella edizione italiana del libro di Ključevskij (avviata per iniziativa di Valdo Zilli, il quale morì prima di vederla uscire), Venturi preferì tracciare un profilo della fortuna dello storico in epoca sovietica e riservò solo poche righe al dirompente contenuto dell’opera:
Pietro non è più per lui il rivoluzionario sul trono mitizzato dagli occidentalisti del primo ottocento, né la forza malefica che aveva rotto l’incanto della vecchia Russia moscovita, come avevano detto gli slavofili. Ključevskij ripiomba la figura di Pietro nel corso della storia, dissolve i miti e le leggende, porta il lettore a diretto contatto con la straordinaria complicazione dei problemi che si andarono accumulando attorno alla politica interna ed estera dello zar “trasformatore”[23].
Formulandolo in termini troppo fugaci e generici, Venturi tendeva ad eludere
il problema storico, che Kjučevskij aveva posto e risolto nel modo più
chiaro e vigoroso. Non possiamo comunque escludere che le rapide parole appena
citate fossero l’inizio d’un ripensamento, del quale non abbiamo
altri indizi, dell’interpretazione delle riforme petrine, che Venturi,
nella scia di Voltaire e di Herzen, aveva per lungo tempo accettata.
Un altro storico caro a Venturi, Alexander Gerschenkron, prese di petto la
questione del posto di Pietro il Grande nella storia russa, esaminandola sotto
il profilo dello sviluppo economico e giungendo alla conclusione che la spettacolare
crescita promossa dal celebre zar, anziché avvicinare la Russia all’Europa,
finì per esaurire il paese e generò una serie di cicli viziosi
(consistenti in brevi e intensi sforzi produttivi, dettati da mire strategico-militari,
i quali esaurivano e impoverivano la popolazione e a cui seguivano, per forza
di cose, lunghe stagnazioni), cicli che si sarebbero interrotti soltanto con
il «grande slancio» industriale di fine Ottocento[24].
Secondo Gerschenkron, la nuova e importante fase di sviluppo iniziatasi negli
ultimi decenni del XIX secolo s’interruppe, bruscamente, con la guerra
mondiale e la rivoluzione bolscevica. L’industrializzazione sovietica
che, ancora una volta, era una risposta al drammatico problema dell’arretratezza
e nasceva anch’essa da esigenze e obiettivi politico-militari, avvenne
secondo forme e metodi risalenti proprio all’epoca petrina: «Così,
un modello di sviluppo economico che prima della prima guerra mondiale sembrava
relegato tra le anticaglie, rinacque a nuova vita nella Russia sovietica»[25].
Il colorito e immaginifico confronto tra l’URSS di Stalin e la Russia
di Pietro il Grande, che Gerschenkron tracciava nel saggio testé citato,
serviva a illustrare, sia pure in forma paradossale, l’affinità
dei metodi usati dai due tiranni per far uscire il paese dall’arretratezza
e metterlo in grado di competere militarmente con gli Stati più progrediti[26].
Anche Venturi, il quale a lungo non s’era interessato al problema del
ritardo economico della Russia e dei suoi effetti sulla storia politica e
intellettuale, comincerà a prestarvi attenzione, pungolato proprio
dalla riflessione gerschenkroniana: ne farà il tema d’una conferenza
tenuta nel gennaio 1967, e vi ritornerà nell’introduzione alla
seconda edizione del Populismo russo. Ma su ciò dirò
qualcosa più avanti.
10. Conviene adesso fare un ulteriore cenno agli studi venturiani su personaggi e vicende del Settecento russo. Dopo il saggio su Prokopovič e l’articolo Beccaria in Russia, entrambi del 1953, Venturi non s’occupò per molti anni della storia del paese che tanto l’affascinava. Tornò invece, come sappiamo, alle consuete ricerche sul Settecento europeo, scrivendo nel 1954 il celeberrimo saggio sulla circolazione delle idee nel secolo dei lumi e preparando, poi, la relazione per l’XI congresso internazionale di scienze storiche, tenutosi a Stoccolma nell’agosto 1960. Nel primo dei due lavori egli mise a frutto, sia pure con una brevissima notazione, quel che aveva scoperto durante gli anni del soggiorno moscovita. Accennando all’importanza e al ruolo europeo del giurisdizionalismo italiano nei primi decenni del Settecento, egli menzionò l’opera di Prokopovič:
Attraverso il giurisdizionalismo legisti e pubblicisti si sentono partecipi d’un problema che, pur atteggiandosi diversamente da paese a paese, è ovunque vivo e che va anche al di là delle frontiere della cattolicità (basterà ricordare l’abolizione del patriarcato compiuta da Pietro il grande sotto l’influsso d’un teologo, Feofan Prokopovič che aveva compiuto i suoi studi a Roma)[27].
Più numerosi e ampi sono i riferimenti alla realtà russa nella relazione del 1960, in cui si fa cenno della penetrazione e diffusione dei germi illuministici in quelli che i contemporanei chiamavano «paesi del nord» includendovi, oltre alla Svezia, gli Stati dell’Europa orientale. Venturi tratteggiava il primo decennio del regno di Caterina II, che «segna il periodo di maggior fervore delle riforme, la massima apertura delle idee illuministiche e vede la maggior diffusione nella società delle formule enciclopedistiche» e che «è anche l’epoca in cui con maggior nettezza viene configurandosi, sbarazzato il campo da quel che restava degli altri elementi e cioè soprattutto dell’influenza della chiesa, il triplice ed unico problema della Russia: l’autocrate, i nobili, i contadini». Con la grande guerra contadina del 1773-1774 quell’epoca si chiuse e se ne aprì un’altra:
Il rapporto tra l’autocrate, i nobili e i servi tende a stabilizzarsi dopo la sconfitta di Pugačëv, a immobilizzarsi. Perché la situazione si modifichi è necessario il lento, difficile emergere del “terzo stato”, la trasformazione dell’economia nobiliare, la modificazione della autocrazia verso forme di monarchia, il diffondersi della cultura nella classe dirigente e, non ultimo, il sorgere d’una forza nuova che sarà l’intelligencija e di cui vediamo allora i primi germi e le prime radici, tanto più isolata e chiusa (fino a rifugiarsi nelle sette massoniche), tanto più importante quanto piccola numericamente e presto destinata alla persecuzione. Importante, fondamentale proprio perché cresce, fin dai suoi primi passi con compiti enormi, smisurati alle sue forze molto limitate, tendendo a sostituire tutto ciò che manca alla società russa. Gli ideali che animano Novikov e poi Radiščev, per non nominare che loro, sono quelli dei lumi, scelti e trasportati dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Germania, con un forte eclettismo che corrisponde alle necessità immediate della Russia, ai problemi morali e politici che immensi si affollano di fronte alle menti degli uomini colti della Russia e cominciano a dominare le loro anime sensibili. Quando Radiščev avrà legato queste idee al problema della libertà per i contadini, egli avrà trovato la formula che dominerà l’intelligencija per un secolo e più[28].
11. Su Radiščev, da lui considerato a ragione il più audace e profondo tra gl’intellettuali del Settecento russo, precursore dei rivoluzionari ottocenteschi, Venturi avrà poi modo di scrivere un saggio biografico, somigliante, non foss’altro per l’egual numero di pagine, ai due ritratti di Ščerbatov e di Novikov, abbozzati a Mosca e abbandonati nel cassetto. Come si ricorderà, nelle lettere inviate dalla capitale sovietica agli amici italiani egli aveva annunciato il proposito di dedicare all’autore del Viaggio da Pietroburgo a Mosca un capitolo del progettato libro sull’illuminismo russo. L’idea gli venne dunque durante il soggiorno nell’URSS; e non possiamo escludere che a Mosca egli abbia redatto la prima stesura o, magari, un abbozzo del saggio che vide la luce nel 1972. L’occasione d’occuparsi minuziosamente di Radiščev gli fu data, comunque, dall’edizione italiana del Viaggio, curata da lui e da Gigliola Venturi e preceduta da un saggio introduttivo d’una cinquantina di pagine[29]. Trattandosi d’un testo largamente noto, passato per le mani d’innumerevoli lettori, non occorre che mi ci soffermi e lo riassuma. Basterà solo richiamar l’attenzione sul fatto che Venturi, nel descrivere la vita e le opere di Radiščev, affrontava un’altra volta il problema, che sempre l’aveva appassionato, dell’atteggiamento di Caterina la Grande verso i lumi. A me pare di notare nel saggio del 1972, rispetto ai precedenti scritti inediti (e all’articolo Beccaria in Russia), una maggior simpatia dell’autore verso la dotta zarina. Severo era comunque, né poteva non esserlo, il giudizio sulla stizzita reazione dell’imperatrice alle idee formulate nel Viaggio, ch’essa lesse e annotò, mentre l’autore era rinchiuso in prigione, all’incirca un anno circa dopo la presa della Bastiglia: «Ma, oramai, in Caterina, alla sovrana energica ed illuminata, all’uomo di Stato, si vien mescolando, e prende anzi ormai il sopravvento, l’inquisitore, il poliziotto alla ricerca non della realtà effettuale, ma delle intenzioni e dei pensieri dei suoi avversari, delle mene segrete e dei complotti dei suoi nemici»[30]. Molte cose eran cambiate da quando la Semiramide del nord corrispondeva con i più bei nomi del movimento dei lumi:
Una generazione era passata. Non era più capace ormai, l’imperatrice, di giudicare il philosophe russo con l’animo con cui aveva guardato ai suoi predecessori francesi. La possibilità di un’autentica collaborazione tra i lumi e l’assolutismo era terminata, non nell’animo soltanto di Radiščev – che guardava ormai alle antiche repubbliche, alla libertà moderna, al diritto alla rivolta degli oppressi – ma nell’animo pure dell’imperatrice, incapace di scorgere nel suo prigioniero della fortezza di Pietro e Paolo altro che un uomo mosso dal dispetto di non aver ottenuto un posto altolocato nel Palazzo d’Inverno[31]
Il saggio su Radiščev fu, insieme con l’ampia prefazione alla seconda edizione del Populismo russo, il solo studio che Venturi dedicò alla storia dell’Europa orientale negli anni in cui era intento alla ciclopica impresa di descrivere il moto dei lumi nell’Italia del XVIII secolo. Nel primo volume di quel monumentale affresco storico, per ovvie ragioni, non poteva esservi spazio per la lontana Russia. Vi si faceva però motto, nelle pagine sugli echi delle Lezioni di commercio di Antonio Genovesi, della traduzione tedesca approntata da August Witzmann, il quale altri non era che il precettore degli studenti russi (tra cui Radiščev) mandati da Caterina II a studiare all’università di Lipsia: «Radiščev stesso apprese forse i primi rudimenti dell’economia politica sul testo dell’economista napoletano»[32]. E, rievocando il dibattito intorno a Dei delitti e delle pene, Venturi accennava all’influsso che l’aureo libretto ebbe nell’impero zarista e al più generale problema storico dell’illuminismo russo:
In Russia l’opuscolo fu annesso da Caterina II, che aveva sperato un momento di avere il filosofo lombardo al suo fianco per aiutarla nella riforma dei codici e che ne adottò, sia pure con alcune caratteristiche modificazioni, le idee principali nel Nakaz del 1767. Il contrasto tra la realtà della società e dello stato autocratico russo e delle idee di Beccaria è una delle tracce che meglio ci permettono di misurare l’importanza e i limiti dei lumi nella Russia settecentesca[33].
12. L’eterna questione storica del rapporto tra Caterina e i lumi, sulla quale Venturi tornava a riflettere ogni qualvolta se ne presentasse l’occasione, la troviamo affrontata nell’ultima delle celebri conferenze (le George Macaulay Trevelyan lectures), ch’egli tenne a Cambridge nell’aprile 1969. Questa volta, tenendo fede al programma di schizzare un quadro sintetico ma completo del moto illuministico, Venturi inserì il caso russo nel più ampio contesto europeo:
L’appuntamento a cui si ritrovarono coloro che erano in anticipo e quelli che tardavano, chi aveva aperto la strada e chi vanamente si era sforzato di seguire, era fissato negli anni ’60, quando gli orologi degli uomini dei lumi sembrarono battere insieme le ore, ore decisive per l’Europa tutta intera. È il tempo in cui, scendendo la Volga in battello con i suoi amici e ministri, Caterina traduce e fa tradurre delle opere degli enciclopedisti francesi, il Belisario di Marmontel, invitando poi a conoscere e tradurre un numero sempre maggiore d’altri libri che giungevano dall’occidente, collaborando lei stessa ai giornali che vanno sorgendo, favorendo il diffondersi della massoneria, contribuendo in ogni modo ad animare con le nuove idee la gran macchina statale che Pietro aveva cominciato a costruire. Come dirà il poeta Cheraskov, Pietro aveva dato alla Russia un corpo, Caterina le dava un’anima. In certo senso era vero: i lumi diventarono allora l’anima della Russia settecentesca[34].
Come nel saggio su Radiščev, di poco posteriore, anche in questa
pagina s’avverte un approccio meno sobrio e più simpatetico alla
figura storica di Caterina la Grande, la quale andava pian piano assumendo
(in modo quasi impercettibile) fattezze un po’ discoste da quelle raffigurate
da Venturi nei suoi primi studi sul Settecento russo.
Non spetta a me analizzare e discutere la complessiva struttura architettonica
e i singoli elementi di Settecento riformatore. Credo tuttavia che
ogni lettore del fastoso monumento storiografico, innalzato da Venturi nell’ultimo
venticinquennio di vita, sia in grado di notare il brusco mutamento di scenario
dopo i due volumi iniziali, incentrati sulle vicende intellettuali e politiche
italiane dagli anni ‘30 agli anni ’60 del Settecento. Se si prende
in mano il terzo libro, quello cioè dedicato al periodo dal 1768 al
1776, si legge sin nella prefazione che diverso sarà d’ora innanzi
il campo d’indagine. L’Italia non ebbe parte diretta nei grandi
avvenimenti politici e militari di quel periodo (dalla guerra russo-turca
alla dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane, dalla spartizione
della Polonia alla rivoluzione svedese del 1772), che segnarono la «prima
crisi dell’antico regime». Tuttavia, «a partire dagli anni
sessanta, esistette da noi un numero piccolo ma crescente di persone notevolmente
bene informate su quanto accadeva nel mondo, e capace di commentare gli avvenimenti,
talvolta in modo originale e spesso in maniera utile e pertinente ai problemi
della nostra vita politica e sociale». Nacque allora, in Italia, «una
nuova opinione pubblica, attivamente cosmopolita, attenta e curiosa di fronte
ai sorprendenti fatti di quel periodo». Essendo i giornali la fonte principale
per seguirla da vicino ed osservare «questo nuovo inserirsi dell’Italia
nell’Europa», Venturi sceglieva di porre al centro della ricerca
proprio le gazzette settecentesche, fino allora poco esplorate:
Le ho citate largamente anche perché non sono facili da reperire e da consultare, esistendo talvolta, a mia conoscenza, in un unico esemplare – come accade per alcuni fogli napoletani. Utilizzandole non ho tentato di risalire alle fonti e cioè alle gazzette straniere da cui derivano. I raffronti non sono facili. Rarissime le biblioteche in cui si possono trovare tanto i giornali nostrani che quelli transalpini. Né ritengo che il raffronto possa essere di grande utilità. L’importante è vedere quel che, due volte la settimana, era in grado di leggere o di apprendere un fiorentino che aprisse le “Notizie del mondo” per cercarvi, ad esempio, ragguagli sulla rivolta di Pugačev o sul “tea party” di Boston. Questo lettore non si sarà chiesto da dove derivavano le notizie che andava scorrendo. Quel che lo interessavano erano i fatti, quei nudi fatti che fanno delle gazzette settecentesche altrettante moderne cronache, aride e significative insieme, apparentemente fredde e distaccate, eppure piene di stimoli per chi vi cercava esempi e incitamenti sui problemi delle riforme e della libertà, della costituzione e del dispotismo, su tutti i grandi temi politici ed economici cioè dell’Europa dei lumi[35].
13. Anche nella prefazione al quarto volume, diviso in due tomi, Venturi ribadì la volontà di proseguire per la nuova strada imboccata, di guardare cioè le «realtà cosmopolitiche» di fine Settecento «attraverso l’Italia, attraverso le notizie, le discussioni, le versioni che esse suscitarono nel nostro paese, a Venezia come a Torino, a Firenze come a Napoli»:
L’Italia al tramonto del Settecento è davvero un prisma, tanto varia e molteplice essa si presenta, tanto dotta del passato e curiosa dell’avvenire, in piena ripresa dello spirito scientifico, attratta, non senza distacco, dalle esperienze politiche che altrove andavano compiendosi, dall’America di Jefferson alla Russia di Caterina II.
Benché, per sua stessa ammissione, il prisma italiano rischiasse «talvolta
di mostrarsi troppo vario e diverso per essere del tutto adeguato alle situazioni
che si andavano creando», Venturi si diceva convinto della bontà
del suo metodo: «La lettura delle gazzette, delle lettere, degli opuscoli
di quegli anni mi hanno confermato nella convinzione che si tratta pur sempre
di un utile strumento di comprensione del cosmopolitico mondo dei lumi»[36].
Di tale approccio tematico e metodologico si discusse in un seminario d’altissimo
livello, tenutosi nel dicembre 1984 alla fondazione Einaudi e dedicato a Settecento
riformatore. Conviene leggerne gli atti e ascoltare sia le perspicaci
osservazioni dei relatori sia la schietta e appassionata replica finale di
Venturi. Marino Berengo[37] notò
anzitutto il profondo cambiamento della materia trattata nel terzo e nel quarto
volume, i cui protagonisti sono intellettuali che «vedono e giudicano
riforme e rivoluzioni» («ma nessuno di essi è in grado, e
neppure si propone, di esercitarvi un’influenza o di sostenervi una
parte») e che «rappresentano appunto l’”eco italiana”
di fatti che si svolgono lontani dai luoghi della loro patria e della loro
formazione». Quanto alle gazzette compulsate da Venturi, Berengo si domandò
se esse non fossero fonti troppo complesse e ambigue per potervi attingere
come a «semplici miniere di “nudi fatti”». Certo, «a
lui non interessa il montaggio giornalistico, né il canale attraverso
cui la notizia è giunta sul tavolo del gazzettiere italiano che l’ha
rielaborata». Eppure, il ricorso alla stampa periodica pone non facili
problemi d’interpretazione:
I giornali danno infatti il senso reale di ciò che un’opinione pubblica colta è in condizione di recepire ed è in grado di esprimere. Siamo allora sicuri che quel lettore fiorentino, così maliziosamente evocato da Venturi, abbia maneggiato con tanta acritica noncuranza la sua gazzetta? Che non si sia mai chiesto come funzionasse la fontana cui, fedelmente e necessariamente, attingeva due volte ogni settimana?.
Nella sua lunga relazione[38] Luciano Guerci si domandò, tra l’altro, perché mai Venturi avesse escluso «dal suo viaggio per l’Europa» la Prussia di Federico il Grande, e perché nel quarto volume avesse taciuto della Danimarca, «che con le sue grandi riforme (soprattutto in materia agraria) degli anni ottanta-novanta offre un esempio di rivoluzione dall’alto riuscita, di superamento dall’interno dell’Ancien Régime». Tra le osservazioni di Carlo Capra[39] ne ricordo una che, pur riguardando le pagine venturiane sull’opera riformatrice di Giuseppe II, può aver valore generale e ci aiuta a leggere i capitoli di Settecento riformatore dedicati alle vicende russe ed alla loro eco in Italia:
Più che in altre parti del volume, riesce difficile distinguere tra reazioni dei contemporanei e giudizio storico. Sono evidenti i vantaggi (in termini anzitutto di freschezza e vivacità espositiva), ma anche i pericoli di una simile commistione, che induce lo storico a fare propri i criteri di rilevanza e la scala di priorità degli osservatori del tempo.
14. Proviamo adesso, anche alla luce dell’osservazione summenzionata,
a sfogliare i capitoli di Settecento riformatore dedicati alla Russia
(o, per l’esattezza, all’eco italiana dei fatti accaduti in quel
lontano paese). Nel terzo volume non sono poche le pagine che descrivono i
contatti e il dialogo tra i due mondi negli anni della guerra russo-turca,
che tanto appassionò l’opinione pubblica occidentale, e della
terribile rivolta di Pugačëv, seguìta anch’essa con
partecipe e ansiosa curiosità. Livorno fu la città italiana
dove, a partire dal 1769, non mancarono mai navi russe che andavano e venivano
dal Mediterraneo orientale. Ciò induce Venturi a dedicare un intero
capitolo ai russi nella Toscana di Pietro Leopoldo[40].
Leggendolo, apprendiamo molte notizie ghiotte sull’interesse dei sudditi
colti del granduca per la politica interna ed estera di Caterina, c’imbattiamo
in curiosi e vivaci personaggi (come quel Giovanni Del Turco, bibliotecario
dell’università di Pisa e traduttore dei due primi libri dell’Iliade,
che «fu indubbiamente in quegli anni il più sensibile e il più
intelligente tramite tra il mondo russo e la cultura toscana»), seguiamo
gl’interventi militari e politici della Russia nel levante e nella crisi
greca attraverso le notizie giunte in Italia. Il fatto più rilevante
è, forse, l’esistenza di ben tre traduzioni (una delle quali
approntata proprio da Del Turco) del Nakaz cateriniano, che apparvero
tutte nel 1769 (ossia, poco dopo l’uscita del testo ufficiale in francese
a San Pietroburgo). Ciò spiega, senza dubbio, la vera e propria infatuazione
per l’imperatrice russa, che si ebbe allora e si mantenne anche negli
anni successivi, quando Caterina continuò ad esser vista dai più
come una sovrana ragionevole e illuminata, promotrice di sagge istituzioni
e di leggi civilissime.
La larga circolazione d’un testo infiorato di brani tratti da Montesquieu
e da Beccaria predispose, senza dubbio, l’opinione pubblica italiana
a guardare con occhi estasiati all’attività di governo dell’imperatrice
russa. Venturi si mostra consapevole della creazione e diffusione del mito
cateriniano, ma talvolta ne resta anch’egli soggiogato e non riesce
a prenderne le dovute distanze. Certo, dopo aver elencato le lodi tributate
in Italia alla zarina, egli si sofferma a lungo anche sui commenti meno favorevoli
all’intervento russo nel Mediterraneo orientale, ricordando per esempio
che nell’autunno 1769 Pietro Verri (nel cui animo, peraltro, «l’ardire
dell’impresa moscovita suscitò meraviglia ed entusiasmo»)
«intese subito pure i rischi di prepotenza, di despotismo, di barbarie
che essa non poteva non comportare»[41].
Ma poi, nel capitolo dedicato all’eco in Italia della rivolta di Pugačëv,
leggiamo che negli anni successivi alla terribile guerra contadina «la
Russia parve rimettersi, sia pur lentamente e prudentemente, sulla via delle
riforme» e che la più informata gazzetta italiana (le fiorentine
«Notizie del mondo») salutò «con gioia questo ritorno
sulla strada interrotta»[42].
Come apprendiamo poco dopo, il giornale toscano attribuì a Caterina
una mirabolante volontà riformatrice, tesa a «“far della
Russia uno stato totalmente europeo”», ad abolire la tortura ed
«“ogni genere di violenza da parte dei giudici”» e a
garantire i diritti degl’imputati. Tale «speranza d’una ripresa
della volontà riformatrice dell’imperatrice» fece dire al
letterato romano Giovanni Cristofano Amaduzzi che, sotto la guida dell’illuminata
sovrana, il gelido nord sentiva prima dell’Italia «“i dolci
moti della umanizzante filosofia per applicarli al bene de’ popoli”».
Nel riportare tali mielate ingenuità, Venturi così commenta:
«Momento d’utopia nel lungo dialogo tra Russia e Italia fra gli
anni sessanta e settanta, dove non eran mancati, come abbiamo visto, i momenti
realistici e drammatici»[43].
15. Questi «momenti realistici e drammatici» si erano avuti pochi
anni prima, al tempo della rivolta di Pugačëv, che le gazzette italiane
avevano seguito con attenzione e trepidazione. A detta di Venturi, pur fornendo
del capo ribelle «tutta una serie di biografie, una più fantastica
dell’altra»[44], i
giornali dell’epoca seppero cogliere talune importanti ragioni dell’insurrezione
cosacca e contadina: «Difesa delle antiche autonomie, soprattutto nelle
zone periferiche dell’impero, aspirazione dei contadini alla liberazione,
tolleranza religiosa, questi gli elementi essenziali della ribellione di Pugačëv
che si intravedevano anche in Italia, sia pure attraverso le frammentarie
e distorte notizie che, attraverso la Polonia, la Germania e la Francia, giungevano
anche da noi»[45].
Riferendo notizie e commenti sulla rivolta di Pugačëv rintracciabili
nelle gazzette, Venturi coglie l’occasione per intervenire in prima
persona e formulare la propria interpretazione di quei fatti memorabili. Il
passaggio dall’esposizione degli articoli di giornale alla formulazione
del giudizio storico è, come in altre pagine dell’opera, alquanto
brusco e repentino, sì da rischiar di confondersi con le narrazioni
e valutazioni dei gazzettieri e dei pubblicisti settecenteschi. Infatti, dopo
aver ricordato che dei problemi affollatisi nei progetti riformatori di Caterina
«avevano a lungo parlato [...] e continuavano a discutere fogli e libri
in Italia», Venturi così prosegue:
Fu presto evidente, tuttavia, che tra le riforme che scendevano dall’alto e la rivolta cosacca e contadina non esisteva un linguaggio comune. Per quel che riguardava lo stato, Pugačev non voleva che due soluzioni, contraddittorie in realtà, ma che trovavano nella sua propria persona un punto d’incontro: dare a tutti la libertà dei cosacchi e nel medesimo tempo tenerli uniti sotto il potere assoluto dello zar tradizionale, anteriore all’età e alle trasformazioni di Pietro. Quanto ai contadini, non vedevano altra soluzione che la jacquerie, il bunt, la spinta elementare di giustizia, capace di tutto spezzare di fronte a sé. Spinta che portò Pugačev lontano, che fece di lui il capo della maggiore rivolta contadina della storia russa, ma che lo portò pure alla sconfitta e al patibolo. Poteva unire i cosacchi, gli allogeni, gli operai dell’Ural, i servi del Volga, ma ciò non era sufficiente per vincere gli eserciti modernamente addestrati che contro di lui fece marciare Caterina II.
Riforma e rivolta si scontrarono così con un ritmo che finì per rendere impossibile e l’una e l’altra: a Caterina di compiere il suo programma degli anni sessanta e a Pugačev di vincere. La ragione fondamentale di questo fallimento fu la guerra, la volontà espansionistica del governo russo e l’indebolimento interno, economico e politico, prodotto dal lungo conflitto[46].
L’immagine della zarina dipinta nel terzo volume di Settecento riformatore è ancora, nel complesso, quella aderente alla realtà (che Venturi aveva tratteggiato in precedenti lavori), pur recando qua e là tracce dell’intervento cosmetico operato dai gazzettieri settecenteschi. Se invece apriamo il secondo tomo del quarto volume (dedicato alle repubbliche occidentali, all’oriente europeo ed alla Turchia negli ultimi anni dell’antico regime) e leggiamo le pagine sulla Russia di Caterina II, restiamo perplessi e delusi. Circa la metà del lunghissimo capitolo nono è incentrato su quel che accadde nell’impero zarista dallo schiacciamento della rivolta di Pugačëv allo scoppio della rivoluzione francese. Il lettore s’aspetta, da un autore che conosce fonti e letteratura su entrambi i paesi, una chiara e lucida introduzione alle vicende interne della Russia e all’eco ch’esse ebbero in Italia in quell’importante quindicennio. Novanta pagine costituiscono già quasi un volumetto e, pur non potendo offrire una trattazione esauriente del complesso problema, bastano almeno ad impostarlo e a suggerire qualche ipotesi interpretativa. Tuttavia, la tecnica narrativa e la scelta metodologica di Venturi mostrano, qui più che altrove, le loro insufficienze. Anche in queste pagine, come nel terzo volume, s’intrecciano (fino a, talora, confondersi) le riflessioni dell’autore e i commenti settecenteschi sulla politica di Caterina. Ma qui la narrazione è meno limpida, più prolissa e, a tratti, persino farraginosa. Sballottato dal continuo passaggio dall’uno all’altro ambito tematico, il lettore dura fatica a tener deste la vigilanza critica e l’attenzione. Rispetto al terzo volume, le digressioni e le notazioni di Venturi sono più frequenti e lunghe. Tuttavia, anch’esse risultano deludenti e inferiori ad altri cimenti storiografici dell’autore e alle ansiose aspettative del lettore. A quest’ultimo vien detto subito che «chiusa vittoriosamente la guerra con la Turchia, schiacciata la rivolta di Pugačev, si era aperta per la Russia un’epoca di pace, di assestamento e di lente trasformazioni interne»: «”The reforming decade” vengono definiti questi anni, dal 1775 in poi, nella più recente e migliore storia di Caterina II»[47]. La nota a piè di pagina svela qual è lo studio tanto elogiato: è il libro di Isabel de Madariaga, apparso pochi anni prima[48]. Venturi lo cita sovente e ne condivide i giudizi che, quasi sempre, pongono in una luce favorevole la Semiramide del nord. La trasfigurazione di Caterina, operata dalla De Madariaga, dà la sua impronta a questa parte di Settecento riformatore: raffrontata ad essa, impallidisce la parca cosmesi alla quale, per influsso delle gazzette italiane del XVIII secolo, egli aveva sottoposto la celebre zarina nel terzo volume del suo monumento storiografico.
16. Per pagine e pagine si parla dei Règlements pour l’administration des gouvernements de l’Empire des Russies (pubblicati a San Pietroburgo nel 1778), della politica di colonizzazione interna e d’immigrazione avviata da Caterina II, delle osservazioni critiche di Diderot sull’impero moscovita (apparse in appendice alla Histoire philosophique et politique dell’abate Raynal), della solenne inaugurazione del monumento a Pietro il Grande eretto a San Pietroburgo dallo scultore Etienne-Maurice Falconet (1782), dell’incontro tra la zarina e Giuseppe II avvenuto a Cherson nel 1787, dell’ampio e vivace dibattito sulla Russia svoltosi in Europa negli anni ’70 e ’80. Nella trattazione di quest’ultimo tema, colpisce la simpatia di Venturi per quegli scrittori e pubblicisti i quali, senza perdere del tutto il senso critico, guardavano nondimeno alla Russia di Caterina con occhi ammirati o benevoli. Aspra e stizzosa è, di conseguenza, la sua condanna di quegli autori che, come l’abate italiano Giambattista Casti, usavano un tono irriverente nei riguardi dell’imperatrice russa. A detta di Venturi, il Poema tartaro di Casti non è che un esempio dell’«abbondante letteratura satirica e scandalistica», fiorita in occidente:
Ben lungi dall’essere, come spesso si è ripetuto, una coraggiosa denuncia dell’idolatria degli scrittori illuministi di fronte a Caterina II, è la maggior raccolta esistente dei pettegolezzi, delle critiche, delle ingiurie che circolarono nelle ambasciate, nei salotti, nelle gazzette delle capitali europee negli anni in cui sempre più palese si fece la politica di espansione della Russia. Dalla critica al despotismo alla ripugnanza per la violenza e lo sciupio, dal rifiuto per le conquiste all’attacco contro la politica economica dell’imperatrice, tutto vi si trova. Una cosa sola manca completamente, un tentativo di capire cosa fosse in realtà e di cosa avesse bisogno la Russia[49].
Venturi si mostra ancora capace di giudizi critici sulla politica di Caterina, come mostra (per citare un esempio) la seguente osservazione a proposito dell’amnistia accordata, nel 1782, in occasione dell’inaugurazione del monumento a Pietro il Grande: «Alla volontà di riforma del diritto penale con tanta energia messa in opera da Giuseppe II proprio in quegli anni Caterina II sostituiva una momentanea e grandiosa concessione di grazia e di perdono»[50]. Ma assai mutata è la generale prospettiva storica rispetto agl’inediti saggi moscoviti oppure all’articolo Beccaria in Russia; né appaiono amalgati con l’insieme della narrazione i brani, che qui troviamo riprodotti, dell’introduzione all’edizione italiana del Viaggio da Pietroburgo a Mosca di Radiščev[51], o i passaggi tratti dal manoscritto inedito su Novikov del 1949 (del quale abbiamo fatto cenno all’inizio di questo articolo). La durezza dell’atteggiamento di Caterina verso gl’intellettuali è quasi perdonata (o, quanto meno, giudicata senza troppa severità) da Venturi, il quale sembra attribuire proprio a loro le colpe maggiori:
Caterina non fu particolarmente preoccupata da coloro che, in varie forme, cercarono di sospingerla ad accelerare il suo passo sulla via della liberazione contadina e della libertà politica. Fino a che non ebbe tra mano il Viaggio di Radiščev, nel giugno 1790, cercò di contenere, con fermezza, ma senza rigidezza, chiunque le indicasse un ritmo diverso nello sviluppo di una politica che restava virtualmente la sua. Ciò che la colpì fu il profondo ripiegamento dell’intelligencija massonica su se stessa, il chiudersi di questi uomini nel pentimento, nell’espiazione, il loro lanciarsi alla ricerca di astruse e fantasiose illuminazioni. Eran le forme in cui si esprimeva in Russia la crisi dei lumi degli anni ottanta[52].
17. È proprio vero quanto, seguendo ancora una volta Isabel De Madariaga, Venturi dice circa le ragioni dell’arresto di Novikov?
La morte di Federico II, nel 1786, e la nomina a ministro di Johann Christoph von Wöllner, il capo dei rosacroce prussiani, rese sempre più diffidente l’imperatrice. Le fila dell’organizzazione latomistica parevano ormai condurre a Gatčina, al solitario palazzo di suo figlio Paolo. I massoni russi sembravano aver trovato a Berlino e alla corte dell’erede al trono russo i centri propulsori della loro organizzazione, sfuggendo così sempre più al controllo dell’imperatrice. L’infittirsi di questi sospetti, l’uccisione – quasi un sacrificio massonico – di Gustavo III re di Svezia nel 1792, l’incupirsi di tutta l’atmosfera internazionale portarono alla condanna, lo stesso anno, di Novikov a quindici anni di carcere, da scontarsi nella fortezza di Schüsselburg [sic][53].
Altre paiono essere, in verità, le motivazioni che indussero la vecchia imperatrice a troncare le coraggiose attività editoriali e filantropiche d’un uomo il quale, da tempo ormai, seguiva la sua strada e tentava di formare una moderna opinione pubblica nell’arretrata Russia. Com’è stato osservato, «Caterina seguiva sospettosa l’imperversare di tante buone azioni a scopo didattico-educativo», quelle cioè di Novikov:
Dalle tipografie di Novikov venivano lanciate a getto continuo, sul mercato dell’impero, centinaia di libri che venivano assorbiti persino troppo rapidamente. Non sempre il contenuto poteva essere controllato dalla censura. E poi quelle iniziative benefiche! Che fine potevano avere le distribuzioni gratuite di medicinali e di pane, e addirittura un ospedale? Dietro a tutto questo, cioè dietro al perdurante contagio di bontà e di cultura, stava poi un personaggio che Caterina non aveva mai potuto decifrare appieno e che la metteva a disagio. Sappiamo quanto Novikov le fosse stato sgradevole nel quinquennio pubblicistico, quanto le fosse stato pesante il suo “umor nero”, cioè la sua pensosa denuncia dei mali della Russia, in contrasto col didattismo scherzoso di chi voleva cancellare, e solo in superficie, le pecche più evidenti di una società frivola e senza nerbo. Ora sembrava strano che l’incorreggibile redattore e collaboratore di pesanti riviste satiriche e sempre – sia pure non apertamente – contrarie al governo, fosse divenuto il padrone spirituale di Mosca e che, non solo affiancasse, ma precedesse il governo nell’opera educativa della popolazione. Doveva essere quindi probabile che dietro questa troppo zelante solidarietà ci fosse un fine in qualche modo eversivo, politico e non confessato[54].
18. Le scorribande intellettuali di Venturi fuori dei confini d’Italia,
dunque, non si rivelarono sempre sagaci e fruttuose. Comunque, nella prefazione
al primo tomo del quinto volume di Settecento riformatore lo storico
torinese annunciava che «dopo lungo peregrinare in Europa e in America
è tempo ormai di far ritorno a casa, nell’Italia dei lumi»[55].
Di questa sua ultima e ponderosa fatica, tutta dedicata agli Stati italiani
nell’età delle riforme, io non debbo occuparmi, perché
la Russia non vi compare più. Soltanto nei materiali preparatori per
il terzo tomo, che mai vide la luce, Venturi inserì alcune pagine su
Antioch Kantemir (del quale aveva fatto cenno nel saggio del 1953 su Feofan
Prokopovič), prendendo spunto dagl’incontri dell’intellettuale
e diplomatico russo con il genovese Agostino Lomellini, nominato nel 1739
ambasciatore a Parigi, dove appunto ebbe modo di frequentare il colto rappresentante
del governo zarista[56]. Il tema
lo troviamo trattato anche in un articolo apparso nella «Rivista storica
italiana»[57]. Delle differenze
tra i due testi mette conto, per la sua rilevanza, menzionarne almeno una.
Nell’articolo pubblicato nella rivista da lui diretta Venturi si soffermava
su un episodio importante della biografia politica di Kantemir, inspiegabilmente
omesso nei Saggi preparatori. Quand’era ambasciatore a Londra,
il discepolo di Prokopovič chiese alle autorità britanniche d’impedire
la traduzione inglese d’un libello antirusso (apparso a Parigi nel 1735)
e di punire l’insolente autore; quando si rese conto che, a causa della
«smisurata libertà» vigente in Inghilterra, la richiesta
russa non sarebbe stata accolta, lo zelante intellettuale propose al suo governo
di farsi giustizia da sé riempiendo di legnate lo sfrontato pubblicista
bergamasco Locatelli (l’autore delle incriminate Lettres moscovites)[58].
Il rozzo e brutale contegno tenuto da Kantemir in quell’occasione offuscava
troppo l’immagine dell’intellettuale cosmopolita e illuminato,
cara a Venturi. Fu per questo ch’egli preferì non insistervi
e celarla ai futuri lettori di Settecento riformatore?
Prima di concludere questa disamina delle interpretazioni venturiane del Settecento
russo, bisognerà far menzione d’un testo pressocché ignoto,
ma suggestivo e fascinoso (e, per certi versi, enigmatico). Si tratta della
conferenza Sui rapporti tra Russia ed Europa occidentale degli ultimi tre
secoli, che lo storico torinese tenne il 19 gennaio 1967 in una sede per
lui nuova e inconsueta[59]. Nell’anno
del cinquantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre egli volle
parlare «di quello che sta, credo, da tre secoli dietro la grandiosa
tragedia che è uno degli elementi essenziali della nostra comune civiltà
europea (sia essa Europa orientale, sia essa Europa occidentale): il rapporto
tra l’Europa e la Russia»[60].
Il tratto essenziale e caratterizzante di quei tre secoli di storia, secondo
Venturi, era il titanico sforzo della Russia d’accorciare le distanze
che la separavano dalla più progredita Europa occidentale. Rispetto
ai tempi dello zar Aleksej Michajlovič (il padre di Pietro il Grande),
l’età di Caterina II rappresentava già un enorme progresso:
E’ stato notato da ormai molto tempo (non è certo una scoperta mia) che questo Nakaz, questa istruzione cioè, si ricalcava sostanzialmente su due grandi autori: tutta la parte del diritto penale è ricalcata su Beccaria, tutta la parte riguardante il diritto civile e i rapporti sociali interni del mondo russo (non direi “costituzionali” ma se non altro “civili” del mondo russo) è ricalcata su Montesquieu.
Come vedete la Russia aveva fatto in un secolo un passo da gigante; la Sovrana stessa propose all’assemblea che là si riunì (che comprendeva i cosacchi come i mercanti, i nobili delle varie provincie, i siberiani liberi), propose, ripeto, alla loro attenzione i testi fondamentali di quello che era il pensiero dell’Occidente[61].
19. Un secolo dopo, ai tempi di Alessandro II, i «giovani sognatori» del populismo rivoluzionario, «capaci di vedere anche al di là della realtà immediata», si proposero «di superare quella che era stata la fase di industrializzazione e di civiltà borghese che il mondo occidentale aveva compiuto, e di saltare direttamente, come essi dicevano, da un mondo ancora relativamente chiuso nelle forme feudali, ad un mondo socialista»:
Certo essi erano degli utopisti, dei giovani spesso del tutto inesperti; eppure quest’idea germinerà profonda ed è indubbio che nel 1917, in forme marxiste e non populiste (ma le forme in politica contano, in questo caso, relativamente poco), il grossissimo problema si è posto e la Russia ha risposto accettando questa profonda intenzione dei “populisti”: cercare, cioè, di superare il mondo dell’occidente, scavalcando, e in qualche modo andando oltre.
Come andava allora visto e interpretato l’ultimo cinquantennio di storia russa, segnato dalla nascita e dal consolidamento del modello sovietico?
In qualche modo effettivamente la Russia oggi si può dire, nei 50 anni ormai che, o quasi, la separano dalla rivoluzione del 1917, essa dà un modello che può e deve essere discusso, un modello certo di grande influenza nella storia del mondo, un modello di come accelerare la propria industrializzazione, di come passare da paese che oggi noi chiamiamo “sottosviluppato” a paese in cui invece l’elemento fondamentale sia l’industrializzazione, sia l’industria, e perciò, anche dal punto di vista politico, da un paese aperto alla possibilità dell’invasione e della sconfitta, che la Russia certamente toccò molto da vicino nel 1917, a un mondo invece capace di resistere e di mantenere la propria indipendenza: il grande paese, come accadde poi invece nella 2^ guerra mondiale.
Nell’esperienza sovietica si compendiavano, dunque, i tratti peculiari
e il senso profondo di tutta la storia russa degli ultimi tre secoli: «Queste
capacità di saltare, o per lo meno di accelerare uno dei modelli, questa
possibilità dei paesi arretrati di giungere ai risultati a cui il mondo
occidentale è giunto per quello che riguarda la potenza e per quello
che riguarda l’industria (le due cose sono certo strettamente legate),
sono elementi precisamente della Russia»[62].
Ravvisando nel peso dell’arretratezza (civile, ma altresì economica)
e nell’impulso al raggiungimento (e superamento) dell’occidente
il motivo dominante e la molla segreta dello sviluppo storico della Russia
moderna, Venturi cercava di conciliare la tradizione populistica e la lezione
di Gerschenkron. La breve ma densa recensione dello storico russo-americano
alla prima edizione del Populismo russo[63]
aveva colpito Venturi, il quale da allora cominciò a riflettere sull’obiezione
mossagli di non aver visto, nell’ideologia del movimento rivoluzionario
da lui studiato, anche il riflesso dell’arretratezza economica. Gli
risponderà dopo molti anni, nella splendida introduzione alla seconda
edizione della sua celebre opera, in pagine appassionate che sono tra le sue
più belle e lucide: renderà onore alle intelligenti osservazioni
di Gerschenkron, rivendicando nel medesimo tempo le profonde ragioni ideali
del populismo e del socialismo[64].
Nella conferenza del 1967, comunque, la tematica gerschenkroniana dell’arretratezza
e dei modi di superarla veniva ripresa e adoperata con altre finalità,
e in ogni caso approdava a conclusioni ben diverse da quelle a cui era giunto
lo storico russo-americano. Osservando l’esperienza sovietica da una
prospettiva di lunghissimo periodo e dall’angolo visuale degli eroici
sforzi russi d’avvicinamento all’occidente, Venturi abbozzava
una giustificazione storica del cinquantennio bolscevico con argomenti per
lui inediti e insoliti. Era l’ultimo tentativo, trepidante e dubbioso,
d’attribuire un segno positivo a un mondo, che l’aveva a lungo
attratto e stregato e al quale, di lì a poco, egli avrebbe dato l’addio
per sempre.
[*] Il nucleo essenziale di questo studio fu presentato il 22 ottobre 2004 in un seminario presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano.
[1] Già in una lettera (anch’essa
inedita) a Giorgio Agosti del 3 settembre 1948, Venturi aveva annunciato il
suo proposito di «scrivere sei articoli non molto lunghi» su «sei
personaggi del settecento russo, da Pietro il Grande a Caterina, sei scrittori
che mi paiono caratteristici»: «Nell’assieme sarebbe come una
storia per esempi delle idee russe in quel secolo. Tutti i problemi del rapporto
tra la Russia e l’occidente in quel momento decisivo dovrebbero essere
toccati, e tu vedi perciò che non è un affare semplice».
Prima della sua morte, Alessandro Galante Garrone mi mise a disposizione, in
copia fotostatica, le lettere che Franco Venturi gli scrisse da Mosca. Le missive
di Venturi ad Agosti (alcune delle quali furono pubblicate da Aldo Agosti e
Giovanni De Luna in «Passato e presente», a. XIII, 1995, n. 35, pp.
97-109) sono oggi custodite nell’Istituto storico della Resistenza in
Piemonte di Torino.
[2] F. VENTURI, Il populismo russo, 2 voll., Einaudi, Torino 1952.
[3] Per esempio, nella lettera a Galante Garrone del 10 gennaio 1948 si accenna al desiderio di «fare un lavoretto sulla storiografia sociale russa degli ultimi 50 anni»: «E’ un terreno estremamente interessante. Ti basti dire che in Italia non conosciamo generalmente che Rostozev [sic], mentre questi è uno dei molti, di un’intera scuola che ha avuto strane vicende, che ha prodotto parecchie cose importanti, per quanto posso giudicare, e la cui cronaca o storia è un’ottima indicazione della vita intellettuale russa prima e dopo la rivoluzione».
[4] Lettera inedita del 25 maggio 1950.
[5] F. VENTURI, Feofan Prokopovič, «Annali delle facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari», vol. XXI, parte I, 1953, pp. 3-56.
[6] Ho sciolto e traslitterato il nome Ščerbatov, riportato da Venturi soltanto con l’iniziale in cirillico. In seguito traslittererò (e, se necessario, tradurrò) le parole e i nomi che, spesso, nel manoscritto sono lasciati in russo.
[7] Nel suo erudito ed eccellente volume Russia bifronte. Da Pietro I a Caterina II attraverso la Corruzione dei costumi in Russia di Ščerbatov e il Viaggio da Pietroburgo a Mosca di Radiščev (Bulzoni, Roma 1990), Giorgio Maria Nicolai ha intitolato Ščerbatov il reazionario illuminato il lungo saggio (pp. 23-118) dedicato al dotto principe.
[8] Die Gesetzgebende Kommission Katharinas II. Ein Beitrag zur Geschichte des Absolutismus in Russland, Priebatschs Buchhandlung, Breslau 1940.
[9] Persuaso che «die Kommission vor allen Dingen als ein Mittel zur Festigung des Thrones und der Selbstherrschaft Katharinas anzusehen ist», Sacke aveva scritto che la convocazione della commissione legislativa «nicht als Ausdruck der liberalen Gesinnung der Kaiserin betrachtet werden kann» (ivi, p. 8). A detta dello storico tedesco, il vero motivo della convocazione non andava cercato nei progetti legislativi di Caterina, «sondern in dem Bestreben der Kaiserin, ihre Selbstherrschaft zu festigen und ihren Thron nachträglich zu legitimieren»; più che alle altre commissioni legislative, quella cateriniana pareva somigliare ai vecchi zemskie sobory «an die sich die moskovitischen Zaren in Zeiten innen- und außenpolitischen Krisen zu wenden pflegten» (ivi, pp. 8-9).
[10] «Il Ponte», a. IX, 1953, pp. 163-174.
[11] Ivi, p. 168.
[12] Ivi, pp. 168-169.
[13] Ivi, p. 169.
[14] F. VENTURI, Feofan Prokopovič, art. cit.
[15] Ivi, p. 34.
[16] Ivi, pp. 3-4.
[17] F. VENTURI, Pietro il Grande, Editrice Tirrenia, Torino 1966.
[18] Ivi, pp. 142-143.
[19] VOLTAIRE, Oeuvres historiques, Texte établi, annoté et présenté par René Pomeau, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1957, pp. 321-602. Recensendo la recente edizione critica di tali opere (uscita a Oxford, in due volumi, nel 1999 e curata da Michel Mervaud e Christiane Mervaud), uno studioso che pure simpatizza per Voltaire non ha potuto fare a meno d’osservare che «certes, Voltaire ne ment ni ne falsifie. Il n’en demeure pas moins qu’il inaugure la figure d’un certain type d’intellectuel contemporain, électivement aveugle et sourd à ce qui altère l’image du grand homme qu’il a résolu de célébrer» (J. BREUILLARD, La culture russe du XVIIIe siècle. Quelques publications, «Revue des Études slaves», LXXIV/4, Paris 2002-2003, p. 882).
[20] VOLTAIRE, Oeuvres historiques, cit., p. 573.
[21] A. HERZEN, Breve storia dei russi. Lo sviluppo delle idee rivoluzionarie in Russia, prefazione di Franco Venturi, con un saggio di Sergio Romano, a cura di Ida Giordano, TEA, Milano 1996, p. 77 (la prima edizione di quest’opera, uscita per i tipi della Corbaccio, è del 1994).
[22] N. G. Černyševskij, Polnoe sobranie sočinenij [Opere complete], tom VII, Gosudarstvennoe izdatel’stvo chudožestvennoj literatury, Moskva 1950, p. 612. Sull’originale atteggiamento di Černyševskij verso l’epoca di Pietro il Grande, cfr. M. NATALIZI, «Leggi la storia di Pietro il Grande: ti chiarirà ogni cosa». Il dibattito russo sulle riforme petrine, 1836-1861, «Società e storia», n. 73, 1996, pp. 623-626.
[23] V. O. KLJUČEVSKIJ, Pietro il Grande, a cura di Valdo Zilli, prefazione di Franco Venturi, Laterza, Roma-Bari 1986, p. XI. Anche un personaggio come Prokopovič veniva schizzato, nel libro di Ključevskij (cfr., in particolare, le pp. 185 e 284) in modo assai più crudo di come l’avesse raffigurato (e abbellito) Venturi (il quale ribadì la sua interpretazione di Prokopovič, inserendo lunghi brani del saggio del 1953 nelle citate dispense universitarie del 1966, pp. 115-137).
[24] Si vedano le sue conferenze (Ellen McArthur Lectures) del maggio 1968 all’università di Cambridge (in special modo, la terza): A. GERSCHENKRON, Lo sviluppo industriale in Europa e in Russia, tr. it., Laterza, Bari 1971.
[25] A. GERSCHENKRON, Il problema storico dell’arretratezza economica, prefazione di Ruggiero Romano, tr. it., Einaudi, Torino 1965, p. 142.
[26] Mette conto citare l’esordio dell’audace e ironica comparazione storica (senza discutere adesso, trattandosi d’un problema gigantesco, in qual misura essa sia calzante e illuminante): «Se Pietro il Grande fosse risuscitato e gli fosse stato richiesto un giudizio sulla Russia degli anni intorno al 1935 (tanto per fare un esempio), si sarebbe trovato dapprima un po’ in difficoltà di fronte alle diversità linguistiche e tecnologiche; forse, avrebbe trovato i processi delle “purghe” inutilmente noiosi e verbosi, e avrebbe rimproverato a Stalin il suo rifiuto scarsamente virile di contribuire personalmente all’esecuzione dei moderni Strel’cy. Tuttavia non avrebbe impiegato molto per intendere i termini essenziali della situazione, in quanto l’analogia tra la Russia sovietica e quella di Pietro era davvero sorprendente» (ivi, p. 141).
[27] F. VENTURI, La circolazione delle idee, «Rassegna storica del Risorgimento», gennaio-marzo 1954, p. 204.
[28] XIe Congrès International des Sciences Historiques. Stockholm, 21-28 août 1960. Rapports, IV. Histoire moderne, Almqvist & Wiksell, Göteborg – Stockholm – Uppsala 1960, pp. 124-125.
[29] A. N. RADIŠČEV, Viaggio da Pietroburgo a Mosca, a cura di Gigliola e Franco Venturi, De Donato, Bari 1972.
[30] Ivi, p. 49.
[31] Ivi, p. 51.
[32] F. VENTURI, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino 1969, p. 636.
[33] Ivi, pp. 746-747.
[34] F. VENTURI, Utopia e riforma nell’illuminismo, Einaudi, Torino 1970, pp. 156-157.
[35] F. VENTURI, Settecento riformatore, III. La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776), Einaudi, Torino 1979, pp. XV-XVI. Quando il volume uscì, Marcello Verga ebbe tra l’altro a notare (secondo me, a ragione) che «dei riferimenti puntuali alla storia delle gazzette e della stampa italiana nella seconda metà del ‘700 avrebbero aiutato il lettore nella comprensione dell’informazione e dei giudizi che i periodici italiani davano sulle vicende europee di quegli anni» («Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie III, vol. X,4, Pisa 1980, p. 1872).
[36] F. VENTURI, Settecento riformatore, IV. La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), 1. I grandi stati dell’Occidente, Einaudi, Torino 1984, pp. XIII-XV.
[37] Vedi il testo del suo intervento in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», vol. XIX, Torino 1985, pp. 443-450.
[38] Ivi, pp. 405-418.
[39] Ivi, pp. 419-426.
[40] F. VENTURI, Settecento riformatore. La prima crisi dell’Antico Regime cit., pp. 74-110.
[41] Ivi, p. 133.
[42] Ivi, p. 164.
[43] Ivi, pp. 164-166.
[44] Ivi, p. 162.
[45] Ivi, p. 160.
[46] Ivi, pp. 160-161.
[47] F. VENTURI, Settecento riformatore, IV. La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), 2. Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Einaudi, Torino 1984, p. 780.
[48] I. DE MADARIAGA, Russia in the Age of Catherine the Great, Weidenfeld and Nicolson, London 1981.
[49] F. VENTURI, Settecento riformatore, IV, 2, cit., p. 855. L’italianista polacco Krzysztof Żaboklicki aveva individuato, meglio di Venturi, alcuni tratti peculiari e originali del Poema tartaro: «il Casti, pur giudicando la politica di Caterina in maniera molto superficiale, seppe coglierne un aspetto assai significativo: la ricerca della pubblicità all’estero. È risaputo che l’imperatrice fece di tutto per guadagnarsi l’opinione pubblica nei paesi occidentali e che ci riuscì molto bene grazie al valido aiuto degli Enciclopedisti»; l’abate italiano, insomma, «al contrario dei philosophes, non si lasciò ingannare da quella abilissima propagandista che fu Caterina II» (La Russia cateriniana nel Poema tartaro di G. B. Casti, «Giornale storico della letteratura italiana», vol. CXLIX, 1972, fasc. 466-467, pp. 374-375). Nel suo profilo biografico di Casti, che non pecca certo d’eccessiva simpatia per l’irrequieto abate, Salvatore Nigro riconobbe che «in non taciuta polemica con l’indirizzo ufficiale della politica estera dell’Austria – sia detto a smentita della sua presunta cortigianeria – il C. assunse sulla questione [dell’alleanza austro-russa] una personalissima posizione antirussa» (Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1979, p. 28). Già Croce aveva messo in luce l’intelligente autonomia di giudizio di Casti, ammirevole se comparata all’atteggiamento prono di altri più celebri poeti di corte: «Ma, moralmente, il Casti stié di sopra del Metastasio che non avrebbe neppure osato pensare i giudizi politici che l’altro pensò e disse, dando prova di senno e di acume» (B. CROCE, La letteratura italiana del Settecento. Note critiche, Laterza, Bari 1949, p. 313).
[50] Ivi, p. 822.
[51] Ivi, pp. 863-869.
[52] Ivi, p. 858. Perché le idee massoniche ebbero tanto successo proprio dopo la sanguinosa repressione della rivolta di Pugačëv? Interessante e, fors’anche plausibile, appare la risposta suggerita dallo studioso polacco Andrej Walicki nel suo A History of Russian Thought from the Enlightenment to Marxism, Stanford University Press, Stanford (California) 1979 : «At this time the more enlightened younger members of the nobility were faced by a disturbing dilemma: the peasant uprising represented a terrible warning and an inducement to abandon their enlightened liberal ideas; but at the same time they could not contemplate a return to the previous matter-of-course acceptance of the exploitation of the peasantry by the upper classes. What remained was flight into the realm of individualistic self-perfection, the “inner life of the soul”, or, in other words, the Masonic lodge» (p. 20).
[53] F. VENTURI, IV, 2, p. 859.
[54] L. SATTA BOSCHIAN, L’illuminismo e la steppa. Settecento russo, seconda edizione con antologia poetica, Edizioni Studium, Roma 1994, pp. 288-289. Meno convincente, perché intriso d’imponderabile psicologismo, è il seguito della spiegazione data dalla Satta Boschian: «Il ragionamento di Caterina era chiaro. Ma se non c’era questo fine, da cui un despota astuto si poteva difendere, c’era in fondo qualche cosa di peggio, c’era Novikov, vale a dire una specie di apostolo laico, di pericoloso Don Chisciotte che svegliava nei russi i loro donchisciotteschi sussulti. Secondo la mentalità di Caterina, logica scettica fredda, l’atto gratuito era incomprensibile; e con l’atto gratuito tutta una psicologia e una disposizione dello spirito, ossia la vocazione la missione il dono di sé, lo scatenarsi insomma sempre imprevedibile dell’irrazionale, di quel pathos oscuro, che già aveva presentito nei russi e che giustamente temeva» (ivi, p. 289).
[55] F. VENTURI, Settecento riformatore, V. L’Italia dei lumi (1764-1790), Tomo primo, Einaudi, Torino 1987, p. XI.
[56] F. VENTURI, Saggi preparatori per Settecento riformatore, con una nota introduttiva di E. Gabba e A. Venturi, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, anno CCCIC, Roma 2002, pp. 69-76.
[57] F. VENTURI, Incontri cosmopoliti: Lomellini e Cantemir, «Rivista storica italiana», 1991, fasc. II, pp. 544-546.
[58] Ivi, p. 547.
[59] Vedila in Scuole di Applicazione d’Arma. Anno accademico 1966/67. CCXXVIII dalla fondazione. Giovedì culturali. Conferenze, Fotolitografia delle Scuole di Applicazione d’Arma, Torino 1968, pp. 101-117.
[60] Ivi, p. 117.
[61] Ivi, p. 106.
[62] Ivi, pp. 107-108.
[63] Apparsa in «The American Historical Review» (LVIII, October 1953, pp. 118-120), fu poi ristampata in A. GERSCHENKRON, Continuity in History and other Essays, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1968, pp. 454-457.
[64] F. VENTURI, Il populismo
russo, I. Herzen, Bakunin, Černyševskij, Einaudi, Torino
1972, pp. XXI-XXV.