1. Nell’ambito dei simposi con cui la Normale celebra l’inizio del
suo anno accademico si è tenuta il 18 ottobre scorso una giornata di
studi dedicata a Delio Cantimori, che dell’Istituto pisano è stato
allievo, docente e dirigente, lasciando in esso un’orma incancellabile.
Dopo l’introduzione di Michele Ciliberto e i saluti del direttore Salvatore
Settis, il programma scientifico ha avuto inizio con l’ampia relazione
di Gennaro Sasso, il quale ha presentato alcuni passi del suo prossimo volume
sul ruolo di Cantimori nella cultura italiana. In particolare egli ha sottolineato
la continua oscillazione prospettica di Cantimori, il cui demone personale riflette
peraltro la difficoltà dei suoi tempi; egli vive infatti fino all’estremo
la tensione di “un uso critico della ragione messo alla prova dalla drammatica
molteplicità del reale”. L’impossibilità di esaurirne
i particolari in una formula è ciò che sancisce in lui il rifiuto
di ogni ideologia e il passaggio dall’ “angelo minaccioso della
filosofia” alla storia, intesa come intelligenza disciplinata delle cose;
tanto che lo stesso Marx cui egli si avvicina nella maturità non è
quello dottrinario, ma il pensatore “del particolare”.
Sasso ha contestualmente rilevato le notevoli incomprensioni critiche che tale
approccio ha prodotto nella ricca letteratura su Cantimori: il suo rifiuto di
formule e sistemi non va infatti interpretato come assenza di pensiero, ma al
contrario come lotta consapevole contro una tensione irresistibile a pensare;
il rifugio nella filologia e nell’erudizione appare quindi solo come scelta
strumentale in vista del problema essenziale, che rimane per lui quello di “capire
il molteplice”. Di qui il rifiuto del positivismo e poi dell’idealismo
volgari come riduzioni dell’oggetto all’univocità, laddove
esso non è una sintesi statica, bensì un mobile intreccio delle
parti e dei significati immanenti nel reale. Ma proprio la sua analisi lucida
e corrosiva di qualunque filosofia che si ponga come tale gli impedisce poi
di far assumere alle critiche la veste di una “Critica”. Sasso ha
poi cercato di riassumere i motivi principali dell’eccezionalità
di Cantimori nel panorama degli studi storici italiani della sua generazione
(e non solo). Innanzitutto ha ribadito il peso del suo contatto precoce con
la filosofia, che non rappresenta solo un incontro passeggero, ma ha conseguenze
rilevanti sul suo intero itinerario: Cantimori rinnega continuamente la propria
vocazione filosofica, ma non riesce a impedirne il continuo riaffiorare; né
può annullare gli effetti di tale formazione, che lo orienta verso uno
sforzo profondo di comprensione delle idee, paragonabile forse solo a quello
di Omodeo. Sasso ha ricordato a questo proposito due episodi significativi:
da un lato la lettura cantimoriana della Fenomenologia dello spirito;
dall’altro la sua presenza (silenziosa, ma assidua) alle conferenze sul
problema della storia organizzate da Calogero all’Istituto filosofico
pisano nel 1940-41.
In tutte le opere dello storico di Russi è dato dunque ritrovare quello
che Sasso ha definito “il paradosso cantimoriano”: quanto più
egli rievoca realtà articolate, tanto più esse gli si rivelano
incompiute, rimandando al di là di loro stesse. Secondo l’insegnamento
di Droysen, “i fatti risultano costituiti anche dalle loro conseguenze”,
per cui essi sono insieme “sempre più e sempre meno di se stessi”,
fino a risultare autocontraddittori: ognuno si nega come ente unitario e risulta
invece inquieto, complicato, rifratto. Tenendo ben presente la sua irriducibilità
ad ogni paragone, la rappresentazione della storia di Cantimori può forse
essere definita come “cubista”, nella misura in cui essa attua una
scomposizione analitica continua e senza riposo dell’oggetto, che da un
lato appare inserito in una linea continua e progressiva, ma dall’altra
si frange e si spezzetta in segmenti diversi e incommensurabili.
Anche la politica, pure così rilevante per la sua esperienza, appare
nell’orizzonte conoscitivo solo come un parte tra le altre: Cantimori
rifiuta la prospettiva gentiliana della riduzione del politico allo Stato e
si dimostra lontano anche dall’itinerario di Chabod, che cerca lo Stato
forte nella lunga durata della storia d’Italia, denunciandone l’assenza,
ma avendo sempre l’unità come traguardo. Nel passato Cantimori
non cerca invece ideali che diventino realtà, bensì incertezze
e debolezze; di qui anche il suo esprimersi per lo più tramite ricerche
e saggi, senza scrivere mai quel grande libro di storia che ritrova con compiacimento
nelle pagine di Berengo, ma che egli (e lo sapeva) non avrebbe mai potuto scrivere.
In ogni caso è questa inquietudine “esistenziale”(paragonabile
a quella di Scaravelli) che Cantimori fa filtrare nel mondo degli storici, anche
se poi i suoi allievi la declinano in modo vario e non sempre coordinato; e
pur non volendo essere riconosciuto come maestro, egli risulta nei fatti l’unico
intellettuale italiano, dopo Croce, a dialogare con costanza con i contemporanei,
tessendo una rete di relazioni sottile ma fittissima, attraverso la quale la
sua influenza si diffonde a dismisura, ma indirettamente, per scorci, sottraendosi,
come era nel suo stile.
2. Nella seconda sessione del convegno sono intervenuti tre ex-studenti di
Cantimori: Adriano Prosperi, John Tedeschi e Silvana Seidel Menchi (ma curiosamente,
non hanno partecipato alla giornata due normalisti come Miccoli e Ginzburg,
né altri insigni allievi come Mirri, Procacci e Rotondò).
Prosperi, in qualità di presidente, si è opposto con durezza alla
“curiosità maligna o superficiale di quei sedicenti storici che
oggi si accaniscono, al di fuori di ogni senso del tempo, a condannare gli errori
di Cantimori, dimenticando la durezza della sua epoca e il suo inesausto sforzo
di liberarsi di quel demone politico che sentiva proprio”; egli ha quindi
descritto il magistero cantimoriano non come scolastico o accademico, bensì
quale esperienza intellettiva e intellettuale. Cantimori non allenava seguaci,
ma stimolava la curiosità degli allievi; offriva loro la sua impagabile
cultura in termini di suggerimenti e indicazioni; coltivava in essi una vigile
attenzione agli strumenti e alle regole del mestiere e soprattutto all’importanza
delle parole e del margine di ideologia che in esse si incorpora, determinando
la pericolosa tentazione “del riduzionismo e delle logomachie”.
La sua severa e sofferta lezione di autocoscienza impone quindi di seguire la
traccia incancellabile dei suoi scritti, in cui si affacciano temi fondamentali
per la civiltà di ogni tempo, come quello della tolleranza; e in cui
è possibile riconoscere la statura di uno “storico grande”
(espressione che egli significativamente preferiva a quella abusata di “grande
storico”). Nelle sue innumerevoli note, recensioni e prefazioni è
dato infatti ritrovare un diario quotidiano di esemplare vita intellettuale
e di lucida attenzione al presente (Prosperi ha citato ad esempio un frammento
inedito in cui si parla senza reticenze di Resistenza come “guerra civile”);
e nelle sue carte didattiche si ritrova un insegnante il cui scopo precipuo
è di aiutare gli allievi a dare forma ai loro progetti, utilizzando responsabilmente
e generosamente le proprie competenze “nel pieno rispetto della loro personalità
intellettuale” (come osservato altrove da Rotondò).
Tedeschi ha ripercorso con dovizia i due viaggi in Europa compiuti da Cantimori
nei primi anni trenta nel corso dei suoi studi sugli eretici, mostrando l’importanza
dei ritrovamenti documentari ed anche degli incontri personali maturati in questa
fase nell’evoluzione della ricerca e più in generale nell’ampliamento
del suo quadro interpretativo. Nel 1931, appena dopo aver preso servizio al
liceo di Pavia, Cantimori vince infatti un concorso ministeriale grazie al quale
si reca a Basilea, dove rimane tra il dicembre ’31 e il luglio ’32,
iscrivendosi alla Facoltà di Teologia e compiendo ricerche documentarie.
Qui legge per la prima volta Bainton, con cui stabilisce subito una corrispondenza;
ed attraverso questi entra in contatto con Church. Sempre a Basilea, poi, Cantimori
incontra Kaegi, con il quale intratterrà un lungo e fecondo scambio intellettuale.
I suoi numerosi lavori di recensione e traduzione attirano in patria l’interesse
di Volpe, che gli procura un contratto con l’Accademia per una antologia
di documenti e la borsa per un altro lungo viaggio, tra l’agosto ‘33
e il settembre ‘34, nel corso del quale Cantimori percorre il continente
da Cracovia a Dublino; è in questa fase che egli incontra di persona
storici di primo piano come Koehler e Wilbur, nonché Burdach e Schmitt,
dei quali sta traducendo le opere. Tornato in Italia, Cantimori viene invitato
all’Istituto Storico Germanico di Roma per interessamento di Gentile;
qui incontra Emma Mezzomonti (che diventerà sua moglie) e ritrova Paul
Oskar Kristeller, nella cui vicenda svolgerà un ruolo fondamentale. Assunto
per interessamento di Codignola alla Facoltà di Magistero di Firenze,
Kristeller diviene poi lettore alla Normale con l’appoggio di Gentile;
quando però, nonostante l’intervento personale di quest’ultimo,
le leggi razziali ne impongono il licenziamento, sarà proprio Cantimori
a procurargli una cattedra oltreoceano, tramite i contatti con Bainton e la
Feist a Yale.
3. Silvana Seidel Menchi ha parlato con commozione del Cantimori “professore”,
ricordando come egli preferisse di gran lunga questo termine a quello impegnativo
di “maestro”; e lo ha fatto attraverso il ricorso, che pure gli
era proprio, ad alcune espressioni icastiche (si pensi al “chi ben ama
ben bastona” già evocato in passato da Vivanti). Seidel ha ricordato
innanzitutto come Cantimori fosse “un professore che non professa”,
un professor absconditus contrario all’ “esamite” e
propenso a raccogliere a inizio corso le firme di frequenza necessarie agli
studenti più svogliati. Le sue lezioni erano invece estremamente motivanti:
non solo per l’orario (le 8 di mattina del fine settimana), ma perché
egli si risvegliava dal suo sonno apparente solo per fare improvvise e illuminanti
domande ad personam. Lo studente era così costretto ad esporsi,
perché ciascuno era chiamato a ritagliare tra i vari riferimenti proposti
(storici, ma anche filosofi e letterati) un proprio percorso originale.
Cantimori era un professore generoso e disponibile a prestare e regalare libri,
a trovare incarichi flessibili agli studenti e persino a prestar loro denaro;
ma rifiutava qualunque mediazione didattica intesa come ricorso a sommari, riassunti
o contenuti predigeriti. Secondo il modello humboldtiano (e normalista), egli
non chiedeva tanto agli studenti la riuscita agli esami (“gli esami non
si fanno, si superano”), quanto piuttosto la redazione di relazioni periodiche,
in cui ognuno potesse maturare autonomamente la sua ricerca attraverso un lavoro
fatto di scrupolo paziente e minuzioso, ma anche di emozione euristica e di
passione intellettuale. Ogni ingerenza familiare era invece accolta con durezza,
nella convinzione che fosse un ostacolo ingiustificato alle esigenze della conoscenza;
e ogni deviazione verso il personale era considerata un inutile cedimento (“E’
inutile concentrarsi su se stessi, visto che i dubbi rimangono comunque. Al
centro vanno posti i fatti”). Soprattutto, la rigida disciplina di ricerca
imponeva di dedicare tempo, energia e concentrazione solo al particolare, rinunciando
all’ampiezza in favore della profondità: di qui l’insofferenza
impietosa verso il generale e il superficiale.
Altri momenti fondamentali della didattica cantimoriana erano i colloqui individuali,
le esercitazioni in biblioteca e soprattutto i seminari, nei quali erano gli
studenti stessi a scegliere i testi da affrontare, seduti intorno a un tavolo
quadrato con un professore che li trattava da pari a pari, cercando di far entrare
in risonanza la propria esperienza ed erudizione con la “scintilla di
curiosità di questi principianti di talento e di carattere”. La
Seidel ha ricordato come Cantimori concedesse in questo senso ad ogni allievo
un’apertura di credito senza limiti, non solo come espediente tattico
per dargli fiducia, bensì come sincera convinzione (e collaudata consapevolezza)
nella fecondità didattica ed euristica del metodo (nonché, in
parte, come riflesso di una modestia e di una insicurezza che gli impedivano
di avere piena misura di sé e della propria grandezza).
Secondo la Seidel questo atteggiamento verso gli allievi era solo l’altra
faccia della sua irrisolta inquietudine esistenziale e conoscitiva: il rapporto
con gli studenti non rappresentava per lui solo un corollario accademico o una
forma di autocompiacimento, quanto un vero e proprio bisogno vitale, in cui
investire intellettualmente ed emotivamente. Essi placavano infatti la sua ansia
di palingenesi e di sdoppiamento, e divenivano in qualche modo la sua vera ragione
per continuare a studiare, superando le delusioni via via accumulate e la frustrazione
dell’incompiutezza. Soprattutto nell’ultimo decennio della sua vita,
tramontate (ma senza oblio) le illusioni della rivoluzione fascista e di quella
comunista, gli allievi diventano per lui il residuo ancoraggio alla speranza;
compito per molti gravoso, generatore di pericolosi sensi di inadeguatezza o
di veri e propri impulsi alla fuga.
L’ultima immagine evocata dalla Menchi è stata quella del “connubio
tra ragione e passione” che covava in Cantimori e che la frequentazione
con lui (e con le sue pagine) instillava negli allievi. Questo grande promotore
del distacco scientifico era infatti giunto alla filologia solo come approdo
di un lungo itinerario; ma in realtà era mosso da violente emozioni,
di cui avvertiva la forza e che proprio per questo cercava di esorcizzare e
sublimare nella passione più feconda e meno rischiosa, quella per la
conoscenza. In questo senso anche la Menchi ha deplorato ogni “caccia
alla piega cronologica che intenda inchiodare l’uomo Cantimori al nudo
dato biografico”; data la fragilità del personaggio e la tragedia
che egli viveva dentro di sé questi elementi fattuali vanno trattati
con finezza, richiamandosi costantemente alla persona, con i suoi grandi pregi
e con gli ancor più evidenti difetti, che nei primi si annidavano.
Ecco allora che piuttosto che nel campo politico, pur a lui così presente,
Cantimori trova la sua esatta dimensione solo se inserito in un contesto teologico-religioso;
la prospettiva soteriologia appare infatti quella più adeguata a rendere
ragione dell’interezza del suo tormentato percorso, nel cui fondo si situa
una dimensione passionale profonda rispetto alla quale gli stati cognitivi e
le azioni politiche sono in qualche modo una scelta autoformativa indotta e
lucidamente attivata, che rappresenta il suo peculiare modo di “conoscere
il mondo vivendoci dentro”.
4. Roberto Vivarelli ha sostituito Miccoli alla presidenza della sessione pomeridiana,
che è stata inaugurata dall’intervento di Roberto Pertici su Cantimori
come scrittore politico. Pur comprendendo gli scrupoli e le attenzioni degli
allievi verso lo specifico storiografico cantimoriano, Pertici ha ribadito la
rilevanza dell’elemento politico nell’opera (e nel mito) di Cantimori,
che più di ogni altro storico della sua generazione ha sentito il richiamo
dell’attualità e rappresenta quindi per i posteri un sismografo
sensibile alle trasformazioni della vicenda intellettuale italiana del Novecento.
Se la cronaca dei suoi trascorsi fascisti è ormai abbastanza nota, Pertici
ha rilevato come la scelta comunista di Cantimori, databile all’autunno
’38, non abbia ricevuto finora una analoga attenzione critica; se in parte
ciò è dovuto alla relativa carenza di scritti propriamente politici
nell’esperienza del Cantimori comunista, resta l’impressione che
ciò dipenda in larga parte anche dal clima di pesante reticenza che ha
caratterizzato la memoria comunista nell’Italia del dopoguerra. Il nuovo
contesto culturale e le ricerche documentarie avviate da Mangoni, Simoncelli
e Vittoria garantiscono però oggi la possibilità di superare questi
impacci e di avviare un’analisi approfondita dei modi e del significato
dell’adesione di Cantimori al comunismo, non tanto come partito, quanto
come cultura politica.
L’ipotesi euristica di Pertici (in parziale contrasto con alcune recenti
osservazioni di Ginzburg) è che valga la pena di applicare anche a questa
fase della sua vita la discussa teoria del “nicodemismo”: gli interventi
pubblici di Cantimori degli anni ’47-’55 dimostrano infatti un’esplicita
(e a volta persino ostentata) accettazione dei costumi di partito, ma è
possibile avvertire in essi una polemica indiretta e latente, che si esprime
in una serie di suggestioni per lo più negative di cui pure occorre tenere
conto. E’ ad esempio significativo che proprio negli anni del suo maggior
prestigio Cantimori non citi quasi mai Zdanov; come è notevole il fatto
che nel ’48, anno in cui si costituisce il comitato culturale del Partito
Comunista Italiano sotto la direzione di Sereni, Cantimori curi la pubblicazione
dei testi weberiani sul rapporto tra politica e cultura; ma soprattutto è
importante notare come Cantimori non segua affatto la “cresta dell’onda”
gramsciana, distaccandosene anzi, seppur indirettamente, nel saggio desanctisiano
del ’53, in cui rifiuta la critica del Rinascimento ripresa invece dallo
studioso sardo. Se gli epiloghi congressuali del ’55 e la lettera a Saitta
su “Movimento operaio” del ’56 rappresentano indubbiamente
una svolta nelle prese di posizione di Cantimori, è dunque evidente come
già negli anni precedenti, e soprattutto a partire dal ’53, si
avverta nelle sue posizioni il montare di una inquietudine ormai difficile da
contenere.
Pertici ha sostenuto che la scelta di tacere (persino in molte lettere private)
le proprie insoddisfazioni verso la cultura comunista derivi a Cantimori, animato
da una forte volontà pedagogica (quando non da “pedagogismo ossessivo”),
dall’intenzione di svolgere un’azione politico-culturale parallela,
ma non del tutto coincidente con quella del partito; tentativo che ci pare oggi
velleitario, ma che aveva allora dei margini di riuscita, se solo si considera
il ruolo rilevante svolto nei gangli del partito da diversi amici di Cantimori
(Ferri, Manacorda, Saitta). Il suo progetto risulta però sconfitto ed
egli ne prende progressivamente coscienza a partire dal ’53; è
tuttavia significativo che Cantimori abbandoni definitivamente l’idea
solo per le sopravvenute difficoltà personali: egli non è insomma
secondo Pertici un prigioniero riluttante del togliattismo, bensì un
comunista convinto, che si sottopone di buon grado alla disciplina interna,
ritenuta non disdicevole, ma anzi necessaria; per cui i suoi continui mugugni
e le sottili riserve che è dato cogliere a posteriori non gli
impediscono nel complesso un sostanziale allineamento con le scelte del partito,
ed anzi talvolta un sostegno attivo ad esso (si vedano le insolite cadute retoriche
del saggio su Lenin del ’53).
All’interno di questo quadro interpretativo Pertici ha cercato però
di concentrare la sua attenzione sui principali motivi di tensione latente rispetto
alle scelte centrali, che impedendo alle posizioni di Cantimori di appiattirsi
su quelle preconfezionate, garantiscono in qualche modo la sua autonomia e pongono
le basi del suo successivo distacco.
Per quanto riguarda il terreno dei rapporti tra politica e cultura, Pertici
ha sostenuto ad esempio come il già citato antizdanovismo di Cantimori
non sia una conquista tarda, bensì un retaggio della stessa crisi del
fascismo, dal quale egli aveva tratto l’insofferenza verso le visioni
del mondo troppo rigide, la critica del profetismo pseudofilosofico e l’esigenza
di delimitare adeguatamente ogni proposta ideale. Il rifiuto dell’immediata
politicizzazione delle idee risale infatti alla polemica con Antoni dei primi
anni quaranta, quando Cantimori, promuovendo la pubblicazione di Weber, aveva
contestato all’idealismo la tendenza a mescolare verità e vita,
con gravi conseguenze circa “il pubblicismo spacciato per cultura e la
profezia per istruzione”. Già nel ’46-‘47 Cantimori
si rende però conto che le medesime avvertenze e cautele devono essere
rivolte anche alla nuova cultura del dopoguerra: di qui la scelta di condannare
“le chiacchiere pseudostoriografiche” di alcuni giovani ideologi
troppo avventati. E’ peraltro indicativo il fatto che quando nel ’48
la prefazione a Weber sta finalmente per uscire, Cantimori, preoccupato delle
incertezze già sparse sul suo nome dal caso Wetter, preghi Einaudi di
rispedirgli le bozze, per apportare correzioni decisive per acuirne il tono
polemico “a favore di chi deve intendere”.
Per quanto riguarda invece l’ambito più propriamente storiografico,
Pertici ha preso in considerazione soprattutto lo scritto inedito sulla scuola
romana del ’52, per sottolinearne il messaggio propositivo e moderatamente
continuista. Cantimori vi invita infatti i giovani storici marxisti a riprendere
il lavoro di erudizione avviato dalla scuola storica di fine Ottocento e proseguito
a suo tempo da quella economico-giuridica, senza citare affatto l’idealismo
crociano. Alla linea che da Labriola porta a Croce e Gramsci, promossa da Togliatti,
egli contrappone quindi un’altra corrente ideale, che dallo stesso Labriola
si muove invece verso Salvemini e Volpe; e chiede ai giovani di non brandire
uno sterile spirito di scissione, ma semmai di inserirsi in una tradizione già
consolidata, scegliendo al suo interno gli interlocutori da cui ripartire.
Pertici ha tuttavia fatto notare come il fallimento del progetto culturale cantimoriano
non sia di per sé sufficiente a giustificare il suo distacco dal partito:
infatti, anche se egli non si allontana con gesti clamorosi, bisogna ricordare
anche nel suo caso il peso determinante della vicenda ungherese. Il famoso appunto
del 28 marzo 1956 in cui Cantimori annovera il comunismo (e in genere la politica)
tra i suoi “grandi sbagli” segue infatti immediatamente le notizie
sul rapporto Kruscev pubblicate dai giornali italiani. Si può anzi affermare
come proprio il rimprovero a se stesso di non aver capito la storia in corso
rappresenti il maggior cruccio di Cantimori e lo induca alla definitiva disillusione
per la politica e alla scelta burckhardtiana degli anni seguenti.
5. Ha poi preso la parola Luisa Mangoni, per trattare di Cantimori come organizzatore
di cultura, o meglio, nella sua paradossale definizione, come “disorganizzatore
di cultura”; infatti, pur avendo ben chiara l’importanza dell’organizzazione
per l’evoluzione degli studi, il contributo cantimoriano si configura
a tutti i livelli come prevalentemente critico e distruttivo.
Emblematica è in questo senso la prefazione a Studi di storia
del ’59 (ma l’idea è del ’54), in cui Cantimori motiva
la riedizione dei suoi saggi non come promozione di un sottogenere specifico
ma residuale (fatto di recensioni, rassegne, note critiche), quanto piuttosto
come quaderno di appunti della propria pratica di lavoro. Questa dichiarazione,
che può apparire dettata da una civetteria cui indubbiamente egli non
era immune, diviene più plausibile se si considera quando e dove erano
stati pubblicati quei lavori: si tratta infatti di interventi prodotti per un
pubblico abbastanza ampio, comunque non limitato agli storici specialisti; e
vi si avverte fortissima quell’idea della storia come “propedeutica
alla vita civile” che si trova esplicitata nella Prefazione a Burckhardt
dello stesso ‘59.
L’identificazione non troppo velata con il grande storico svizzero deriva
dall’ammirazione per chi ha saputo prestare attenzione ai problemi dell’attualità
senza mai perdere il contatto con le fonti; e lo stesso accento si ritrova,
declinato in chiave critica, nella prefazione a Huizinga del ’62, dove
Cantimori contesta allo studioso olandese la vocazione profetica e definisce
invece lo storico, sulle orme di Schlegel e anticipando Benjamin, come “un
profeta rivolto all’indietro”. La storia è dunque, per Cantimori
come per Burckhardt, una risposta disillusa, ma costruttiva alla tragedia in
atto: lo storico può e deve far capire al cittadino che “il passato
è stato reale come il presente e aperto come il futuro”.
Mangoni ha sottolineato in questo senso il crescere di importanza delle prefazioni
(a scapito delle recensioni) nel Cantimori degli anni ‘50 e ‘60.
Attraverso dei veri e propri corpo a corpo con gli autori che presenta lo storico
romagnolo vuole mostrare al lettore i tormenti del suo stesso percorso intellettuale,
offrendolo come uno scudo da opporre a qualunque tentativo ideologico. Notevole
è anche il fatto che tutti i suoi ultimi corsi siano dedicati alla situazione
degli studi universitari in Italia, prestando attenzione non solo alla formazione
dei ricercatori, ma anche a quella dei normali cittadini, per i quali comunque
la storia gli sembra poter svolgere un ruolo centrale. Nella stessa direzione
vanno infine le note sulla funzione dell’editore moderno dedicate ad Einaudi
e le sentite pagine sulle biblioteche di provincia ispirate da Serra.
Mangoni ha poi proposto un ardito parallelo tra l’interesse per il tema
del piccolo stato e quello per l’educazione seminariale, come esempi di
partecipazione diretta del cittadino-discente. Recuperando la fonte, preziosa
ma scivolosa, costituita dai carteggi, la studiosa ha inoltre riportato dall’epistolografia
cantimoriana l’insolito ricorrere della “seggiola di Van Gogh”,
icona di una provincia da cui è bene allontanarsi per allargare i propri
orizzonti, ma che riappare poi come possibile approdo, sobrio e dignitoso, di
fronte agli innegabili segni di decadenza della civiltà europea. Le molteplici
angosce personali che costellano la fine della vita di Cantimori lo trovano
dunque pronto a non cedere al disfattismo, rifiutando qualunque profezia (anche
negativa) e opponendo alla crisi una “virile lucidità”.
L’intervento conclusivo è stato quello di Mario Rosa che ha ricordato
l’opera di conservazione e promozione svolta dalla Scuola Normale Superiore
nei confronti della biblioteca e dell’archivio privato di Cantimori. Per
quanto riguarda la prima, acquisita nel ’69, Rosa ha rilevato la sua imponenza
(33000 volumi e 11000 estratti ed opuscoli) e qualità (un fondo antico
con oltre 300 cinquecentine, la prima edizione tedesca di Sarpi, numerose opere
enciclopediche a partire da Bayle); essa tra l’altro non contiene solo
una collezione prestigiosa di storia della chiesa, ma anche numerose opere di
narrativa (che riflettono gli interessi della moglie) e un insolito numero di
repertori biografici e bibliografici, a testimonianza del legame cantimoriano
con quella tradizione erudita che collega tra loro D’Ancona e Pintor.
Riguardo all’archivio, esso è stato invece acquisito in due tempi,
tanto che il secondo versamento è ancora in corso di inventariazione.
Esso comunque contiene, oltre a minute, diari e testi minori inediti (come le
conferenze o la didattica) circa 6500 lettere di oltre 1200 corrispondenti,
scritte tra il ‘19 e la morte. Tra gli interlocutori si segnalano in particolare
i colleghi normalisti, gli storici della scuola romana, gli amici europei e
americani, gli allievi toscani. Rosa ha colto l’occasione per ricordare
l’assetto bibliotecario e archivistico della Normale le recenti acquisizioni
librarie (il fondo Branca e il fondo Campana) e documentarie (le carte Perosa,
Sestan e Vivarelli). Dopo aver ringraziato le dottoresse Di Maio e Sbrilli,
responsabili della conservazione, egli ha lanciato un nuovo appello affinché
siano possibili ulteriori acquisizioni, soprattutto per quanto riguarda le lettere
di Cantimori a corrispondenti viventi.
6. Molto interessante è risultato il breve dibattito animato da Vivarelli,
che ha ricordato il proprio perfezionamento all’istituto Croce al fianco
di due allievi prediletti di Cantimori come Berengo e Rotondò, rievocando
l’atmosfera di fascino misto a timore che la figura cantimoriana evocava
sui giovani che non lo conoscevano direttamente. Egli ha però deprecato
la tendenza ad un giudizio anacronistico su Cantimori: a suo parere gli allievi
fanno bene a difendere la memoria del maestro, ma non possono confondere questo
dato esistenziale con la storia vera e propria, che è l’unica cosa
realmente e utilmente trasmissibile alle generazioni più giovani.
E’ ad esempio indicativo il fatto che al convegno non si sia tematizzato
il Cantimori storico: probabilmente la dimensione più propria per parlarne
oggi a dei giovani non è quella propriamente storiografica, giacché
è possibile riscontrare uno scarto tra la sua ricerca e il suo sapere,
così ricchi e fecondi, e la sua opera in volume, oggettivamente priva
dei crismi del “classico” (anche gli Eretici sono per Vivarelli
un libro troppo specialistico per uscire dalla cerchia degli addetti ai lavori).
La chiave di lettura più idonea per studiare oggi la figura di Cantimori
è invece quella di vederlo come testimone lucido e tragico dei suoi tempi
così tormentati.
Aldilà della giusta deprecazione per letture ingenerose, non si può
quindi fare a meno, secondo Vivarelli, di rilevare il peso frenante della sua
personalità complessa sul lavoro storico effettivo; le conseguenze deformanti
della sua ossessione politica; e soprattutto quell’incapacità di
definire il proprio tempo che lui stesso avvertiva come il proprio limite principale.
A questa lettura ha reagito con fermezza Prosperi, che ha ribadito invece la
necessità di considerare Cantimori prima di tutto come uno storico, la
cui peculiare irresolutezza non va letta come carenza bensì come originalità:
egli è infatti il primo intellettuale italiano a svolgere un cammino
di rottura consapevole dalla filosofia alla storia, scegliendo di “far
camminare le idee con le gambe degli uomini” e di studiare “non
le relazioni tra i concetti fissate sulla carta a tavolino, bensì le
interazioni concretamente verificatesi e dunque generatrici di storia”.
Cantimori è inoltre l’unico storico della sua generazione che analizza
se stesso storicamente, senza pentimenti o tormenti intimistici, ma con una
autocritica spietata e un’applicazione a se stesso degli strumenti del
mestiere. Anche se è vero che egli non scrive “la grande opera”,
bisogna ricordare come muoia relativamente giovane proprio mentre sta attendendo
ad un lavoro di notevole respiro (la storia della cultura nell’Italia
moderna); e come, nonostante questo limite, egli risulti certamente più
vivo, nella memoria extra-disciplinare, di quanto non sia una figura come quella
di Chabod.
Se su quest’ultimo punto Vivarelli ha vivacemente dissentito, il dibattito
ha comunque evidenziato altre tre motivazioni forti per sottolineare l’importanza
di Cantimori in qualità di storico: innanzitutto il suo “saper
fare tante cose insieme, risultando in ciascuna fuori dagli schemi ricevuti
e ricorrenti”; in secondo luogo la sua continua riflessione metodologica
attuata “in corso d’opera”, che è ancora in grado di
insegnare molto a chiunque si avvicini agli studi storici; infine la sua apertura
europea, fatta di viaggi, letture e conoscenze, tale da sprovincializzarne la
lezione e da renderlo tra i pochi storici italiani effettivamente letti e tradotti
all’estero.
Si è riproposto insomma in questa sezione del convegno quel contrasto
riguardo al ruolo e al valore della figura di Cantimori che ha solcato l’intero
anno del centenario. Da una parte si colloca infatti la tendenza autobiografica
propria degli allievi diretti, ben esemplificata dalla tavola rotonda su Cantimori
professore svoltasi l’8 maggio a Russi (ma anche dall’incontro
fiorentino del 1° giugno con Perini e Vivanti); essi intendono preservare
la memoria del Cantimori insegnante rigido, ma fecondissimo, sostenitore di
una lettura continua dei testi in grado di superare per approssimazioni successive
la loro opacità, artigiano di una storia erudita, eppure drammatica per
gli echi della forte tensione civica. Dall’altra parte si può isolare
il tentativo, proprio di una storiografia non aliena da intenti polemici, di
sottolinearne piuttosto la sofferta testimonianza intellettuale, ricordandone
le scelte militanti e l’influenza politica (per lo più bollate
come nefaste); su questa denuncia di Cantimori come intellettuale travolto dalle
bufere novecentesche, ma soprattutto “cattivo maestro” si è
concentrato ad esempio il convegno romano del 27-28 maggio.
Resta l’impressione che la storia della storiografia debba ancora maturare
su questo personaggio, pure così commentato e studiato, una visione sufficientemente
distaccata dal passato per rendere ragione delle sue scelte per lo più
infelici; ma anche senza cedimenti alla ricerca maliziosa (quando non strumentale)
di argomenti estranei alla sua produzione storiografica, che non può
essere arbitrariamente espulsa, ma va invece messa al centro di ogni trattazione
che lo riguardi, nella misura in cui egli è stato prima di tutto uno
“studioso di storia”. Pur non sempre convergenti nel merito, si
sono mossi in tal senso, in questa come in altra sede, Pertici e Mangoni (come
del resto Belardelli in precedenti occasioni); ed è auspicabile che su
questa scia possano indirizzarsi anche i numerosi ricercatori che hanno intrapreso
il tentativo di storicizzare la vicenda di altri storici italiani coevi a Cantimori,
nella speranza che una migliore conoscenza del campo storiografico possa contestualizzare
meglio anche lo storico di Russi, troppo spesso prigioniero dello sterile contrasto
tra emblematicità e peculiarità della sua vicenda intellettuale.