Domenico Felice, a cura di, Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, 2 tomi, Napoli, Liguori, 2001-2002
[€ 35.00 – ISBN 88-207-3173-8]

Piero Venturelli
Università di Bologna

1. La ponderosa opera in questione offre un puntuale resoconto critico dei momenti più significativi della fertile storia di cui è protagonista il concetto di dispotismo.[1] La collaborazione di ventisei studiosi, coordinati da Domenico Felice, ha consentito l’esame scrupoloso, con prospettive ed esiti differenti, delle molteplici accezioni che questa basilare categoria filosofico-politica ha di volta in volta assunto. In generale, è possibile distinguere due modalità fondamentali di applicazione del termine dispotismo nell’ambito dei testi degli autori considerati nell’opera: un uso analitico, che dimostra il desiderio di non escludere dall’indagine e dalla comprensione le realtà socio-politiche extraeuropee, specialmente asiatiche; e un carattere ideologico, che è invece proprio sia delle considerazioni in cui la qualifica di “dispotico” viene attribuita a governi occidentali oppressivi - con l’esplicito intento di stigmatizzarne l’arbitrarietà – sia della difesa di visioni eurocentriche della storia umana (piani polemici, questi ultimi, che tendono peraltro sovente a confondersi).
L’impiego del termine despota e dei suoi derivati, dopo una larga diffusione a partire almeno dal IV secolo a.C., diviene abbastanza raro nella Tarda Antichità, per poi scomparire o quasi nel millennio medioevale e nella prima Età Moderna; nel frattempo, è andato declinando pure l’interesse per il governo monocratico orientale nella sua specificità ‘scientifica’, al punto che si tende ad assimilarlo alla “tirannide”. Il vocabolo dispotico comincia a riapparire nella vita pubblica francese della metà del XVII secolo, durante la “guerra dei pamphlets della Fronda, e nel Settecento si vive l’acme storico del dibattito intellettuale intorno al concetto in questione. Fattosi occasionale dal terzo quarto dell’Ottocento, l’uso della categoria del dispotismo orientale torna per qualche tempo in auge grazie al famoso libro pubblicato da Karl A. Wittfogel nel 1957, dal titolo emblematico Oriental Despotism.
Com’è noto, le origini della nozione politica di dispotismo vanno ricercate nella Grecia classica. Spetta ad Aristotele, in particolare, l’opera di sistematizzazione teoretica e storica del concetto nella Politica. Portavoce di un patrimonio di topoi nel IV secolo a.C. ormai ben consolidati, egli inasprisce talune tendenze del pensiero politico antico e fa della contrapposizione tra Greci e Persiani, tra eleutheria ellenica e douleia orientale, una questione ‘scientifica’, che investe anche l’analisi delle forme di potere. “Dispotismo e politica in Aristotele”, saggio di M. Paola Mittica e Silvia Vida, rende conto delle teorizzazioni dello Stagirita in materia.

2. Nel descrivere la relazione tra padrone (despotes) e schiavo (doulos), Aristotele sottolinea che, mentre il primo è in grado di autogovernarsi possedendo la capacità intellettuale di dettare regole, il secondo sa unicamente obbedire agli ordini ed esiste per la realizzazione di fini altrui; per questa ragione, si deve riconoscere l’esistenza di servi “per natura”. L’autorità esercitata dal despotes sugli schiavi prende il nome di despoteia e risulta conveniente ad entrambe le parti: piegandosi al volere del padrone, il servo persegue allo stesso tempo anche il proprio interesse. Il rapporto schiavo-padrone appare ad Aristotele conforme a natura, utile e necessario all’interno sia della comunità familiare (oikos) sia del mondo “barbarico”, ma affatto ingiusto in ambito politico. Siccome la polis è formata di uomini liberi e uguali, il rapporto padronale non può esservi contemplato, tanto che è innaturale, “deviata”, qualsiasi costituzione che non si fondi su legami orizzontali fra i cittadini e che pretenda di tutelare gli interessi esclusivi di chi governa. Nondimeno, rileva Aristotele, la despoteia si configura come una forma di governo vera e propria solo quando si esercita su “barbari”: in questo caso, essa è giusta, retta; anzi, i popoli servili “per natura” vi ravvisano l’unica costituzione autenticamente legittima (kata nomon). Ed è l’Asia il luogo ove prosperano le monarchie padronali, perché i popoli colà “hanno natura intelligente e capacità nelle arti, ma sono privi di coraggio per cui vivono continuamente soggetti e in schiavitù”, mentre la stirpe degli Elleni, occupando una posizione mediana fra le genti orientali (da una parte) e quelle ardimentose, dotate però d’ingegno fiacco, abitanti le regioni nordiche ed europee (dall’altra), “partecipa del carattere di entrambi” e “quindi vive continuamente libera”.
Se alla Politica affianchiamo il Frammento 685 Rose e la Lettera di Aristotele ad Alessandro, “Sulla politica verso le città”, si rafforza l’impressione che, alla base della netta e talora violentissima opposizione tra Elleni e “barbari” instaurata dallo Stagirita, covi uno spirito di vendetta nei confronti dei Persiani. Egli sembra pretendere che la Grecia unifichi il mondo non tanto esportando costituzioni idonee al mondo libero quanto piuttosto rispettando le “naturali” modalità autoctone di governo: ai danni dei nemici programma, quindi, il medesimo trattamento che costoro hanno riservato alle poleis nel recente passato. Aristotele e il mondo ellenico tutto ripongono le proprie speranze nel conquistatore Alessandro Magno, che però tradisce le attese contaminando civiltà differenti e divenendo a sua volta un potente quanto effimero despota orientale.

3. In età ellenistico-romana si attenua l’asprezza di toni assunta dall’ormai radicato giudizio negativo sui “barbari”, cui ha concorso in maniera determinante la Politica di Aristotele, e si affaccia una certa disposizione a comprendere identità, cultura e istituzioni degli altri popoli. Eppure gli storici e la propaganda non esitano a colpire anche duramente l’erede dell’Impero degli Achemenidi, la Persia sassanide, i cui sovrani sono accusati di effrenata barbaries, giacché non possono contare su alcuna forma di paideia; ad un governo fondato sul puro arbitrio, si oppone un governo delle leggi sull’esempio di quello vigente a Roma, ritenuto l’unico capace di garantire l’eleutheria. Condannare le genti “barbare” significa, per gli uomini colti d’epoca ellenistico-romana, non solo preoccuparsi di cementare l’identità collettiva mediante l’ispirazione di un senso di superiorità che generi patriottismo e ardimento, ma anche criticare nella forma di governo e nei costumi della Persia sassanide abusi similari allignanti nell’Impero romano, suscitando così inquietudine e riflessioni intorno alla non impossibile degenerazione grave del potere monarchico. Su tali questioni si sofferma Umberto Roberto nel suo contributo dal titolo “Immagini del dispotismo: la Persia sassanide nella rappresentazione della cultura ellenistico-romana da Costantino a Eraclio (306-641 d.C.)”.
Ne “Il principatus despoticus nell’aristotelismo bassomedievale”, Claudio Fiocchi e Stefano Simonetta prendono in esame l’influenza esercitata dalla Politica sul pensiero collocato cronologicamente fra la prima traduzione latina integrale dell’opera (offerta da Guglielmo di Moerbeke dopo il 1260) e il commento, posteriore di un secolo, che ne dà Nicole Oresme.
Finalmente a disposizione dei dotti europei, che lo attendono con ansia nella speranza che vi si possa rintracciare una scientia civitatis di tipo deduttivo, il testo aristotelico, almeno ad un esame iniziale, genera tuttavia una disillusione cocente, in quanto esso, “più che offrire un canone di scientificità rigorosa in grado di dare risposte certe, [pone] una serie di problemi, lasciandoli insoluti” (tomo I, p. 73). Peraltro, i lettori sono ben presto stimolati ad affrontare il gran numero di questioni rimaste aperte e irrisolte; grazie a queste sue ‘ambiguità’, la Politica diviene il punto di partenza di approfondimenti e riflessioni di diverso genere, essendo chiamata in causa l’autorità indiscussa dello Stagirita per suffragare tesi anche lontane fra di loro: ciò concorre alla singolare ‘fortuna’ che l’opera conosce nel Tardo Medioevo, e lascia in dote a generazioni di commentatori e di teorici della politica un dovizioso bagaglio linguistico e concettuale da cui trae linfa la ricerca di interpretazioni, che si vogliono sempre più esaurienti, della realtà dell’Occidente cristiano.

4. A giudizio di Fiocchi e Simonetta, lo studio della Politica non viene a produrre una svolta decisiva nel modo di concepire la società e il suo governo, anche se innegabilmente contribuisce ad ampliare lo spettro di fonti e tradizioni che caratterizzano il composito patrimonio di conoscenze bassomedioevali. Alla lettura dell’opera, i teorici politici si accorgono che Aristotele espone una vasta collezione di problemi sui quali essi non hanno mai avuto occasione di confrontarsi, dall’idea della civitas come necessità naturale (e non più come male inevitabile) alla possibilità di analizzare scientificamente la vita delle diverse tipologie di associazione e alla teoria delle forme costituzionali rette e deviate. Le considerazioni svolte dal filosofo greco su quest’ultimo punto, la tematizzazione di forme costituzionali pure e corrotte, promuovono l’avvio del dibattito sul migliore governo (laddove, in precedenza, vigeva indiscusso il monopolio del regnum), chiamando fra l’altro in causa il concetto di “servitù naturale”, un elemento del tutto estraneo alla tradizione cristiana, che attribuisce invece l’universale servitus dell’uomo agli effetti del Peccato Originale; così come, di conseguenza, inedita appare ai teorici bassomedioevali la descrizione di una monarchia “dispotica” conforme a genti non libere, inclini “per natura” ad accettare una forma di governo retta sulla relazione tra padrone e schiavo.
Nel suo commento alla Politica, Tommaso dimostra di aderire alla prospettiva aristotelica e ribadisce la distinzione tra il principatus politicus, tipico degli uomini nati liberi, e il principatus despoticus, inevitabile nel mondo “barbarico”. Il commento in questione, interrottosi al capitolo 6 del libro III, viene proseguito da un autore di orientamento analogo a quello di Tommaso, Pietro d’Alvernia, il quale chiarisce che il principatus despoticus non è altro che un principatus dominativus, vale a dire una forma di monarchia nella quale il padrone (dominus) governa i sudditi come se fossero suoi schiavi, e questa condizione di servitù viene sopportata dal popolo sine tristitia, a causa della sua tendenza innata alla docile sottomissione.
Mentre nel libro I e nella parte iniziale del II del De regimine principum, scritti molto probabilmente da Tommaso, non si tocca il tema del dispotismo, nella sezione dell’opera stesa da Tolomeo da Lucca si accetta la distinzione fra governo politico e governo dispotico, sottolineando che la diversità di natura esistente fra i popoli è dovuta alla posizione della terra e delle costellazioni, da cui deriverebbe che in Oriente risulta maggiormente radicato lo spirito servile.

5. Tuttavia, anche nel mondo latino non è impossibile l’instaurazione di un governo coercitivo immoderato (da Tolomeo definito talvolta, indifferentemente, “dispotico” o “tirannico”), come dimostrano i casi di alcune aree mediterranee (Sicilia, Sardegna, Corsica, Cipro, isole greche); secondo il commentatore lucchese, ciò è dovuto al piano della giustizia divina, teso a punire il popolo peccatore che si è abbandonato al vizio.
Nel Defensor pacis (1324), Marsilio affianca al significato propriamente aristotelico di “dispotismo” un’accezione più generica, indicante un qualsiasi governo arbitrario, che pertanto potrebbe instaurarsi anche lontano dall’Oriente, entro il novero dei popoli non servili. In questo secondo senso, la categoria di despotia viene utilizzata dal magister padovano per segnalare il rischio che grava sulle comunità in cui chi è preposto al governo non si assoggetti al legislativo, appunto come risulta “essere accaduto ad alcuni vescovi romani”. In Marsilio, dunque, il lessico e i modelli interpretativi aristotelici sono impiegati sovente in chiave polemica allo scopo di demolire le coeve pretese curialiste e di condannare quella dottrina della plenitudo potestatis papale che egli giudica la fonte primaria della discordia civile europea del suo tempo.
Cospicua è l’attenzione che Nicole Oresme palesa intorno al tema del dispotismo nell’ambito del suo commento alla Politica, di cui egli esegue anche la traduzione francese.[2] Contrapponendo la monarchia alle altre forme di governo, Oresme accetta molte delle tesi aristoteliche, non esitando però occasionalmente a scostarvisi, come nel caso in cui viene a giudicare il princey despotique, appropriato ai popoli servili incapaci di costituire una vera comunità politica, la sola forma di governo finalizzata al bene personale dei prìncipi e non dei governati. La tendenza a confondere la specifica fisionomia della tirannide con quella del dispotismo è particolarmente funzionale alle mire politico-ideologiche di Oresme, il quale si fa banditore di un tipo di monarchia moderata che subordini il re al regno considerato nel suo insieme e che preveda l’intervento nell’opera di governo di un consiglio di saggi. Inoltre, degna d’attenzione è la sua tesi secondo cui le plus grant princey seguirebbe nel tempo un movimento da Sud-Est a Nord-Ovest. Questa translatio maiestatis, che egli ritiene collegata alla progressiva decadenza del mondo, si sarebbe originata in Persia e avrebbe fatto tappa via via in Grecia, a Roma e infine – ai suoi tempi – in Francia. Oresme attribuisce il passaggio della majesté dalle regioni orientali a quelle occidentali a tre diversi fattori, sui quali interverrebbe liberamente la volontà di Dio: il mutare del clima, della morfologia del territorio, delle influenze astrali.

6. Nel contributo “Niccolò Machiavelli e la «monarchia del Turco»”, Giorgio E.M. Scichilone evidenzia come lo scrittore fiorentino, distinguendo con nettezza le forme monocratiche presenti in Francia e in Turchia, non faccia altro che perpetuare la dicotomia categoriale tra monarchia europea e dispotismo orientale. Analogamente alle consuetudini lessicali dei contemporanei, tuttavia, Machiavelli non impiega mai il termine despota e i suoi derivati; questo appunto vale anche per Savonarola ed Erasmo, le cui rispettive posizioni intorno alla “tirannia” sono sintetizzate da Scichilone: entrambi gli autori tendono a ‘caricare’ il concetto anche di una serie di specificazioni più propriamente riconducibili alla despotike arche codificata ‘scientificamente’ da Aristotele[3].
Machiavelli individua nel regno di Francia e nella “monarchia del Turco” la pressoché perfetta incarnazione, ai suoi giorni, di quelli che reputa i due differenti ed eterni modelli di “principato”. A suo avviso, fondamentale peculiarità del secondo di questi due governi è vantare un capo che assume la fisionomia del padrone unico e che, come tale, esercita il suo potere in maniera personalistica su sudditi ridotti a schiavi privi di qualsivoglia autonomia o tutela; da considerarsi affatto assente è la legge, mentre gli apparati militare e amministrativo risultano meri strumenti di dominio a completa disposizione del signore. Viceversa, Machiavelli ritiene il regno di Francia improntato alla moderazione, in quanto la legge va a vincolare finanche l’azione del sovrano ed è in grado di rendere libera e sicura la monarchia stessa; la presenza di un’aristocrazia costituisce, poi, un ‘freno’ al potere del re, mentre i parlamenti assicurano la giustizia, fungendo da autorità super partes nei contrasti sociali. Questo equilibrato assetto costituzionale porta Machiavelli ad accostare la monarchia francese alla repubblica romana, a suo giudizio – com’è noto – mirabile esempio di governo misto capace di garantire la libertà e, insieme, di resistere alla corruzione del tempo. Non si fatica, perciò, a rinvenire nel regno di Francia del tempo una forma di governo assai prossima all’ideale politico di Machiavelli.

7. Anche Bodin non adotta né il termine despota né i suoi derivati. Margherita Isnardi Parente, nel saggio intitolato “Signoria e tirannide nella «République» di Jean Bodin”, chiarisce che il concetto di despotike arche è indicato dallo scrittore francese mediante la locuzione monarchie seigneuriale.[4] In particolare, egli definisce monarchie seigneuriale la tipologia di governo dell’uno avente carattere padronale, cioè la monarchia caratterizzata da un esercizio del potere personale nella sfera del diritto pubblico, e che meglio si adatta, a suo avviso, allo spirito “contemplativo” e “molle” dei popoli meridionali e orientali. Lontana progenitrice della monarchie royale, più evoluta, la monarchie seigneuriale rappresenta una forma di potere arcaica, in tutto e per tutto simile al genere di rapporto occorso tra gli elementi della famiglia originaria da cui è nata la società e nell’ambito della quale il padre esercitava un potere assoluto su figli e servi; quindi, essa è contraddistinta da una sovranità mediata dalla legge e si configura piuttosto come “un tipo di monarchia primitiva a carattere patriarcale-dispotico, che non conosce la distinzione fra sfera pubblica e sfera privata, potere politico e potere padronale, demanio regio o diritti del re sul territorio dello Stato e proprietà privata del suddito” (tomo I, p. 129).
Secondo Bodin, tracce di questa forma di potere resistono nel sistema feudale, giacché ancora ai suoi tempi numerosissimi sono i sudditi non dotati di proprietà privata esclusiva; non per questo, tuttavia, egli ritiene debba inferirsi l’esistenza di una monarchia integralmente dispotica nel passato europeo.
Nonostante una delle leggi fondamentali di Dio e della natura, quella che conferisce a ogni uomo la libertà di disporre della propria persona e dei propri beni, venga patentemente meno nella monarchie seigneuriale, quest’ultima si differenzia dalla tirannide poiché è provvista, limitatamente al piano giuridico, di una sua propria legittimità, in coerenza con la primitiva natura dell’essere umano.[5]

8. Nel contributo “Forza e diritto. Il dispotismo nel Secondo trattato sul governo di John Locke”, Marina Lalatta Costerbosa esamina le due accezioni in cui il filosofo inglese considera il governo dispotico. La prima individua o l’usurpazione o la tirannide, entrambe forme di dominio ingiuste perché contraddistinte dalla presenza di un potere assoluto e arbitrario, dunque non più politico: dal momento che la legge lascia posto alla forza, l’affermazione di un tale potere giustifica, per Locke, il diritto del popolo a resistervi. Ma il filosofo inglese definisce “dispotica” anche quella forma di potere che s’instaura in conseguenza di una guerra giusta, cioè di un conflitto intrapreso per opporsi al nemico che, armi in pugno, aspira ad intaccare gli altrui diritti fondamentali alla vita, alla libertà e alla proprietà; il dominio istituito sui prigionieri catturati nel corso di siffatta guerra giusta si configura come un momento di transizione durante il quale si provvede alla creazione di una società politica nuova, che per diventar legittima deve tuttavia sottostare al consenso della maggioranza: il “diritto” dispotico, insomma, precede la dichiarazione fiduciaria che sta alla base del pactum subiectionis.[6]
Davide Monda, nel saggio “Contro un ‘Sole’ dispotico. Assolutismo e dispotismo nella Francia di Luigi XIV”, concentra la sua attenzione sull’uso polemico dei termini despote, despotisme e despotique nella pubblicistica francese collocata cronologicamente fra la metà del XVII secolo e l’inizio del XVIII. Come dimostrano scritti e dizionari dell’epoca, i vocaboli in questione dapprima non sono sembrati assumere valori semantici univoci, mentre di norma veicolano immagini molto negative i riferimenti ai governi del Turc (o Grand Seigneur) e del tyran, ma poi – almeno a partire dalla Revoca dell’Editto di Nantes (1685) – nella ricca pamphlettistica dell’epoca li si trova attribuiti sempre più di frequente alla monarchia del Re Sole, per significare una forma arbitraria di governo, nel cui ambito l’esercizio del potere avviene alla maniera del Turco, cioè in modo contrario “à la raison” e “à l’humanité”. Per questo motivo, Luigi XIV è spesso ribattezzato le Turc français nei tanti libelli anonimi che in quegli anni circolano clandestinamente in mezza Europa; ad attaccarlo sono in prevalenza o protestanti o aristocratici: questi ultimi censurano, in particolare, la sua tendenza ad abolire diritti, prerogative e privilegi della nobiltà di sangue. Evidentemente, si tratta di un uso ideologico che sorvola sulle distinzioni aristoteliche e che anzi, lungi dal riferire il dispotismo alla forma di potere tipica dei popoli servili, impiega di solito in maniera pressoché sinonimica espressioni del genere, tutte polemiche nei confronti della monarchia di Luigi XIV: la tyrannie du Turc, la puissance du Grand Seigneur, la puissance despotique, il pouvoir despotique, il pouvoir absolu ecc.

9. Despotique, però, sembra talvolta alludere a qualcosa di più grave, come si desume dalle parole del libellista Michel Le Vassor, autore di un celebre pamphlet (uscito anonimo in Olanda in fascicoli successivi tra l’agosto 1689 e il luglio 1690), dal titolo Les soupirs de la France esclave, qui aspire aprés la liberté. La sua polemica, infatti, non è indirizzata solamente contro il Re Sole, inteso come singolo tiranno che esercita il potere in modo temerario ed egoistico, bensì anche – e soprattutto – contro il coevo processo d’instaurazione in Francia di strutture di potere insidiose e di un vero e proprio sistema di governo affatto alieno, tipico delle regioni orientali e incompatibile con la libertà.
Morto Luigi XIV nel 1715, non si arrestano le critiche alle modalità del suo governo. Esempio mirabile, da questo punto di vista, è quello offerto dal giovane Montesquieu che, nelle Lettres Persanes (1721), assimila – a sua volta – la monarchia dell’ormai defunto Re Sole al dispotismo “alla turca”. Nel suo celebre romanzo epistolare, egli manifesta un’estrema sfiducia nelle possibilità del regime monarchico, che vede destinato inevitabilmente a trasformarsi in un dispotismo iniquo e paralizzante. Solo con l’Esprit des lois (1748) il barone di La Brède mette in secondo piano la nozione eminentemente polemica di dispotismo a beneficio dell’introduzione di una categoria analitica che possa concorrere a dar vita a una ‘sociologia’ universale dei sistemi politici.
Alla presenza di questi interessi ‘scientifici’ nell’ambito del pensiero dell’autore francese, Domenico Felice dedica il saggio intitolato “Dispotismo e libertà nell’Esprit des lois di Montesquieu”. Accostando repubblica (nelle sue varianti democratica e aristocratica), monarchia e dispotismo, il filosofo di La Brède propone, nel suo capolavoro, un’inedita tipologia tripartita delle forme di governo. Osserva Felice che la categoria del dispotismo viene introdotta da Montesquieu “per interpretare e spiegare, e quindi includere a pieno titolo nello schema generale delle forme di governo, anche le realtà socio-politiche extraeuropee, antiche e moderne, in particolare asiatiche; realtà fino ad allora solo parzialmente inserite nel campo di studio della scienza politica” (tomo I, p. 192). La distinzione di questi tre tipi primari o fondamentali avviene in base all’adozione simultanea del criterio descrittivo del chi governa (il numero delle persone che detengono il supremo potere) e di quello assiologico del come colui o coloro che detengono il potere lo esercitano. Il gouvernement despotique si differenzia dalla monarchia unicamente circa il modo di esercizio del potere e non in base alla titolarità dello stesso.

10. Indugiando più volte sul modello della monarchia francese, Montesquieu ha premura di definirlo un buon esempio di governo delle leggi, dal momento che viene riconosciuta a “pouvoirs intermédiaires, subordonnés & dépendants”, cioè a forze politico-sociali (i ceti privilegiati dell’aristocrazia, del clero e della noblesse de robe dei Parlamenti), la funzione di ‘frenare’ il potere del monarca, impedendo ogni suo atto arbitrario. La natura-struttura del dispotismo, invece, non è tale da consentirgli di sussistere grazie a leggi fondamentali capaci di arrestare le prevaricazioni di chi governa; ma è piuttosto la presenza di un fattore extra-istituzionale a svolgere un pur esiguo effetto mitigante: la religione. Di conseguenza, sempre rimanendo sul piano costituzionale, alla tipologia tripartita di cui sopra si aggiunge una bipartizione dei governi: moderati sono quelli che, vantando una limitazione reciproca dei poteri (ossia una distribuzione dei poteri tra le diverse forze sociali), hanno la capacità intrinseca di produrre libertà politica e di spronare gli uomini all’operosità; immoderati sono i governi dispotici, nei quali la concentrazione dei poteri e la strutturale attitudine a negare i valori fondamentali dell’essere umano mettono in evidenza la loro fisionomia mostruosa e distruttiva, contrassegnata dalla schiavitù politica e civile dei sudditi, dal progressivo spopolamento, dalla quasi completa assenza del diritto, dalla rovina dell’economia e dall’impossibilità dello sviluppo di un ceto borghese autonomo e dinamico.
Per ciò che concerne il principio del governo dispotico, viene indicata nella crainte (e talora nella terreur) la passione umana che più di altre lo fa “muovere”. Tale stato di ansia o di insicurezza, che collima con l’indomabile senso di minaccia di distruzione imminente, pervade e isola tutti gli individui, compreso il despota, avvilendoli fino alla paralisi e precipitandoli nel regno dell’annichilimento e del silenzio. Da questo punto di vista, la religione, se da una parte contribuisce a rendere più stabile il dispotismo, configurandosi alla stregua di una “crainte ajoutée à la crainte” (anche per evitare castighi ultraterreni, i sudditi debbono totale obbedienza al despota, capo supremo sia politico che religioso); dall’altra, secondo Montesquieu, essa è fattore capace di temperare l’arbitrarietà di questo governo attraverso una certa umanizzazione del suo principio.

11. Nella terza parte dell’Esprit des lois (libri XIV-XIX) è ripresentata, fra l’altro, una versione della tradizionale teoria dei climi: il caldo abbatterebbe il vigore fisico e la forza d’animo, predisponendo alla schiavitù i popoli di quasi tutta l’Asia, dell’intera Africa e dell’America tropicale; inoltre, il dispotismo si adatterebbe “naturalmente” ad estensioni territoriali molto ampie. Specie in questa parte, acuti rilievi si mescolano a pregiudizi inveterati e a considerevoli inesattezze geografiche (dovute, non di rado, alle ancora approssimative conoscenze disponibili in quel periodo).
Sottolineando che il dispotismo è il tipo di governo più ‘semplice’, dato che ogni cosa sottostà al potere “sans loi & sans régle” del despota, Montesquieu viene a considerarlo alla portata di tutti e, dunque, come abbastanza agevole da diffondere. In questi casi, assumendo il concetto in un’accezione più ampia, egli ritiene che un simile regime insidi anche l’Europa, in quanto gli uomini dappertutto gli paiono portati a bramare allo stesso modo il potere e, una volta conquistatolo, ad abusarne. E può attecchire pure in Occidente, allorché sopraggiunge la “corruzione” seria del principio dei governi moderati che normalmente vi si sviluppano: il dispotismo “d’un seul”, l’oligarchia (un “despotisme de plusieurs” cui gli sembrano protese, nel Settecento, le piccole repubbliche patrizie italiane), il dispotismo “de tous” (figlio dell’uguaglianza estrema che può verificarsi in una democrazia) sono, infatti, governi immoderati, oppressivi e liberticidi, perché caratterizzati dalla concentrazione dei poteri. Tra le fonti più temibili di “corruzione” del principio, Montesquieu dà rilievo particolare al mutamento sensibile della grandezza territoriale di uno Stato.
L’obiettivo di queste ultime argomentazioni, che possiedono stretti legami con l’attualità del suo tempo, è duplice: arginare l’incontrollato desiderio di gloria e, insieme, lo spirito di conquista dei governanti europei; ammonire i popoli a rafforzare la vigilanza su coloro che detengono il potere. Come si vede, pure nell’Esprit des lois non si risparmiano incursioni sul piano polemico, peraltro assai poco frequenti e che, nel complesso, rivestono un ruolo affatto secondario a paragone degli sforzi analitici riscontrabili in parecchi altri luoghi dell’opera.

12. La ‘fortuna’ delle riflessioni sul dispotismo contenute nell’Esprit des lois si trova ampiamente documentata negli scritti di intere generazioni di trattatisti politici e di filosofi, ma non solo. Nicolas-Antoine Boulanger, ad esempio, elaborando, poco prima di morire, le sue Recherches sur l’origine du despotisme oriental (pubblicate poi postume nel 1761), dimostra di risentire in maniera significativa delle tesi di Montesquieu, del quale espressamente esalta la sagacité, pur nella convinzione che egli abbia attribuito rilevanza soverchia ai fattori climatici. Allo scopo di non cadere in quelle che considera imprudenti forme di determinismo geografico, Boulanger dedica le Recherches a un attento studio della serie di pregiudizi, degli specifici modelli educativi e – più in generale – dell’“infinité de causes morales et politiques” che nel corso del tempo avrebbero indotto molti popoli ad accettare pronamente il giogo servile imposto da despoti.
Su tali aspetti richiama l’attenzione il saggio “Teocrazia e dispotismo in Nicolas-Antoine Boulanger”, nel quale Giovanni Cristani sottolinea come il naturalista transalpino rinvenga nella forma di governo dispotica una tappa della storia generale degli errori umani. A giudizio di Boulanger, il dispotismo discende dalla rovina del primitivo gouvernement théocratique e suo principio deve considerarsi non già la crainte, bensì piuttosto lo smarrimento del senso etico-civile e della naturale dignità dell’uomo, a cui sarebbe riconducibile la rassegnata accettazione da parte dei popoli degli imperscrutabili ordini di un potere che si ritiene divino. Sennonché, questa mostruosa forma di governo è sì particolarmente radicata e diffusa in Oriente, ma per Boulanger se ne conservano pericolose tracce anche in Europa. Almeno a partire da questo punto, il suo discorso si sposta dal terreno analitico a quello ‘militante’; ed è, appunto, sul piano dell’agire politico che bisogna leggere la sua pesante critica alla religione, compiuta nell’ambito di un più generale progetto di secolarizzazione della società e del potere civile.
Auspicare una vita sociale guidata dalla raison significa sostenere un progrès des connaissances in grado sia di assurgere, secondo il naturalista, a nuovo movente dell’agire umano sia di rendere perfetta la monarchia, da lui considerata l’unica forma di governo “naturale”, spazzando via in questo modo i residui teocratici, cioè l’idolatria e la trascendenza.

13. In Helvétius riscontriamo molti punti in comune con Boulanger: dalle finalità prevalentemente polemiche delle sue considerazioni sul dispotismo alla critica della religione, dall’attenzione mostrata per il processo storico di formazione delle società umane al valore attribuito alle causes morales nella ricerca dei fondements del potere padronale al di fuori della famiglia. Helvétius critica aspramente i privilegi e le disuguaglianze su cui la monarchia francese si fonda, elementi che egli è persuaso favoriscano un esercizio del potere in forme sempre più arbitrarie, e che sembrano preludere all’instaurazione di un “dispotismo” (sovente, nel suo lessico, sinonimo di “tirannide”), vale a dire di un governo assoluto che mortifica la virtù e avvilisce i sudditi. Helvétius ritiene, perciò, che urga l’intervento di un sovrano illuminato capace di approntare riforme legislative e educative dirette a preservare la libertà da ogni sorta di minaccia; da considerarsi particolarmente temibili sono, a suo giudizio, le pretese dispotiche dell’intollerante religione cattolica. Allo stesso tempo, tuttavia, come ha cura di sottolineare Viola Recchia in “Dispotismo, virtù e lusso in Claude-Adrien Helvétius”, la sua concezione ‘catastrofista’ della storia lo porta a scorgere nel dispotismo l’ultimo stadio della graduale perdita della libertà; dalle ceneri della civiltà, comunque, egli si dice convinto che sorgeranno nations sauvages in grado di avviare una nuova storia che potrà contare, ancora una volta, su secoli di libertà prima che il genere umano ripiombi nell’età della decadenza, contrassegnata dall’arbitrio e dalla schiavitù, dallo spopolamento e dalla desertificazione.
Nel contributo “La morte del corpo politico: il dispotismo di Jean-Jacques Rousseau”, Edoardo Greblo mostra come, attraverso la contrapposizione netta fra société bien ordonnée e dispotismo, il filosofo ginevrino venga a delineare il suo modello di governo della legge. Le argomentazioni di Rousseau si limitano esclusivamente al piano polemico e non tengono conto delle distinzioni ‘scientifiche’ operate prima da Aristotele e poi da Montesquieu: egli, infatti, definisce “dispotica” quella forma di governo che è corrotta al punto che il sovrano si pone al di sopra delle leggi civili e persegue i propri interessi privati disdegnando quelli generali della comunità. Al contrario, laddove si realizza l’alienazione completa dei diritti e si obbedisce alla volontà generale, la degenerazione del corpo politico è scongiurata e ogni individuo usufruisce di una libertà non più naturale ma civile, cosicché la felicità e la virtù morale possono davvero dirsi alla portata dell’intera collettività.

14. Ne “I fisiocrati e Mably: tra dispotismo legale e governo misto”, Pietro Capitani analizza sia le posizioni affini di François Quesnay e di Pierre-Paul Le Mercier de la Rivière sia la critica che ad esse muove l’abate di Mably. La teoria fisiocratica pone accanto al noto e vituperato despotisme arbitraire, un despotisme légitime (Quesnay) ovvero légal (Mercier), che consisterebbe in una forma di governo dove il sovrano unico si lascia guidare dalle vérités évidentes, ricavabili dall’osservazione che sarebbe possibile compiere dell’ordine naturale attraverso i lumi della ragione.[7] Spetta al despota “buono” il compito di promulgare leggi positive che siano il più possibile conformi alla natura, nella sottintesa convinzione che sussista un’indiscutibile omogeneità tra leggi fisiche e leggi morali; per questo motivo, argomentavano i fisiocrati, sarebbe assurdo imporre dei limiti a siffatto potere “dispotico”, in quanto alla verità si deve riconoscere supremazia assoluta e, di conseguenza, tutti gli uomini sono tenuti a piegarvisi senza discutere. Mably, dal canto suo, pur essendo anch’egli sostenitore di un ordinamento fedele al diritto di natura, giudica l’asservimento al principio dell’evidenza inadeguato a contrastare durevolmente le passioni e a garantire la non arbitrarietà del despotisme légal, e indica piuttosto nell’administration tempérée del gouvernement mixte una soluzione molto più equilibrata e senza dubbio esiguamente liberticida, in questo facendo propria – almeno in parte – la lezione di Montesquieu.
Nel saggio di Gianmaria Zamagni, intitolato “Oriente ideologico, Asia reale. Apologie e critiche del dispotismo nel secondo Settecento francese”, si focalizza l’attenzione sulle tesi di scrittori d’Oltralpe ostili alle argomentazioni sviluppate nell’Esprit des lois sul mondo asiatico. Di patenti posizioni filo-assolutistiche, Claude Dupin, Voltaire e Simon-Nicolas-Henri Linguet non vedono nel dispotismo un’autonoma forma di governo e sono convinti che Montesquieu, in realtà, critichi la monarchia orientale per denigrare l’assolutismo éclairé che va costituendosi in patria; Linguet, nello specifico, giunge finanche ad esaltare nei regimi asiatici quella perfetta ‘immobilità’ politico-sociale che, sola, gli pare impedire la spartizione dei poteri in molte mani, scongiurando così la sempiterna contestazione dell’autorità e il continuo prodursi di disordini.

15. Diversamente dai predetti autori, Abraham-Hyacinthe Anquetil-Duperron ha sott’occhio una solida documentazione sulle realtà orientali, spesso attinta di prima mano in loco. Mediante le sue lunghe analisi, egli prova che in Persia, in India e in Turchia sono presenti il Consiglio di Stato e il giuramento del sovrano, posti a ‘frenare’ gli eventuali abusi di potere di quest’ultimo; inoltre, viene a chiarire che l’istituto della proprietà privata non è affatto ignorato, come erroneamente credono i più in Europa. L’obiettivo principale dell’opera Législation orientale (1778) di Anquetil consiste nel tentativo di rimuovere i pregiudizi che vengono a giustificare la brutale politica di colonizzazione europea, soprattutto inglese, in Oriente.
Nel saggio “Dispotismo e ‘ideologia europea’ nelle filosofie della storia di Turgot e Condorcet”, Alessandro Ceccarelli evidenzia che, nelle concezioni del progresso di entrambi gli autori, il dispotismo orientale è additato come antitesi ‘ontologica’ di quelle Lumières a cui la storia occidentale si ritiene finalizzata. Per Anne-Robert-Jacques Turgot, il modello del dispotismo si è plasmato a seguito delle conquiste barbariche in Asia, venendo ad attuarsi da una parte l’innaturale estensione al governo civile della forma verticistica del comando militare e dall’altra la promozione di credenze religiose e costumi volti a cancellare ogni senso civico nei sudditi; si giustifica, in questa maniera, l’esistenza dei molti dispotismi languenti nella paralisi e nella superstizione. Il marchese di Condorcet, che ha ben presenti le parole di Turgot sul progresso e sull’immaturità delle mœurs in Oriente, riconosce esclusivamente ad una Europa rivoluzionaria la capacità di farsi guidare dalla ragione liberatrice verso una civilisation senza precedenti; diffondendosi, le Lumières conquisteranno, egli prevede, anche gli arretrati popoli dell’Asia, incapaci di maturare autonomamente.
In “«Despotisme de la liberté»: l’eccezione giacobina”, Cristina Passetti si sofferma sulle considerazioni che Jean-Paul Marat dedica alla liberté naissante rivoluzionaria, per la cui difesa egli sostiene si rendano temporaneamente inevitabili l’esercizio del sospetto e l’uso “ragionato” e “legale” della violenza. Secondo Marat, l’intervento di due nuove magistrature, il Tribunale di Stato e il dictateur, contribuirebbe ad inaugurare un despotisme de la liberté, espressione da lui forgiata per definire lo strumento politico diretto sia a educare i mauvais citoyens sia ad eliminare (fisicamente) i nemici della Nazione, in vista dell’instaurazione della democrazia. Esaminando le specifiche posizioni di Maximilien de Robespierre e di Louis-Antoine-Léon Saint-Just, la Passetti non manca di evidenziare che l’eredità maratiana viene accolta e radicalizzata dalla politica terroristico-rivoluzionaria dei mesi precedenti il 9 Termidoro.

16. Nelle opere di Benjamin Constant, l’applicazione della categoria del dispotismo alle realtà costituzionali antiche e recenti assume caratteri non univoci. Semplificando, si può osservare che, da un lato, egli si rifà alle tesi montesquieuiane per mettere in luce le peculiarità della forma di governo autoritaria diffusa in Oriente, antitetica ai regimi moderati d’Europa; dall’altro, utilizza la categoria allo scopo d’indicare, in generale, un qualsiasi potere arbitrario, cioè illegittimo. Nella seconda accezione, il Losannese mostra di reputare despoti sia i governanti che non possiedono un titolo fondato sulla volontà generale sia coloro che esercitano il potere intaccando i diritti dell’individuo. Nei Principes de politique (1806-10), inoltre, Constant asserisce che il tratto più tipico del dispotismo è la confusione tra potere neutro e potere esecutivo, in quanto ciò implica il venir meno della facoltà di giudizio politico; di qui, la sua accesa polemica contro la monarchia d’ancien régime e la Francia del periodo napoleonico.
Ma originale e ancor più interessante è la distinzione che egli introduce – sempre nei Principes de politique – tra due generi di dispotismo, definiti da Giovanni Paoletti (“Benjamin Constant e il ‘dispotismo dei moderni’”) l’uno “diretto”, nel caso chi governa ricorra alla forza con sistematicità e ostenti disinteresse per i diritti individuali, e l’altro “indiretto”, “che accampa invece delle pretese di legittimità, si presenta (o si crede) investito del consenso della volontà generale, di norma per via rappresentativa, avvalendosi di questo titolo per esercitare un’autorità illimitata, non necessariamente priva di buone intenzioni” (tomo II, p. 452). A motivo del suo carattere subdolo e quasi impercettibile, nonché per l’avilissement che suscita, la variante indiretta del dispotismo è la forma di governo più oppressiva e terribile; secondo Constant, trattasi di un fenomeno storico nuovo, incarnato dalla Francia post-rivoluzionaria.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel affronta il tema del dispotismo in tutte le sue opere maggiori. In particolare, sottolineano nella loro indagine Giorgio Bongiovanni e Antonino Rotolo (“Hegel e lo spirito del dispotismo”), è possibile riconoscere tre differenti livelli in cui questa nozione assume una capitale rilevanza nell’ambito del suo pensiero filosofico. In primo luogo, l’autore tedesco indugia sul dispotismo allorché tratta della tipologia delle forme di governo, dal punto di vista sia descrittivo sia assiologico; i debiti che, in questo ambito, egli contrae con Montesquieu sono manifesti. In secondo luogo, il dispotismo entra in gioco nella sua ridefinizione delle categorie del politico, compiuta a partire dalla riflessione precedente, soprattutto giusnaturalistica. Infine, lo Stato dispotico viene ad incarnare la prima fase della storia universale. Riguardo a ciascuno di questi piani, Bongiovanni e Rotolo si prodigano in analisi e delucidazioni volte anche a scoprire un eventuale elemento comune fra le tre dimensioni hegeliane del dispotismo.

17. In “Alexis de Tocqueville e il dispotismo di ‘nuova specie’”, Cristina Cassina studia la forma di despotisme (o tyrannie) che il pensatore normanno vede allignare nella Francia del suo tempo. Fondata sul sacrificio della libertà politica che consegue allo smodato desiderio di uguaglianza, i cui primi preoccupanti segnali gli sembrano potersi già rintracciare durante l’ancien régime, questa chose nouvelle è, secondo Tocqueville, un governo certo privo dei caratteri violenti tipici dei regimi autoritari del passato ma pur sempre traboccante di aspetti disumani, riconducibili alle prevaricazioni di un “pouvoir immense et tutélaire” che, promuovendo le passioni individuali (come la brama del guadagno e la ricerca dei piaceri materiali), ambisce ad indurre il popolo all’apatia politica, alla timidezza e alla mera industriosità.
Per ostacolare questa deriva dispotica di ‘nuova specie’, caratterizzata – sul terreno istituzionale – dall’accentramento politico e amministrativo, come pure – a livello sociale – dal riflusso nel privato a danno dell’amor di patria e dei valori collettivi, dall’uniformità dei gusti e delle mœurs, Tocqueville incita a difendere tre istituti diventati poi tipici delle democrazie: la libertà di stampa e di associazione, l’autonomia del potere giudiziario, il rispetto delle “forme” e dei diritti particolari.
Sebbene J.S. Mill in svariate occasioni non manchi di focalizzare la sua attenzione sulle società asiatiche, che considera arretrate, stagnanti, oppressive e basate sulla proprietà della terra da parte dello Stato – in una parola, “dispotiche” –, è nondimeno la realtà occidentale a costituire il fulcro dei suoi interessi. Nel saggio “Figure del dispotismo in John Stuart Mill”, di cui sono autori Anselmo Cassani (“Il dispotismo negli scritti e nei discorsi del giovane Mill”) e Nadia Urbinati (“Il dispotismo nel pensiero politico e sociale del Mill maturo”), viene messo in risalto che la categoria del dispotismo è applicata dal filosofo inglese anche alle relazioni private, sociali ed economiche del mondo occidentale, là dove esse non si fondino sulla simpatia, sulla cooperazione e sulla libertà. In tale contesto, egli si riferisce a dispotismi d’opinione e di tipo capitalistico, politico e domestico, scorgendo come fattore unificante il difetto del consenso, che si specifica nell’arbitrarietà di chi comanda e nell’esclusione di chi ubbidisce dalla partecipazione e dal controllo delle decisioni.

18. Già dagli scritti giovanili, il concetto di dispotismo viene adottato in un’accezione polemicamente generica nell’ambito della battaglia intrapresa da Mill a favore della riforma parlamentare e contro il governo britannico, ritenuto espressione degli interessi di una minoranza ristretta. Ma è solo nel periodo maturo che egli approfondisce le sue concezioni, giungendo a opporre lo Stato “libero” (cioè rappresentativo) alla nascente pedantocracy. In quest’ultima, contrassegnata dal potere dei funzionari pubblici, Mill individua la forma di dispotismo tipica dei tempi moderni, vale a dire l’amministrazione esecutiva da parte di un’aristocrazia di burocrati aspirante a sostituire la politica e a scoraggiare l’intervento alle deliberazioni collettive da parte di chi non è ‘specialista’.
A partire dal 1853, Karl Marx intraprende lo studio della forma di governo orientale e arriva subito alla conclusione che si tratti di società stazionarie e dispotiche, in quanto gli paiono caratterizzate da una condizione di schiavitù generalizzata e dall’assenza della proprietà privata: ciò rende unico e vero padrone il sovrano, che – di conseguenza – è da ritenersi il possessore esclusivo del prodotto della terra. Nel clima caldo, nella dispersione della popolazione su tutto il territorio del Paese e nel sistema di villaggi autosufficienti Marx individua i caratteri che originano e perpetuano il dispotismo; da questi elementi e dalla presenza di un’agricoltura condizionata da grandi lavori pubblici, egli inferisce l’esistenza di un peculiare modo di produzione asiatico.
Negli ultimi anni, Marx, affascinato dal caso della Russia, rivaluta il ruolo della comune agricola (l’obščina), dapprima giudicata ostacolo insormontabile allo sviluppo, ma poi vista come punto di appoggio della futura rigenerazione sociale.
A tali questioni dedica il proprio saggio Silvano Sportelli (“Forma di produzione asiatica e dispotismo orientale in Karl Marx”), che non manca di prendere in esame anche il contributo al dibattito offerto da Friedrich Engels, le cui posizioni non sempre risultano collimanti con quelle marxiane.

19. In “Dispotismo e comunismo: Il dispotismo orientale di Karl August Wittfogel”, Manlio Iofrida analizza le tesi che l’autore tedesco-americano formula intorno alla società asiatica tanto prima di abbandonare il movimento comunista (posizioni compendiate in un articolo del 1938) quanto in seguito (come si riscontra soprattutto nel celeberrimo libro del 1957, menzionato nel titolo del presente saggio critico).
La ripresa del tema marxiano del “modo di produzione asiatico” e lo studio dello specifico caso cinese conducono il giovane Wittfogel a reputare inevitabile, o quasi, l’instaurazione di un’autorità politica forte, congiunta a un’efficiente e razionale burocrazia, nei luoghi in cui determinate condizioni ambientali impongono un’agricoltura essenzialmente basata sull’irrigazione artificiale di vasti territori. È sua convinzione che, fin dai tempi più remoti, prosperi in Cina un tipo di economia “manageriale”, fondato sulla divisione e sulla cooperazione del lavoro ottenute attraverso una direzione unica che giammai lesina il ricorso alla violenza sistematica e che sovrintende alla costruzione di opere idrauliche colossali.
Mentre per il primo Wittfogel, che non sfugge completamente al determinismo positivistico proprio di un certo marxismo, i regimi dispotici sono da considerarsi “naturali” in ben precise aree del mondo, il suo ripudio del comunismo – concretizzatosi negli anni a ridosso della Seconda Guerra Mondiale – lo vede condannare recisamente e senz’appello gli Stati asiatici; nella sua strenua difesa dei principi occidentali dell’individualismo e della società aperta, della proprietà privata e della libera impresa, il Wittfogel maturo recupera Montesquieu, intendendolo come il più acuto critico del dispotismo e, al medesimo tempo, come il massimo teorico dell’equilibrio liberale dei poteri.
Nella seconda fase del suo pensiero, la categoria del dispotismo orientale diviene più che altro uno strumento di lotta politica, rivolto a mettere in guardia l’Occidente contro la fisionomia ‘totale’ del comunismo del XX secolo, che egli ritiene capace di esercitare un controllo sia sociale sia intellettuale di ampiezza ed efficacia formidabili, in questo sormontando perfino l’entità delle prevaricazioni liberticide tipiche dei regimi agrari centralizzati delle epoche precedenti.
In Oriental Despotism è in realtà la Russia sovietica, più che la Cina, “il protagonista nascosto della trattazione di Wittfogel” (tomo II, p. 617). Osserva Iofrida, a mo’ di sintesi, che lo stalinismo viene da lui “visto come forma moderna del dispotismo orientale, versione «industrial-manageriale» di esso e perciò tanto più totale ed oppressiva. In sostanza l’esperienza comunista, secondo un modello che avrà una lunga storia e un grande successo, è vista come l’esito della linea di sviluppo storico tipica dell’Oriente idraulico, linea alla quale si contrappone quella feudal-liberal-capitalistica percorsa dall’Occidente” (tomo II, pp. 618-619).

20. Nella costruzione del tipo ideale di regime totalitario effettuata da H. Arendt è possibile leggere una sorta di metamorfosi aggravata della forma dispotica descritta nell’Esprit des lois. Argomentando questa sua tesi nel saggio intitolato “Dal dispotismo al totalitarismo: Hannah Arendt”, Thomas Casadei mette in evidenza come l’Autrice individui nel terrore la natura del totalitarismo e nell’ideologia il suo principio di movimento.
Unica forma di sapere ammessa, l’ideologia provoca la mobilitazione permanente degli individui ed è il mezzo di cui si serve il capo totalitario, visto come l’infallibile conoscitore di verità superiori, per plasmare l’uomo nuovo. Nel perseguimento di questo prioritario obiettivo interviene anche il terrore, che aiuta a tradurre in realtà il mondo fittizio dell’ideologia e che, sostituendosi al diritto positivo, assume il ruolo di strumento ordinario con cui governare. Il terrore, illimitato, condanna gli uomini all’arbitrarietà e all’insicurezza più estreme, così da promuovere la realizzazione di quella law of movement che, per la Arendt, è uno dei tratti distintivi di questo tipo, specificamente novecentesco, di regime.
L’Autrice sottolinea come il dominio totale politico venga ottenuto e salvaguardato debellando l’individuo inteso quale essere autonomo e responsabile, deliberante e relazionale. Instauratosi un rapporto di fusione privo di intermediazioni tra il leader e la folla irriflessiva, prorompono logiche plebiscitarie: l’urlo d’approvazione della massa entusiasta viene indotto dalle parole pronunciate, con tono profetico, dal capo. Come si riscontra, l’agire politico plurale è spazzato via; la personalità degli individui, annullata. Gli uomini si riducono a creature asservite nell’animo e isolate, prive di coscienza e diritti. All’espressione di giudizi personali e al pubblico dibattito subentra la dinamica dei riflessi condizionati, cioè la risposta impulsiva a meri stimoli, culminante nell’urlo dell’individuo-massa.
L’abolizione del settore pubblico e delle capacità politiche degli uomini viene a coincidere con l’imperio della violenza muta e del senso dello sradicamento, dell’estraniazione e della superfluità dell’individuo. Secondo la Arendt, la disumanizzazione e “la smania di moto perpetuo” insite nel totalitarismo trovano la propria apoteosi nella realizzazione dei campi di sterminio: il regime totalitario, infatti, lungi dall’esaurirsi nell’unione di cadaveri di cui parla Montesquieu (a proposito del dispotismo) nelle Considérations sur les Romains (cap. IX), acquisisce anche la sinistra fisionomia di un mondo di morenti, poiché nei Lager è possibile discernere l’aspirazione paradossale a mettere in movimento, a ‘prolungare’ la morte stessa.

[1] Il primo tentativo di analisi diacronica del concetto di dispotismo, così come è stato forgiato e impiegato nella storia del pensiero occidentale, è rinvenibile nell’articolo di R. KOEBNER, “Despot and Despotism: Vicissitudes of a Political Term”, Journal of the Warburg and Courtald Institutes, XIV, 1951, pp. 275-302, nel quale l’analisi si arresta all’alba del XVIII secolo. A questo studio pionieristico sono seguiti, di lì a poco, lavori orientati ad esaminare singoli autori o momenti storici circoscritti (in prevalenza: l’antica Grecia, le filiazioni ideali del pensiero aristotelico e il dibattito filosofico che caratterizzò la Francia dell’Età dei Lumi). Tra le prime pubblicazioni in ordine cronologico, si segnalano: S. STELLING-MICHAUD, “Le mythe du despotisme oriental”, Schweizer Beiträge zur allgemeinen Geschichte, XVIII-XIX, 1960-61, pp. 328-346, sul Sei-Settecento francese; F. VENTURI, “Despotismo orientale”, Rivista storica italiana, LXII, 1960, pp. 117-126, incentrato su autori francesi del XVIII secolo; R. DERATHÉ, “Les philosophes et le despotisme”, in AA.VV., Utopie et institutions au XVIIIe siècle. Le pragmatisme des Lumiéres, Paris-La Haye, Mouton, 1963, pp. 57-75. Per incontrare prospettive d’indagine più ampie e diacroniche intorno al concetto di dispotismo nella storia, si è dovuto attendere le seguenti “voci” di dizionario: G. BIEN, U. DIERSE, J. WINCKELMANN, “Despotie, Despotismus”, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1972, II, coll. 132-146; M. RICHTER, “Despotism”, in Dictionary of the History of Ideas, a cura di P.P. Wiener, New York, Ch. Scribner’s Sons, 1973, II, pp. 1-18; N. BOBBIO, “Dispotismo”, in N. Bobbio, N. Matteucci, Gf. Pasquino, diretto da, Dizionario di politica, Torino, TEA, 1990 [UTET, 1976 e 1983²], pp. 320-327 (ma cfr. anche N. BOBBIO, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Torino, Giappichelli, 1976, passim).

[2] Oresme è il primo a introdurre nella lingua francese il termine despotique, al posto del vocabolo greco latinizzato despoticus, come testimoniano le sue volgarizzazioni dell’Etica nicomachea e della Politica, databili intorno al 1370, ma pubblicate a distanza di oltre un secolo: Le livre des éthiques d’Aristote e Le livre de politiques d’Aristote, Paris, Vérard, 1488 e 1489.

[3] Intorno a Savonarola, per ciò che riguarda il presente settore analitico, si dovrebbe fare i conti con una miriade di temi e motivi irradiantisi tanto dall’esistenza (occasionale ma significativa) nelle sue parole di accenni all’Oriente e alle genti levantine, quanto – soprattutto – dalle riflessioni sulle forme tiranniche di governo e sulla concreta renovatio di Firenze. Su tali questioni, mi permetto di rinviare a P. VENTURELLI, “Per una città umana. Savonarola ovvero Mosè a Firenze”, in Th. Casadei, a cura di, Esodo, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1999, pp. 78-98, utile anche per i riferimenti bibliografici ivi segnalati, ai quali è opportuno aggiungere: R. CAVALLUZZI, “Procedure della secolarizzazione: intellettuali e Stato nella ‘crisi italiana’. Savonarola”, Lavoro critico, fasc. 31-32, 1984, pp. 149-172; M. D’ADDIO, “Il Tirannicidio”, in Storia delle idee politiche economiche sociali, diretta da L. Firpo, III, Torino, UTET, 1987, pp. 511-609: 534-538; M. CALEO, Machiavelli discepolo ideale di Savonarola, Rimini, Il Cerchio, 1998; M. CACCIARI, “Inimicizia fraterna. Teologia e politica in Savonarola”, Micromega, n. 4, 1998, pp. 225-238; AA.VV., Girolamo Savonarola. L’uomo e il frate, Atti del XXXV Convegno storico internazionale di Todi (11-14 ottobre 1998), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1999 (specie il contributo di M. Martelli); G. CADONI, “Savonarola, Machiavelli, Guicciardini in una recente ipotesi interpretativa”, La Cultura, XXXVII, n. 3, 1999, pp. 493-496; Id., “Qualche osservazione su Machiavelli e Savonarola”, La Cultura, XXXVIII, n. 2, 2000, pp. 263-278.

[4] L’aggettivo seigneurial è il vocabolo usato da Loys Le Roy per rendere il greco despotikos nella traduzione francese del testo classico dello Stagirita: Les Politiques d’Aristote, Paris, de Vascosan, 1568. Di poco successiva è la prima edizione del capolavoro di Bodin, Les six livres de la République, Paris, Du Puys, 1576.

[5] Bodin parla in termini recisamente negativi sia del tyrannus ex defectu tituli sia del tyrannus ex parte exercitii, e nondimeno pone una precisa distinzione: atto insensato sarebbe sollevarsi contro chi non è usurpatore, ossia contro chi può vantare una legittima autorità; al contrario, egli considera possibile – e anzi doverosa – la resistenza attiva organizzata ai danni del sovrano che non sia legittimamente riconosciuto. Ma soltanto all’inizio chi è privo di titolo viene considerato alla stregua di un suddito ribelle contro cui reagire: se costui riesce a dar vita a un dominio personale che ha un corso continuo e se la sovranità del precedente signore non viene rivendicata, il nuovo potere instaurato dall’usurpatore col tempo diventa, secondo Bodin, legittimo.

[6] La Lalatta Costerbosa rileva come il concetto di dispotismo, inteso in questo secondo significato di dominio “transitorio”, risulti mutuato da Bodin, per il quale fondamento del potere dispotico è la conquista che segue una guerra giusta (cfr. Les six livres de la République, II, 2); del resto, anche Hobbes fonda il regno dispotico sulla conquista, pur eliminando qualsiasi riferimento alla guerra giusta (cfr. Leviathan, XX).

[7] Nota Capitani che, nel pensiero dei fisiocrati, il concetto di évidence e le sue implicazioni teoriche risentono di considerevoli influssi malebranchiani, come apparirebbe soprattutto nella voce “Évidence” redatta da Quesnay per il volume VI dell’Encyclopédie (1756). Peraltro, non è improbabile che lo stesso Montesquieu, definendo le leggi in generale come “i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose” (De l’esprit des lois, I, 1), abbia in mente al riguardo le concezioni di Malebranche, forse filtrate attraverso le opere di Samuel Clarke: su tali aspetti del pensiero montesquieuiano si è soffermato Robert Derathé in MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, 2 tt., introduction, chronologie, bibliographie, relevé de variantes et notes par R. Derathé, Paris, Garnier, 1973, I, pp. 414-415, nota 3; trad. it., Lo spirito delle leggi, 2 voll., prefazione di G. Macchia, Milano, BUR, 1989, I, pp. 497-498, nota 3. Vedi, inoltre, GB. GORI, “Nicolas Malebranche”, in Storia della filosofia, diretta da M. Dal Pra, Milano, Vallardi, VII, p. 646, dove si afferma: “Montesquieu troverà nel principio malebranchiano «dei diversi rapporti che le leggi possono avere con le diverse cose» il concetto fondamentale dell’«esprit des lois».”