1. La ponderosa opera in questione offre un puntuale resoconto
critico dei momenti più significativi della fertile storia di cui
è protagonista il concetto di dispotismo.[1]
La collaborazione di ventisei studiosi, coordinati da Domenico Felice,
ha consentito l’esame scrupoloso, con prospettive ed esiti differenti,
delle molteplici accezioni che questa basilare categoria filosofico-politica
ha di volta in volta assunto. In generale, è possibile distinguere
due modalità fondamentali di applicazione del termine dispotismo
nell’ambito dei testi degli autori considerati nell’opera:
un uso analitico, che dimostra il desiderio di non escludere dall’indagine
e dalla comprensione le realtà socio-politiche extraeuropee, specialmente
asiatiche; e un carattere ideologico, che è invece proprio sia
delle considerazioni in cui la qualifica di “dispotico” viene
attribuita a governi occidentali oppressivi - con l’esplicito intento
di stigmatizzarne l’arbitrarietà – sia della difesa
di visioni eurocentriche della storia umana (piani polemici, questi ultimi,
che tendono peraltro sovente a confondersi).
L’impiego del termine despota e dei suoi derivati, dopo una
larga diffusione a partire almeno dal IV secolo a.C., diviene abbastanza
raro nella Tarda Antichità, per poi scomparire o quasi nel millennio
medioevale e nella prima Età Moderna; nel frattempo, è andato
declinando pure l’interesse per il governo monocratico orientale
nella sua specificità ‘scientifica’, al punto che si
tende ad assimilarlo alla “tirannide”. Il vocabolo dispotico
comincia a riapparire nella vita pubblica francese della metà del
XVII secolo, durante la “guerra dei pamphlets” della
Fronda, e nel Settecento si vive l’acme storico del dibattito intellettuale
intorno al concetto in questione. Fattosi occasionale dal terzo quarto
dell’Ottocento, l’uso della categoria del dispotismo orientale
torna per qualche tempo in auge grazie al famoso libro pubblicato da Karl
A. Wittfogel nel 1957, dal titolo emblematico Oriental Despotism.
Com’è noto, le origini della nozione politica di dispotismo
vanno ricercate nella Grecia classica. Spetta ad Aristotele, in particolare,
l’opera di sistematizzazione teoretica e storica del concetto nella
Politica. Portavoce di un patrimonio di topoi nel IV secolo
a.C. ormai ben consolidati, egli inasprisce talune tendenze del pensiero
politico antico e fa della contrapposizione tra Greci e Persiani, tra
eleutheria ellenica e douleia orientale, una questione ‘scientifica’,
che investe anche l’analisi delle forme di potere. “Dispotismo
e politica in Aristotele”, saggio di M. Paola Mittica e Silvia Vida,
rende conto delle teorizzazioni dello Stagirita in materia.
2. Nel descrivere la relazione tra padrone (despotes) e schiavo
(doulos), Aristotele sottolinea che, mentre il primo è in
grado di autogovernarsi possedendo la capacità intellettuale di
dettare regole, il secondo sa unicamente obbedire agli ordini ed esiste
per la realizzazione di fini altrui; per questa ragione, si deve riconoscere
l’esistenza di servi “per natura”. L’autorità
esercitata dal despotes sugli schiavi prende il nome di despoteia
e risulta conveniente ad entrambe le parti: piegandosi al volere del padrone,
il servo persegue allo stesso tempo anche il proprio interesse. Il rapporto
schiavo-padrone appare ad Aristotele conforme a natura, utile e necessario
all’interno sia della comunità familiare (oikos) sia
del mondo “barbarico”, ma affatto ingiusto in ambito politico.
Siccome la polis è formata di uomini liberi e uguali, il
rapporto padronale non può esservi contemplato, tanto che è
innaturale, “deviata”, qualsiasi costituzione che non si fondi
su legami orizzontali fra i cittadini e che pretenda di tutelare gli interessi
esclusivi di chi governa. Nondimeno, rileva Aristotele, la despoteia
si configura come una forma di governo vera e propria solo quando
si esercita su “barbari”: in questo caso, essa è giusta,
retta; anzi, i popoli servili “per natura” vi ravvisano l’unica
costituzione autenticamente legittima (kata nomon). Ed è
l’Asia il luogo ove prosperano le monarchie padronali, perché
i popoli colà “hanno natura intelligente e capacità
nelle arti, ma sono privi di coraggio per cui vivono continuamente soggetti
e in schiavitù”, mentre la stirpe degli Elleni, occupando
una posizione mediana fra le genti orientali (da una parte) e quelle ardimentose,
dotate però d’ingegno fiacco, abitanti le regioni nordiche
ed europee (dall’altra), “partecipa del carattere di entrambi”
e “quindi vive continuamente libera”.
Se alla Politica affianchiamo il Frammento 685 Rose e la
Lettera di Aristotele ad Alessandro, “Sulla politica verso le
città”, si rafforza l’impressione che, alla base
della netta e talora violentissima opposizione tra Elleni e “barbari”
instaurata dallo Stagirita, covi uno spirito di vendetta nei confronti
dei Persiani. Egli sembra pretendere che la Grecia unifichi il mondo non
tanto esportando costituzioni idonee al mondo libero quanto piuttosto
rispettando le “naturali” modalità autoctone di governo:
ai danni dei nemici programma, quindi, il medesimo trattamento che costoro
hanno riservato alle poleis nel recente passato. Aristotele e il
mondo ellenico tutto ripongono le proprie speranze nel conquistatore Alessandro
Magno, che però tradisce le attese contaminando civiltà
differenti e divenendo a sua volta un potente quanto effimero despota
orientale.
3. In età ellenistico-romana si attenua l’asprezza di toni
assunta dall’ormai radicato giudizio negativo sui “barbari”,
cui ha concorso in maniera determinante la Politica di Aristotele,
e si affaccia una certa disposizione a comprendere identità, cultura
e istituzioni degli altri popoli. Eppure gli storici e la propaganda non
esitano a colpire anche duramente l’erede dell’Impero degli
Achemenidi, la Persia sassanide, i cui sovrani sono accusati di effrenata
barbaries, giacché non possono contare su alcuna forma di paideia;
ad un governo fondato sul puro arbitrio, si oppone un governo delle leggi
sull’esempio di quello vigente a Roma, ritenuto l’unico capace
di garantire l’eleutheria. Condannare le genti “barbare”
significa, per gli uomini colti d’epoca ellenistico-romana, non
solo preoccuparsi di cementare l’identità collettiva mediante
l’ispirazione di un senso di superiorità che generi patriottismo
e ardimento, ma anche criticare nella forma di governo e nei costumi della
Persia sassanide abusi similari allignanti nell’Impero romano, suscitando
così inquietudine e riflessioni intorno alla non impossibile degenerazione
grave del potere monarchico. Su tali questioni si sofferma Umberto Roberto
nel suo contributo dal titolo “Immagini del dispotismo: la Persia
sassanide nella rappresentazione della cultura ellenistico-romana da Costantino
a Eraclio (306-641 d.C.)”.
Ne “Il principatus despoticus nell’aristotelismo bassomedievale”,
Claudio Fiocchi e Stefano Simonetta prendono in esame l’influenza
esercitata dalla Politica sul pensiero collocato cronologicamente
fra la prima traduzione latina integrale dell’opera (offerta da
Guglielmo di Moerbeke dopo il 1260) e il commento, posteriore di un secolo,
che ne dà Nicole Oresme.
Finalmente a disposizione dei dotti europei, che lo attendono con ansia
nella speranza che vi si possa rintracciare una scientia civitatis
di tipo deduttivo, il testo aristotelico, almeno ad un esame iniziale,
genera tuttavia una disillusione cocente, in quanto esso, “più
che offrire un canone di scientificità rigorosa in grado di dare
risposte certe, [pone] una serie di problemi, lasciandoli insoluti”
(tomo I, p. 73). Peraltro, i lettori sono ben presto stimolati ad affrontare
il gran numero di questioni rimaste aperte e irrisolte; grazie a queste
sue ‘ambiguità’, la Politica diviene il punto
di partenza di approfondimenti e riflessioni di diverso genere, essendo
chiamata in causa l’autorità indiscussa dello Stagirita per
suffragare tesi anche lontane fra di loro: ciò concorre alla singolare
‘fortuna’ che l’opera conosce nel Tardo Medioevo, e
lascia in dote a generazioni di commentatori e di teorici della politica
un dovizioso bagaglio linguistico e concettuale da cui trae linfa
la ricerca di interpretazioni, che si vogliono sempre più esaurienti,
della realtà dell’Occidente cristiano.
4. A giudizio di Fiocchi e Simonetta, lo studio della Politica
non viene a produrre una svolta decisiva nel modo di concepire la società
e il suo governo, anche se innegabilmente contribuisce ad ampliare lo
spettro di fonti e tradizioni che caratterizzano il composito patrimonio
di conoscenze bassomedioevali. Alla lettura dell’opera, i teorici
politici si accorgono che Aristotele espone una vasta collezione di problemi
sui quali essi non hanno mai avuto occasione di confrontarsi, dall’idea
della civitas come necessità naturale (e non più
come male inevitabile) alla possibilità di analizzare scientificamente
la vita delle diverse tipologie di associazione e alla teoria delle forme
costituzionali rette e deviate. Le considerazioni svolte dal filosofo
greco su quest’ultimo punto, la tematizzazione di forme costituzionali
pure e corrotte, promuovono l’avvio del dibattito sul migliore governo
(laddove, in precedenza, vigeva indiscusso il monopolio del regnum),
chiamando fra l’altro in causa il concetto di “servitù
naturale”, un elemento del tutto estraneo alla tradizione cristiana,
che attribuisce invece l’universale servitus dell’uomo
agli effetti del Peccato Originale; così come, di conseguenza,
inedita appare ai teorici bassomedioevali la descrizione di una monarchia
“dispotica” conforme a genti non libere, inclini “per
natura” ad accettare una forma di governo retta sulla relazione
tra padrone e schiavo.
Nel suo commento alla Politica, Tommaso dimostra di aderire alla
prospettiva aristotelica e ribadisce la distinzione tra il principatus
politicus, tipico degli uomini nati liberi, e il principatus despoticus,
inevitabile nel mondo “barbarico”. Il commento in questione,
interrottosi al capitolo 6 del libro III, viene proseguito da un autore
di orientamento analogo a quello di Tommaso, Pietro d’Alvernia,
il quale chiarisce che il principatus despoticus non è altro
che un principatus dominativus, vale a dire una forma di monarchia
nella quale il padrone (dominus) governa i sudditi come se fossero
suoi schiavi, e questa condizione di servitù viene sopportata dal
popolo sine tristitia, a causa della sua tendenza innata alla docile
sottomissione.
Mentre nel libro I e nella parte iniziale del II del De regimine principum,
scritti molto probabilmente da Tommaso, non si tocca il tema del dispotismo,
nella sezione dell’opera stesa da Tolomeo da Lucca si accetta la
distinzione fra governo politico e governo dispotico, sottolineando che
la diversità di natura esistente fra i popoli è dovuta alla
posizione della terra e delle costellazioni, da cui deriverebbe che in
Oriente risulta maggiormente radicato lo spirito servile.
5. Tuttavia, anche nel mondo latino non è impossibile l’instaurazione
di un governo coercitivo immoderato (da Tolomeo definito talvolta, indifferentemente,
“dispotico” o “tirannico”), come dimostrano i
casi di alcune aree mediterranee (Sicilia, Sardegna, Corsica, Cipro, isole
greche); secondo il commentatore lucchese, ciò è dovuto
al piano della giustizia divina, teso a punire il popolo peccatore che
si è abbandonato al vizio.
Nel Defensor pacis (1324), Marsilio affianca al significato propriamente
aristotelico di “dispotismo” un’accezione più
generica, indicante un qualsiasi governo arbitrario, che pertanto potrebbe
instaurarsi anche lontano dall’Oriente, entro il novero dei popoli
non servili. In questo secondo senso, la categoria di despotia
viene utilizzata dal magister padovano per segnalare il rischio
che grava sulle comunità in cui chi è preposto al governo
non si assoggetti al legislativo, appunto come risulta “essere
accaduto ad alcuni vescovi romani”. In Marsilio, dunque, il lessico
e i modelli interpretativi aristotelici sono impiegati sovente in chiave
polemica allo scopo di demolire le coeve pretese curialiste e di condannare
quella dottrina della plenitudo potestatis papale che egli giudica
la fonte primaria della discordia civile europea del suo tempo.
Cospicua è l’attenzione che Nicole Oresme palesa intorno
al tema del dispotismo nell’ambito del suo commento alla Politica,
di cui egli esegue anche la traduzione francese.[2]
Contrapponendo la monarchia alle altre forme di governo, Oresme accetta
molte delle tesi aristoteliche, non esitando però occasionalmente
a scostarvisi, come nel caso in cui viene a giudicare il princey
despotique, appropriato ai popoli servili incapaci di costituire
una vera comunità politica, la sola forma di governo finalizzata
al bene personale dei prìncipi e non dei governati. La tendenza
a confondere la specifica fisionomia della tirannide con quella del dispotismo
è particolarmente funzionale alle mire politico-ideologiche di
Oresme, il quale si fa banditore di un tipo di monarchia moderata che
subordini il re al regno considerato nel suo insieme e che preveda l’intervento
nell’opera di governo di un consiglio di saggi. Inoltre, degna d’attenzione
è la sua tesi secondo cui le plus grant princey seguirebbe
nel tempo un movimento da Sud-Est a Nord-Ovest. Questa translatio
maiestatis, che egli ritiene collegata alla progressiva decadenza
del mondo, si sarebbe originata in Persia e avrebbe fatto tappa via via
in Grecia, a Roma e infine – ai suoi tempi – in Francia. Oresme
attribuisce il passaggio della majesté dalle regioni orientali
a quelle occidentali a tre diversi fattori, sui quali interverrebbe liberamente
la volontà di Dio: il mutare del clima, della morfologia del territorio,
delle influenze astrali.
6. Nel contributo “Niccolò Machiavelli e la «monarchia
del Turco»”, Giorgio E.M. Scichilone evidenzia come lo scrittore
fiorentino, distinguendo con nettezza le forme monocratiche presenti in
Francia e in Turchia, non faccia altro che perpetuare la dicotomia categoriale
tra monarchia europea e dispotismo orientale. Analogamente alle consuetudini
lessicali dei contemporanei, tuttavia, Machiavelli non impiega mai il
termine despota e i suoi derivati; questo appunto vale anche per
Savonarola ed Erasmo, le cui rispettive posizioni intorno alla “tirannia”
sono sintetizzate da Scichilone: entrambi gli autori tendono a ‘caricare’
il concetto anche di una serie di specificazioni più propriamente
riconducibili alla despotike arche codificata ‘scientificamente’
da Aristotele[3].
Machiavelli individua nel regno di Francia e nella “monarchia del
Turco” la pressoché perfetta incarnazione, ai suoi giorni,
di quelli che reputa i due differenti ed eterni modelli di “principato”.
A suo avviso, fondamentale peculiarità del secondo di questi due
governi è vantare un capo che assume la fisionomia del padrone
unico e che, come tale, esercita il suo potere in maniera personalistica
su sudditi ridotti a schiavi privi di qualsivoglia autonomia o tutela;
da considerarsi affatto assente è la legge, mentre gli apparati
militare e amministrativo risultano meri strumenti di dominio a completa
disposizione del signore. Viceversa, Machiavelli ritiene il regno di Francia
improntato alla moderazione, in quanto la legge va a vincolare finanche
l’azione del sovrano ed è in grado di rendere libera e sicura
la monarchia stessa; la presenza di un’aristocrazia costituisce,
poi, un ‘freno’ al potere del re, mentre i parlamenti assicurano
la giustizia, fungendo da autorità super partes nei contrasti
sociali. Questo equilibrato assetto costituzionale porta Machiavelli ad
accostare la monarchia francese alla repubblica romana, a suo giudizio
– com’è noto – mirabile esempio di governo misto
capace di garantire la libertà e, insieme, di resistere alla corruzione
del tempo. Non si fatica, perciò, a rinvenire nel regno di Francia
del tempo una forma di governo assai prossima all’ideale politico
di Machiavelli.
7. Anche Bodin non adotta né il termine despota né
i suoi derivati. Margherita Isnardi Parente, nel saggio intitolato “Signoria
e tirannide nella «République» di Jean Bodin”,
chiarisce che il concetto di despotike arche è indicato
dallo scrittore francese mediante la locuzione monarchie seigneuriale.[4]
In particolare, egli definisce monarchie seigneuriale la tipologia
di governo dell’uno avente carattere padronale, cioè la monarchia
caratterizzata da un esercizio del potere personale nella sfera del diritto
pubblico, e che meglio si adatta, a suo avviso, allo spirito “contemplativo”
e “molle” dei popoli meridionali e orientali. Lontana progenitrice
della monarchie royale, più evoluta, la monarchie
seigneuriale rappresenta una forma di potere arcaica, in tutto e per
tutto simile al genere di rapporto occorso tra gli elementi della famiglia
originaria da cui è nata la società e nell’ambito
della quale il padre esercitava un potere assoluto su figli e servi; quindi,
essa è contraddistinta da una sovranità mediata dalla legge
e si configura piuttosto come “un tipo di monarchia primitiva a
carattere patriarcale-dispotico, che non conosce la distinzione fra sfera
pubblica e sfera privata, potere politico e potere padronale, demanio
regio o diritti del re sul territorio dello Stato e proprietà privata
del suddito” (tomo I, p. 129).
Secondo Bodin, tracce di questa forma di potere resistono nel sistema
feudale, giacché ancora ai suoi tempi numerosissimi sono i sudditi
non dotati di proprietà privata esclusiva; non per questo, tuttavia,
egli ritiene debba inferirsi l’esistenza di una monarchia integralmente
dispotica nel passato europeo.
Nonostante una delle leggi fondamentali di Dio e della natura, quella
che conferisce a ogni uomo la libertà di disporre della propria
persona e dei propri beni, venga patentemente meno nella monarchie
seigneuriale, quest’ultima si differenzia dalla tirannide poiché
è provvista, limitatamente al piano giuridico, di una sua propria
legittimità, in coerenza con la primitiva natura dell’essere
umano.[5]
8. Nel contributo “Forza e diritto. Il dispotismo nel Secondo
trattato sul governo di John Locke”, Marina Lalatta Costerbosa
esamina le due accezioni in cui il filosofo inglese considera il governo
dispotico. La prima individua o l’usurpazione o la tirannide, entrambe
forme di dominio ingiuste perché contraddistinte dalla presenza
di un potere assoluto e arbitrario, dunque non più politico: dal
momento che la legge lascia posto alla forza, l’affermazione di
un tale potere giustifica, per Locke, il diritto del popolo a resistervi.
Ma il filosofo inglese definisce “dispotica” anche quella
forma di potere che s’instaura in conseguenza di una guerra giusta,
cioè di un conflitto intrapreso per opporsi al nemico che, armi
in pugno, aspira ad intaccare gli altrui diritti fondamentali alla vita,
alla libertà e alla proprietà; il dominio istituito sui
prigionieri catturati nel corso di siffatta guerra giusta si configura
come un momento di transizione durante il quale si provvede alla creazione
di una società politica nuova, che per diventar legittima deve
tuttavia sottostare al consenso della maggioranza: il “diritto”
dispotico, insomma, precede la dichiarazione fiduciaria che sta alla base
del pactum subiectionis.[6]
Davide Monda, nel saggio “Contro un ‘Sole’ dispotico.
Assolutismo e dispotismo nella Francia di Luigi XIV”, concentra
la sua attenzione sull’uso polemico dei termini despote,
despotisme e despotique nella pubblicistica francese collocata
cronologicamente fra la metà del XVII secolo e l’inizio del
XVIII. Come dimostrano scritti e dizionari dell’epoca, i vocaboli
in questione dapprima non sono sembrati assumere valori semantici univoci,
mentre di norma veicolano immagini molto negative i riferimenti ai governi
del Turc (o Grand Seigneur) e del tyran, ma
poi – almeno a partire dalla Revoca dell’Editto di Nantes
(1685) – nella ricca pamphlettistica dell’epoca li si trova
attribuiti sempre più di frequente alla monarchia del Re Sole,
per significare una forma arbitraria di governo, nel cui ambito l’esercizio
del potere avviene alla maniera del Turco, cioè in modo contrario
“à la raison” e “à l’humanité”.
Per questo motivo, Luigi XIV è spesso ribattezzato le Turc français
nei tanti libelli anonimi che in quegli anni circolano clandestinamente
in mezza Europa; ad attaccarlo sono in prevalenza o protestanti o aristocratici:
questi ultimi censurano, in particolare, la sua tendenza ad abolire diritti,
prerogative e privilegi della nobiltà di sangue. Evidentemente,
si tratta di un uso ideologico che sorvola sulle distinzioni aristoteliche
e che anzi, lungi dal riferire il dispotismo alla forma di potere tipica
dei popoli servili, impiega di solito in maniera pressoché sinonimica
espressioni del genere, tutte polemiche nei confronti della monarchia
di Luigi XIV: la tyrannie du Turc, la puissance du Grand Seigneur,
la puissance despotique, il pouvoir despotique, il pouvoir
absolu ecc.
9. Despotique, però, sembra talvolta alludere a qualcosa
di più grave, come si desume dalle parole del libellista Michel
Le Vassor, autore di un celebre pamphlet (uscito anonimo in Olanda
in fascicoli successivi tra l’agosto 1689 e il luglio 1690), dal
titolo Les soupirs de la France esclave, qui aspire aprés la
liberté. La sua polemica, infatti, non è indirizzata
solamente contro il Re Sole, inteso come singolo tiranno che esercita
il potere in modo temerario ed egoistico, bensì anche – e
soprattutto – contro il coevo processo d’instaurazione in
Francia di strutture di potere insidiose e di un vero e proprio sistema
di governo affatto alieno, tipico delle regioni orientali e incompatibile
con la libertà.
Morto Luigi XIV nel 1715, non si arrestano le critiche alle modalità
del suo governo. Esempio mirabile, da questo punto di vista, è
quello offerto dal giovane Montesquieu che, nelle Lettres Persanes
(1721), assimila – a sua volta – la monarchia dell’ormai
defunto Re Sole al dispotismo “alla turca”. Nel suo celebre
romanzo epistolare, egli manifesta un’estrema sfiducia nelle possibilità
del regime monarchico, che vede destinato inevitabilmente a trasformarsi
in un dispotismo iniquo e paralizzante. Solo con l’Esprit des
lois (1748) il barone di La Brède mette in secondo piano la
nozione eminentemente polemica di dispotismo a beneficio dell’introduzione
di una categoria analitica che possa concorrere a dar vita a una ‘sociologia’
universale dei sistemi politici.
Alla presenza di questi interessi ‘scientifici’ nell’ambito
del pensiero dell’autore francese, Domenico Felice dedica il saggio
intitolato “Dispotismo e libertà nell’Esprit des
lois di Montesquieu”. Accostando repubblica (nelle sue varianti
democratica e aristocratica), monarchia e dispotismo, il filosofo di La
Brède propone, nel suo capolavoro, un’inedita tipologia tripartita
delle forme di governo. Osserva Felice che la categoria del dispotismo
viene introdotta da Montesquieu “per interpretare e spiegare, e
quindi includere a pieno titolo nello schema generale delle forme di governo,
anche le realtà socio-politiche extraeuropee, antiche e moderne,
in particolare asiatiche; realtà fino ad allora solo parzialmente
inserite nel campo di studio della scienza politica” (tomo I, p.
192). La distinzione di questi tre tipi primari o fondamentali
avviene in base all’adozione simultanea del criterio descrittivo
del chi governa (il numero delle persone che detengono il supremo
potere) e di quello assiologico del come colui o coloro che detengono
il potere lo esercitano. Il gouvernement despotique si differenzia
dalla monarchia unicamente circa il modo di esercizio del potere
e non in base alla titolarità dello stesso.
10. Indugiando più volte sul modello della monarchia francese,
Montesquieu ha premura di definirlo un buon esempio di governo delle leggi,
dal momento che viene riconosciuta a “pouvoirs intermédiaires,
subordonnés & dépendants”, cioè a forze
politico-sociali (i ceti privilegiati dell’aristocrazia, del clero
e della noblesse de robe dei Parlamenti), la funzione di ‘frenare’
il potere del monarca, impedendo ogni suo atto arbitrario. La natura-struttura
del dispotismo, invece, non è tale da consentirgli di sussistere
grazie a leggi fondamentali capaci di arrestare le prevaricazioni di chi
governa; ma è piuttosto la presenza di un fattore extra-istituzionale
a svolgere un pur esiguo effetto mitigante: la religione. Di conseguenza,
sempre rimanendo sul piano costituzionale, alla tipologia tripartita di
cui sopra si aggiunge una bipartizione dei governi: moderati sono quelli
che, vantando una limitazione reciproca dei poteri (ossia una distribuzione
dei poteri tra le diverse forze sociali), hanno la capacità intrinseca
di produrre libertà politica e di spronare gli uomini all’operosità;
immoderati sono i governi dispotici, nei quali la concentrazione dei poteri
e la strutturale attitudine a negare i valori fondamentali dell’essere
umano mettono in evidenza la loro fisionomia mostruosa e distruttiva,
contrassegnata dalla schiavitù politica e civile dei sudditi, dal
progressivo spopolamento, dalla quasi completa assenza del diritto, dalla
rovina dell’economia e dall’impossibilità dello sviluppo
di un ceto borghese autonomo e dinamico.
Per ciò che concerne il principio del governo dispotico,
viene indicata nella crainte (e talora nella terreur) la
passione umana che più di altre lo fa “muovere”. Tale
stato di ansia o di insicurezza, che collima con l’indomabile senso
di minaccia di distruzione imminente, pervade e isola tutti gli individui,
compreso il despota, avvilendoli fino alla paralisi e precipitandoli nel
regno dell’annichilimento e del silenzio. Da questo punto di vista,
la religione, se da una parte contribuisce a rendere più stabile
il dispotismo, configurandosi alla stregua di una “crainte ajoutée
à la crainte” (anche per evitare castighi ultraterreni, i
sudditi debbono totale obbedienza al despota, capo supremo sia politico
che religioso); dall’altra, secondo Montesquieu, essa è fattore
capace di temperare l’arbitrarietà di questo governo attraverso
una certa umanizzazione del suo principio.
11. Nella terza parte dell’Esprit des lois (libri XIV-XIX)
è ripresentata, fra l’altro, una versione della tradizionale
teoria dei climi: il caldo abbatterebbe il vigore fisico e la forza d’animo,
predisponendo alla schiavitù i popoli di quasi tutta l’Asia,
dell’intera Africa e dell’America tropicale; inoltre, il dispotismo
si adatterebbe “naturalmente” ad estensioni territoriali molto
ampie. Specie in questa parte, acuti rilievi si mescolano a pregiudizi
inveterati e a considerevoli inesattezze geografiche (dovute, non di rado,
alle ancora approssimative conoscenze disponibili in quel periodo).
Sottolineando che il dispotismo è il tipo di governo più
‘semplice’, dato che ogni cosa sottostà al potere “sans
loi & sans régle” del despota, Montesquieu viene a considerarlo
alla portata di tutti e, dunque, come abbastanza agevole da diffondere.
In questi casi, assumendo il concetto in un’accezione più
ampia, egli ritiene che un simile regime insidi anche l’Europa,
in quanto gli uomini dappertutto gli paiono portati a bramare allo stesso
modo il potere e, una volta conquistatolo, ad abusarne. E può attecchire
pure in Occidente, allorché sopraggiunge la “corruzione”
seria del principio dei governi moderati che normalmente vi si sviluppano:
il dispotismo “d’un seul”, l’oligarchia (un “despotisme
de plusieurs” cui gli sembrano protese, nel Settecento, le
piccole repubbliche patrizie italiane), il dispotismo “de tous”
(figlio dell’uguaglianza estrema che può verificarsi in una
democrazia) sono, infatti, governi immoderati, oppressivi e liberticidi,
perché caratterizzati dalla concentrazione dei poteri. Tra le fonti
più temibili di “corruzione” del principio, Montesquieu
dà rilievo particolare al mutamento sensibile della grandezza territoriale
di uno Stato.
L’obiettivo di queste ultime argomentazioni, che possiedono stretti
legami con l’attualità del suo tempo, è duplice: arginare
l’incontrollato desiderio di gloria e, insieme, lo spirito di conquista
dei governanti europei; ammonire i popoli a rafforzare la vigilanza su
coloro che detengono il potere. Come si vede, pure nell’Esprit
des lois non si risparmiano incursioni sul piano polemico, peraltro
assai poco frequenti e che, nel complesso, rivestono un ruolo affatto
secondario a paragone degli sforzi analitici riscontrabili in parecchi
altri luoghi dell’opera.
12. La ‘fortuna’ delle riflessioni sul dispotismo contenute
nell’Esprit des lois si trova ampiamente documentata negli
scritti di intere generazioni di trattatisti politici e di filosofi, ma
non solo. Nicolas-Antoine Boulanger, ad esempio, elaborando, poco prima
di morire, le sue Recherches sur l’origine du despotisme oriental
(pubblicate poi postume nel 1761), dimostra di risentire in maniera significativa
delle tesi di Montesquieu, del quale espressamente esalta la sagacité,
pur nella convinzione che egli abbia attribuito rilevanza soverchia ai
fattori climatici. Allo scopo di non cadere in quelle che considera imprudenti
forme di determinismo geografico, Boulanger dedica le Recherches
a un attento studio della serie di pregiudizi, degli specifici modelli
educativi e – più in generale – dell’“infinité
de causes morales et politiques” che nel corso del tempo avrebbero
indotto molti popoli ad accettare pronamente il giogo servile imposto
da despoti.
Su tali aspetti richiama l’attenzione il saggio “Teocrazia
e dispotismo in Nicolas-Antoine Boulanger”, nel quale Giovanni Cristani
sottolinea come il naturalista transalpino rinvenga nella forma di governo
dispotica una tappa della storia generale degli errori umani. A giudizio
di Boulanger, il dispotismo discende dalla rovina del primitivo gouvernement
théocratique e suo principio deve considerarsi non già
la crainte, bensì piuttosto lo smarrimento del senso etico-civile
e della naturale dignità dell’uomo, a cui sarebbe riconducibile
la rassegnata accettazione da parte dei popoli degli imperscrutabili ordini
di un potere che si ritiene divino. Sennonché, questa mostruosa
forma di governo è sì particolarmente radicata e diffusa
in Oriente, ma per Boulanger se ne conservano pericolose tracce anche
in Europa. Almeno a partire da questo punto, il suo discorso si sposta
dal terreno analitico a quello ‘militante’; ed è, appunto,
sul piano dell’agire politico che bisogna leggere la sua pesante
critica alla religione, compiuta nell’ambito di un più generale
progetto di secolarizzazione della società e del potere civile.
Auspicare una vita sociale guidata dalla raison significa sostenere
un progrès des connaissances in grado sia di assurgere,
secondo il naturalista, a nuovo movente dell’agire umano sia di
rendere perfetta la monarchia, da lui considerata l’unica forma
di governo “naturale”, spazzando via in questo modo i residui
teocratici, cioè l’idolatria e la trascendenza.
13. In Helvétius riscontriamo molti punti in comune con Boulanger:
dalle finalità prevalentemente polemiche delle sue considerazioni
sul dispotismo alla critica della religione, dall’attenzione mostrata
per il processo storico di formazione delle società umane al valore
attribuito alle causes morales nella ricerca dei fondements
del potere padronale al di fuori della famiglia. Helvétius critica
aspramente i privilegi e le disuguaglianze su cui la monarchia francese
si fonda, elementi che egli è persuaso favoriscano un esercizio
del potere in forme sempre più arbitrarie, e che sembrano preludere
all’instaurazione di un “dispotismo” (sovente, nel suo
lessico, sinonimo di “tirannide”), vale a dire di un governo
assoluto che mortifica la virtù e avvilisce i sudditi. Helvétius
ritiene, perciò, che urga l’intervento di un sovrano illuminato
capace di approntare riforme legislative e educative dirette a preservare
la libertà da ogni sorta di minaccia; da considerarsi particolarmente
temibili sono, a suo giudizio, le pretese dispotiche dell’intollerante
religione cattolica. Allo stesso tempo, tuttavia, come ha cura di sottolineare
Viola Recchia in “Dispotismo, virtù e lusso in Claude-Adrien
Helvétius”, la sua concezione ‘catastrofista’
della storia lo porta a scorgere nel dispotismo l’ultimo stadio
della graduale perdita della libertà; dalle ceneri della civiltà,
comunque, egli si dice convinto che sorgeranno nations sauvages
in grado di avviare una nuova storia che potrà contare, ancora
una volta, su secoli di libertà prima che il genere umano ripiombi
nell’età della decadenza, contrassegnata dall’arbitrio
e dalla schiavitù, dallo spopolamento e dalla desertificazione.
Nel contributo “La morte del corpo politico: il dispotismo di Jean-Jacques
Rousseau”, Edoardo Greblo mostra come, attraverso la contrapposizione
netta fra société bien ordonnée e dispotismo,
il filosofo ginevrino venga a delineare il suo modello di governo della
legge. Le argomentazioni di Rousseau si limitano esclusivamente al piano
polemico e non tengono conto delle distinzioni ‘scientifiche’
operate prima da Aristotele e poi da Montesquieu: egli, infatti, definisce
“dispotica” quella forma di governo che è corrotta
al punto che il sovrano si pone al di sopra delle leggi civili e persegue
i propri interessi privati disdegnando quelli generali della comunità.
Al contrario, laddove si realizza l’alienazione completa dei diritti
e si obbedisce alla volontà generale, la degenerazione del corpo
politico è scongiurata e ogni individuo usufruisce di una libertà
non più naturale ma civile, cosicché la felicità
e la virtù morale possono davvero dirsi alla portata dell’intera
collettività.
14. Ne “I fisiocrati e Mably: tra dispotismo legale
e governo misto”, Pietro Capitani analizza sia le posizioni affini
di François Quesnay e di Pierre-Paul Le Mercier de la Rivière
sia la critica che ad esse muove l’abate di Mably. La teoria fisiocratica
pone accanto al noto e vituperato despotisme arbitraire, un despotisme
légitime (Quesnay) ovvero légal (Mercier), che
consisterebbe in una forma di governo dove il sovrano unico si lascia
guidare dalle vérités évidentes, ricavabili
dall’osservazione che sarebbe possibile compiere dell’ordine
naturale attraverso i lumi della ragione.[7]
Spetta al despota “buono” il compito di promulgare leggi positive
che siano il più possibile conformi alla natura, nella sottintesa
convinzione che sussista un’indiscutibile omogeneità tra
leggi fisiche e leggi morali; per questo motivo, argomentavano i fisiocrati,
sarebbe assurdo imporre dei limiti a siffatto potere “dispotico”,
in quanto alla verità si deve riconoscere supremazia assoluta e,
di conseguenza, tutti gli uomini sono tenuti a piegarvisi senza discutere.
Mably, dal canto suo, pur essendo anch’egli sostenitore di un ordinamento
fedele al diritto di natura, giudica l’asservimento al principio
dell’evidenza inadeguato a contrastare durevolmente le passioni
e a garantire la non arbitrarietà del despotisme légal,
e indica piuttosto nell’administration tempérée
del gouvernement mixte una soluzione molto più equilibrata
e senza dubbio esiguamente liberticida, in questo facendo propria –
almeno in parte – la lezione di Montesquieu.
Nel saggio di Gianmaria Zamagni, intitolato “Oriente ideologico,
Asia reale. Apologie e critiche del dispotismo nel secondo Settecento
francese”, si focalizza l’attenzione sulle tesi di scrittori
d’Oltralpe ostili alle argomentazioni sviluppate nell’Esprit
des lois sul mondo asiatico. Di patenti posizioni filo-assolutistiche,
Claude Dupin, Voltaire e Simon-Nicolas-Henri Linguet non vedono nel dispotismo
un’autonoma forma di governo e sono convinti che Montesquieu, in
realtà, critichi la monarchia orientale per denigrare l’assolutismo
éclairé che va costituendosi in patria; Linguet,
nello specifico, giunge finanche ad esaltare nei regimi asiatici quella
perfetta ‘immobilità’ politico-sociale che, sola, gli
pare impedire la spartizione dei poteri in molte mani, scongiurando così
la sempiterna contestazione dell’autorità e il continuo prodursi
di disordini.
15. Diversamente dai predetti autori, Abraham-Hyacinthe Anquetil-Duperron
ha sott’occhio una solida documentazione sulle realtà orientali,
spesso attinta di prima mano in loco. Mediante le sue lunghe analisi,
egli prova che in Persia, in India e in Turchia sono presenti il Consiglio
di Stato e il giuramento del sovrano, posti a ‘frenare’ gli
eventuali abusi di potere di quest’ultimo; inoltre, viene a chiarire
che l’istituto della proprietà privata non è affatto
ignorato, come erroneamente credono i più in Europa. L’obiettivo
principale dell’opera Législation orientale (1778)
di Anquetil consiste nel tentativo di rimuovere i pregiudizi che vengono
a giustificare la brutale politica di colonizzazione europea, soprattutto
inglese, in Oriente.
Nel saggio “Dispotismo e ‘ideologia europea’ nelle filosofie
della storia di Turgot e Condorcet”, Alessandro Ceccarelli evidenzia
che, nelle concezioni del progresso di entrambi gli autori, il dispotismo
orientale è additato come antitesi ‘ontologica’ di
quelle Lumières a cui la storia occidentale si ritiene finalizzata.
Per Anne-Robert-Jacques Turgot, il modello del dispotismo si è
plasmato a seguito delle conquiste barbariche in Asia, venendo ad attuarsi
da una parte l’innaturale estensione al governo civile della forma
verticistica del comando militare e dall’altra la promozione di
credenze religiose e costumi volti a cancellare ogni senso civico nei
sudditi; si giustifica, in questa maniera, l’esistenza dei molti
dispotismi languenti nella paralisi e nella superstizione. Il marchese
di Condorcet, che ha ben presenti le parole di Turgot sul progresso e
sull’immaturità delle mœurs in Oriente, riconosce
esclusivamente ad una Europa rivoluzionaria la capacità di farsi
guidare dalla ragione liberatrice verso una civilisation senza
precedenti; diffondendosi, le Lumières conquisteranno, egli
prevede, anche gli arretrati popoli dell’Asia, incapaci di maturare
autonomamente.
In “«Despotisme de la liberté»: l’eccezione
giacobina”, Cristina Passetti si sofferma sulle considerazioni
che Jean-Paul Marat dedica alla liberté naissante rivoluzionaria,
per la cui difesa egli sostiene si rendano temporaneamente inevitabili
l’esercizio del sospetto e l’uso “ragionato” e
“legale” della violenza. Secondo Marat, l’intervento
di due nuove magistrature, il Tribunale di Stato e il dictateur,
contribuirebbe ad inaugurare un despotisme de la liberté,
espressione da lui forgiata per definire lo strumento politico diretto
sia a educare i mauvais citoyens sia ad eliminare (fisicamente)
i nemici della Nazione, in vista dell’instaurazione della democrazia.
Esaminando le specifiche posizioni di Maximilien de Robespierre e di Louis-Antoine-Léon
Saint-Just, la Passetti non manca di evidenziare che l’eredità
maratiana viene accolta e radicalizzata dalla politica terroristico-rivoluzionaria
dei mesi precedenti il 9 Termidoro.
16. Nelle opere di Benjamin Constant, l’applicazione della categoria
del dispotismo alle realtà costituzionali antiche e recenti assume
caratteri non univoci. Semplificando, si può osservare che, da
un lato, egli si rifà alle tesi montesquieuiane per mettere in
luce le peculiarità della forma di governo autoritaria diffusa
in Oriente, antitetica ai regimi moderati d’Europa; dall’altro,
utilizza la categoria allo scopo d’indicare, in generale, un qualsiasi
potere arbitrario, cioè illegittimo. Nella seconda accezione, il
Losannese mostra di reputare despoti sia i governanti che non possiedono
un titolo fondato sulla volontà generale sia coloro che esercitano
il potere intaccando i diritti dell’individuo. Nei Principes
de politique (1806-10), inoltre, Constant asserisce che il tratto
più tipico del dispotismo è la confusione tra potere neutro
e potere esecutivo, in quanto ciò implica il venir meno della facoltà
di giudizio politico; di qui, la sua accesa polemica contro la monarchia
d’ancien régime e la Francia del periodo napoleonico.
Ma originale e ancor più interessante è la distinzione che
egli introduce – sempre nei Principes de politique –
tra due generi di dispotismo, definiti da Giovanni Paoletti (“Benjamin
Constant e il ‘dispotismo dei moderni’”) l’uno
“diretto”, nel caso chi governa ricorra alla forza con sistematicità
e ostenti disinteresse per i diritti individuali, e l’altro “indiretto”,
“che accampa invece delle pretese di legittimità, si presenta
(o si crede) investito del consenso della volontà generale, di
norma per via rappresentativa, avvalendosi di questo titolo per esercitare
un’autorità illimitata, non necessariamente priva di buone
intenzioni” (tomo II, p. 452). A motivo del suo carattere subdolo
e quasi impercettibile, nonché per l’avilissement
che suscita, la variante indiretta del dispotismo è la forma di
governo più oppressiva e terribile; secondo Constant, trattasi
di un fenomeno storico nuovo, incarnato dalla Francia post-rivoluzionaria.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel affronta il tema del dispotismo in tutte
le sue opere maggiori. In particolare, sottolineano nella loro indagine
Giorgio Bongiovanni e Antonino Rotolo (“Hegel e lo spirito del dispotismo”),
è possibile riconoscere tre differenti livelli in cui questa nozione
assume una capitale rilevanza nell’ambito del suo pensiero filosofico.
In primo luogo, l’autore tedesco indugia sul dispotismo allorché
tratta della tipologia delle forme di governo, dal punto di vista sia
descrittivo sia assiologico; i debiti che, in questo ambito, egli contrae
con Montesquieu sono manifesti. In secondo luogo, il dispotismo entra
in gioco nella sua ridefinizione delle categorie del politico, compiuta
a partire dalla riflessione precedente, soprattutto giusnaturalistica.
Infine, lo Stato dispotico viene ad incarnare la prima fase della storia
universale. Riguardo a ciascuno di questi piani, Bongiovanni e Rotolo
si prodigano in analisi e delucidazioni volte anche a scoprire un eventuale
elemento comune fra le tre dimensioni hegeliane del dispotismo.
17. In “Alexis de Tocqueville e il dispotismo di ‘nuova specie’”,
Cristina Cassina studia la forma di despotisme (o tyrannie)
che il pensatore normanno vede allignare nella Francia del suo tempo.
Fondata sul sacrificio della libertà politica che consegue allo
smodato desiderio di uguaglianza, i cui primi preoccupanti segnali gli
sembrano potersi già rintracciare durante l’ancien régime,
questa chose nouvelle è, secondo Tocqueville, un governo
certo privo dei caratteri violenti tipici dei regimi autoritari del passato
ma pur sempre traboccante di aspetti disumani, riconducibili alle prevaricazioni
di un “pouvoir immense et tutélaire” che, promuovendo
le passioni individuali (come la brama del guadagno e la ricerca dei piaceri
materiali), ambisce ad indurre il popolo all’apatia politica, alla
timidezza e alla mera industriosità.
Per ostacolare questa deriva dispotica di ‘nuova specie’,
caratterizzata – sul terreno istituzionale – dall’accentramento
politico e amministrativo, come pure – a livello sociale –
dal riflusso nel privato a danno dell’amor di patria e dei valori
collettivi, dall’uniformità dei gusti e delle mœurs,
Tocqueville incita a difendere tre istituti diventati poi tipici delle
democrazie: la libertà di stampa e di associazione, l’autonomia
del potere giudiziario, il rispetto delle “forme” e dei diritti
particolari.
Sebbene J.S. Mill in svariate occasioni non manchi di focalizzare la sua
attenzione sulle società asiatiche, che considera arretrate, stagnanti,
oppressive e basate sulla proprietà della terra da parte dello
Stato – in una parola, “dispotiche” –, è
nondimeno la realtà occidentale a costituire il fulcro dei suoi
interessi. Nel saggio “Figure del dispotismo in John Stuart Mill”,
di cui sono autori Anselmo Cassani (“Il dispotismo negli scritti
e nei discorsi del giovane Mill”) e Nadia Urbinati (“Il dispotismo
nel pensiero politico e sociale del Mill maturo”), viene messo in
risalto che la categoria del dispotismo è applicata dal filosofo
inglese anche alle relazioni private, sociali ed economiche del mondo
occidentale, là dove esse non si fondino sulla simpatia, sulla
cooperazione e sulla libertà. In tale contesto, egli si riferisce
a dispotismi d’opinione e di tipo capitalistico, politico e domestico,
scorgendo come fattore unificante il difetto del consenso, che si specifica
nell’arbitrarietà di chi comanda e nell’esclusione
di chi ubbidisce dalla partecipazione e dal controllo delle decisioni.
18. Già dagli scritti giovanili, il concetto di dispotismo
viene adottato in un’accezione polemicamente generica nell’ambito
della battaglia intrapresa da Mill a favore della riforma parlamentare
e contro il governo britannico, ritenuto espressione degli interessi di
una minoranza ristretta. Ma è solo nel periodo maturo che egli
approfondisce le sue concezioni, giungendo a opporre lo Stato “libero”
(cioè rappresentativo) alla nascente pedantocracy. In quest’ultima,
contrassegnata dal potere dei funzionari pubblici, Mill individua la forma
di dispotismo tipica dei tempi moderni, vale a dire l’amministrazione
esecutiva da parte di un’aristocrazia di burocrati aspirante a sostituire
la politica e a scoraggiare l’intervento alle deliberazioni collettive
da parte di chi non è ‘specialista’.
A partire dal 1853, Karl Marx intraprende lo studio della forma di governo
orientale e arriva subito alla conclusione che si tratti di società
stazionarie e dispotiche, in quanto gli paiono caratterizzate da una condizione
di schiavitù generalizzata e dall’assenza della proprietà
privata: ciò rende unico e vero padrone il sovrano, che –
di conseguenza – è da ritenersi il possessore esclusivo del
prodotto della terra. Nel clima caldo, nella dispersione della popolazione
su tutto il territorio del Paese e nel sistema di villaggi autosufficienti
Marx individua i caratteri che originano e perpetuano il dispotismo; da
questi elementi e dalla presenza di un’agricoltura condizionata
da grandi lavori pubblici, egli inferisce l’esistenza di un peculiare
modo di produzione asiatico.
Negli ultimi anni, Marx, affascinato dal caso della Russia, rivaluta il
ruolo della comune agricola (l’obščina), dapprima
giudicata ostacolo insormontabile allo sviluppo, ma poi vista come punto
di appoggio della futura rigenerazione sociale.
A tali questioni dedica il proprio saggio Silvano Sportelli (“Forma
di produzione asiatica e dispotismo orientale in Karl Marx”), che
non manca di prendere in esame anche il contributo al dibattito offerto
da Friedrich Engels, le cui posizioni non sempre risultano collimanti
con quelle marxiane.
19. In “Dispotismo e comunismo: Il dispotismo orientale di
Karl August Wittfogel”, Manlio Iofrida analizza le tesi che l’autore
tedesco-americano formula intorno alla società asiatica tanto prima
di abbandonare il movimento comunista (posizioni compendiate in un articolo
del 1938) quanto in seguito (come si riscontra soprattutto nel celeberrimo
libro del 1957, menzionato nel titolo del presente saggio critico).
La ripresa del tema marxiano del “modo di produzione asiatico”
e lo studio dello specifico caso cinese conducono il giovane Wittfogel
a reputare inevitabile, o quasi, l’instaurazione di un’autorità
politica forte, congiunta a un’efficiente e razionale burocrazia,
nei luoghi in cui determinate condizioni ambientali impongono un’agricoltura
essenzialmente basata sull’irrigazione artificiale di vasti territori.
È sua convinzione che, fin dai tempi più remoti, prosperi
in Cina un tipo di economia “manageriale”, fondato sulla divisione
e sulla cooperazione del lavoro ottenute attraverso una direzione unica
che giammai lesina il ricorso alla violenza sistematica e che sovrintende
alla costruzione di opere idrauliche colossali.
Mentre per il primo Wittfogel, che non sfugge completamente al determinismo
positivistico proprio di un certo marxismo, i regimi dispotici sono da
considerarsi “naturali” in ben precise aree del mondo, il
suo ripudio del comunismo – concretizzatosi negli anni a ridosso
della Seconda Guerra Mondiale – lo vede condannare recisamente e
senz’appello gli Stati asiatici; nella sua strenua difesa dei principi
occidentali dell’individualismo e della società aperta, della
proprietà privata e della libera impresa, il Wittfogel maturo recupera
Montesquieu, intendendolo come il più acuto critico del dispotismo
e, al medesimo tempo, come il massimo teorico dell’equilibrio liberale
dei poteri.
Nella seconda fase del suo pensiero, la categoria del dispotismo orientale
diviene più che altro uno strumento di lotta politica, rivolto
a mettere in guardia l’Occidente contro la fisionomia ‘totale’
del comunismo del XX secolo, che egli ritiene capace di esercitare un
controllo sia sociale sia intellettuale di ampiezza ed efficacia formidabili,
in questo sormontando perfino l’entità delle prevaricazioni
liberticide tipiche dei regimi agrari centralizzati delle epoche precedenti.
In Oriental Despotism è in realtà la Russia sovietica,
più che la Cina, “il protagonista nascosto della trattazione
di Wittfogel” (tomo II, p. 617). Osserva Iofrida, a mo’ di
sintesi, che lo stalinismo viene da lui “visto come forma moderna
del dispotismo orientale, versione «industrial-manageriale»
di esso e perciò tanto più totale ed oppressiva. In sostanza
l’esperienza comunista, secondo un modello che avrà una lunga
storia e un grande successo, è vista come l’esito della linea
di sviluppo storico tipica dell’Oriente idraulico, linea alla quale
si contrappone quella feudal-liberal-capitalistica percorsa dall’Occidente”
(tomo II, pp. 618-619).
20. Nella costruzione del tipo ideale di regime totalitario effettuata
da H. Arendt è possibile leggere una sorta di metamorfosi aggravata
della forma dispotica descritta nell’Esprit des lois. Argomentando
questa sua tesi nel saggio intitolato “Dal dispotismo al totalitarismo:
Hannah Arendt”, Thomas Casadei mette in evidenza come l’Autrice
individui nel terrore la natura del totalitarismo e nell’ideologia
il suo principio di movimento.
Unica forma di sapere ammessa, l’ideologia provoca la mobilitazione
permanente degli individui ed è il mezzo di cui si serve il capo
totalitario, visto come l’infallibile conoscitore di verità
superiori, per plasmare l’uomo nuovo. Nel perseguimento di questo
prioritario obiettivo interviene anche il terrore, che aiuta a tradurre
in realtà il mondo fittizio dell’ideologia e che, sostituendosi
al diritto positivo, assume il ruolo di strumento ordinario con cui governare.
Il terrore, illimitato, condanna gli uomini all’arbitrarietà
e all’insicurezza più estreme, così da promuovere
la realizzazione di quella law of movement che, per la Arendt,
è uno dei tratti distintivi di questo tipo, specificamente novecentesco,
di regime.
L’Autrice sottolinea come il dominio totale politico venga ottenuto
e salvaguardato debellando l’individuo inteso quale essere autonomo
e responsabile, deliberante e relazionale. Instauratosi un rapporto di
fusione privo di intermediazioni tra il leader e la folla irriflessiva,
prorompono logiche plebiscitarie: l’urlo d’approvazione della
massa entusiasta viene indotto dalle parole pronunciate, con tono profetico,
dal capo. Come si riscontra, l’agire politico plurale è spazzato
via; la personalità degli individui, annullata. Gli uomini si riducono
a creature asservite nell’animo e isolate, prive di coscienza e
diritti. All’espressione di giudizi personali e al pubblico dibattito
subentra la dinamica dei riflessi condizionati, cioè la risposta
impulsiva a meri stimoli, culminante nell’urlo dell’individuo-massa.
L’abolizione del settore pubblico e delle capacità politiche
degli uomini viene a coincidere con l’imperio della violenza muta
e del senso dello sradicamento, dell’estraniazione e della superfluità
dell’individuo. Secondo la Arendt, la disumanizzazione e “la
smania di moto perpetuo” insite nel totalitarismo trovano la propria
apoteosi nella realizzazione dei campi di sterminio: il regime totalitario,
infatti, lungi dall’esaurirsi nell’unione di cadaveri
di cui parla Montesquieu (a proposito del dispotismo) nelle Considérations
sur les Romains (cap. IX), acquisisce anche la sinistra fisionomia
di un mondo di morenti, poiché nei Lager è possibile
discernere l’aspirazione paradossale a mettere in movimento, a ‘prolungare’
la morte stessa.
[1] Il primo tentativo di analisi diacronica del concetto di dispotismo, così come è stato forgiato e impiegato nella storia del pensiero occidentale, è rinvenibile nell’articolo di R. KOEBNER, “Despot and Despotism: Vicissitudes of a Political Term”, Journal of the Warburg and Courtald Institutes, XIV, 1951, pp. 275-302, nel quale l’analisi si arresta all’alba del XVIII secolo. A questo studio pionieristico sono seguiti, di lì a poco, lavori orientati ad esaminare singoli autori o momenti storici circoscritti (in prevalenza: l’antica Grecia, le filiazioni ideali del pensiero aristotelico e il dibattito filosofico che caratterizzò la Francia dell’Età dei Lumi). Tra le prime pubblicazioni in ordine cronologico, si segnalano: S. STELLING-MICHAUD, “Le mythe du despotisme oriental”, Schweizer Beiträge zur allgemeinen Geschichte, XVIII-XIX, 1960-61, pp. 328-346, sul Sei-Settecento francese; F. VENTURI, “Despotismo orientale”, Rivista storica italiana, LXII, 1960, pp. 117-126, incentrato su autori francesi del XVIII secolo; R. DERATHÉ, “Les philosophes et le despotisme”, in AA.VV., Utopie et institutions au XVIIIe siècle. Le pragmatisme des Lumiéres, Paris-La Haye, Mouton, 1963, pp. 57-75. Per incontrare prospettive d’indagine più ampie e diacroniche intorno al concetto di dispotismo nella storia, si è dovuto attendere le seguenti “voci” di dizionario: G. BIEN, U. DIERSE, J. WINCKELMANN, “Despotie, Despotismus”, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1972, II, coll. 132-146; M. RICHTER, “Despotism”, in Dictionary of the History of Ideas, a cura di P.P. Wiener, New York, Ch. Scribner’s Sons, 1973, II, pp. 1-18; N. BOBBIO, “Dispotismo”, in N. Bobbio, N. Matteucci, Gf. Pasquino, diretto da, Dizionario di politica, Torino, TEA, 1990 [UTET, 1976 e 1983²], pp. 320-327 (ma cfr. anche N. BOBBIO, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Torino, Giappichelli, 1976, passim).
[2] Oresme è il primo a introdurre nella lingua francese il termine despotique, al posto del vocabolo greco latinizzato despoticus, come testimoniano le sue volgarizzazioni dell’Etica nicomachea e della Politica, databili intorno al 1370, ma pubblicate a distanza di oltre un secolo: Le livre des éthiques d’Aristote e Le livre de politiques d’Aristote, Paris, Vérard, 1488 e 1489.
[3] Intorno a Savonarola, per ciò che riguarda il presente settore analitico, si dovrebbe fare i conti con una miriade di temi e motivi irradiantisi tanto dall’esistenza (occasionale ma significativa) nelle sue parole di accenni all’Oriente e alle genti levantine, quanto – soprattutto – dalle riflessioni sulle forme tiranniche di governo e sulla concreta renovatio di Firenze. Su tali questioni, mi permetto di rinviare a P. VENTURELLI, “Per una città umana. Savonarola ovvero Mosè a Firenze”, in Th. Casadei, a cura di, Esodo, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1999, pp. 78-98, utile anche per i riferimenti bibliografici ivi segnalati, ai quali è opportuno aggiungere: R. CAVALLUZZI, “Procedure della secolarizzazione: intellettuali e Stato nella ‘crisi italiana’. Savonarola”, Lavoro critico, fasc. 31-32, 1984, pp. 149-172; M. D’ADDIO, “Il Tirannicidio”, in Storia delle idee politiche economiche sociali, diretta da L. Firpo, III, Torino, UTET, 1987, pp. 511-609: 534-538; M. CALEO, Machiavelli discepolo ideale di Savonarola, Rimini, Il Cerchio, 1998; M. CACCIARI, “Inimicizia fraterna. Teologia e politica in Savonarola”, Micromega, n. 4, 1998, pp. 225-238; AA.VV., Girolamo Savonarola. L’uomo e il frate, Atti del XXXV Convegno storico internazionale di Todi (11-14 ottobre 1998), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1999 (specie il contributo di M. Martelli); G. CADONI, “Savonarola, Machiavelli, Guicciardini in una recente ipotesi interpretativa”, La Cultura, XXXVII, n. 3, 1999, pp. 493-496; Id., “Qualche osservazione su Machiavelli e Savonarola”, La Cultura, XXXVIII, n. 2, 2000, pp. 263-278.
[4] L’aggettivo seigneurial è il vocabolo usato da Loys Le Roy per rendere il greco despotikos nella traduzione francese del testo classico dello Stagirita: Les Politiques d’Aristote, Paris, de Vascosan, 1568. Di poco successiva è la prima edizione del capolavoro di Bodin, Les six livres de la République, Paris, Du Puys, 1576.
[5] Bodin parla in termini recisamente negativi sia del tyrannus ex defectu tituli sia del tyrannus ex parte exercitii, e nondimeno pone una precisa distinzione: atto insensato sarebbe sollevarsi contro chi non è usurpatore, ossia contro chi può vantare una legittima autorità; al contrario, egli considera possibile – e anzi doverosa – la resistenza attiva organizzata ai danni del sovrano che non sia legittimamente riconosciuto. Ma soltanto all’inizio chi è privo di titolo viene considerato alla stregua di un suddito ribelle contro cui reagire: se costui riesce a dar vita a un dominio personale che ha un corso continuo e se la sovranità del precedente signore non viene rivendicata, il nuovo potere instaurato dall’usurpatore col tempo diventa, secondo Bodin, legittimo.
[6] La Lalatta Costerbosa rileva come il concetto di dispotismo, inteso in questo secondo significato di dominio “transitorio”, risulti mutuato da Bodin, per il quale fondamento del potere dispotico è la conquista che segue una guerra giusta (cfr. Les six livres de la République, II, 2); del resto, anche Hobbes fonda il regno dispotico sulla conquista, pur eliminando qualsiasi riferimento alla guerra giusta (cfr. Leviathan, XX).
[7] Nota Capitani che, nel pensiero dei fisiocrati, il concetto di évidence e le sue implicazioni teoriche risentono di considerevoli influssi malebranchiani, come apparirebbe soprattutto nella voce “Évidence” redatta da Quesnay per il volume VI dell’Encyclopédie (1756). Peraltro, non è improbabile che lo stesso Montesquieu, definendo le leggi in generale come “i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose” (De l’esprit des lois, I, 1), abbia in mente al riguardo le concezioni di Malebranche, forse filtrate attraverso le opere di Samuel Clarke: su tali aspetti del pensiero montesquieuiano si è soffermato Robert Derathé in MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, 2 tt., introduction, chronologie, bibliographie, relevé de variantes et notes par R. Derathé, Paris, Garnier, 1973, I, pp. 414-415, nota 3; trad. it., Lo spirito delle leggi, 2 voll., prefazione di G. Macchia, Milano, BUR, 1989, I, pp. 497-498, nota 3. Vedi, inoltre, GB. GORI, “Nicolas Malebranche”, in Storia della filosofia, diretta da M. Dal Pra, Milano, Vallardi, VII, p. 646, dove si afferma: “Montesquieu troverà nel principio malebranchiano «dei diversi rapporti che le leggi possono avere con le diverse cose» il concetto fondamentale dell’«esprit des lois».”