1. “This is the historical Age, and this the historical Nation”. Con questa frase, che Hume aveva scritto all’editore William Strahan in una lettera dell’agosto del 1770, si chiude l’interessante libro di Daniele Francesconi – risultato di una rielaborazione della tesi di perfezionamento. Si tratta del vero e proprio leit motiv, che riappare più volte nel corso del volume, e si rispecchia nella prima parte del titolo: L’età della storia – che fa eco a The Scottish Enlightenment. The Historical Age of the Historical Nation di Alexander Broadie[1]. La seconda parte, Linguaggi storiografici dell’Illuminismo scozzese, proietta immediatamente questo volume nel filone di studi, al momento assai fertile, sui generi letterari della storiografia illuministica britannica, che trova importanti precedenti nei contributi di Karen O’Brien e di Mark Phillips[2]. Il merito maggiore di questi studi è per Francesconi quello di aver unito programmaticamente l’approccio della critica letteraria con quello storiografico. Tuttavia, è soprattutto da una precoce intuizione di Giuseppe Giarrizzo, poi mai ripresa dalla storiografia, che L'età della storia prende le mosse, focalizzando la propria analisi sulla spiegazione causale come chiave della visione storica degli scozzesi. La lettura di Hume, proposta da Giarrizzo, insisteva sull’impatto immediato del contesto economico e politico britannico sull’opera storica dello scozzese, che si presentava come il terreno sperimentale dei principi della scienza politica humiana: nella History of England la teoria della causalità aveva il ruolo cruciale di rispondere alle sfide poste dal pirronismo storico[3] ; ed è questo l’aspetto che più interessa a Francesconi.
2. Il vocabolario della causalità storica e le tecniche della costruzione
narrativa costituiscono il tema portante del volume. Al centro stanno le opere
storiografiche dei principali esponenti dell’Illuminismo scozzese, che
ne scandiscono l’andamento e i capitoli fondamentali: gli Essays
e la History of England di David Hume, l’intera opera storiografica
di William Robertson, dalla storia di Scozia a quella dell’India antica;
il noto Essay on the History of Civil Society e soprattutto la troppo
trascurata History of the Progress and Termination of the Roman Republic
di Adam Ferguson. A questi capitoli se ne affianca uno centrato sulla Francia
e focalizzato sulla “rivoluzione storiografica di Voltaire”, che
per Francesconi rappresenta un importante precedente della storiografia scozzese
per aver combinato storia politica e storia della natura umana, così
come per l’alternarsi di capitoli narrativi e digressioni sui costumi
e sul governo. In particolare, egli mette in evidenza il nesso tra l’idea
voltaireiana di “concatenazione necessaria di tutti gli eventi dell’universo”,
che sottolinea il carattere ironico e casuale dello svolgimento storico, e l’idea
delle “unintended consequences” che informa l’approccio scozzese.
Quest’ultima, tuttavia, deriva da una matrice newtoniana, che rimanda
a un ordine preciso, non provvidenziale, non fatalistico e nemmeno necessario,
ma che introduce “un elemento di verità, verità di fatto,
contingente” tale da salvare dal pirronismo storico [148-9]. Fonte comune
di questi discorsi è la Fable of bees di Bernard Mandeville, la
cui importanza per gli scozzesi è stata spesso notata, in particolare
dal volume di E. J. Hundert dal titolo evocativo di Enlightenment’s
fable; ma anche dal testo di Ronald Hamowy, punto di riferimento degli studi
in lingua inglese sulle “conseguenze inattese” e sull’“ordine
spontaneo”[4]. Se ci sono somiglianze tematiche
con il testo di Hamowy, è alla storia della storiografia che l’autore
de L’età della storia guarda: il linguaggio delle “conseguenze
inattese” è centrale, perché capace di esprimere l’interdipendenza
fra i diversi fattori del processo storico.
Partendo da qui, Francesconi si concentra sulle storie narrative, che ritiene
molto più trascurate di quelle congetturali, e privilegia lo studio delle
retoriche dell’argomentazione storica, indagando i modi nei quali gli
illuministi scozzesi si collocarono in consolidate tradizioni storiografiche,
oppure se ne allontanarono consapevolmente. Legando la dimensione narrativa
delle “storie filosofiche” illuministe alla loro finalità
retorica, Francesconi limita la validità dell’interpretazione storiografica
dei Lumi di Arnaldo Momigliano alla storia antica, e quindi prevalentemente
all’opera di Gibbon (alla quale del resto lo stesso Momigliano si riferiva
specificamente). Si tratta di una critica avanzata già da Mark Phillips,
che ha ritenuto riduttivo far derivare la storiografia “moderna”
dalla sintesi di storia filosofica e critica antiquaria delle fonti; rispetto
ad essa, lo storico canadese ha messo in luce le nuove esigenze narrative degli
illuministi, che, focalizzandosi sul binomio imparzialità-sentimento,
sperimentarono molteplici approcci storiografici[5].
Francesconi, da parte sua, argomenta che, per quanto riguarda l’analisi
della storia moderna, il punto cruciale per gli scozzesi non era tanto quello
di dimostrare la veridicità di un fenomeno, quanto piuttosto di interpretarne
il significato.
3. Il rapporto fra le “storie narrative” degli illuministi e la “storia neoclassica” - secondo il concetto recentemente coniato da Philip Hicks [6] - risulta solo in parte di continuità: se ordinamento narrativo, primato della storia politica, finalità pedagogiche, visione dello storico quale custode della memoria pubblica sono caratteristiche riconducibili alla storia classica, non altrettanto si può dire dell’attenzione a commercio e religione, che costituiscono due elementi chiave nella nuova storia dei Lumi. Dunque, per Francesconi vi è tensione tra “storia neoclassica” e “storia filosofica”: quest’ultima è un genere caratterizzato dalla “compresenza di elementi narrativi e stadiali, civili e naturali, neoclassici e philosophisantes” [34]. In questo senso, il concetto di “narrazione illuministica” pocockiano come storia del “millennio cristiano”, ovvero la storia dell’emergere degli stati europei commerciali e costituzionali dalla barbarie seguita alla caduta dell’Impero romano[7], è troppo ristretto e finisce per portare al paradosso di relegare le storie stadiali ai margini della narrazione illuministica, di escludere Hume dal contesto dell’Illuminismo scozzese e trascurare il peso che le convenzioni della storia neoclassica avevano anche all’interno di una prospettiva stadiale. Muovendo da questa critica a mio parere condivisibile ai capitoli scozzesi di Barbarism and Religion e cercando di ovviare ai problemi lasciati aperti dall’ultimo Pocock, la cui impostazione resta comunque cruciale punto di riferimento de L’età della storia, Francesconi giunge al cuore del suo soggetto, affrontando i generi di argomentazione storica e focalizzando la sua analisi sul problema della causalità.
4. L’indagine sulle cause, alla quale la storia filosofica dei Lumi dedicò
grande attenzione, è posta su tre livelli: le cause morali-politiche,
quelle socio-economiche, e infine quelle culturali. Francesconi si propone di
“ricostruire la loro [degli storici illuministi] immaginazione storica
per come essa emerge dalla loro concreta pratica storiografica” [37].
Se il principio di causalità come dimensione abitudinaria e uniformante
– teorizzato da Hume nel Treatise of Human Nature – permane
in ambito filosofico, tuttavia, nel contesto storiografico, gli scozzesi ricorsero
al linguaggio causale soprattutto per spiegare delle discontinuità, quali
la guerra civile inglese o la crisi della proprietà feudale. Le conseguenze
inattese rappresentarono la formulazione più sofisticata della causalità
storica illuminista. Riprendendo il concetto di Koselleck di una open-endedness
del processo storico, che in campo storiografico assume una connotazione retrospettiva,
connessa ai futuri già passati[8], Francesconi
suggerisce che il vocabolario causale fu utilizzato dagli storici illuministi
per concettualizzare il mutamento. Esso rappresenta una tecnica cruciale di
narrazione storica, ma poiché molte sono le varianti, è necessario
parlare al plurale di “linguaggi” delle conseguenze inattese. Un
intero capitolo è dedicato, dunque, all’analisi dei vocabolari
illuministici della causalità storica, visti attraverso le prospettive
divergenti e alternative, elaborate da Hume nei saggi degli anni ’40 e
da Smith nella Theory of Moral Sentiments. Per entrambi le cause morali
sono fattori di spiegazione sociale e storica ben più di quelle fisiche,
e agiscono da moventi. Ma laddove Hume le riconduceva a fattori esterni, Smith
le faceva coincidere con i moventi interni e sentimentali.
La History of England (1754-62), il testo di gran lunga di maggiore successo
di Hume, si regge, secondo la lettura di Francesconi, su una molteplicità
di strati causali, che determinano una periodizzazione multipla e creano una
complessa storia a più livelli. È nei volumi sugli Stuart, e soprattutto
sui Tudor, che Hume si avvale nel modo più ampio e sistematico del linguaggio
delle conseguenze inattese, che spiegano i tre snodi fondamentali della storia
britannica: la Riforma anglicana, inizialmente originata dal mero egoismo di
Enrico VIII, ma che nel lungo periodo avrebbe portato, secondo il principio
harringtoniano, alla redistribuzione delle terre; la crisi della proprietà
feudale, principalmente causata dagli effetti benefici ma imprevisti del lusso;
la guerra civile inglese, che accelerò la disgregazione della costituzione
stuartiana, ponendo le basi della moderna monarchia mista. Di fronte all’incertezza
delle fonti per la storia più remota, Hume avrebbe notevolmente ridimensionato
il linguaggio della causalità storica, e di conseguenza il suo approccio
filosofico. L’unica vera eccezione negli ultimi due volumi della History
of England – sostiene Francesconi – si ha rispetto alla trattazione
della Magna Charta, scaturita dalla lotta tra re e baroni: questi ultimi,
in una sorta di iperbole ironica, sono definiti da Hume “generous”,
poiché, per quanto mossi dal proprio esclusivo interesse, hanno di fatto
contribuito a tracciare i “lineamenti fondamentali di un governo secondo
la legge”[9]. Sebbene Hume si avvalga,
dunque, sulla scia di Mandeville, del principio delle conseguenze inattese come
spiegazione storica, non fa alcun cenno alla teoria stadiale, che negli anni
’50 Smith stava delineando nelle sue lezioni di filosofia morale a Glasgow
e Dalrymple e Kames iniziavano a divulgare nelle loro opere storico-giuridiche.
Questo è un aspetto che Francesconi ritiene cruciale, perché gli
permette di opporsi alla lettura di quanti, come Karen O’Brien, considerano
teoria stadiale e linguaggio delle conseguenze inattese quali “aspetti
inscindibili di un unico e medesimo complesso teorico e storiografico, per di
più irriducibile alla narrazione storica propriamente detta” [108]:
essi erano, invece, “dispositivi concettuali logicamente distinti e utilizzabili
separatamente”, con “genealogie intellettuali diverse”, e
“prestazioni narrative differenti”. La History of England
di Hume proverebbe, allora, che “nel Settecento era disponibile un linguaggio
storiografico nel quale fondere impegno narrativo e linguaggio delle conseguenze
inattese, pur non ricorrendo alla teoria stadiale” [108]. Proprio per
questo, L'età della Storia critica e rifiuta il concetto di “storia
illuministica” utilizzato in Narratives of Enlightenment, con cui
si confronta continuamente.
5. Francesconi pone a giusta ragione una cesura tra la narrazione storica di
Hume e Voltaire e quella che si sarebbe affermata sulla base della nuova visione
stadiale. La teoria dei quattro stadi, infatti, mutò drasticamente il
panorama storiografico, coniugando in modo innovativo scienza della natura umana
e giurisprudenza storica e dando alla storia della società civile un
senso progressivo, scandito dalla successione dei diversi modi di sussistenza
e maniere. Da Smith a Dalrymple e a Kames, Francesconi ripropone sostanzialmente
il percorso indicato da Ronald Meek, ma lo reinterpreta sulla scia di John Pocock
come “rottura paradigmatica” [183][10].
Nonostante Kames venga considerato l’autore di “una delle più
lucide formulazioni della teoria stadiale” [174], rimane sostanzialmente
ai margini dell’indagine de L’età della storia, in
quanto ha privilegiato il “carattere logico” della visione dei quattro
stadi, senza confrontarsi veramente con il genere della narrazione storica.
È Robertson, invece, ad assumere il ruolo chiave nella sua indagine,
poiché fu il primo a portare la teoria dei quattro stadi sul terreno
storico narrativo e a porsi il problema di superare la storia filosofica di
impostazione neoclassica, che aveva caratterizzato le opere di Voltaire e Hume.
Come loro, anche Robertson propose una storia dei costumi che non separasse
narrazione e filosofia. Ma, adeguando lo schema stadiale alle esigenze narrative,
introdusse una novità fondamentale: il ragionamento basato sulla causalità
gli fornì il criterio per orientare la narrazione storica, selezionando
i punti cruciali sui quali poggiare gli eventi subordinati.
Tre erano le direzioni principali nelle quali Robertson articolò il vocabolario
della causalità, e che introdussero “modelli alternativi di periodizzazione
storica” [185]: il discorso provvidenzialistico di lunghissimo periodo,
particolarmente evidente rispetto alla Riforma; la storia stadiale dei costumi,
di lungo periodo – più di due secoli erano occorsi, ad esempio,
per la transazione dalla società feudale a quella commerciale; infine,
la storia politica, che si articola su un arco cronologico a medio e breve termine.
Francesconi sottolinea giustamente come Robertson mascheri sotto un linguaggio
provvidenzialistico spiegazioni secolari: il primo discorso, che è ancora
centrale nel sermone del 1755, The Situation of the World at the Time of
Christ’s Appearance, è del tutto marginale e relegato sullo
sfondo nelle opere propriamente storiche. Il Principal scozzese si concentra,
invece, da un lato, sui cambiamenti strutturali, le cause sociali, economiche
e culturali, la storia dei costumi, i gruppi sociali e i modelli di comportamento
collettivo; e, dall’altro, sulla storia politica, che spiega lo sviluppo
storico in termini di lotte di potere all’interno delle élites,
ed è caratterizzata dal linguaggio umanistico degli effetti delle passioni
dei personaggi storici sulla vita pubblica. È questo terzo discorso a
scandire l’ordinamento narrativo delle opere di Robertson in modo quasi
annalistico, regno per regno: poiché la nuova scienza della natura umana
si basava, secondo l’insegnamento humiano, sul principio dell’uniformità
delle passioni, l’analisi delle motivazioni dei personaggi storici poteva
essere fatta e compresa anche rispetto a un passato remoto.
Il linguaggio delle conseguenze inattese si ritrova in entrambi i generi, nella
storia stadiale dei costumi, così come nella storia politica, che in
Robertson risultano complementari. “La più elaborata trattazione
della causalità storica” [191] si ha nella nota introduzione alla
storia di Carlo V – la View of the Progress of Society in Europe
– che ripercorre le 10 cause fondamentali che hanno portato gli Stati
europei dal “punto più estremo di decadenza”, all’inizio
dell’XI secolo, al sistema moderno di commercio e comunicazione del XVI.
Ma non è in essa, secondo Francesconi, che si trova la caratteristica
fondamentale della composizione storica di Robertson, poiché la View
fa a meno della successione cronologica. Il tentativo di conciliare “l’analisi
delle conseguenze e l’ordine consequenziale della narrazione” [197]
si trova, piuttosto, nel resto della History of Charles V - nonostante
per certi versi si presenti come una narrazione convenzionale e di stampo umanistico
- e nelle ultime due opere storiche di Robertson. Sia nella History of America
che nella Historical Disquisition concerning the Knowledge which the Ancients
had of India, entrambe caratterizzate da un alternarsi di narrazione e indagine
stadiale, il linguaggio delle conseguenze involontarie assume un peso determinante
soprattutto nelle parti narrative. “Proiettato sulla scala di storie mondiali
della civiltà e del commercio – argomenta Francesoni – il
linguaggio delle conseguenze inattese sottolinea la dinamica di contraccolpi,
il rinculo dei processi storici che determina mutamento e innovazione”
[225]. Nelle opere storiche di Robertson la storia dei costumi non sostituiva,
dunque, la storia narrativa, ma la integrava.
6. Un discorso a parte è quello su Ferguson, che viene analizzato dal
punto di vista della trattazione della storia romana nelle due opere storiche
dello scozzese – l’Essay on the History of Civil Society
e la History of the Progress and Termination of the Roman Republic (pubblicata
nel 1783, ma composta a partire dai primi anni ’70) –, ripercorrendo
le storie settecentesche di Roma in lingua inglese, da quelle di Laurence Echard
e William Wotton alla Roman History di Oliver Goldsmith, pubblicata a
Londra nel 1769. Il vero obiettivo di Ferguson era quello di individuare le
patologie del mondo moderno e cercarne un rimedio, capire cioè come evitare
che i sistemi politici decadessero. La storia romana è ai suoi occhi
un caso esemplare e generale della storia della società civile e della
sua corruzione: per questo ha un ruolo di primaria importanza. Francesconi sottolinea
come Ferguson volesse innanzitutto dimostrare un principio politico, ossia come
la forma repubblicana fosse stata sostituita dal dispotismo; e questo lo fece
attraverso una “narrazione storica moralmente esemplare” [233, 248].
Se Ferguson seguì Montesquieu nell’attribuire all’azione
delle medesime cause la grandezza e la decadenza di Roma, Francesconi porta
in luce delle interessanti differenze ideologiche e di interpretazione nel mettere
a confronto l’Essay on the History of Civil Society e la History
of the Progress and Termination of the Roman Republic. L’elogio del
conflitto come fattore di libertà e grandezza, riconducibile al filone
repubblicano di derivazione machiavelliana, che informava anche l’analisi
di Montesquieu, era alla base dell’Essay, come ha sottolineato
Marco Geuna a più riprese nei suoi interventi su Ferguson[11].
Soltanto la partecipazione generale agli affari pubblici e la virtù del
cittadino in armi, che implicava conflitto e divisione, potevano arginare il
dispotismo: la tranquillità assumeva nell’ottica dell’Essay
un valore negativo, mentre le fazioni erano connotate positivamente. Come ha
scritto Duncan Forbes, per Ferguson “il vero pericolo non stava nel conflitto
fra i partiti, ma nell’indifferenza politica”[12].
Risalta quindi l’assenza dalla History dell’apologia del
conflitto che, d’altra parte, corrisponde a una chiara accentuazione del
conservatorismo di Ferguson, esplicata da un’antipatia verso la fazione
popolare che culmina nella netta condanna dei Gracchi. Nella History,
allora, secondo Francesconi, Ferguson esprime un’evidente esigenza di
ordine. Per spiegare questa divergenza interpretativa rispetto all’Essay,
egli suggerisce tre ragioni diverse, che possono anche essere complementari.
Prima di tutto, le nuove preoccupazioni di ordine politico, dovute alla guerra
contro l’America rivoluzionaria: in questo senso va letto il pamphlet
che Ferguson scrisse nel 1776 in difesa del governo britannico contro Richard
Price – Remarks on a Pamphlet lately Published by Dr. Price–,
dove il caso di Roma era ideologicamente richiamato ad ammonimento degli insorti
americani. Secondo, la lettura che lo stesso Machiavelli fece nelle Istorie
fiorentine del tumulto, positivo a Roma, ma problematico e disgregatore
nell’esperienza di Firenze. Terzo, si tratta di due differenti generi
di argomentazione storica: da un lato, la storia stadiale dell’Essay,
che traccia il processo naturale delle società civili verso il proprio
migliore ordinamento – e in questo contesto il conflitto può essere
considerato un elemento di evoluzione delle istituzioni politiche -; dall’altro,
la storia narrativa della History, nella quale predomina l’istanza
morale. Mentre l’Essay era imperniato sul linguaggio delle conseguenze
inattese, al quale Ferguson faceva ricorso anche per la storia romana, la History
sostanzialmente lo marginalizza, in linea con le convenzioni della storia narrativa
umanistica, concentrata sulle responsabilità morali degli individui:
la storia è qui mossa dalle passioni e dalle ambizioni dei protagonisti.
Non sorprende che l’approccio classico della History sia stato
letto come un “ritorno al passato”, controcorrente rispetto al “nuovo”
approccio dell’Essay. Tuttavia, Francesconi individua nel tentativo
di comprendere la storia della natura umana, attraverso lo studio dell’effetto
dell’ambizione sugli ordinamenti civili, un elemento di continuità
che lega la storia narrativa di Ferguson al progetto intellettuale dell’Illuminismo
scozzese. Ferguson, a differenza di Robertson, non cercò di coniugare
linguaggio delle conseguenze inattese e narrazione storica, bensì si
spostò dall’uno all’altra, dalla storia stadiale dell’Essay
alla storia narrativa della History.
7. Si potrebbe dire che sia la prospettiva a determinare il genere. La storia
stadiale utilizza consapevolmente la tecnica del distanziamento e si presenta
come un prodotto particolare dell’esperienza del lontano: per tracciare
l’intera storia del genere umano, è necessario guardare da una
distanza che permetta di abbracciare in un solo sguardo tutte le terre e tutte
le epoche. È questa ottica a caratterizzare tanto l’impostazione
dell’Essay on the History of Civil Society di Ferguson, quanto
quella della View of the Progress of Society in Europe di Robertson,
dove cruciale è comprendere i nessi causali, non seguire l’ordine
cronologico. Al contrario, nella History of the Progress and Termination
of the Roman Republic, ma anche nella History of Charles V, il restringersi
della prospettiva reintroduce la narrazione storica. Ha, comunque, ragione Francesconi
a sottolineare la differenza tra l’approccio di Robertson e quello di
Ferguson: laddove il primo si propone di coniugare i diversi ritmi della narrazione
all’interno di un unico testo, creando una tensione interna, il secondo
mantiene i generi distinti e separati tra loro, ritenendoli inconciliabili.
Un’attenta analisi della “Historical Chart”, firmata da Ferguson
e pubblicata sulle pagine della seconda e della terza edizione dell’Encyclopaedia
Britannica (1782-83, 1788-97), potrebbe ulteriormente rafforzare questa
tesi[13]. Ciò che emerge da essa è
la riproposizione della convenzionale cronologia biblica; un aspetto che potrebbe
apparire sorprendente per l’autore dell’Essay on the History
of Civil Society, che aveva discreditato il peso nella storia degli “events
and successions of princes, that are recorded in the order of time”, per
sottolineare l’avanzare di quelle “characteristics of the understanding
and the heart, which alone, in every human transaction, render the story engaging
or useful”.[14]
Nel complesso, la scelta di focalizzare l’attenzione sull’aspetto
specificatamente storiografico e sul problema della causalità storica
porta Francesconi a privilegiare, come aveva già fatto Karen O’Brien,
il rapporto con l’opera storica di Voltaire in quanto importante precedente.
La relazione tra Illuminismo scozzese e Lumi europei potrebbe, però,
essere più articolata. Altri discorsi ebbero peso nell’elaborazione
dell’approccio storico scozzese, in particolare quelli relativi alla diversità
e alla disuguaglianza tra gli uomini che, intesi a pieno titolo come parti integranti
della “storia naturale dell’uomo in società”, caratterizzavano
in modi diversi tanto le opere di Jean-Jacques Rousseau quanto di Buffon. Alla
“rottura paradigmatica” degli anni ’50, costituita dall’emergere
dell’impostazione stadiale, contribuirono anche le riflessioni su disuguaglianza
e proprietà, uomo “naturale” e uomo “civile”,
poste all’ordine del giorno dal Discours sur l'origine et les fondements
de l'inégalité parmi les hommes, e la “storicizzazione”
della “natura” dell' Histoire Naturelle. Generi non storiografici
ai nostri occhi, ma per niente estranei all’“della storia”
nel Settecento.
Il libro di Francesconi analizza, dunque, una molteplicità di temi, che
arricchiscono la sua argomentazione principale e ne evidenziano la complessità.
Come sottolinea la breve introduzione di John Robertson, in apertura del volume,
si tratta di un contributo che si inserisce in modo originale nel dibattito
storiografico internazionale, riportando il discorso sulle cause all’attenzione
storica. Analizzando il modo nel quale gli illuministi scozzesi risposero alla
sfida pirronistica, L’età della storia solleva molte questioni,
utili a una maggiore comprensione dell’Illuminismo scozzese.
[1] A. Broadie, The Scottish Enlightenment. The Historical Age of the Historical Nation, Edinburgh, Birlinn, 2001.
[2] K. O’Brien, Narratives of Enlightenment. Cosmopolitan History from Voltaire to Gibbon, Cambridge, Cambridge U.P., 1997; M.S. Phillips, Society and Sentiment. Genres of Historical Writing in Britain, 1740-1820, Princeton, Princeton U.P., 2000.
[3] G. Giarrizzo, David Hume politico e storico, Torino, Einaudi, 1962.
[4] E. G. Hundert, The Enlightenment’s Fable. Bernard Mandeville and the Discovery of Society, Cambridge, Cambridge U.P., 1994; R. Hamowy, The Scottish Enlightenment and the Theory of Spontaneous Order, Carbondale, IL, Southern Illinois U.P., 1987.
[5] M. S. Phillips, “Reconsideration on History and Antiquarianism: Arnaldo Momigliano and the Historiography of Eighteenth-Century Britain”, Journal of the History of Ideas, vol. 57, n. 2, 1996, pp. 297-316.
[6] P.H. Hicks, Neoclassical History and English Culture: From Clarendon to Hume, Basingstoke, Macmillan, 1996.
[7] J.G.A. Pocock, Barbarism and Religion, vol. I: The Enlightenment of Edward Gibbon 1737-1764; vol. II: Narratives of Civil Government, Cambridge, Cambridge U.P., 1999; su cui vedi la recensione di J. Robertson, "The Enlightenments of J.G.A. Pocock", Cromohs, n. 6, 2001, [http://www.cromohs.unifi.it/6_2001/ pocock.htm#robertson].
[8] R. Koselleck, Futuro Passato. Per una semantica dei tempi storici, (1979), tr. it. di A. Marietti Solmi, Genova, Marietti, 1986; R. Koselleck-C. Maier, Progresso, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 70-76.
[9] D. Hume, History of England, (1754-62), ed. by W.B., 6 vols., Indianapolis, Liberty Press, 1983, vol. I, p. 445.
[10] R.L. Meek, Social Science and Ignoble Savage, Cambridge, Cambridge U.P., 1976; J.G.A. Pocock, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Tradition, Princeton, Princeton U.P., 1975.
[11] Cfr. M. Geuna, “La tradizione repubblicana e l’Illuminismo Scozzese”, in L. Turco, a cura di, Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico, Padova, Il poligrafo, 2003, pp. 49-86; ID., "La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali", Filosofia politica, vol. 12, 1998, pp. 101-132; ID., “Republicanism and Commercial Society in the Scottish Enlightenment: The Case of Adam Ferguson”, in M. van Gelderen-Q. Skinner, eds., Republicanism. A Shared European Heritage, 2 vols., Cambridge, Cambridge University Press, 2002, vol. II, pp. 177-195.
[12] D. Forbes, “Introduction” to An Essay on the History of Civil Society, (1767), ed. by D. Forbes, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1966, p. XXXVI.
[13] “Historical Chart”, allegata alla voce “History”, Encyclopaedia Britannica; or, a Dictionary of Arts, Sciences, &c. On a Plan entirely New [...]. 2nd edition; greatly improved and enlarged, ed. by J. Tytler, 10 vols., Edinburgh, 1778-83, vol. V, pp. 3649-3688; Encyclopaedia Britannica; or a Dictionary of Arts, Sciences and Miscellaneous Literature [...]. The Third Edition, in Eighteen Volumes, Greatly Improved, ed. by C. Macfarquhar (vols. 1-12) e G. Gleig (vols. 13-18), 18 vols., Edinburgh, 1788-97, vol. VIII, pp. 561-600; reprinted in Eliohs [ http://www.eliohs.unifi.it/testi/700/history3/HistoricalChart.htm ]
[14] A. Ferguson, An Essay on the History of Civil Society, (1767), ed. by D. Forbes, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1966, p. 79.