Daniele Francesconi, L’età della storia. Linguaggi storiografici dell’Illuminismo scozzese
Bologna, Il Mulino, 2003 [€ 25 - ISBN 881509326-5]

Silvia Sebastiani
Fondazione Luigi Firpo, Torino

1. “This is the historical Age, and this the historical Nation”. Con questa frase, che Hume aveva scritto all’editore William Strahan in una lettera dell’agosto del 1770, si chiude l’interessante libro di Daniele Francesconi – risultato di una rielaborazione della tesi di perfezionamento. Si tratta del vero e proprio leit motiv, che riappare più volte nel corso del volume, e si rispecchia nella prima parte del titolo: L’età della storia – che fa eco a The Scottish Enlightenment. The Historical Age of the Historical Nation di Alexander Broadie[1]. La seconda parte, Linguaggi storiografici dell’Illuminismo scozzese, proietta immediatamente questo volume nel filone di studi, al momento assai fertile, sui generi letterari della storiografia illuministica britannica, che trova importanti precedenti nei contributi di Karen O’Brien e di Mark Phillips[2]. Il merito maggiore di questi studi è per Francesconi quello di aver unito programmaticamente l’approccio della critica letteraria con quello storiografico. Tuttavia, è soprattutto da una precoce intuizione di Giuseppe Giarrizzo, poi mai ripresa dalla storiografia, che L'età della storia prende le mosse, focalizzando la propria analisi sulla spiegazione causale come chiave della visione storica degli scozzesi. La lettura di Hume, proposta da Giarrizzo, insisteva sull’impatto immediato del contesto economico e politico britannico sull’opera storica dello scozzese, che si presentava come il terreno sperimentale dei principi della scienza politica humiana: nella History of England la teoria della causalità aveva il ruolo cruciale di rispondere alle sfide poste dal pirronismo storico[3] ; ed è questo l’aspetto che più interessa a Francesconi.

2. Il vocabolario della causalità storica e le tecniche della costruzione narrativa costituiscono il tema portante del volume. Al centro stanno le opere storiografiche dei principali esponenti dell’Illuminismo scozzese, che ne scandiscono l’andamento e i capitoli fondamentali: gli Essays e la History of England di David Hume, l’intera opera storiografica di William Robertson, dalla storia di Scozia a quella dell’India antica; il noto Essay on the History of Civil Society e soprattutto la troppo trascurata History of the Progress and Termination of the Roman Republic di Adam Ferguson. A questi capitoli se ne affianca uno centrato sulla Francia e focalizzato sulla “rivoluzione storiografica di Voltaire”, che per Francesconi rappresenta un importante precedente della storiografia scozzese per aver combinato storia politica e storia della natura umana, così come per l’alternarsi di capitoli narrativi e digressioni sui costumi e sul governo. In particolare, egli mette in evidenza il nesso tra l’idea voltaireiana di “concatenazione necessaria di tutti gli eventi dell’universo”, che sottolinea il carattere ironico e casuale dello svolgimento storico, e l’idea delle “unintended consequences” che informa l’approccio scozzese. Quest’ultima, tuttavia, deriva da una matrice newtoniana, che rimanda a un ordine preciso, non provvidenziale, non fatalistico e nemmeno necessario, ma che introduce “un elemento di verità, verità di fatto, contingente” tale da salvare dal pirronismo storico [148-9]. Fonte comune di questi discorsi è la Fable of bees di Bernard Mandeville, la cui importanza per gli scozzesi è stata spesso notata, in particolare dal volume di E. J. Hundert dal titolo evocativo di Enlightenment’s fable; ma anche dal testo di Ronald Hamowy, punto di riferimento degli studi in lingua inglese sulle “conseguenze inattese” e sull’“ordine spontaneo”[4]. Se ci sono somiglianze tematiche con il testo di Hamowy, è alla storia della storiografia che l’autore de L’età della storia guarda: il linguaggio delle “conseguenze inattese” è centrale, perché capace di esprimere l’interdipendenza fra i diversi fattori del processo storico.
Partendo da qui, Francesconi si concentra sulle storie narrative, che ritiene molto più trascurate di quelle congetturali, e privilegia lo studio delle retoriche dell’argomentazione storica, indagando i modi nei quali gli illuministi scozzesi si collocarono in consolidate tradizioni storiografiche, oppure se ne allontanarono consapevolmente. Legando la dimensione narrativa delle “storie filosofiche” illuministe alla loro finalità retorica, Francesconi limita la validità dell’interpretazione storiografica dei Lumi di Arnaldo Momigliano alla storia antica, e quindi prevalentemente all’opera di Gibbon (alla quale del resto lo stesso Momigliano si riferiva specificamente). Si tratta di una critica avanzata già da Mark Phillips, che ha ritenuto riduttivo far derivare la storiografia “moderna” dalla sintesi di storia filosofica e critica antiquaria delle fonti; rispetto ad essa, lo storico canadese ha messo in luce le nuove esigenze narrative degli illuministi, che, focalizzandosi sul binomio imparzialità-sentimento, sperimentarono molteplici approcci storiografici[5]. Francesconi, da parte sua, argomenta che, per quanto riguarda l’analisi della storia moderna, il punto cruciale per gli scozzesi non era tanto quello di dimostrare la veridicità di un fenomeno, quanto piuttosto di interpretarne il significato.

3. Il rapporto fra le “storie narrative” degli illuministi e la “storia neoclassica” - secondo il concetto recentemente coniato da Philip Hicks [6] - risulta solo in parte di continuità: se ordinamento narrativo, primato della storia politica, finalità pedagogiche, visione dello storico quale custode della memoria pubblica sono caratteristiche riconducibili alla storia classica, non altrettanto si può dire dell’attenzione a commercio e religione, che costituiscono due elementi chiave nella nuova storia dei Lumi. Dunque, per Francesconi vi è tensione tra “storia neoclassica” e “storia filosofica”: quest’ultima è un genere caratterizzato dalla “compresenza di elementi narrativi e stadiali, civili e naturali, neoclassici e philosophisantes” [34]. In questo senso, il concetto di “narrazione illuministica” pocockiano come storia del “millennio cristiano”, ovvero la storia dell’emergere degli stati europei commerciali e costituzionali dalla barbarie seguita alla caduta dell’Impero romano[7], è troppo ristretto e finisce per portare al paradosso di relegare le storie stadiali ai margini della narrazione illuministica, di escludere Hume dal contesto dell’Illuminismo scozzese e trascurare il peso che le convenzioni della storia neoclassica avevano anche all’interno di una prospettiva stadiale. Muovendo da questa critica a mio parere condivisibile ai capitoli scozzesi di Barbarism and Religion e cercando di ovviare ai problemi lasciati aperti dall’ultimo Pocock, la cui impostazione resta comunque cruciale punto di riferimento de L’età della storia, Francesconi giunge al cuore del suo soggetto, affrontando i generi di argomentazione storica e focalizzando la sua analisi sul problema della causalità.

4. L’indagine sulle cause, alla quale la storia filosofica dei Lumi dedicò grande attenzione, è posta su tre livelli: le cause morali-politiche, quelle socio-economiche, e infine quelle culturali. Francesconi si propone di “ricostruire la loro [degli storici illuministi] immaginazione storica per come essa emerge dalla loro concreta pratica storiografica” [37].
Se il principio di causalità come dimensione abitudinaria e uniformante – teorizzato da Hume nel Treatise of Human Nature – permane in ambito filosofico, tuttavia, nel contesto storiografico, gli scozzesi ricorsero al linguaggio causale soprattutto per spiegare delle discontinuità, quali la guerra civile inglese o la crisi della proprietà feudale. Le conseguenze inattese rappresentarono la formulazione più sofisticata della causalità storica illuminista. Riprendendo il concetto di Koselleck di una open-endedness del processo storico, che in campo storiografico assume una connotazione retrospettiva, connessa ai futuri già passati[8], Francesconi suggerisce che il vocabolario causale fu utilizzato dagli storici illuministi per concettualizzare il mutamento. Esso rappresenta una tecnica cruciale di narrazione storica, ma poiché molte sono le varianti, è necessario parlare al plurale di “linguaggi” delle conseguenze inattese. Un intero capitolo è dedicato, dunque, all’analisi dei vocabolari illuministici della causalità storica, visti attraverso le prospettive divergenti e alternative, elaborate da Hume nei saggi degli anni ’40 e da Smith nella Theory of Moral Sentiments. Per entrambi le cause morali sono fattori di spiegazione sociale e storica ben più di quelle fisiche, e agiscono da moventi. Ma laddove Hume le riconduceva a fattori esterni, Smith le faceva coincidere con i moventi interni e sentimentali.
La History of England (1754-62), il testo di gran lunga di maggiore successo di Hume, si regge, secondo la lettura di Francesconi, su una molteplicità di strati causali, che determinano una periodizzazione multipla e creano una complessa storia a più livelli. È nei volumi sugli Stuart, e soprattutto sui Tudor, che Hume si avvale nel modo più ampio e sistematico del linguaggio delle conseguenze inattese, che spiegano i tre snodi fondamentali della storia britannica: la Riforma anglicana, inizialmente originata dal mero egoismo di Enrico VIII, ma che nel lungo periodo avrebbe portato, secondo il principio harringtoniano, alla redistribuzione delle terre; la crisi della proprietà feudale, principalmente causata dagli effetti benefici ma imprevisti del lusso; la guerra civile inglese, che accelerò la disgregazione della costituzione stuartiana, ponendo le basi della moderna monarchia mista. Di fronte all’incertezza delle fonti per la storia più remota, Hume avrebbe notevolmente ridimensionato il linguaggio della causalità storica, e di conseguenza il suo approccio filosofico. L’unica vera eccezione negli ultimi due volumi della History of England – sostiene Francesconi – si ha rispetto alla trattazione della Magna Charta, scaturita dalla lotta tra re e baroni: questi ultimi, in una sorta di iperbole ironica, sono definiti da Hume “generous”, poiché, per quanto mossi dal proprio esclusivo interesse, hanno di fatto contribuito a tracciare i “lineamenti fondamentali di un governo secondo la legge”[9]. Sebbene Hume si avvalga, dunque, sulla scia di Mandeville, del principio delle conseguenze inattese come spiegazione storica, non fa alcun cenno alla teoria stadiale, che negli anni ’50 Smith stava delineando nelle sue lezioni di filosofia morale a Glasgow e Dalrymple e Kames iniziavano a divulgare nelle loro opere storico-giuridiche. Questo è un aspetto che Francesconi ritiene cruciale, perché gli permette di opporsi alla lettura di quanti, come Karen O’Brien, considerano teoria stadiale e linguaggio delle conseguenze inattese quali “aspetti inscindibili di un unico e medesimo complesso teorico e storiografico, per di più irriducibile alla narrazione storica propriamente detta” [108]: essi erano, invece, “dispositivi concettuali logicamente distinti e utilizzabili separatamente”, con “genealogie intellettuali diverse”, e “prestazioni narrative differenti”. La History of England di Hume proverebbe, allora, che “nel Settecento era disponibile un linguaggio storiografico nel quale fondere impegno narrativo e linguaggio delle conseguenze inattese, pur non ricorrendo alla teoria stadiale” [108]. Proprio per questo, L'età della Storia critica e rifiuta il concetto di “storia illuministica” utilizzato in Narratives of Enlightenment, con cui si confronta continuamente.

5. Francesconi pone a giusta ragione una cesura tra la narrazione storica di Hume e Voltaire e quella che si sarebbe affermata sulla base della nuova visione stadiale. La teoria dei quattro stadi, infatti, mutò drasticamente il panorama storiografico, coniugando in modo innovativo scienza della natura umana e giurisprudenza storica e dando alla storia della società civile un senso progressivo, scandito dalla successione dei diversi modi di sussistenza e maniere. Da Smith a Dalrymple e a Kames, Francesconi ripropone sostanzialmente il percorso indicato da Ronald Meek, ma lo reinterpreta sulla scia di John Pocock come “rottura paradigmatica” [183][10]. Nonostante Kames venga considerato l’autore di “una delle più lucide formulazioni della teoria stadiale” [174], rimane sostanzialmente ai margini dell’indagine de L’età della storia, in quanto ha privilegiato il “carattere logico” della visione dei quattro stadi, senza confrontarsi veramente con il genere della narrazione storica. È Robertson, invece, ad assumere il ruolo chiave nella sua indagine, poiché fu il primo a portare la teoria dei quattro stadi sul terreno storico narrativo e a porsi il problema di superare la storia filosofica di impostazione neoclassica, che aveva caratterizzato le opere di Voltaire e Hume. Come loro, anche Robertson propose una storia dei costumi che non separasse narrazione e filosofia. Ma, adeguando lo schema stadiale alle esigenze narrative, introdusse una novità fondamentale: il ragionamento basato sulla causalità gli fornì il criterio per orientare la narrazione storica, selezionando i punti cruciali sui quali poggiare gli eventi subordinati.
Tre erano le direzioni principali nelle quali Robertson articolò il vocabolario della causalità, e che introdussero “modelli alternativi di periodizzazione storica” [185]: il discorso provvidenzialistico di lunghissimo periodo, particolarmente evidente rispetto alla Riforma; la storia stadiale dei costumi, di lungo periodo – più di due secoli erano occorsi, ad esempio, per la transazione dalla società feudale a quella commerciale; infine, la storia politica, che si articola su un arco cronologico a medio e breve termine. Francesconi sottolinea giustamente come Robertson mascheri sotto un linguaggio provvidenzialistico spiegazioni secolari: il primo discorso, che è ancora centrale nel sermone del 1755, The Situation of the World at the Time of Christ’s Appearance, è del tutto marginale e relegato sullo sfondo nelle opere propriamente storiche. Il Principal scozzese si concentra, invece, da un lato, sui cambiamenti strutturali, le cause sociali, economiche e culturali, la storia dei costumi, i gruppi sociali e i modelli di comportamento collettivo; e, dall’altro, sulla storia politica, che spiega lo sviluppo storico in termini di lotte di potere all’interno delle élites, ed è caratterizzata dal linguaggio umanistico degli effetti delle passioni dei personaggi storici sulla vita pubblica. È questo terzo discorso a scandire l’ordinamento narrativo delle opere di Robertson in modo quasi annalistico, regno per regno: poiché la nuova scienza della natura umana si basava, secondo l’insegnamento humiano, sul principio dell’uniformità delle passioni, l’analisi delle motivazioni dei personaggi storici poteva essere fatta e compresa anche rispetto a un passato remoto.
Il linguaggio delle conseguenze inattese si ritrova in entrambi i generi, nella storia stadiale dei costumi, così come nella storia politica, che in Robertson risultano complementari. “La più elaborata trattazione della causalità storica” [191] si ha nella nota introduzione alla storia di Carlo V – la View of the Progress of Society in Europe – che ripercorre le 10 cause fondamentali che hanno portato gli Stati europei dal “punto più estremo di decadenza”, all’inizio dell’XI secolo, al sistema moderno di commercio e comunicazione del XVI. Ma non è in essa, secondo Francesconi, che si trova la caratteristica fondamentale della composizione storica di Robertson, poiché la View fa a meno della successione cronologica. Il tentativo di conciliare “l’analisi delle conseguenze e l’ordine consequenziale della narrazione” [197] si trova, piuttosto, nel resto della History of Charles V - nonostante per certi versi si presenti come una narrazione convenzionale e di stampo umanistico - e nelle ultime due opere storiche di Robertson. Sia nella History of America che nella Historical Disquisition concerning the Knowledge which the Ancients had of India, entrambe caratterizzate da un alternarsi di narrazione e indagine stadiale, il linguaggio delle conseguenze involontarie assume un peso determinante soprattutto nelle parti narrative. “Proiettato sulla scala di storie mondiali della civiltà e del commercio – argomenta Francesoni – il linguaggio delle conseguenze inattese sottolinea la dinamica di contraccolpi, il rinculo dei processi storici che determina mutamento e innovazione” [225]. Nelle opere storiche di Robertson la storia dei costumi non sostituiva, dunque, la storia narrativa, ma la integrava.

6. Un discorso a parte è quello su Ferguson, che viene analizzato dal punto di vista della trattazione della storia romana nelle due opere storiche dello scozzese – l’Essay on the History of Civil Society e la History of the Progress and Termination of the Roman Republic (pubblicata nel 1783, ma composta a partire dai primi anni ’70) –, ripercorrendo le storie settecentesche di Roma in lingua inglese, da quelle di Laurence Echard e William Wotton alla Roman History di Oliver Goldsmith, pubblicata a Londra nel 1769. Il vero obiettivo di Ferguson era quello di individuare le patologie del mondo moderno e cercarne un rimedio, capire cioè come evitare che i sistemi politici decadessero. La storia romana è ai suoi occhi un caso esemplare e generale della storia della società civile e della sua corruzione: per questo ha un ruolo di primaria importanza. Francesconi sottolinea come Ferguson volesse innanzitutto dimostrare un principio politico, ossia come la forma repubblicana fosse stata sostituita dal dispotismo; e questo lo fece attraverso una “narrazione storica moralmente esemplare” [233, 248]. Se Ferguson seguì Montesquieu nell’attribuire all’azione delle medesime cause la grandezza e la decadenza di Roma, Francesconi porta in luce delle interessanti differenze ideologiche e di interpretazione nel mettere a confronto l’Essay on the History of Civil Society e la History of the Progress and Termination of the Roman Republic. L’elogio del conflitto come fattore di libertà e grandezza, riconducibile al filone repubblicano di derivazione machiavelliana, che informava anche l’analisi di Montesquieu, era alla base dell’Essay, come ha sottolineato Marco Geuna a più riprese nei suoi interventi su Ferguson[11]. Soltanto la partecipazione generale agli affari pubblici e la virtù del cittadino in armi, che implicava conflitto e divisione, potevano arginare il dispotismo: la tranquillità assumeva nell’ottica dell’Essay un valore negativo, mentre le fazioni erano connotate positivamente. Come ha scritto Duncan Forbes, per Ferguson “il vero pericolo non stava nel conflitto fra i partiti, ma nell’indifferenza politica”[12]. Risalta quindi l’assenza dalla History dell’apologia del conflitto che, d’altra parte, corrisponde a una chiara accentuazione del conservatorismo di Ferguson, esplicata da un’antipatia verso la fazione popolare che culmina nella netta condanna dei Gracchi. Nella History, allora, secondo Francesconi, Ferguson esprime un’evidente esigenza di ordine. Per spiegare questa divergenza interpretativa rispetto all’Essay, egli suggerisce tre ragioni diverse, che possono anche essere complementari. Prima di tutto, le nuove preoccupazioni di ordine politico, dovute alla guerra contro l’America rivoluzionaria: in questo senso va letto il pamphlet che Ferguson scrisse nel 1776 in difesa del governo britannico contro Richard Price – Remarks on a Pamphlet lately Published by Dr. Price–, dove il caso di Roma era ideologicamente richiamato ad ammonimento degli insorti americani. Secondo, la lettura che lo stesso Machiavelli fece nelle Istorie fiorentine del tumulto, positivo a Roma, ma problematico e disgregatore nell’esperienza di Firenze. Terzo, si tratta di due differenti generi di argomentazione storica: da un lato, la storia stadiale dell’Essay, che traccia il processo naturale delle società civili verso il proprio migliore ordinamento – e in questo contesto il conflitto può essere considerato un elemento di evoluzione delle istituzioni politiche -; dall’altro, la storia narrativa della History, nella quale predomina l’istanza morale. Mentre l’Essay era imperniato sul linguaggio delle conseguenze inattese, al quale Ferguson faceva ricorso anche per la storia romana, la History sostanzialmente lo marginalizza, in linea con le convenzioni della storia narrativa umanistica, concentrata sulle responsabilità morali degli individui: la storia è qui mossa dalle passioni e dalle ambizioni dei protagonisti. Non sorprende che l’approccio classico della History sia stato letto come un “ritorno al passato”, controcorrente rispetto al “nuovo” approccio dell’Essay. Tuttavia, Francesconi individua nel tentativo di comprendere la storia della natura umana, attraverso lo studio dell’effetto dell’ambizione sugli ordinamenti civili, un elemento di continuità che lega la storia narrativa di Ferguson al progetto intellettuale dell’Illuminismo scozzese. Ferguson, a differenza di Robertson, non cercò di coniugare linguaggio delle conseguenze inattese e narrazione storica, bensì si spostò dall’uno all’altra, dalla storia stadiale dell’Essay alla storia narrativa della History.

7. Si potrebbe dire che sia la prospettiva a determinare il genere. La storia stadiale utilizza consapevolmente la tecnica del distanziamento e si presenta come un prodotto particolare dell’esperienza del lontano: per tracciare l’intera storia del genere umano, è necessario guardare da una distanza che permetta di abbracciare in un solo sguardo tutte le terre e tutte le epoche. È questa ottica a caratterizzare tanto l’impostazione dell’Essay on the History of Civil Society di Ferguson, quanto quella della View of the Progress of Society in Europe di Robertson, dove cruciale è comprendere i nessi causali, non seguire l’ordine cronologico. Al contrario, nella History of the Progress and Termination of the Roman Republic, ma anche nella History of Charles V, il restringersi della prospettiva reintroduce la narrazione storica. Ha, comunque, ragione Francesconi a sottolineare la differenza tra l’approccio di Robertson e quello di Ferguson: laddove il primo si propone di coniugare i diversi ritmi della narrazione all’interno di un unico testo, creando una tensione interna, il secondo mantiene i generi distinti e separati tra loro, ritenendoli inconciliabili. Un’attenta analisi della “Historical Chart”, firmata da Ferguson e pubblicata sulle pagine della seconda e della terza edizione dell’Encyclopaedia Britannica (1782-83, 1788-97), potrebbe ulteriormente rafforzare questa tesi[13]. Ciò che emerge da essa è la riproposizione della convenzionale cronologia biblica; un aspetto che potrebbe apparire sorprendente per l’autore dell’Essay on the History of Civil Society, che aveva discreditato il peso nella storia degli “events and successions of princes, that are recorded in the order of time”, per sottolineare l’avanzare di quelle “characteristics of the understanding and the heart, which alone, in every human transaction, render the story engaging or useful”.[14]
Nel complesso, la scelta di focalizzare l’attenzione sull’aspetto specificatamente storiografico e sul problema della causalità storica porta Francesconi a privilegiare, come aveva già fatto Karen O’Brien, il rapporto con l’opera storica di Voltaire in quanto importante precedente. La relazione tra Illuminismo scozzese e Lumi europei potrebbe, però, essere più articolata. Altri discorsi ebbero peso nell’elaborazione dell’approccio storico scozzese, in particolare quelli relativi alla diversità e alla disuguaglianza tra gli uomini che, intesi a pieno titolo come parti integranti della “storia naturale dell’uomo in società”, caratterizzavano in modi diversi tanto le opere di Jean-Jacques Rousseau quanto di Buffon. Alla “rottura paradigmatica” degli anni ’50, costituita dall’emergere dell’impostazione stadiale, contribuirono anche le riflessioni su disuguaglianza e proprietà, uomo “naturale” e uomo “civile”, poste all’ordine del giorno dal Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, e la “storicizzazione” della “natura” dell' Histoire Naturelle. Generi non storiografici ai nostri occhi, ma per niente estranei all’“della storia” nel Settecento.
Il libro di Francesconi analizza, dunque, una molteplicità di temi, che arricchiscono la sua argomentazione principale e ne evidenziano la complessità. Come sottolinea la breve introduzione di John Robertson, in apertura del volume, si tratta di un contributo che si inserisce in modo originale nel dibattito storiografico internazionale, riportando il discorso sulle cause all’attenzione storica. Analizzando il modo nel quale gli illuministi scozzesi risposero alla sfida pirronistica, L’età della storia solleva molte questioni, utili a una maggiore comprensione dell’Illuminismo scozzese.

Note

[1] A. Broadie, The Scottish Enlightenment. The Historical Age of the Historical Nation, Edinburgh, Birlinn, 2001.
[2] K. O’Brien, Narratives of Enlightenment. Cosmopolitan History from Voltaire to Gibbon, Cambridge, Cambridge U.P., 1997; M.S. Phillips, Society and Sentiment. Genres of Historical Writing in Britain, 1740-1820, Princeton, Princeton U.P., 2000.
[3] G. Giarrizzo, David Hume politico e storico, Torino, Einaudi, 1962.
[4] E. G. Hundert, The Enlightenment’s Fable. Bernard Mandeville and the Discovery of Society, Cambridge, Cambridge U.P., 1994; R. Hamowy, The Scottish Enlightenment and the Theory of Spontaneous Order, Carbondale, IL, Southern Illinois U.P., 1987.
[5] M. S. Phillips, “Reconsideration on History and Antiquarianism: Arnaldo Momigliano and the Historiography of Eighteenth-Century Britain”, Journal of the History of Ideas, vol. 57, n. 2, 1996, pp. 297-316.
[6] P.H. Hicks, Neoclassical History and English Culture: From Clarendon to Hume, Basingstoke, Macmillan, 1996.
[7] J.G.A. Pocock, Barbarism and Religion, vol. I: The Enlightenment of Edward Gibbon 1737-1764; vol. II: Narratives of Civil Government, Cambridge, Cambridge U.P., 1999; su cui vedi la recensione di J. Robertson, "The Enlightenments of J.G.A. Pocock", Cromohs, n. 6, 2001, [http://www.cromohs.unifi.it/6_2001/ pocock.htm#robertson].
[8] R. Koselleck, Futuro Passato. Per una semantica dei tempi storici, (1979), tr. it. di A. Marietti Solmi, Genova, Marietti, 1986; R. Koselleck-C. Maier, Progresso, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 70-76.
[9] D. Hume, History of England, (1754-62), ed. by W.B., 6 vols., Indianapolis, Liberty Press, 1983, vol. I, p. 445.
[10] R.L. Meek, Social Science and Ignoble Savage, Cambridge, Cambridge U.P., 1976; J.G.A. Pocock, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Tradition, Princeton, Princeton U.P., 1975.
[11] Cfr. M. Geuna, “La tradizione repubblicana e l’Illuminismo Scozzese”, in L. Turco, a cura di, Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico, Padova, Il poligrafo, 2003, pp. 49-86; ID., "La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali", Filosofia politica, vol. 12, 1998, pp. 101-132; ID., “Republicanism and Commercial Society in the Scottish Enlightenment: The Case of Adam Ferguson”, in M. van Gelderen-Q. Skinner, eds., Republicanism. A Shared European Heritage, 2 vols., Cambridge, Cambridge University Press, 2002, vol. II, pp. 177-195.
[12] D. Forbes, “Introduction” to An Essay on the History of Civil Society, (1767), ed. by D. Forbes, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1966, p. XXXVI.
[13] “Historical Chart”, allegata alla voce “History”, Encyclopaedia Britannica; or, a Dictionary of Arts, Sciences, &c. On a Plan entirely New [...]. 2nd edition; greatly improved and enlarged, ed. by J. Tytler, 10 vols., Edinburgh, 1778-83, vol. V, pp. 3649-3688; Encyclopaedia Britannica; or a Dictionary of Arts, Sciences and Miscellaneous Literature [...]. The Third Edition, in Eighteen Volumes, Greatly Improved, ed. by C. Macfarquhar (vols. 1-12) e G. Gleig (vols. 13-18), 18 vols., Edinburgh, 1788-97, vol. VIII, pp. 561-600; reprinted in Eliohs [ http://www.eliohs.unifi.it/testi/700/history3/HistoricalChart.htm ]
[14] A. Ferguson, An Essay on the History of Civil Society, (1767), ed. by D. Forbes, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1966, p. 79.