1. L’avvio della tormentata stagione della cosiddetta "seconda
Repubblica" e del bipolarismo imperfetto hanno portato la storiografia
a riflettere analiticamente sulla storia italiana cercando ab origine,
ovvero a partire dal processo di unificazione e quindi in una prospettiva
di lunga durata, quei tratti distintivi di un difficile e frammentato
percorso che rende così poco moderna la vita politica italiana.
Segnaliamo, tra i contributi storiografici più significativi, le
analisi di Massimo Luigi Salvadori, Storia d’Italia e crisi di
regime. Saggio sulla politica italiana 1861-2000 (Il Mulino, 2001)
e di Giovanni Sabbatucci, Il trasformismo come sistema (Laterza
2003), che hanno ricercato le cause storico-politiche della mancata legittimazione
reciproca nel nostro paese tra maggioranza e opposizione, ma anche volumi
a più voci come Interpretazioni della repubblica (curato
da Agostino Giovagnoli per il Mulino nel 1998), o la recente raccolta
di saggi curata da Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia dal titolo
Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia
contemporanea (Il Mulino, 2003) che ha indagato, quest’ultima,
le radici delle divisioni su di un piano prettamente politico-ideologico,
individuando una serie di coppie di opposti che per gli autori hanno caratterizzato
la vita politico-istituzionale del nostro paese (monarchia/repubblica,
nord/sud, laici/cattolici, interventisti/neutralisti, fascisti/antifascisti,
comunisti/anticomunisti).
Un contributo sicuramente importante è dato anche dal volume di
Paolo Pezzino, Senza Stato. Le radici storiche della crisi italiana.
L’autore, nel ripercorrervi le cause della mancata alternanza tra
un partito conservatore ed uno progressista, non si limita ad una prospettiva
esclusivamente politico-istituzionale, ma estende la sua riflessione al
modello di sviluppo economico ed alle modalità di raccolta del
consenso dei partiti politici italiani. Pezzino guarda dunque a questi
elementi per comprendere il singolare processo di costruzione dello Stato
italiano, un paese dove sono persistite fratture che, a differenza di
quanto è accaduto in altri Stati, stentano tuttora a ricomporsi,
data l’evidente incapacità della popolazione ad identificarsi
come una nazione anche solo da un punto di vista simbolico.
2. Pezzino descrive nei primi capitoli i fondamenti delle ricorrenti interpretazioni
"catastrofiche" della natura dello Stato italiano. Già a partire
dal periodo immediatamente successivo al raggiungimento dell’unità
nazionale, si erano notevolmente acuiti i giudizi negativi sulla classe
dirigente uscita dal moto risorgimentale. Svanita l’illusione -
alimentata dalla mitologia letteraria - dell’Italia riportata alle
sue antiche glorie, il passaggio "dalla poesia alla prosa", gettò,
secondo l’autore, buona parte della borghesia e del ceto intellettuale
in uno stato di profonda disillusione. Era infatti ben forte la frattura
fra la concezione democratica dal basso, che aveva guidato la proposta
politica democratica-mazziniana, e la persuasione di un necessaria "guida
dall’alto" che aveva invece ispirato l’azione politica dei
liberali come Cavour. Questa opposizione fra chi dunque auspicava il ricorso
all’iniziativa popolare e rivoluzionaria, per compiere definitivamente
il processo di unificazione, e chi invece vi contrapponeva la prospettiva
moderata di costruire la nazione radicando sul territorio le istituzioni
ed evitando pericolose avventure specie in campo sociale, era destinata
a rimanere ben viva nei successivi decenni. In questa situazione, nota
Pezzino, la Corona giocò un ruolo determinante, grazie ai poteri
garantitile dallo Statuto Albertino, che escludeva per l’Italia
qualsiasi prospettiva di balanced power fra monarchia e Parlamento,
circostanza che portava alla formazione di «un sistema "aparlamentare”:
più che la fiducia, alla Camera - del resto sempre esposta al rischio
di uno scioglimento anticipato da parte del re prima, del governo poi
- si richiedeva la sua “non sfiducia” (pag. 17).
L’autore dedica molte pagine acute e stimolanti all’analisi
del potere della classe dirigente liberale dalla crisi di fine secolo
sino all’avvento del fascismo. Egli sottolinea come sino all’ascesa
al potere di Mussolini le risposte che vennero date dal ceto di governo
furono deboli, in quanto tese soltanto alla stabilizzazione istituzionale.
L’acquiescenza del Parlamento ai consolidati meccanismi di cooptazione
dell’esecutivo fu facile pretesto perché molti intellettuali,
tra la fine dell’800 e i primi dell’900, alimentassero una
profonda e radicata sfiducia sulle capacità del Parlamento (e,
di riflesso, della borghesia che più direttamente sosteneva il
ceto dirigente liberale) di reggere e governare la modernizzazione del
paese. La diffusione di queste correnti antiliberali era destinata ad
alimentare le speranze verso un soggetto forte in grado di superare le
secche e le indecisioni che la normale dialettica politica generava, ostacolando
così il progresso dell’Italia. Come nota l’autore,
tutto questo favoriva la nascita del mito dell’uomo forte o del
"Salvatore della Patria", destinato, per le virtù carismatiche
o i suoi successi, a reggere le sorti del paese (mito destinato a lunga
vita nelle vicende politiche italiane). Scrive Pezzino che «l’acme
della polemica antiparlamentare si raggiunse con i tentativi di fine secolo
di rafforzare il potere dell’esecutivo e del sovrano, e la proposta
di "tornare allo Statuto", cioè ad una pratica istituzionale ormai
improponibile per il livello di articolazione raggiunto dalla vita politica
italiana: sempre, in Italia, i momenti di crisi sociale ed istituzionale
si sono manifestati con attacchi portati alla centralità del Parlamento
(pag. 56)». Il momento più critico si ebbe però quando
la critica antiparlamentare si sommò alle pulsioni nazionalistiche
e all’interventismo bellico di ampia parte della borghesia antigiolittiana.
Critiche feroci verso il sistema politico liberale erano state espresse,
peraltro, nei primi vent’anni del Novecento, da posizioni assai
diverse: da Mussolini, che appena giunto al governo avrebbe minacciato
di trasformare l’aula di Montecitorio in un bivacco di manipoli,
ma anche da Gobetti (che mutuava la critica antiparlamentare dall’Oriani),
o da Gramsci, l’uno e l’altro sostenitori, se pur da diversi
presupposti ideologici, di soluzioni palingenetiche dal basso (e non sarà
un caso se la caduta del fascismo rappresentò per molti intellettuali,
specie vicini al Partito d’Azione, quindi direttamente legati al
magistero gobettiano, l’occasione per rilanciare l’idea di
una iniziativa dal basso in grado di realizzare un reale e radicale cambiamento
dell’assetto politico sociale dell’Italia monarchica, prospettiva
destinata ad esaurirsi con le elezioni del 1946 e del 18 aprile 1948).
3. Pezzino nota come la preferenza accordata a politiche di accentramento,
ispirate direttamente al sistema prefettizio di derivazione francese,
ricalcate dalle amministrazioni sabaude e impiantate poi nel corpus amministrativo
post-unitario, si affermò per supplire alle carenti prospettive
di egemonia sociale del gruppo dirigente liberale: un modello, per la
verità, «basato più che sull’omologazione della
periferia al "centro", su un equilibrio fra i due tipi di elites,
che ha garantito a quelle periferiche elevati margini di autonomia, ed
una cogestione politicamente contrattata del potere e delle risorse, pur
all’interno di un sistema istituzionalmente accentrato (pag.41)».
Una siffatta politica ha impedito la crescita di una burocrazia seria,
in grado di servire con lealtà le istituzioni a prescindere dal
presidente del Consiglio dei Ministri di turno. Su questi presupposti
si è poi sviluppata, secondo l’autore, l’assurda prassi
di equilibrare regionalmente i ministeri a prescindere dalla competenza,
abitudine seguita anche durante la "prima Repubblica", con l’aggravante
della lottizzazione e della prassi consociativa. La classe politica nazionale
si è quindi formata nel tempo attraverso l’aggregazione di
molteplici componenti regionali, solo al fine di soddisfare le esigenze
lottizzatrici dei gruppi politico-sociali del paese, con il risultato
di dare risposte settoriali alle singole realtà locali o regionali,
a discapito della realizzazione di valori condivisi su scala nazionale.
4. Con la fine della prima guerra mondiale, l’incapacità
del sistema liberale di rispondere alla sfida dei cambiamenti sociali
e culturali della società italiana sfociò nell’avvento
del fascismo. Quest’ultimo realizzò una forma di governo
ispirata a criteri centralistici, ma sostituì alla centralità
del Parlamento e delle elezioni, la priorità della forma-partito
come momento di raccolta (e di controllo) del consenso, nonché
di verifica della conformità ai principi della nuova politica fascista
della burocrazia degli enti statali.
Pezzino sottolinea come questa tendenza fosse destinata a mettere salde
radici anche alla caduta del regime, in relazione alla strutturazione
del sistema dei partiti come fondamento della rappresentanza e cardine
dell’intero assetto costituzionale del nuovo Stato repubblicano,
a dimostrazione, scrive l’autore, «che anche profonde cesure
sul terreno istituzionale nascondono spesso continuità e rimandi
insospettati (pag. 63)». L’importanza assegnata al partito,
che aveva dunque trovato le sue prime manifestazioni sotto il fascismo,
può essere considerata una delle cause storiche dell’eccesso
di politica esercitata dalla classe dirigente della "prima Repubblica",
cioè della pretesa della politica italiana di essere tutto e, a
volte, di essere quasi supra leges.
Pezzino critica invece le tesi di chi vede in quello che fu chiamato il
"compromesso costituzionale" l’origine delle degenerazioni della
partitocrazia, scorgendo in esso piuttosto il periodo di più netta
innovazione politico-istituzionale nella storia italiana. Lamenta tuttavia
che la Costituzione non abbia definito «regole di governo chiare
ed immediatamente convertibili in un sistema equilibrato di pesi e contrappesi
(fra governo e Parlamento, fra maggioranza ed opposizione, fra politica
ed amministrazione), essenziale al buon funzionamento di un regime parlamentare
(pag. 74)».
5. Se la Costituzione rappresentò un momento di forte e positiva
discontinuità, ciò non toglie per Pezzino che questo importante
cambiamento politico sia nato in seguito ad un evento violento come il
secondo conflitto mondiale e al forte trauma istituzionale dovuto alla
caduta del regime fascista, ragione per la quale egli dedica ai problemi
relativi al nesso guerra-nazione uno dei capitoli centrali del suo lavoro.
La prima guerra mondiale non era riuscita a rafforzare un reale processo
di costruzione dell’identità nazionale, anzi aveva innescato
nel paese un tasso di divisione lacerante che aveva impedito di ripensare
al conflitto come momento di partecipazione collettiva alla difesa degli
interessi nazionali. Ebbe buon gioco il fascismo, successivamente, nel
tentare di imporre al paese un’identità forte in senso nazionalista
e militarista, attraverso «l’educazione premilitare imposta
ai giovani, la retorica bellica, l’esaltazione dei destini del paese
(pag.81)».
Attraverso il fascismo il bellicismo acquistò una notevole importanza
come fattore utilizzato dalla classe dirigente per ottenere un vasto consenso
nazionale, in particolare in occasione dell’avventura della conquista
coloniale dell’Etiopia. La popolazione italiana, prigioniera delle
sue contraddizioni, aveva certamente aderito in maniera entusiasta alla
conquista del Corno d’Africa, ma avrebbe poi accolto con giubilo
il rientro di Mussolini dalla conferenza di Monaco nel 1938, vedendolo
come "salvatore della patria e della pace". Evidentemente, le pulsioni
imperialistiche potevano solleticare sogni da grande potenza, ma la prospettiva
di affrontare nel concreto e nel quotidiano un periodo più o meno
lungo di conflitto suscitava molto meno entusiasmo, e questo perché
«gli italiani confidavano comunque nelle capacità strategiche
di Mussolini, che fino a quel momento aveva ottenuto significativi successi
in politica estera; quanto alla soppressione delle fondamentali libertà
politiche, sindacali, di stampa, di manifestazione della propria opinione,
questa sembrava di gran lunga compensata da quello che appariva un ritrovato
prestigio dell’Italia in campo internazionale (pag. 84)». Ma
la seconda guerra mondiale si incaricò di manifestare sia la totale
mancanza di preparazione finanziaria e strategica che l’assoluta
inconsistenza della strategia militare di Mussolini. La guerra voluta
dal duce non riuscì, inoltre, a ingenerare quel sostegno nazionale
che invece aveva attraversato i momenti più significativi del primo
conflitto mondiale. Pezzino sottolinea che mai si creò nel paese
quel sostegno ai soldati e al governo, sia da parte della popolazione,
sia da parte dei ceti medi e degli intellettuali, per cui «la guerra,
ormai, da "italiana" era diventata "fascista"(pag. 87)».
Partendo da questi elementi, l’autore sviluppa una riflessione critica
rispetto alla teoria della "morte della patria" così come l’ha
definita Galli della Loggia[1]
mutuando un’espressione dal libro di Salvatore Satta De profundis[2],
poiché «sembra che Galli della Loggia non consideri che la
"patria" era stata sottoposta nei decenni precedenti a tensioni che ne
avevano progressivamente disgregato le capacità attrattive: già
il primo conflitto mondiale aveva fatto della patria "un valore fondante
della civiltà liberale", un assoluto che l’aveva trasformata
in "elemento di sopraffazione delle altre patrie". La patria che muore
l’8 settembre, inoltre, non può non portare indelebilmente
i segni della nazionalizzazione fascista, basata sulla distruzione dello
Stato di diritto, sulla coniugazione della patria e della nazione non
solo nell’aggressiva concezione che era già propria del nazionalismo
di inizio secolo, ma anche nell’aberrante lettura razziale dell’ultimo
fascismo, sulla sostituzione delle burocrazie tradizionali con burocrazie
parallele molto meno sensibili a quell’etica statuale che da sempre
ha rappresentato uno degli strumenti di aggregazione del consenso nazionale
(pp. 88-89)». Quel vuoto di potere fu piuttosto anche il momento
di una discontinuità con il passato, in grado di consentire la
riorganizzazione della convivenza civile. Il senso di smarrimento e frustrazione
del post 8 settembre viene spiegato in questo senso con la volontà
del popolo italiano di uscire il prima possibile dal conflitto.
La popolazione riuscì dunque a trovare momenti di reazione e di
solidarietà civile che una classe dirigente reduce da anni di conformismo
fascista non riusciva ad esprimere. Una circostanza, questa, che Pezzino
vede come un filo conduttore di una certa capacità della società
italiana di riscoprire in momenti assai critici della vita nazionale (i
primi anni post-unitari, la crisi di fine secolo, la prima guerra mondiale
dopo Caporetto, la Resistenza, la lotta al terrorismo negli anni ’70-’80)
le risorse umane fondamentali per evitare una definitiva disgregazione
dell’unità nazionale.
Il tentativo di Mussolini di far coincidere l’Italia fascista con
l’Italia intera aveva creato le pre-condizioni di profonde lacerazioni
nel tessuto nazionale al momento del crollo del regime: una simile prospettiva
evidentemente circoscrive eventuali responsabilità della Resistenza
o dell’antifascismo sul carattere traumatico di quel drammatico
evento, poiché era inevitabile che la caduta così violenta
di un sistema di potere antidemocratico sarebbe avvenuta attraverso un
processo di guerra civile dai contenuti patriottici ma anche fortemente
ideologici. Per tutti questi motivi l’ethos ed i sentimenti
collettivi del secondo dopoguerra non si indirizzarono verso una qualche
forma di solidarietà nazionale, ma piuttosto verso forme di appartenenza
ideologico-religiose, con lo Stato etico che lasciò il posto al
"partito etico" o alla "Chiesa Etica": la Chiesa e i partiti si nutrirono
di visioni universalistiche che sacrificarono forme di solidarietà
nazionale, garantendo comunque che quelle passioni si svolgessero nell’alveo
della logica democratica.
6. Pezzino nota come la visione della Resistenza emersa a partire dagli
Sessanta ne abbia privilegiato il carattere nazionale e popolare per ragioni
politiche, raffigurandola come l’insurrezione di un intero popolo
per liberare il paese dall’invasore tedesco e dai suoi pochi alleati
fascisti, e lasciando in ombra la complessità dei comportamenti
e delle dinamiche che avevano caratterizzato il vissuto degli italiani
in quegli anni.
È in quest’ottica che i partiti, all’interno della
stringente e ferrea logica della guerra fredda, avvertirono la necessità
di lasciare uno spazio, più o meno ampio, di unità sui fondamenti;
dettero vita, cioè a quello che Rusconi, riprendendo un’espressione
di Habermas, ha definito "patriottismo costituzionale". Pezzino scrive
però come «[...] la trasformazione della Resistenza in mito
fondante della nuova Italia repubblicana abbia paradossalmente impedito
di fare i conti col fascismo (pag. 112)», nel senso che la rappresentazione
della Resistenza come epos del popolo italiano consentì
alla popolazione di entrare direttamente in una democrazia piena senza
una seria analisi sulle responsabilità che avevano permesso al
fascismo di dominare la vita politica e sociale per un ventennio. Fu facile
così innalzare miti come quello dell’ "italiano brava gente",
in grado di minimizzare le responsabilità italiane sia per quanto
riguarda la persecuzione degli ebrei ma anche rispetto alle atrocità
commesse nelle colonie africane e nelle zone sotto dominio italiano nel
corso della guerra[3].
La memoria nazionale pesantemente condizionata dall’esperienza e
dalla caduta del fascismo ha in tal modo profondamente vincolato la rinascita
del paese, circostanza che secondo l’autore porta alla necessità
di «riformulare un giudizio storiografico generale che sia in grado
di spiegare le conseguenze di lunga durata nella vita dell’Italia
repubblicana di una pluralità di memorie antagoniste in merito
a quel passaggio che in seguito si è voluto fondativo di una nuova
identità nazionale (pag. 110)».
La Resistenza e l’antifascismo riuscirono ad acquisire col tempo
un valore di identificazione a carattere unitario almeno per una parte
consistente degli italiani, ma questo processo non fu né facile
né esente da alcune forzature intellettuali e storiografiche: la
Resistenza, al di là di certe rappresentazioni agiografiche, non
fu un fenomeno esente da profonde lacerazioni interne (così come
non lo fu l’antifascismo), poiché fu attraversata da profondi
contrasti di carattere ideologico ma anche identitario, come nel caso
delle zone del confine nord-orientale. Tuttavia, scrive Pezzino, «Porzûs
e il Nord-Est non rappresentano tutta l’Italia: l’esito tragico
della Resistenza in quelle zone (compresa la successiva infoibazione di
molti italiani nelle zone occupate dagli slavi) dovrebbe far valutare
come l’accordo antifascista, pur fra mille contraddizioni e ambiguità,
sul piano nazionale resse, e consentì all’Italia non solo
di sedersi al tavolo delle trattative non esclusivamente come potenza
sconfitta, ma di uscire dall’esperienza fascista con un patto fra
le nuove forze politiche che trovò poi attuazione nei lavori dell’Assemblea
costituente e nella promulgazione della Costituzione della Repubblica
(pag. 122)».
7. La fine del conflitto lasciò in eredità anche una "guerra
civile dell’anima", generata da passioni politico-ideologiche che
portarono a sacrificare l’identità nazionale a favore di
patrie lontane e radicalmente alternative rispetto all’orizzonte
italiano.
Pezzino nota tuttavia come questa polarizzazione ideologica abbia rappresentato
un involucro non così onnicomprensivo, essendosi fermata più
che altro a livello di scontro politico e non abbia inciso in profondità
nella costruzione di appartenenze durature, se è vero che alcune
delle fratture secolari dell’identità italiana (anche a livello
antropologico-culturale) non scomparvero, e sopravvissero «norme
morali, comportamenti di costume, e perfino comportamenti elettorali [che]
hanno teso piuttosto a confondere i quadri delle appartenenze: cattolici
che votano per i comunisti, comunisti che battezzano i propri figli e
si sposano in chiesa, una morale famigliare e sessuale tendenzialmente
omogenea e influenzata più dal carattere urbano o rurale delle
società locali che dall’appartenenza ideologica (pag. 135)».
L’autore scrive pagine interessanti nelle quali, confrontandosi
con le note tesi di Banfield e Putnam, mette in evidenza il ruolo delle
relazioni famigliari, con il loro carico di clientelismo e di interessate
reti di amicizie che hanno caratterizzato la vita degli italiani sia a
livello pubblico che privato.
Una debolezza di costruzione di una comune identità nazionale che
era ben presente all’interno dei due principali partiti di massa,
la democrazia cristiana e il partito comunista, che con insistenza si
riferivano a modelli distinti di aggregazione, e che fu aggravata dal
fatto che entrambi i partiti dovettero costruire il loro consenso adattando
le loro finalità a quei caratteri di particolarità e localismo
già presenti nella società italiana, traendo la legittimazione
della propria forza dal non riuscire ad opporsi con efficacia alla debolezza
dell’identità nazionale.
I partiti, secondo Pezzino, sono dunque rimasti imprigionati dalle contrastanti
e particolaristiche richieste del corpo sociale, per cui ogni progetto
di modernizzazione si è dovuto scontrare con la mancanza di «reti
di solidarietà diffuse (pag. 148)».
8. La secolarizzazione postbellica della società italiana (si pensi
solo al distacco delle donne rispetto al formalismo della chiesa cattolica)
accentuò la progressiva corrosione della identità statuale
e il deficit di rappresentanza dei partiti politici. L’incapacità,
da parte dei governi di centro-sinistra a partecipazione socialista, di
comprendere e di valorizzare le nuove istanze che provenivano da una società
attraversata da tumultuosi cambiamenti, in particolare della sua componente
giovanile, portò molti giovani ad estraniarsi da una concreta "cultura
dello Stato"a partire dal ’68. L’impossibilità di identificarsi
in uno Stato che ne rappresentasse le aspirazioni, si muoveva in una più
generale tendenza di crescita di tendenze individualistiche e di disgregazione
della famiglia nucleare, finalizzate alla ricerca di nuove strutture aggregative
slegate dai partiti e maggiormente collegate al terreno del consumo e
del benessere. Per questa ragione l’autore individua le radici del
difficile riformismo italiano non tanto nella mancanza di partiti ispirati
da strategie riformiste, quanto nella difficoltà di individuare
soggetti sociali in grado di appoggiare attivamente simili politiche e
impedire resistenze o divisioni laceranti nel paese.
A ciò si aggiungeva una inadeguata strategia economica dei partiti:
è mancata, nota Pezzino, una gestione programmata delle risorse,
che si è risolta in politiche economiche concretizzatesi «nell’adozione
di politiche di deficit-spending per finanziare non investimenti
pubblici, ma spese correnti (pag. 162)». Era proprio del sistema
dei partiti non concepire politiche redistributive, ma distributive, più
funzionali queste ultime, attraverso un sistema clientelare e assistenziale,
al raccoglimento e all’espansione del consenso. La classe politica
ha privilegiato in definitiva per l’autore le logiche della mediazione
e del compromesso: la mancata costruzione di un sistema di valori-base
pienamente condiviso da tutti gli attori politici, ben presto sacrificato
sull’altare della governabilità e della prassi consociativa,
ha alimentato nel tempo una radicata sfiducia verso la politica e la prassi
parlamentare, suscitando derive qualunquistiche o pericolosamente intrise
di localismi antistorici, in certe circostanze fortemente dominate dall’idea
di rompere con "la politica romana".
9. L’ethos degli italiani è stato pertanto caratterizzato
da quello che Bodei[4] e Franco
De Felice[5] hanno definito
"noi diviso", vale a dire una identità frammentata e segmentata,
incapace di muoversi secondo principi accettati da tutti gli attori politico-sociali,
e incapace di confrontarsi partendo da una memoria condivisa del passato.
All’interno di questa logica, i partiti hanno costruito il proprio
consenso rinunciando ad imporre progetti forti e rifiutandosi di richiamare
i cittadini intorno a principi identitari a forte valenza coesiva nazionale.
L’Italia è un paese che presenta grandi limiti nella costruzione
del suo processo di modernizzazione, in quanto la classe politica non
è stata minimamente capace di costruire una solida identità
nazionale, né con la messa in atto di quelle politiche di orientamento
decisive nei processi di sedimentazione di valori nazionali (intesi come
comunanza di principi di solidarietà e diritti di cittadinanza),
né attraverso l’impostazione di una politica estera autonoma,
ma sempre legata alle contingenze internazionali. Si aggiunga il fatto,
tutt’altro che trascurabile, che la scuola italiana è totalmente
incapace di assegnare priorità all’insegnamento dell’educazione
civica nelle scuole.
L’originale analisi di questo libro è un valido contributo
proprio perché esamina la crisi italiana studiando la natura e
le dimensioni del potere locale, dello sviluppo della forma partito nella
storia italiana, del consenso e dello sviluppo dei ceti medi, della costruzione
amministrativa e burocratica dello Stato. Lo studio delle tare storiche
dell’identità nazionale rappresenta una sfida con la quale
gli storici continueranno a confrontarsi, anche perché questa è
una necessità dettata da esigenze quotidiane, visto che l’Italia
del XXI secolo vede presenti al suo interno problematiche irrisolte e
un tasso di lacerazione politico-sociale che stentano a definire una coesa
e partecipata identità nazionale, ancora più necessaria
ora che il nostro paese si vede e si vedrà costretto a cedere sempre
maggiori quote di sovranità nazionale nel processo di costruzione
dell’Unione Europea allargata.
[1] Cfr. E. GALLI DELLA LOGGIA,
La morte della patria. La crisi della idea di nazione tra Resistenza,
Antifascismo e Repubblica, Laterza, 1996.
[2] Cfr. S. SATTA, De profundis,
Illisso, 2003.
[3] Cfr. C. S. CAPOGRECO, I
campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista
(1940-1943), Einaudi, 2004.
[4] Cfr. R. BODEI, Il noi
diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, 1998.
[5] Cfr. F. DE FELICE, La
questione della nazione repubblicana, Laterza, 1999.