Paolo Pezzino, Senza Stato. Le radici storiche della crisi italiana
Bari, Laterza, 2002
[ISBN 88-420-6703-2. € 14,00]

Gianluca Scroccu
Università di Firenze

1. L’avvio della tormentata stagione della cosiddetta "seconda Repubblica" e del bipolarismo imperfetto hanno portato la storiografia a riflettere analiticamente sulla storia italiana cercando ab origine, ovvero a partire dal processo di unificazione e quindi in una prospettiva di lunga durata, quei tratti distintivi di un difficile e frammentato percorso che rende così poco moderna la vita politica italiana. Segnaliamo, tra i contributi storiografici più significativi, le analisi di Massimo Luigi Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Saggio sulla politica italiana 1861-2000 (Il Mulino, 2001) e di Giovanni Sabbatucci, Il trasformismo come sistema (Laterza 2003), che hanno ricercato le cause storico-politiche della mancata legittimazione reciproca nel nostro paese tra maggioranza e opposizione, ma anche volumi a più voci come Interpretazioni della repubblica (curato da Agostino Giovagnoli per il Mulino nel 1998), o la recente raccolta di saggi curata da Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia dal titolo Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea (Il Mulino, 2003) che ha indagato, quest’ultima, le radici delle divisioni su di un piano prettamente politico-ideologico, individuando una serie di coppie di opposti che per gli autori hanno caratterizzato la vita politico-istituzionale del nostro paese (monarchia/repubblica, nord/sud, laici/cattolici, interventisti/neutralisti, fascisti/antifascisti, comunisti/anticomunisti).
Un contributo sicuramente importante è dato anche dal volume di Paolo Pezzino, Senza Stato. Le radici storiche della crisi italiana. L’autore, nel ripercorrervi le cause della mancata alternanza tra un partito conservatore ed uno progressista, non si limita ad una prospettiva esclusivamente politico-istituzionale, ma estende la sua riflessione al modello di sviluppo economico ed alle modalità di raccolta del consenso dei partiti politici italiani. Pezzino guarda dunque a questi elementi per comprendere il singolare processo di costruzione dello Stato italiano, un paese dove sono persistite fratture che, a differenza di quanto è accaduto in altri Stati, stentano tuttora a ricomporsi, data l’evidente incapacità della popolazione ad identificarsi come una nazione anche solo da un punto di vista simbolico.

2. Pezzino descrive nei primi capitoli i fondamenti delle ricorrenti interpretazioni "catastrofiche" della natura dello Stato italiano. Già a partire dal periodo immediatamente successivo al raggiungimento dell’unità nazionale, si erano notevolmente acuiti i giudizi negativi sulla classe dirigente uscita dal moto risorgimentale. Svanita l’illusione - alimentata dalla mitologia letteraria - dell’Italia riportata alle sue antiche glorie, il passaggio "dalla poesia alla prosa", gettò, secondo l’autore, buona parte della borghesia e del ceto intellettuale in uno stato di profonda disillusione. Era infatti ben forte la frattura fra la concezione democratica dal basso, che aveva guidato la proposta politica democratica-mazziniana, e la persuasione di un necessaria "guida dall’alto" che aveva invece ispirato l’azione politica dei liberali come Cavour. Questa opposizione fra chi dunque auspicava il ricorso all’iniziativa popolare e rivoluzionaria, per compiere definitivamente il processo di unificazione, e chi invece vi contrapponeva la prospettiva moderata di costruire la nazione radicando sul territorio le istituzioni ed evitando pericolose avventure specie in campo sociale, era destinata a rimanere ben viva nei successivi decenni. In questa situazione, nota Pezzino, la Corona giocò un ruolo determinante, grazie ai poteri garantitile dallo Statuto Albertino, che escludeva per l’Italia qualsiasi prospettiva di balanced power fra monarchia e Parlamento, circostanza che portava alla formazione di «un sistema "aparlamentare”: più che la fiducia, alla Camera - del resto sempre esposta al rischio di uno scioglimento anticipato da parte del re prima, del governo poi - si richiedeva la sua “non sfiducia” (pag. 17).
L’autore dedica molte pagine acute e stimolanti all’analisi del potere della classe dirigente liberale dalla crisi di fine secolo sino all’avvento del fascismo. Egli sottolinea come sino all’ascesa al potere di Mussolini le risposte che vennero date dal ceto di governo furono deboli, in quanto tese soltanto alla stabilizzazione istituzionale. L’acquiescenza del Parlamento ai consolidati meccanismi di cooptazione dell’esecutivo fu facile pretesto perché molti intellettuali, tra la fine dell’800 e i primi dell’900, alimentassero una profonda e radicata sfiducia sulle capacità del Parlamento (e, di riflesso, della borghesia che più direttamente sosteneva il ceto dirigente liberale) di reggere e governare la modernizzazione del paese. La diffusione di queste correnti antiliberali era destinata ad alimentare le speranze verso un soggetto forte in grado di superare le secche e le indecisioni che la normale dialettica politica generava, ostacolando così il progresso dell’Italia. Come nota l’autore, tutto questo favoriva la nascita del mito dell’uomo forte o del "Salvatore della Patria", destinato, per le virtù carismatiche o i suoi successi, a reggere le sorti del paese (mito destinato a lunga vita nelle vicende politiche italiane). Scrive Pezzino che «l’acme della polemica antiparlamentare si raggiunse con i tentativi di fine secolo di rafforzare il potere dell’esecutivo e del sovrano, e la proposta di "tornare allo Statuto", cioè ad una pratica istituzionale ormai improponibile per il livello di articolazione raggiunto dalla vita politica italiana: sempre, in Italia, i momenti di crisi sociale ed istituzionale si sono manifestati con attacchi portati alla centralità del Parlamento (pag. 56)». Il momento più critico si ebbe però quando la critica antiparlamentare si sommò alle pulsioni nazionalistiche e all’interventismo bellico di ampia parte della borghesia antigiolittiana.
Critiche feroci verso il sistema politico liberale erano state espresse, peraltro, nei primi vent’anni del Novecento, da posizioni assai diverse: da Mussolini, che appena giunto al governo avrebbe minacciato di trasformare l’aula di Montecitorio in un bivacco di manipoli, ma anche da Gobetti (che mutuava la critica antiparlamentare dall’Oriani), o da Gramsci, l’uno e l’altro sostenitori, se pur da diversi presupposti ideologici, di soluzioni palingenetiche dal basso (e non sarà un caso se la caduta del fascismo rappresentò per molti intellettuali, specie vicini al Partito d’Azione, quindi direttamente legati al magistero gobettiano, l’occasione per rilanciare l’idea di una iniziativa dal basso in grado di realizzare un reale e radicale cambiamento dell’assetto politico sociale dell’Italia monarchica, prospettiva destinata ad esaurirsi con le elezioni del 1946 e del 18 aprile 1948).

3. Pezzino nota come la preferenza accordata a politiche di accentramento, ispirate direttamente al sistema prefettizio di derivazione francese, ricalcate dalle amministrazioni sabaude e impiantate poi nel corpus amministrativo post-unitario, si affermò per supplire alle carenti prospettive di egemonia sociale del gruppo dirigente liberale: un modello, per la verità, «basato più che sull’omologazione della periferia al "centro", su un equilibrio fra i due tipi di elites, che ha garantito a quelle periferiche elevati margini di autonomia, ed una cogestione politicamente contrattata del potere e delle risorse, pur all’interno di un sistema istituzionalmente accentrato (pag.41)». Una siffatta politica ha impedito la crescita di una burocrazia seria, in grado di servire con lealtà le istituzioni a prescindere dal presidente del Consiglio dei Ministri di turno. Su questi presupposti si è poi sviluppata, secondo l’autore, l’assurda prassi di equilibrare regionalmente i ministeri a prescindere dalla competenza, abitudine seguita anche durante la "prima Repubblica", con l’aggravante della lottizzazione e della prassi consociativa. La classe politica nazionale si è quindi formata nel tempo attraverso l’aggregazione di molteplici componenti regionali, solo al fine di soddisfare le esigenze lottizzatrici dei gruppi politico-sociali del paese, con il risultato di dare risposte settoriali alle singole realtà locali o regionali, a discapito della realizzazione di valori condivisi su scala nazionale.

4. Con la fine della prima guerra mondiale, l’incapacità del sistema liberale di rispondere alla sfida dei cambiamenti sociali e culturali della società italiana sfociò nell’avvento del fascismo. Quest’ultimo realizzò una forma di governo ispirata a criteri centralistici, ma sostituì alla centralità del Parlamento e delle elezioni, la priorità della forma-partito come momento di raccolta (e di controllo) del consenso, nonché di verifica della conformità ai principi della nuova politica fascista della burocrazia degli enti statali.
Pezzino sottolinea come questa tendenza fosse destinata a mettere salde radici anche alla caduta del regime, in relazione alla strutturazione del sistema dei partiti come fondamento della rappresentanza e cardine dell’intero assetto costituzionale del nuovo Stato repubblicano, a dimostrazione, scrive l’autore, «che anche profonde cesure sul terreno istituzionale nascondono spesso continuità e rimandi insospettati (pag. 63)». L’importanza assegnata al partito, che aveva dunque trovato le sue prime manifestazioni sotto il fascismo, può essere considerata una delle cause storiche dell’eccesso di politica esercitata dalla classe dirigente della "prima Repubblica", cioè della pretesa della politica italiana di essere tutto e, a volte, di essere quasi supra leges.
Pezzino critica invece le tesi di chi vede in quello che fu chiamato il "compromesso costituzionale" l’origine delle degenerazioni della partitocrazia, scorgendo in esso piuttosto il periodo di più netta innovazione politico-istituzionale nella storia italiana. Lamenta tuttavia che la Costituzione non abbia definito «regole di governo chiare ed immediatamente convertibili in un sistema equilibrato di pesi e contrappesi (fra governo e Parlamento, fra maggioranza ed opposizione, fra politica ed amministrazione), essenziale al buon funzionamento di un regime parlamentare (pag. 74)».

5. Se la Costituzione rappresentò un momento di forte e positiva discontinuità, ciò non toglie per Pezzino che questo importante cambiamento politico sia nato in seguito ad un evento violento come il secondo conflitto mondiale e al forte trauma istituzionale dovuto alla caduta del regime fascista, ragione per la quale egli dedica ai problemi relativi al nesso guerra-nazione uno dei capitoli centrali del suo lavoro.
La prima guerra mondiale non era riuscita a rafforzare un reale processo di costruzione dell’identità nazionale, anzi aveva innescato nel paese un tasso di divisione lacerante che aveva impedito di ripensare al conflitto come momento di partecipazione collettiva alla difesa degli interessi nazionali. Ebbe buon gioco il fascismo, successivamente, nel tentare di imporre al paese un’identità forte in senso nazionalista e militarista, attraverso «l’educazione premilitare imposta ai giovani, la retorica bellica, l’esaltazione dei destini del paese (pag.81)».
Attraverso il fascismo il bellicismo acquistò una notevole importanza come fattore utilizzato dalla classe dirigente per ottenere un vasto consenso nazionale, in particolare in occasione dell’avventura della conquista coloniale dell’Etiopia. La popolazione italiana, prigioniera delle sue contraddizioni, aveva certamente aderito in maniera entusiasta alla conquista del Corno d’Africa, ma avrebbe poi accolto con giubilo il rientro di Mussolini dalla conferenza di Monaco nel 1938, vedendolo come "salvatore della patria e della pace". Evidentemente, le pulsioni imperialistiche potevano solleticare sogni da grande potenza, ma la prospettiva di affrontare nel concreto e nel quotidiano un periodo più o meno lungo di conflitto suscitava molto meno entusiasmo, e questo perché «gli italiani confidavano comunque nelle capacità strategiche di Mussolini, che fino a quel momento aveva ottenuto significativi successi in politica estera; quanto alla soppressione delle fondamentali libertà politiche, sindacali, di stampa, di manifestazione della propria opinione, questa sembrava di gran lunga compensata da quello che appariva un ritrovato prestigio dell’Italia in campo internazionale (pag. 84)». Ma la seconda guerra mondiale si incaricò di manifestare sia la totale mancanza di preparazione finanziaria e strategica che l’assoluta inconsistenza della strategia militare di Mussolini. La guerra voluta dal duce non riuscì, inoltre, a ingenerare quel sostegno nazionale che invece aveva attraversato i momenti più significativi del primo conflitto mondiale. Pezzino sottolinea che mai si creò nel paese quel sostegno ai soldati e al governo, sia da parte della popolazione, sia da parte dei ceti medi e degli intellettuali, per cui «la guerra, ormai, da "italiana" era diventata "fascista"(pag. 87)».
Partendo da questi elementi, l’autore sviluppa una riflessione critica rispetto alla teoria della "morte della patria" così come l’ha definita Galli della Loggia[1] mutuando un’espressione dal libro di Salvatore Satta De profundis[2], poiché «sembra che Galli della Loggia non consideri che la "patria" era stata sottoposta nei decenni precedenti a tensioni che ne avevano progressivamente disgregato le capacità attrattive: già il primo conflitto mondiale aveva fatto della patria "un valore fondante della civiltà liberale", un assoluto che l’aveva trasformata in "elemento di sopraffazione delle altre patrie". La patria che muore l’8 settembre, inoltre, non può non portare indelebilmente i segni della nazionalizzazione fascista, basata sulla distruzione dello Stato di diritto, sulla coniugazione della patria e della nazione non solo nell’aggressiva concezione che era già propria del nazionalismo di inizio secolo, ma anche nell’aberrante lettura razziale dell’ultimo fascismo, sulla sostituzione delle burocrazie tradizionali con burocrazie parallele molto meno sensibili a quell’etica statuale che da sempre ha rappresentato uno degli strumenti di aggregazione del consenso nazionale (pp. 88-89)». Quel vuoto di potere fu piuttosto anche il momento di una discontinuità con il passato, in grado di consentire la riorganizzazione della convivenza civile. Il senso di smarrimento e frustrazione del post 8 settembre viene spiegato in questo senso con la volontà del popolo italiano di uscire il prima possibile dal conflitto.
La popolazione riuscì dunque a trovare momenti di reazione e di solidarietà civile che una classe dirigente reduce da anni di conformismo fascista non riusciva ad esprimere. Una circostanza, questa, che Pezzino vede come un filo conduttore di una certa capacità della società italiana di riscoprire in momenti assai critici della vita nazionale (i primi anni post-unitari, la crisi di fine secolo, la prima guerra mondiale dopo Caporetto, la Resistenza, la lotta al terrorismo negli anni ’70-’80) le risorse umane fondamentali per evitare una definitiva disgregazione dell’unità nazionale.
Il tentativo di Mussolini di far coincidere l’Italia fascista con l’Italia intera aveva creato le pre-condizioni di profonde lacerazioni nel tessuto nazionale al momento del crollo del regime: una simile prospettiva evidentemente circoscrive eventuali responsabilità della Resistenza o dell’antifascismo sul carattere traumatico di quel drammatico evento, poiché era inevitabile che la caduta così violenta di un sistema di potere antidemocratico sarebbe avvenuta attraverso un processo di guerra civile dai contenuti patriottici ma anche fortemente ideologici. Per tutti questi motivi l’ethos ed i sentimenti collettivi del secondo dopoguerra non si indirizzarono verso una qualche forma di solidarietà nazionale, ma piuttosto verso forme di appartenenza ideologico-religiose, con lo Stato etico che lasciò il posto al "partito etico" o alla "Chiesa Etica": la Chiesa e i partiti si nutrirono di visioni universalistiche che sacrificarono forme di solidarietà nazionale, garantendo comunque che quelle passioni si svolgessero nell’alveo della logica democratica.

6. Pezzino nota come la visione della Resistenza emersa a partire dagli Sessanta ne abbia privilegiato il carattere nazionale e popolare per ragioni politiche, raffigurandola come l’insurrezione di un intero popolo per liberare il paese dall’invasore tedesco e dai suoi pochi alleati fascisti, e lasciando in ombra la complessità dei comportamenti e delle dinamiche che avevano caratterizzato il vissuto degli italiani in quegli anni.
È in quest’ottica che i partiti, all’interno della stringente e ferrea logica della guerra fredda, avvertirono la necessità di lasciare uno spazio, più o meno ampio, di unità sui fondamenti; dettero vita, cioè a quello che Rusconi, riprendendo un’espressione di Habermas, ha definito "patriottismo costituzionale". Pezzino scrive però come «[...] la trasformazione della Resistenza in mito fondante della nuova Italia repubblicana abbia paradossalmente impedito di fare i conti col fascismo (pag. 112)», nel senso che la rappresentazione della Resistenza come epos del popolo italiano consentì alla popolazione di entrare direttamente in una democrazia piena senza una seria analisi sulle responsabilità che avevano permesso al fascismo di dominare la vita politica e sociale per un ventennio. Fu facile così innalzare miti come quello dell’ "italiano brava gente", in grado di minimizzare le responsabilità italiane sia per quanto riguarda la persecuzione degli ebrei ma anche rispetto alle atrocità commesse nelle colonie africane e nelle zone sotto dominio italiano nel corso della guerra[3].
La memoria nazionale pesantemente condizionata dall’esperienza e dalla caduta del fascismo ha in tal modo profondamente vincolato la rinascita del paese, circostanza che secondo l’autore porta alla necessità di «riformulare un giudizio storiografico generale che sia in grado di spiegare le conseguenze di lunga durata nella vita dell’Italia repubblicana di una pluralità di memorie antagoniste in merito a quel passaggio che in seguito si è voluto fondativo di una nuova identità nazionale (pag. 110)».
La Resistenza e l’antifascismo riuscirono ad acquisire col tempo un valore di identificazione a carattere unitario almeno per una parte consistente degli italiani, ma questo processo non fu né facile né esente da alcune forzature intellettuali e storiografiche: la Resistenza, al di là di certe rappresentazioni agiografiche, non fu un fenomeno esente da profonde lacerazioni interne (così come non lo fu l’antifascismo), poiché fu attraversata da profondi contrasti di carattere ideologico ma anche identitario, come nel caso delle zone del confine nord-orientale. Tuttavia, scrive Pezzino, «Porzûs e il Nord-Est non rappresentano tutta l’Italia: l’esito tragico della Resistenza in quelle zone (compresa la successiva infoibazione di molti italiani nelle zone occupate dagli slavi) dovrebbe far valutare come l’accordo antifascista, pur fra mille contraddizioni e ambiguità, sul piano nazionale resse, e consentì all’Italia non solo di sedersi al tavolo delle trattative non esclusivamente come potenza sconfitta, ma di uscire dall’esperienza fascista con un patto fra le nuove forze politiche che trovò poi attuazione nei lavori dell’Assemblea costituente e nella promulgazione della Costituzione della Repubblica (pag. 122)».

7. La fine del conflitto lasciò in eredità anche una "guerra civile dell’anima", generata da passioni politico-ideologiche che portarono a sacrificare l’identità nazionale a favore di patrie lontane e radicalmente alternative rispetto all’orizzonte italiano.
Pezzino nota tuttavia come questa polarizzazione ideologica abbia rappresentato un involucro non così onnicomprensivo, essendosi fermata più che altro a livello di scontro politico e non abbia inciso in profondità nella costruzione di appartenenze durature, se è vero che alcune delle fratture secolari dell’identità italiana (anche a livello antropologico-culturale) non scomparvero, e sopravvissero «norme morali, comportamenti di costume, e perfino comportamenti elettorali [che] hanno teso piuttosto a confondere i quadri delle appartenenze: cattolici che votano per i comunisti, comunisti che battezzano i propri figli e si sposano in chiesa, una morale famigliare e sessuale tendenzialmente omogenea e influenzata più dal carattere urbano o rurale delle società locali che dall’appartenenza ideologica (pag. 135)». L’autore scrive pagine interessanti nelle quali, confrontandosi con le note tesi di Banfield e Putnam, mette in evidenza il ruolo delle relazioni famigliari, con il loro carico di clientelismo e di interessate reti di amicizie che hanno caratterizzato la vita degli italiani sia a livello pubblico che privato.
Una debolezza di costruzione di una comune identità nazionale che era ben presente all’interno dei due principali partiti di massa, la democrazia cristiana e il partito comunista, che con insistenza si riferivano a modelli distinti di aggregazione, e che fu aggravata dal fatto che entrambi i partiti dovettero costruire il loro consenso adattando le loro finalità a quei caratteri di particolarità e localismo già presenti nella società italiana, traendo la legittimazione della propria forza dal non riuscire ad opporsi con efficacia alla debolezza dell’identità nazionale.
I partiti, secondo Pezzino, sono dunque rimasti imprigionati dalle contrastanti e particolaristiche richieste del corpo sociale, per cui ogni progetto di modernizzazione si è dovuto scontrare con la mancanza di «reti di solidarietà diffuse (pag. 148)».

8. La secolarizzazione postbellica della società italiana (si pensi solo al distacco delle donne rispetto al formalismo della chiesa cattolica) accentuò la progressiva corrosione della identità statuale e il deficit di rappresentanza dei partiti politici. L’incapacità, da parte dei governi di centro-sinistra a partecipazione socialista, di comprendere e di valorizzare le nuove istanze che provenivano da una società attraversata da tumultuosi cambiamenti, in particolare della sua componente giovanile, portò molti giovani ad estraniarsi da una concreta "cultura dello Stato"a partire dal ’68. L’impossibilità di identificarsi in uno Stato che ne rappresentasse le aspirazioni, si muoveva in una più generale tendenza di crescita di tendenze individualistiche e di disgregazione della famiglia nucleare, finalizzate alla ricerca di nuove strutture aggregative slegate dai partiti e maggiormente collegate al terreno del consumo e del benessere. Per questa ragione l’autore individua le radici del difficile riformismo italiano non tanto nella mancanza di partiti ispirati da strategie riformiste, quanto nella difficoltà di individuare soggetti sociali in grado di appoggiare attivamente simili politiche e impedire resistenze o divisioni laceranti nel paese.
A ciò si aggiungeva una inadeguata strategia economica dei partiti: è mancata, nota Pezzino, una gestione programmata delle risorse, che si è risolta in politiche economiche concretizzatesi «nell’adozione di politiche di deficit-spending per finanziare non investimenti pubblici, ma spese correnti (pag. 162)». Era proprio del sistema dei partiti non concepire politiche redistributive, ma distributive, più funzionali queste ultime, attraverso un sistema clientelare e assistenziale, al raccoglimento e all’espansione del consenso. La classe politica ha privilegiato in definitiva per l’autore le logiche della mediazione e del compromesso: la mancata costruzione di un sistema di valori-base pienamente condiviso da tutti gli attori politici, ben presto sacrificato sull’altare della governabilità e della prassi consociativa, ha alimentato nel tempo una radicata sfiducia verso la politica e la prassi parlamentare, suscitando derive qualunquistiche o pericolosamente intrise di localismi antistorici, in certe circostanze fortemente dominate dall’idea di rompere con "la politica romana".

9. L’ethos degli italiani è stato pertanto caratterizzato da quello che Bodei[4] e Franco De Felice[5] hanno definito "noi diviso", vale a dire una identità frammentata e segmentata, incapace di muoversi secondo principi accettati da tutti gli attori politico-sociali, e incapace di confrontarsi partendo da una memoria condivisa del passato. All’interno di questa logica, i partiti hanno costruito il proprio consenso rinunciando ad imporre progetti forti e rifiutandosi di richiamare i cittadini intorno a principi identitari a forte valenza coesiva nazionale. L’Italia è un paese che presenta grandi limiti nella costruzione del suo processo di modernizzazione, in quanto la classe politica non è stata minimamente capace di costruire una solida identità nazionale, né con la messa in atto di quelle politiche di orientamento decisive nei processi di sedimentazione di valori nazionali (intesi come comunanza di principi di solidarietà e diritti di cittadinanza), né attraverso l’impostazione di una politica estera autonoma, ma sempre legata alle contingenze internazionali. Si aggiunga il fatto, tutt’altro che trascurabile, che la scuola italiana è totalmente incapace di assegnare priorità all’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole.
L’originale analisi di questo libro è un valido contributo proprio perché esamina la crisi italiana studiando la natura e le dimensioni del potere locale, dello sviluppo della forma partito nella storia italiana, del consenso e dello sviluppo dei ceti medi, della costruzione amministrativa e burocratica dello Stato. Lo studio delle tare storiche dell’identità nazionale rappresenta una sfida con la quale gli storici continueranno a confrontarsi, anche perché questa è una necessità dettata da esigenze quotidiane, visto che l’Italia del XXI secolo vede presenti al suo interno problematiche irrisolte e un tasso di lacerazione politico-sociale che stentano a definire una coesa e partecipata identità nazionale, ancora più necessaria ora che il nostro paese si vede e si vedrà costretto a cedere sempre maggiori quote di sovranità nazionale nel processo di costruzione dell’Unione Europea allargata.

Note

[1] Cfr. E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria. La crisi della idea di nazione tra Resistenza, Antifascismo e Repubblica, Laterza, 1996.
[2] Cfr. S. SATTA, De profundis, Illisso, 2003.
[3] Cfr. C. S. CAPOGRECO, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2004.
[4] Cfr. R. BODEI, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, 1998.
[5] Cfr. F. DE FELICE, La questione della nazione repubblicana, Laterza, 1999.