Timothy C.W. Blanning, The Culture of Power and the Power of Culture. Old Regime Europe 1660-1789
Oxford University Press, 2002
[Hardback £25 - ISBN: 0198227450 / Paperback £14.99 - ISBN: 0199265615]

Guglielmo Sanna
Università di Sassari

1. L’ultima fatica di Tim Blanning, The Culture of Power and the Power of Culture. Old Regime Europe 1660-1789, non rappresenta soltanto un importante evento storiografico, ma costituisce anche un vero successo editoriale, come testimoniano i numerosi riconoscimenti, primo fra tutti la candidatura al prestigioso British Academy Book Prize per il 2003. E in effetti il lavoro di Blanning ha le carte in regola per conquistare un pubblico di lettori più ampio delle ristrette cerchie degli studiosi della società, della cultura e della vita politica dell’Europa dell’Età moderna e contemporanea: quasi 500 pagine, corredate da 21 tavole fuori testo, per un elegante prodotto librario in cui i quadri generali s’intrecciano efficacemente a una considerevole mole di dettagli, che sono esaminati alla luce delle ricerche più recenti, con stile letterario rigoroso e insieme divulgativo.
Blanning si concentra soprattutto sull’esperienza francese, sulle vicende inglesi e sulla variegata area tedesca, mentre l’Italia, la Spagna e l’Olanda sono pressoché ignorate. Questa scelta restringe il campo d’indagine, ma non impoverisce il risultato finale, e d’altra parte Blanning dimostra profonda conoscenza della storiografia europea, oltre a vantare il merito d’investire massicciamente su interessanti aspetti finora trascurati dagli storici della vita pubblica settecentesca, come in particolare il mondo della produzione e della fruizione della musica nei suoi complessi rapporti con l’establishment politico e con la dimensione sociale ed economica.

2. Nel suo avvincente affresco del secolo dei Lumi, Blanning prende le mosse dalla celebre tesi di Habermas sulla formazione della «sfera pubblica», che accoglie, a patto però di superare lo schema interpretativo che vedrebbe il delinearsi di una nuova sensibilità civile - finalmente emancipata nel Settecento dal monopolio cultural-politico del sovrano e della sua corte - come il mero riflesso dell’avvento alla ribalta continentale di quei nuovi ceti agrari, artigiani e commercianti che sono spesso etichettati come «borghesia» (pp. 5-14).
La prima parte del volume (Representational culture) esamina dunque le forme e i contenuti dell’antica cultura della rappresentazione del potere regio, che serviva a infondere soggezione negli strati più umili della popolazione e insieme a costruire il consenso delle élites aristocratiche e mercantili intorno alla figura del monarca. Musica e letteratura, pittura e architettura sono trattate con finezza e con perizia. Inoltre l’attenzione per i rituali di Versailles, su cui Blanning si sofferma lungamente, non va a discapito di altre realtà meno conosciute, ma non per questo meno significative, come lo sfarzoso Zwinger di Dresda, sede della corte sassone, tra le espressioni più alte del rococò ed uno dei maggiori centri della vita politica e culturale europea durante il regno di Federico Augusto I (pp. 61-72), o come anche la più modesta residenza vescovile del principato ecclesiastico di Wüzburg, realizzata da Balthasaar Neumann secondo il canone barocco, dove faceva mostra di sé un denso dipinto allegorico di Tiepolo. Nel raffigurare il matrimonio del grande imperatore medievale Federico Barbarossa celebrato da un sacerdote con i tratti fisionomici del vescovo-principe Karl Phillip von Greiffenclau, committente dell’opera, esso documenta che anche l’autorevole dinastia degli Asburgo era destinataria di precisi messaggi politici, che la ammonivano a rispettare le antiche «libertà germaniche» e insieme a garantire il primato spirituale della Chiesa (pp. 73-77).

3. Nella seconda parte (The rise of the public sphere), il volume di Blanning offre una serrata sintesi degli intricati processi che condussero alla formazione della «sfera pubblica», dallo sviluppo urbano alla crescente alfabetizzazione, dalla crisi della censura preventiva alla diffusione dei periodici. «It is a phenomenon much easier to illustrate than to explain», osserva Blanning (p. 111). Sta di fatto che nel Settecento il pubblico emerge come soggetto autonomo rispetto alla monarchia, appropriandosi della funzione di arbitro supremo delle innumerevoli dispute che scuotevano il mondo della cultura, e sostituendosi alla corte come essenziale punto di riferimento per il letterato e per l’artista.
A dire il vero, ancora nella seconda metà del secolo dei Lumi, pittori, architetti e musicisti continuavano a dipendere dal favore regio o aristocratico come un vassallo dal signore. Blanning richiama il caso di Franz Joseph Haydn, che godeva, come maestro di cappella, di tutti i privilegi riservati ai membri della corte del principe Esterházy, con l’obbligo però di scrivere solo per lui, o di accettare altri incarichi solo con il suo permesso (pp. 85-91).
Tuttavia nel Settecento l’artista poteva contare ormai su una rosa di committenti sempre più vasta e già decisamente multiforme. Per Blanning la parabola professionale di Antoine Watteau simboleggia perfettamente il superamento dei vecchi schemi mecenatistici del Rinascimento e dell’età barocca. Non a caso la famosa tela L’Enseigne de Gersaint è riprodotta in copertina: in quel quadro del periodo libertino della reggenza di Filippo d’Orléans, la bottega del pittore è raffigurata come un semplice negozio dove i dipinti sono oggetto di compravendita tra l’artista e i suoi clienti, mentre, in un angolo, l’unico ritratto di Luigi XIV – emblema del vecchio monopolio culturale di Versailles – viene riposto in una cassa di legno e in definitiva condannato all’oblio (pp. 104-105).
La commercializzazione della cultura era il sintomo più appariscente della formazione della «sfera pubblica», che rivendica il diritto di rappresentare la società attraverso nuovi meccanismi di produzione artistica, e ormai pretende di esercitare il suo spirito critico anche nell’ambito politico.

4. Nella terza e ultima parte dell’opera (Revolution), Blanning affronta infine il nodo della crisi delle istituzioni dell’antico regime. A questo punto il percorso del volume si biforca: da una parte la Gran Bretagna e il Sacro Romano Impero; dall’altra parte la Francia. Mentre infatti in Inghilterra e nel mondo germanico la monarchia seppe spogliarsi rapidamente della vecchia cultura della rappresentazione del potere, per stabilire con i sudditi un tramite più moderno e insieme più dinamico (sia pure nelle due diverse esperienze del governo parlamentare e dell’assolutismo illuminato), in Francia la monarchia si rinchiuse nei palazzi della corte, dove continuava a prevalere un linguaggio arcaico ormai incapace di fare presa sulla nuova «sfera pubblica» dei salotti e dei caffè, delle biblioteche e dei giornali.

5. Gioverà a questo punto domandarsi quale sia il vero nucleo centrale dell’intensa analisi di Blanning. Come prima ipotesi, si potrebbe suggerire che l’obiettivo di fondo di The Culture of Power sia la riformulazione del modello di Habermas secondo una prospettiva anti-marxista in cui la nascita della «sfera pubblica» non si connota più come fenomeno borghese, ma come il frutto di profonde trasformazioni verificatesi in tutti i corpi della società di antico regime. E tuttavia in quest’ottica Blanning sfonda una porta aperta, soprattutto se si considera il contesto della storiografia inglese. Già nelle sue acute Wiles Lectures del 1982, pubblicate successivamente con il titolo Aristocratic Century. The Peerage of Eighteenth Century England, John Cannon aveva rivalutato l’aristocrazia britannica come protagonista indiscussa dell’avanzamento civile ed economico del secolo dei Lumi.
Originale è invece l’abbondante spazio riservato alla cultura musicale, a cui Blanning dedica molte più pagine che ai periodici e agli altri canali di espressione della «sfera pubblica». Come rimarca lo storico britannico, «However much they developed in the 18th century, art exhibitions, novels, newspapers, periodicals, and letters had all existed in the past. It was in music that a wholly new medium emerged, in the shape of the public concert» (p. 161).
Ma in realtà il nucleo centrale di The Culture of Power è la tesi dell’irrompere dell’identità nazionale come motivo dominante delle tensioni culturali e delle vicissitudini politiche settecentesche. Blanning non esita a sfoderare il termine «nazionalismo»: «The public sphere was a neutral vessel, carrying a diversity of social groups and ideologies. Depending on the state of its journey, its cargo is usually labelled ‘scientific revolution’, the ‘crisis of the European conscience’, or the ‘Enlightenment’. These, together with plenty of others, do not have to be thrown overboard, but the argument will be advanced here that room also needs to be found for freight with a less modern or progressive appearance. We shall find, for example, that religion played a major part in mobilizing public discourse and its institutions [...]. Closely linked to religion was ‘nationalism’, which claimed a large amount of space in the public sphere, however anachronistic that may sound» (p. 15).
D’altro canto Blanning non fa mistero d’ispirarsi al controverso libro di Adrian Hastings, The Contruction of Nationhood: Ethnicity, Religion and Nationalism, apparso nel 1997, da cui riprende l’assunto della precocità dell’emergere dell’idea di nazione nella storia inglese, estendendolo inoltre anche alla Francia e allo spazio germanico (pp. 20, 253, 279). In quest’ottica i trionfi dell’assolutismo illuminato nel Sacro Romano Impero sono spiegati con l’abilità dei principi tedeschi di assecondare il montante sentimento anti-francese (l’imponente revival della lingua patria nella letteratura, a partire dagli anni settanta, parrebbe costituirne il principale indice): così la «sfera pubblica», lungi dall’esprimere inquietudini rivoluzionarie, finiva per ricompattarsi intorno al trono (pp. 243-265). Analogamente, la crisi di legittimità della monarchia in Francia viene fatta risalire all’incapacità dei Borbone di ergersi a promotori dell’interesse nazionale: Luigi XV, secondo Blanning, con il celebre episodio della Unigenitus, aveva voltato le spalle alla plurisecolare tradizione gallicana e, con essa, alla «sfera pubblica», che conseguentemente si saldava ai parlamenti, i mortali nemici della corona (pp. 374-384). Il ribaltamento delle alleanze internazionali nel 1756 e il matrimonio austriaco di Luigi XVI nel 1770 furono soltanto la riprova che la monarchia francese obbediva esclusivamente a vetuste logiche dinastiche (pp. 402-403, 409-414).

6. The Culture of Power ribalta la tesi ortodossa che da Chabod a Hobsbawm, e da ultimo nel bel libro di Maurizio Viroli, For Love of Country. An Essay on Patriotism and Nationalism (1995), interpreta l’insorgere del nazionalismo come esperienza storica squisitamente ottocentesca. Così, nell’opera di Blanning, la dimensione cosmopolita del Settecento è completamente smarrita: i gesuiti sono appena citati, e soltanto per la diatriba con i giansenisti; sulle accademie e sul Grand Tour, invece, neanche una parola (i fondamentali studi di Daniel Roche, per le prime, e di Jeremy Black, per il secondo, non figurano nemmeno tra i riferimenti bibliografici). Anche la massoneria è sostanzialmente assente, sebbene Blanning vi riconosca «one of the major institutional forms of the public sphere» e sebbene riporti i dati di Roger Chartier secondo cui, alla vigilia della rivoluzione del 1789, almeno il 5% della popolazione maschile francese apparteneva a una loggia massonica (pp. 226, 380). Naturalmente il secolo dei Lumi vide anche la gestazione di miti, di linguaggi e di pulsioni che sarebbero confluiti poi nell’ideologia nazionalistica. Per Blanning, però, il nazionalismo nel Settecento non è l’embrione di un fenomeno che si dispiegherà soltanto in seguito, ma bensì un’entità matura, perfino più forte dell’identità philosophique. Questo è quanto si ricava infatti dal corposo paragrafo sulla vibrante disputa intorno alla Lettre sur la musique française di Rousseau, che fu pubblicata a Parigi nel novembre 1753 e in cui il filosofo ginevrino sosteneva provocatoriamente la superiorità della musica italiana, suscitando l’ira di quegli illuministi francesi che soltanto pochi mesi prima si erano precipitati a difenderlo nelle querelle des bouffons contro gli alfieri del tipico genere di corte, la tragédie lyrique. D’altra parte Rousseau stesso si sarebbe vantato tanti anni dopo, come ricorda puntualmente Blanning, di avere contribuito in modo determinante a riconciliare i philosophes con le istituzioni nazionali (pp. 357-374).

7. Gli esiti di questa interpretazione così unilaterale della storia europea del Settecento non possono non lasciare perplessi. Ad esempio il paragone tra gli oratori di Händel e il Nabucco di Verdi appare azzardato (p. 275). Inoltre Blanning finisce talvolta per contraddirsi, come quando nella sua impostazione anti-marxista sottolinea che il pubblico di Mozart apparteneva per lo più all’aristocrazia, ma, nella sua continua esaltazione del fattore nazionalistico, omette di rilevare che tra i fruitori della musica dell’immortale compositore salisburghese la solidarietà di ceto era almeno pari all’amor patrio (pp. 178-179). Anche il giudizio su Federico II suona un po’ paradossale, giacché da un lato Blanning lo elogia come artefice del grande Kulturstaat prussiano dove la «sfera pubblica» era costruttivamente al fianco della monarchia, dall’altro lato lo liquida come «a living fossil, a relic of the generation before last» per la sua predilezione per la musica italiana e per il suo attaccamento alla lingua francese (pp. 201-202, 218-219).
In conclusione, The Culture of Power è una lettura ricca di stimoli, e tuttavia ci restituisce un’immagine del Settecento distante anni luce dalla riflessione venturiana e dalle altre interpretazioni storiografiche più consolidate. Forse il Settecento di The Culture of Power è troppo filtrato attraverso le lenti deformanti delle precedenti ricerche condotte da Blanning sull’impatto della rivoluzione del 1789 nel mondo germanico. Del resto, ancora oggi, Blanning continua a nutrire enorme interesse per il romanticismo, come testimonia il suo corso all’Università di Cambridge su Richard Wagner nella cultura europea dell’Ottocento. Solo da questo particolare punto d’osservazione, infatti, il secolo dei Lumi può sembrare più il grembo di gestazione dei moderni nazionalismi che non l’epoca di Diderot e dell’Encyclopédie.