1. L’ultima fatica di Tim Blanning, The Culture of Power and
the Power of Culture. Old Regime Europe 1660-1789, non rappresenta
soltanto un importante evento storiografico, ma costituisce anche un vero
successo editoriale, come testimoniano i numerosi riconoscimenti, primo
fra tutti la candidatura al prestigioso British Academy Book Prize per
il 2003. E in effetti il lavoro di Blanning ha le carte in regola per
conquistare un pubblico di lettori più ampio delle ristrette cerchie
degli studiosi della società, della cultura e della vita politica
dell’Europa dell’Età moderna e contemporanea: quasi
500 pagine, corredate da 21 tavole fuori testo, per un elegante prodotto
librario in cui i quadri generali s’intrecciano efficacemente a
una considerevole mole di dettagli, che sono esaminati alla luce delle
ricerche più recenti, con stile letterario rigoroso e insieme divulgativo.
Blanning si concentra soprattutto sull’esperienza francese, sulle
vicende inglesi e sulla variegata area tedesca, mentre l’Italia,
la Spagna e l’Olanda sono pressoché ignorate. Questa scelta
restringe il campo d’indagine, ma non impoverisce il risultato finale,
e d’altra parte Blanning dimostra profonda conoscenza della storiografia
europea, oltre a vantare il merito d’investire massicciamente su
interessanti aspetti finora trascurati dagli storici della vita pubblica
settecentesca, come in particolare il mondo della produzione e della fruizione
della musica nei suoi complessi rapporti con l’establishment
politico e con la dimensione sociale ed economica.
2. Nel suo avvincente affresco del secolo dei Lumi, Blanning prende le
mosse dalla celebre tesi di Habermas sulla formazione della «sfera
pubblica», che accoglie, a patto però di superare lo schema
interpretativo che vedrebbe il delinearsi di una nuova sensibilità
civile - finalmente emancipata nel Settecento dal monopolio cultural-politico
del sovrano e della sua corte - come il mero riflesso dell’avvento
alla ribalta continentale di quei nuovi ceti agrari, artigiani e commercianti
che sono spesso etichettati come «borghesia» (pp. 5-14).
La prima parte del volume (Representational culture) esamina dunque
le forme e i contenuti dell’antica cultura della rappresentazione
del potere regio, che serviva a infondere soggezione negli strati più
umili della popolazione e insieme a costruire il consenso delle élites
aristocratiche e mercantili intorno alla figura del monarca. Musica e
letteratura, pittura e architettura sono trattate con finezza e con perizia.
Inoltre l’attenzione per i rituali di Versailles, su cui Blanning
si sofferma lungamente, non va a discapito di altre realtà meno
conosciute, ma non per questo meno significative, come lo sfarzoso Zwinger
di Dresda, sede della corte sassone, tra le espressioni più alte
del rococò ed uno dei maggiori centri della vita politica e culturale
europea durante il regno di Federico Augusto I (pp. 61-72), o come anche
la più modesta residenza vescovile del principato ecclesiastico
di Wüzburg, realizzata da Balthasaar Neumann secondo il canone barocco,
dove faceva mostra di sé un denso dipinto allegorico di Tiepolo.
Nel raffigurare il matrimonio del grande imperatore medievale Federico
Barbarossa celebrato da un sacerdote con i tratti fisionomici del vescovo-principe
Karl Phillip von Greiffenclau, committente dell’opera, esso documenta
che anche l’autorevole dinastia degli Asburgo era destinataria di
precisi messaggi politici, che la ammonivano a rispettare le antiche «libertà
germaniche» e insieme a garantire il primato spirituale della Chiesa
(pp. 73-77).
3. Nella seconda parte (The rise of the public sphere), il volume
di Blanning offre una serrata sintesi degli intricati processi che condussero
alla formazione della «sfera pubblica», dallo sviluppo urbano
alla crescente alfabetizzazione, dalla crisi della censura preventiva
alla diffusione dei periodici. «It is a phenomenon much easier to
illustrate than to explain», osserva Blanning (p. 111). Sta di fatto
che nel Settecento il pubblico emerge come soggetto autonomo rispetto
alla monarchia, appropriandosi della funzione di arbitro supremo delle
innumerevoli dispute che scuotevano il mondo della cultura, e sostituendosi
alla corte come essenziale punto di riferimento per il letterato e per
l’artista.
A dire il vero, ancora nella seconda metà del secolo dei Lumi,
pittori, architetti e musicisti continuavano a dipendere dal favore regio
o aristocratico come un vassallo dal signore. Blanning richiama il caso
di Franz Joseph Haydn, che godeva, come maestro di cappella, di tutti
i privilegi riservati ai membri della corte del principe Esterházy,
con l’obbligo però di scrivere solo per lui, o di accettare
altri incarichi solo con il suo permesso (pp. 85-91).
Tuttavia nel Settecento l’artista poteva contare ormai su una rosa
di committenti sempre più vasta e già decisamente multiforme.
Per Blanning la parabola professionale di Antoine Watteau simboleggia
perfettamente il superamento dei vecchi schemi mecenatistici del Rinascimento
e dell’età barocca. Non a caso la famosa tela L’Enseigne
de Gersaint è riprodotta in copertina: in quel quadro del periodo
libertino della reggenza di Filippo d’Orléans, la bottega
del pittore è raffigurata come un semplice negozio dove i dipinti
sono oggetto di compravendita tra l’artista e i suoi clienti, mentre,
in un angolo, l’unico ritratto di Luigi XIV – emblema del
vecchio monopolio culturale di Versailles – viene riposto in una
cassa di legno e in definitiva condannato all’oblio (pp. 104-105).
La commercializzazione della cultura era il sintomo più appariscente
della formazione della «sfera pubblica», che rivendica il diritto
di rappresentare la società attraverso nuovi meccanismi di produzione
artistica, e ormai pretende di esercitare il suo spirito critico anche
nell’ambito politico.
4. Nella terza e ultima parte dell’opera (Revolution), Blanning affronta infine il nodo della crisi delle istituzioni dell’antico regime. A questo punto il percorso del volume si biforca: da una parte la Gran Bretagna e il Sacro Romano Impero; dall’altra parte la Francia. Mentre infatti in Inghilterra e nel mondo germanico la monarchia seppe spogliarsi rapidamente della vecchia cultura della rappresentazione del potere, per stabilire con i sudditi un tramite più moderno e insieme più dinamico (sia pure nelle due diverse esperienze del governo parlamentare e dell’assolutismo illuminato), in Francia la monarchia si rinchiuse nei palazzi della corte, dove continuava a prevalere un linguaggio arcaico ormai incapace di fare presa sulla nuova «sfera pubblica» dei salotti e dei caffè, delle biblioteche e dei giornali.
5. Gioverà a questo punto domandarsi quale sia il vero nucleo
centrale dell’intensa analisi di Blanning. Come prima ipotesi, si
potrebbe suggerire che l’obiettivo di fondo di The Culture of
Power sia la riformulazione del modello di Habermas secondo una prospettiva
anti-marxista in cui la nascita della «sfera pubblica» non si
connota più come fenomeno borghese, ma come il frutto di profonde
trasformazioni verificatesi in tutti i corpi della società di antico
regime. E tuttavia in quest’ottica Blanning sfonda una porta aperta,
soprattutto se si considera il contesto della storiografia inglese. Già
nelle sue acute Wiles Lectures del 1982, pubblicate successivamente con
il titolo Aristocratic Century. The Peerage of Eighteenth Century England,
John Cannon aveva rivalutato l’aristocrazia britannica come protagonista
indiscussa dell’avanzamento civile ed economico del secolo dei Lumi.
Originale è invece l’abbondante spazio riservato alla cultura
musicale, a cui Blanning dedica molte più pagine che ai periodici
e agli altri canali di espressione della «sfera pubblica». Come
rimarca lo storico britannico, «However much they developed in the
18th century, art exhibitions, novels, newspapers, periodicals, and letters
had all existed in the past. It was in music that a wholly new medium
emerged, in the shape of the public concert» (p. 161).
Ma in realtà il nucleo centrale di The Culture of Power è
la tesi dell’irrompere dell’identità nazionale come
motivo dominante delle tensioni culturali e delle vicissitudini politiche
settecentesche. Blanning non esita a sfoderare il termine «nazionalismo»:
«The public sphere was a neutral vessel, carrying a diversity of
social groups and ideologies. Depending on the state of its journey, its
cargo is usually labelled ‘scientific revolution’, the ‘crisis
of the European conscience’, or the ‘Enlightenment’.
These, together with plenty of others, do not have to be thrown overboard,
but the argument will be advanced here that room also needs to be found
for freight with a less modern or progressive appearance. We shall find,
for example, that religion played a major part in mobilizing public discourse
and its institutions [...]. Closely linked to religion was ‘nationalism’,
which claimed a large amount of space in the public sphere, however anachronistic
that may sound» (p. 15).
D’altro canto Blanning non fa mistero d’ispirarsi al controverso
libro di Adrian Hastings, The Contruction of Nationhood: Ethnicity,
Religion and Nationalism, apparso nel 1997, da cui riprende l’assunto
della precocità dell’emergere dell’idea di nazione
nella storia inglese, estendendolo inoltre anche alla Francia e allo spazio
germanico (pp. 20, 253, 279). In quest’ottica i trionfi dell’assolutismo
illuminato nel Sacro Romano Impero sono spiegati con l’abilità
dei principi tedeschi di assecondare il montante sentimento anti-francese
(l’imponente revival della lingua patria nella letteratura,
a partire dagli anni settanta, parrebbe costituirne il principale indice):
così la «sfera pubblica», lungi dall’esprimere
inquietudini rivoluzionarie, finiva per ricompattarsi intorno al trono
(pp. 243-265). Analogamente, la crisi di legittimità della monarchia
in Francia viene fatta risalire all’incapacità dei Borbone
di ergersi a promotori dell’interesse nazionale: Luigi XV, secondo
Blanning, con il celebre episodio della Unigenitus, aveva voltato
le spalle alla plurisecolare tradizione gallicana e, con essa, alla «sfera
pubblica», che conseguentemente si saldava ai parlamenti, i mortali
nemici della corona (pp. 374-384). Il ribaltamento delle alleanze internazionali
nel 1756 e il matrimonio austriaco di Luigi XVI nel 1770 furono soltanto
la riprova che la monarchia francese obbediva esclusivamente a vetuste
logiche dinastiche (pp. 402-403, 409-414).
6. The Culture of Power ribalta la tesi ortodossa che da Chabod a Hobsbawm, e da ultimo nel bel libro di Maurizio Viroli, For Love of Country. An Essay on Patriotism and Nationalism (1995), interpreta l’insorgere del nazionalismo come esperienza storica squisitamente ottocentesca. Così, nell’opera di Blanning, la dimensione cosmopolita del Settecento è completamente smarrita: i gesuiti sono appena citati, e soltanto per la diatriba con i giansenisti; sulle accademie e sul Grand Tour, invece, neanche una parola (i fondamentali studi di Daniel Roche, per le prime, e di Jeremy Black, per il secondo, non figurano nemmeno tra i riferimenti bibliografici). Anche la massoneria è sostanzialmente assente, sebbene Blanning vi riconosca «one of the major institutional forms of the public sphere» e sebbene riporti i dati di Roger Chartier secondo cui, alla vigilia della rivoluzione del 1789, almeno il 5% della popolazione maschile francese apparteneva a una loggia massonica (pp. 226, 380). Naturalmente il secolo dei Lumi vide anche la gestazione di miti, di linguaggi e di pulsioni che sarebbero confluiti poi nell’ideologia nazionalistica. Per Blanning, però, il nazionalismo nel Settecento non è l’embrione di un fenomeno che si dispiegherà soltanto in seguito, ma bensì un’entità matura, perfino più forte dell’identità philosophique. Questo è quanto si ricava infatti dal corposo paragrafo sulla vibrante disputa intorno alla Lettre sur la musique française di Rousseau, che fu pubblicata a Parigi nel novembre 1753 e in cui il filosofo ginevrino sosteneva provocatoriamente la superiorità della musica italiana, suscitando l’ira di quegli illuministi francesi che soltanto pochi mesi prima si erano precipitati a difenderlo nelle querelle des bouffons contro gli alfieri del tipico genere di corte, la tragédie lyrique. D’altra parte Rousseau stesso si sarebbe vantato tanti anni dopo, come ricorda puntualmente Blanning, di avere contribuito in modo determinante a riconciliare i philosophes con le istituzioni nazionali (pp. 357-374).
7. Gli esiti di questa interpretazione così unilaterale della
storia europea del Settecento non possono non lasciare perplessi. Ad esempio
il paragone tra gli oratori di Händel e il Nabucco di Verdi
appare azzardato (p. 275). Inoltre Blanning finisce talvolta per contraddirsi,
come quando nella sua impostazione anti-marxista sottolinea che il pubblico
di Mozart apparteneva per lo più all’aristocrazia, ma, nella
sua continua esaltazione del fattore nazionalistico, omette di rilevare
che tra i fruitori della musica dell’immortale compositore salisburghese
la solidarietà di ceto era almeno pari all’amor patrio (pp.
178-179). Anche il giudizio su Federico II suona un po’ paradossale,
giacché da un lato Blanning lo elogia come artefice del grande
Kulturstaat prussiano dove la «sfera pubblica» era costruttivamente
al fianco della monarchia, dall’altro lato lo liquida come «a
living fossil, a relic of the generation before last» per la sua
predilezione per la musica italiana e per il suo attaccamento alla lingua
francese (pp. 201-202, 218-219).
In conclusione, The Culture of Power è una lettura ricca
di stimoli, e tuttavia ci restituisce un’immagine del Settecento
distante anni luce dalla riflessione venturiana e dalle altre interpretazioni
storiografiche più consolidate. Forse il Settecento di The Culture
of Power è troppo filtrato attraverso le lenti deformanti delle
precedenti ricerche condotte da Blanning sull’impatto della rivoluzione
del 1789 nel mondo germanico. Del resto, ancora oggi, Blanning continua
a nutrire enorme interesse per il romanticismo, come testimonia il suo
corso all’Università di Cambridge su Richard Wagner nella
cultura europea dell’Ottocento. Solo da questo particolare punto
d’osservazione, infatti, il secolo dei Lumi può sembrare
più il grembo di gestazione dei moderni nazionalismi che non l’epoca
di Diderot e dell’Encyclopédie.