Ernst Breisach, On the Future of History.
The Postmodernist Challenge and its Aftermath,
Chicago University Press, Chicago 2003, pp. 256.
[Cloth $41.00 / ISBN 0-226-07279-7; Paper $16.00 / ISBN 0-226-07280-0]

Silvia Rosa
Università di Firenze

1. On the Future of History è un saggio dedicato all’esplorazione del nesso che lega gli studi storici a quel complesso fenomeno culturale che va sotto la sfuggente definizione di “postmodernismo”. Il suo titolo, dal tono vagamente apocalittico, non è un semplice gioco di parole, né una trovata editoriale “da vetrina” per attirare l’attenzione, ma è l’espressione efficace di un messaggio che l’autore, Ernst Breisach, fin da subito, intende rivolgere ai propri lettori: la “sfida postmoderna” (così come viene definita nel sottotitolo) è una questione molto seria che riguarda il “futuro della storia” nel senso più lato del termine, dal futuro della pratica storiografica a quello della stessa condizione umana.
Per raccogliere questa sfida, Breisach sceglie di articolare la struttura del suo saggio in cinque parti principali (costruite, a loro volta, su di una serrata sequenza di numerosi e brevi paragrafi e sottoparagrafi che conferiscono all’indice un taglio sistematico e quasi tassonomizzante), in cui propone, rispettivamente,
- una presentazione teorica generale (A preliminary Exploration of the Postmodernist Challenge, pp. 1-26);
- una ricostruzione storica in due tempi (Postmodernity as the Triumph of Continuity: Structural Postmodernism, pp. 27-56 e Postmodernity as the Age of Dominant Change: Postructuralist Postmodernism, pp. 57-166);
- un’analisi politica (Postructuralist Postmodernism and the Reshaping of Society, pp.167-190) del nesso tra “postmodernismo” e studi storici,
- un corredo finale di osservazioni conclusive (pp.191-208).
In appendice si trova poi una bibliografia selezionata e ordinata per temi ed argomenti (pp.223-236) con il fine dichiarato di fornire una guida in grado di “facilitare i lettori nelle loro personali esplorazioni” finalizzate alla “valutazione della sfida postmoderna” ai criteri della “comprensione storica della vita” (p. 223).

2. Il quarto di copertina ribadisce che On the Future of History è una guida, utile “per chiunque sia coinvolto nella sfida postmoderna alla storia, sia come sostenitore che come critico”. La precisazione, che potrebbe forse apparire ridondante nel caso di un saggio storiografico di taglio “accademico” e “scientifico”, ha in realtà una sua ragione d’essere che merita di essere commentata. Essa si inscrive infatti in un clima culturale che, dall’ultimo quarto del secolo scorso (soprattutto in area anglosassone-statunitense e francese, ma non esclusivamente) appare molto fortemente segnato, per non dire esacerbato, dalla tensione generata dal dibattito sul “postmodernismo”, che è poi l’oggetto fondamentale del saggio di Breisach. E’ questa una questione che ha visto schierarsi su opposti fronti molti dei maggiori intellettuali e, tra di essi, soprattutto nei tempi più recenti, molti ormai anche tra gli storici più autorevoli.
Senza pretendere qui di riassumerne esaustivamente i termini, basti segnalarne succintamente alcune delle linee-guida. Sulla scia delle riflessioni di filosofi post-strutturalisti come Michel Foucault, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard (per citare alcuni tra i nomi più rilevanti), le condizioni per una ridiscussione dei presupposti teorici, epistemologici e metodologici della pratica storiografica si sono affacciate progressivamente all’attenzione degli storici. Detto in sintesi, il dato di partenza è l’ipotesi “costruttivista’” secondo la quale gli stessi strumenti, concetti e paradigmi che strutturano la pratica storiografica debbano essere fatti oggetto di una radicale storicizzazione per riconoscerne e valutarne il significato e la ragione d’essere nel presente. Alla luce di questa constatazione, concetti-chiave (non solo per il lavoro storico) quali “identità”, “società”, “esperienza” etc. (corredati dei loro predicati) vedono revocato in dubbio il loro statuto epistemologico “forte” di invarianti storici: così, ad esempio, il concetto di “identità di genere” perde la propria connotazione di “dato naturale” e biologico, per acquisire quella di dato culturalmente e socialmente costruito e, di conseguenza, storicamente variabile. In questo processo di storicizzazione delle categorie alcuni studiosi vedono un’apertura verso una nuova e inesplorata dimensione del lavoro storico stesso, mentre altri presagiscono il sintomo di un caos relativistico tendenzialmente delegittimante per la pratica storiografica globalmente intesa.
Su quest’onda, le riviste, le collane tematiche, le raccolte antologiche, le conferenze e le interviste si sono moltiplicate anche all’interno delle scienze storiche, offrendo agli studiosi numerose possibilità di esprimere apertamente la propria posizione e, reciprocamente, ai lettori, la facoltà di valutare il quadro d’insieme seguendo lo svolgersi del dibattito e confrontando i diversi punti di vista. Breisach tuttavia in quest’occasione sembra scegliere un’altra strada: preferisce presentare On the Future of History come un saggio che analizza sistematicamente “dall’alto” o dall’esterno del dibattito nel vivo del suo svolgimento il fenomeno della “sfida postmoderna”, sia sul piano teorico della sua definizione, sia su quello diacronico delle sue trasformazioni nel tempo, sia, infine, su quello sincronico della sua realtà attuale nel contesto del tempo presente, lasciando (teoricamente) le sorti di questa sfida epocale del XX-XXI secolo ancora aperte ad una varietà e molteplicità di esiti e possibilità di sviluppo.
Queste le premesse/promesse del paratesto.

3. Per contro, abbandonando l’apparato paratestuale per addentrarci nella lettura del testo vero e proprio, la realtà che ci si offre mostra i tratti di una maggiore complessità ed ambiguità. Se, da una parte, come anticipato, il taglio è sistematico e il formalismo è quello “accademico” del saggio storiografico, dall’altra non è difficile (ma non per questo è meno importante) capire quanto il testo sia profondamente immerso, in ogni sua parte, nel dibattito che si propone di analizzare “dall’esterno” e quanto l’asprezza del dibattito stesso informi di sé le scelte che costituiscono le premesse, la base e la struttura stessa del lavoro. La prima parte del saggio, dedicata, come recita il titolo, ad un’ “esplorazione preliminare della sfida postmoderna” (pp. 1-26), rappresenta in questo senso, un esempio significativo del modo di procedere di Breisach.
Posto che la “sfida postmoderna” alla storia costituisce, in sintesi, l’oggetto dell’indagine storiografica che il saggio si propone di compiere, la definizione e la ricostruzione storica di questa sfida viene preventivamente illustrata e schematizzata nelle venticinque pagine della “esplorazione preliminare” ad essa dedicata. Questa prima schematizzazione ha essenzialmente il compito di fissare in astratto e in anticipo le coordinate fondamentali (definizione e scansioni periodizzanti) del fenomeno indagato: la successiva articolazione dell’indagine produrrà una galleria di esempi che, nella loro varietà, sono tutti comunque riconducibili al nucleo teorico in essa proposto. Si tratta quindi, in un certo senso, di un approccio “deduttivo”, che ha, da una parte, l’indubitabile pregio di spianare la strada della comprensione del dibattito al lettore inesperto, ma, d’altra parte, si espone agli immaginabili rischi associati alla scelta di scrivere un saggio argomentandolo, per così dire, a partire dalle sue conclusioni.

4. Coerentemente con il taglio prescelto, quindi, il saggio comincia affrontando e risolvendo preliminarmente la questione cruciale della definizione del proprio oggetto. Il termine centrale è, in questo caso, come suggerisce il sottotitolo del saggio, quello di “postmodernismo”.
Scopriamo quindi, fin dalle prime pagine, che se, da una parte, l’approccio prescelto per arrivare alla sua definizione non è quello filologico (sebbene non manchi il riferimento a Toynbee e ai “precursori” nell’uso del termine), d’altra parte non viene dedicata alcuna specifica attenzione neppure alla ricostruzione della storia più recente e complessa che, dagli anni ’60 del ‘900, lega i destini del termine alle molteplici ed eterogenee influenze dell’architettura, delle arti figurative, della letteratura e, più in generale, della cosiddetta “cultura di massa”.
Il tentativo di Breisach è infatti piuttosto quello di estrarre (e di astrarre) dalla complessa vicenda del dibattito una definizione nitida e coerente di “postmodernismo” applicabile alla teoria della storiografia, cui affidare il filo conduttore che lega le diverse parti dell’intero saggio.
Va notato a questo proposito che il termine “postmodernismo”, che pure, soprattutto a partire dagli anni ‘80, è stato fatto oggetto di una debordante varietà di usi e accostamenti (all’etica e all’estetica, alla politica, alla sociologia della famiglia, alla scienza delle comunicazioni etc.), per quello che concerne la riflessione filosofico-epistemologica alla base del dibattito storiografico trova, in verità, assai scarse occasioni di impiego (la maggior parte delle quali peraltro, soprattutto nei tempi più recenti, da parte dei critici e ad deterrendum). Con la vistosa eccezione di Lyotard, la maggior parte degli intellettuali che hanno fornito un contributo fondamentale all’elaborazione di questa riflessione non ha infatti mai espressamente associato il proprio pensiero all’ “etichetta postmoderna”, oscillando per contro tra posizioni di silenzio “neutrale” e occasionali manifestazioni di insofferenza per un termine sempre più abusato e fondamentalmente ambiguo (oltre ai già citati Foucault e Derrida, ricordiamo, tra gli altri, Roland Barthes, Jean Baudrillard, Richard Rorty, Gilles Deleuze e Felix Guattari). Lo stesso può dirsi inoltre per molti degli storici che si sono valsi delle riflessioni di questi intellettuali per riorientare la propria produzione storiografica.
Se d’altra parte l’etichetta del “postmoderno” non è autoimposta e se il suo contenuto resta, in se stesso, quantomeno vago ed indeterminato, Breisach -che, del resto, lo concede apertamente (pp. 4-6)- non rinuncia ad assegnarle un ruolo centrale nella sua analisi, e provvede, al contrario, a compensarne i limiti operando, dall’esterno, una vera e propria reductio ad unum della molteplice varietà dei suoi significati e delle sue declinazioni. Più correttamente, in realtà, egli articola la sua opera di “sintesi” della vicenda postmoderna in due momenti fondamentali, cui assegna, rispettivamente, il nome di “postmodernismo strutturale” (che è oggetto della seconda parte del saggio) e di “postmodernismo postrutturalista” (che è oggetto della terza parte). Le due definizioni scandiscono però, in ultima analisi, nell’intenzione di Breisach, la periodizzazione complessiva di un unico “postmodernismo di lunga durata”, se così possiamo chiamarlo, i cui primi inizi possono situarsi tra la fine del XIX secolo e il primo dopoguerra e le cui propaggini si spingono fino ai nostri giorni.

5. Nel ricostruire il profilo collettivo dei “postmodernisti strutturali”, ossia dei protagonisti della prima fase che dalla fin de siècle si spinge oltre il secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni ’60 (anche se non mancano isolati epigoni nel cuore degli anni ’90), Breisach fa riferimento alla sensazione crescente di sfiducia, che comincia a maturare, appunto tra fin de siècle e primo dopoguerra, nei confronti delle grandi narrazioni storiche di progresso di matrice illuministico-positivista che avevano dominato lo scenario culturale europeo e statunitense dalla seconda metà del XVIII fino alla fine del XIX secolo. Il comune denominatore dell’opera di revisione storica attuata da questo insieme di intellettuali (nel corso di quasi un secolo di storia culturale) risiederebbe infatti nella negazione del modello storico progressista dello sviluppo indefinito così come era stato formalizzato fin dalla riflessione di Condorcet, a favore di un modello triadico -dunque, ancora fornito di una struttura stabile e ordinata, da cui il nome di “postmodernismo strutturale”- (p. 22), la cui prima elementare elaborazione risale all’opera di Antoine Augustin Courot, nel contesto francese del Secondo Impero (p. 21).
Tale modello, riprodotto in modo sostanzialmente simile da tutti i “postmodernisti struttuali”, si articola, in successione, in una prima fase “preistorica” in cui l’umanità vive in un contesto sociale “naturale” ed armonico, cui segue una seconda fase di rottura dell’equilibrio naturale a favore di un’era di instabilità e conflitto che attiva il meccanismo storico del progresso e della “razionalità”, cui segue infine – e qui starebbe il tratto fondamentale di novità e revisione rispetto al modello illuminista - una fase di stagnazione indefinita asintoticamente tendente alla cristallizzazione in una “routine” di massificazione sempre più stabile, in cui si realizza uno sganciamento definitivo dalla storia e dal passato. Tra i “postmodernisti strutturali” sostenitori di questa visione vengono annoverati quindi nomi assai diversi (per profilo e spessore intellettuale nonché per epoca) come quelli di Henry Adams, Max Weber, Alexandre Kojève, Hendrik de Man, Bertrand de Jouvenel, Arnold Gehlen, Roderick Seidenberg, Francis Fukujama.

6. La seconda “versione del futuro postmoderno”, cronologicamente successiva alla prima e propugnata dal “postmodernismo postrutturalista”, comincia ad emergere invece dagli anni ‘60 del XX secolo (p. 22). Alla successione cronologica tra le due fasi Breisach associa quella che, più che una relazione di implicazione logica, potrebbe forse essere definita come una relazione di associazione analogica. Posto infatti che non viene analizzato il legame diretto (pure, in qualche caso, esistente) tra i singoli propugnatori del “postmodernismo strutturale” e quelli del “postmodernismo postrutturalista”, quel che emerge dalla loro giustapposizione è, sostanzialmente, che, come il primo nasce in seguito alla disillusione nei confronti delle narrazioni progressiste di marca illuministico-positivista, così il secondo nasce dalla perdita di potere persuasivo di quelle che Breisach definisce “tre alte maree intellettuali” (The Ebbing of Three Intellectual High Tides, p. 67), ossia “tre grandi interpretazioni del mondo umano e della sua storia” sulla cui efficacia, sia sul piano analitico che su quello trasformativo, gli intellettuali (in special modo francesi) dell’immediato dopoguerra avevano riposto in massa la loro fiducia. Le “tre alte maree” in questione sono rappresentate, rispettivamente, dal marxismo, dall’esistenzialismo e dall’antropologia strutturale, alla cui rimeditazione critica, avviata a partire dalla fine degli anni ’60 nel contesto intellettuale parigino Breisach, peraltro, dedica succintamente tre paragrafi di una pagina l’uno (pp. 67-69).
In estrema sintesi, la ricostruzione storica delle effettive premesse teoriche del “postmodernismo postrutturalista” è riassumibile quindi, con le parole di Breisach, nell’affermazione che “per i postrutturalisti, il marxismo rappresentò l’età delle ideologie che hanno divorato milioni di persone, l’esistenzialismo fu l’apogeo dell’erronea esaltazione dell’individuo come principale agente nella vita e lo strutturalismo dimostrò la rigidità propria di sistemi che avevano al centro anche soltanto un residuale elemento permanente (metafisico)” (p. 67). Conseguenza di ciò, afferma ancora Breisach, fu che “due decadi di entusiasmo per l’impegno nel nome della verità, certezza e giustizia finirono nella sfiducia in questo impegno, ora visto come la fonte di tutto ciò che era sbagliato nel mondo” (p. 70). E’ dunque nell’ironico scenario della “città che fu capitale simbolica dell’illuminismo” che si consuma “l’atto finale del lungo dramma intellettuale che ha avuto la ragione come eroe tragico” (p. 66): è in questo contesto, infatti, che “Roland Barthes ed altri [imboccano] la svolta linguistica (linguistic turn) e [incanalano] le loro energie nell’affermazione di una nuova visione semiologica del mondo” in cui “l’anonimo lavoro del linguaggio” è “riconosciuto come l’unica forza ordinatrice” e il linguistic turn diviene la “nuova, eccitante promessa... di un mondo di completo flusso” che manca “di closures, entità fisse e di ogni permanenza” (p. 70).

7. Questo carattere di promessa, di speranza, di volontà, associato ai contenuti dell’analisi “postmoderna” globalmente intesa (che “vorrebbe”, piuttosto che limitarsi a descrivere, un mondo di completo flusso), viene tematizzato fin dall’introduzione (a p. 9 si apprende, ad esempio, che i “postmodernisti” hanno “rotto deliberatamente lo stampo cronologico” e a p. 11 si argomenta che il prefisso “post” di “postmoderno” contiene un riferimento all’atteggiamento di avversione [adversarial attitude] nei confronti della modernità) e viene successivamente ribadito più volte nel corso del saggio. L’obiettivo che i postrutturalisti si pongono sarebbe, dunque, estremamente ambizioso: si tratta infatti di “contrastare l’ideale di poter cogliere l’autentico passato (la sua verità), la connessione di questo passato con il presente e con... il futuro (il nesso storico) e con gli usi tradizionali della storia (gli aspetti pragmatici della storia)” (p.59-60), attraverso la rottura del “legame diretto tra coscienza e realtà extralinguistica”, che è la condizione necessaria “per la realizzazione del loro ideale di un mondo totalmente fluido” (p. 61).
Sono questi i tratti salienti della definizione che Breisach, sia nell’introduzione generale che in quella, più specifica, della terza parte del saggio dedicata al “postmodernismo postrutturalista”, assegna, in una forma sostanzialmente collettiva ed anonima, ai “postmodernisti postrutturalisti”. Dunque, in quest’ottica, come già i “postmodernisti strutturali” avevano reagito alla disillusione nei confronti della “modernità” postulando/profetizzando un’uscita dalla storia nella forma della routinizzazione e dell’entropizzazione della vita in una situazione di indefinita e irreversibile stabilità, così i “postmodernisti postrutturalisti” reagiscono ad un’analoga disillusione profetizzando, questa volta, un’uscita dalla storia nella direzione di una sorta di anarchia intellettuale, verso “un mondo di flusso continuo, che non ha alcun ordine e significato interno” e che perciò stesso è in grado di offrire agli studiosi “infinite possibilità per una costruzione non intralciata dalle rappresentazioni stabili di entità oggettive” (p. 71).

8. Se, a questo punto, alla luce della scelta di Breisach di adottare il taglio sistematico-manualistico della guida super partes, ci fermiamo un istante a riconsiderare l’insieme delle argomentazioni utilizzate nella sua ricostruzione globale della “vicenda postmoderna”, non possiamo fare a meno di considerare come tanta parte dei giudizi valutativi - che l’autore non esprime nel momento più propriamente descrittivo della sua analisi - restino in realtà fissati “a monte”, nelle strutture generali di una sorta di “retorica dell’intransigenza”[1] utilizzata nel saggio per descrivere il “postmodernismo” nella sua relazione con “il futuro della storia”. Albert Hirschman, com’è noto, usa quest’espressione per descrivere un insieme di tipi formali di argomentazione ricorrentemente utilizzati nella discussione politica (principalmente, ma non esclusivamente, di parte conservatrice), per screditare l’introduzione di elementi di novità presentati come trasformazioni positive dai loro proponenti. Essa è basata sulla ricorrenza delle tre tesi fondamentali della “perversità”, “futilità” e “messa a repentaglio” riferite all’innovazione proposta, che finirebbe invariabilmente per determinare un effetto contrario (“perverso”) rispetto a quello atteso, per avere un’influenza minima (“futile”) sulla realtà che vorrebbe migliorare e per minacciare globalmente (“mettere a repentaglio”) il sistema al quale si applica.
Breisach, per parte sua, adatta implicitamente in più occasioni queste tre tesi alla sua analisi del “postmodernismo”. Qui la “perversità” è quella di un modello che, negando ogni forma di stabilità e di oggettività del senso, finirebbe per negare anche se stesso o per autocontraddirsi, come nel caso esemplare della riflessione di Barthes che “in modo interessante, afferma che il suo punto di vista sarebbe la conclusione di importanti sviluppi - un’ammissione di un altrimenti contestato ordine oggettivo di sviluppo-” (p. 74). La “futilità”, oltre che essere conseguenza della “perversità” del modello, risiederebbe nel carattere ciclico e ricorsivo di un sistema che vorrebbe presentarsi ogni volta come nuovo e rivoluzionario e che invece si limita ad evocare periodicamente un’ “uscita dalla storia”, ora nella direzione di un’infinita stabilizzazione entropica, ora in quella di un mondo di “flusso permanente”, che peraltro farebbe risalire i suoi tratti originari alla filosofia greca classica di Eraclito (p. 61).

9. Sull’oggetto del tema della “messa a repentaglio”, che è contenuto già nel titolo stesso del saggio, non vale forse la pena di insistere oltre: la posta in gioco è il “futuro della storia”, il destino della pratica storiografica, ma anche dell’umanità stessa in un mondo privato della possibilità di ancorarsi al proprio passato.
A questo punto, se, da una parte, tutte le premesse necessarie e sufficienti ad affrontare una lettura specifica dei contributi dei singoli rappresentanti del “postmodernismo postrutturalista”, dei loro immediati antecedenti e dei loro interlocutori sono state poste, ci accorgiamo, d’altra parte, che, nell’esaurirsi delle premesse, questa stessa lettura è divenuta in un certo senso superflua: prima ancora di affrontare l’opera di Hayden White, di incontrare la riflessione di Lyotard, di cominciare a conoscere e valutare gli specifici contributi di Derrida o di Foucault, l’analisi del “postmodernismo” è già sostanzialmente tutta alle nostre spalle. In questa cornice finisce infatti per perdere inevitabilmente d’importanza il fatto che White utilizzi concetti derivati dalle strutture retoriche dei tropi per parlare di un “mondo totalmente aperto, completamente contingente, addirittura caotico come di un mondo ‘sublime’” (p. 81); che Lyotard definisca il “postmoderno” come “incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, “anche se lo schietto termine di rifiuto avrebbe descritto meglio il suo intento” (p. 123); che Derrida si valga dei concetti di différance e di decostruzione per promuovere a sua volta il “concetto postmodernista di un mondo di flusso caotico” (pp. 102-3); che Foucault approfondisca invece il nesso potere-sapere, -sulla cui centralità nel suo pensiero “gli studiosi hanno addotto ragioni psicologiche come il conflitto giovanile col padre e l’esperienza di esclusione in quanto omosessuale” (p. 158) – per affermare la sua predilezione nietzscheana per il “dionisiaco”, “la sua celebrazione dell’esperienza di trasgressione” e la sua “simpatia per i critici del razionalismo come Georges Bataille e i profeti del desiderio e della sofferenza come il Marchese de Sade e Antonin Artaud” (p. 99).
Nella galleria di esempi ed esemplari di questo “bestiario postmoderno”, se pure molte altre informazioni sono presentate all’attenzione del lettore (sempre mediate dall’interpretazione di Breisach poiché nel saggio, in controtendenza con la filosofia statunitense del reader, le citazioni sono rare) alla fine quel che emerge più chiaramente è che i “postmoderni”, oltre ad essere in se stessi alquanto ripetitivi, si somigliano un po’ tutti e se e dove eventualmente si differenziano è là dove (eventualmente) tradiscono la loro più autentica “postmodernità”.
Al di là delle specifiche posizioni dell’autore, il saggio, che si presenta come una guida utile per “chiunque sia coinvolto nella sfida postmoderna alla storia, sia come sostenitore che come critico”, anziché avvicinare il lettore all’esplorazione personale dei testi in questione, rischia, in questo modo, di sostituirsi ad essi e, quasi, di ostacolare questo incontro: è questo forse, tra tutti i limiti di una “guida” e tutte le sue possibili (e talvolta inevitabili) inesattezze, omissioni e parzialità, quello maggiormente suscettibile di intaccarne complessivamente il valore e revocarne in dubbio la stessa ragion d’essere.

Note

[1] Cfr. A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991.