1. On the Future of History è un saggio dedicato
all’esplorazione del nesso che lega gli studi storici a quel complesso
fenomeno culturale che va sotto la sfuggente definizione di “postmodernismo”.
Il suo titolo, dal tono vagamente apocalittico, non è un semplice
gioco di parole, né una trovata editoriale “da vetrina”
per attirare l’attenzione, ma è l’espressione efficace
di un messaggio che l’autore, Ernst Breisach, fin da subito, intende
rivolgere ai propri lettori: la “sfida postmoderna” (così
come viene definita nel sottotitolo) è una questione molto seria
che riguarda il “futuro della storia” nel senso più
lato del termine, dal futuro della pratica storiografica a quello della
stessa condizione umana.
Per raccogliere questa sfida, Breisach sceglie di articolare la struttura
del suo saggio in cinque parti principali (costruite, a loro volta, su
di una serrata sequenza di numerosi e brevi paragrafi e sottoparagrafi
che conferiscono all’indice un taglio sistematico e quasi tassonomizzante),
in cui propone, rispettivamente,
- una presentazione teorica generale (A preliminary Exploration of
the Postmodernist Challenge, pp. 1-26);
- una ricostruzione storica in due tempi (Postmodernity as the Triumph
of Continuity: Structural Postmodernism, pp. 27-56 e Postmodernity
as the Age of Dominant Change: Postructuralist Postmodernism, pp.
57-166);
- un’analisi politica (Postructuralist Postmodernism and the
Reshaping of Society, pp.167-190) del nesso tra “postmodernismo”
e studi storici,
- un corredo finale di osservazioni conclusive (pp.191-208).
In appendice si trova poi una bibliografia selezionata e ordinata per
temi ed argomenti (pp.223-236) con il fine dichiarato di fornire una guida
in grado di “facilitare i lettori nelle loro personali esplorazioni”
finalizzate alla “valutazione della sfida postmoderna” ai
criteri della “comprensione storica della vita” (p. 223).
2. Il quarto di copertina ribadisce che On the Future of History è
una guida, utile “per chiunque sia coinvolto nella sfida postmoderna
alla storia, sia come sostenitore che come critico”. La precisazione,
che potrebbe forse apparire ridondante nel caso di un saggio storiografico
di taglio “accademico” e “scientifico”, ha in
realtà una sua ragione d’essere che merita di essere commentata.
Essa si inscrive infatti in un clima culturale che, dall’ultimo
quarto del secolo scorso (soprattutto in area anglosassone-statunitense
e francese, ma non esclusivamente) appare molto fortemente segnato, per
non dire esacerbato, dalla tensione generata dal dibattito sul “postmodernismo”,
che è poi l’oggetto fondamentale del saggio di Breisach.
E’ questa una questione che ha visto schierarsi su opposti fronti
molti dei maggiori intellettuali e, tra di essi, soprattutto nei tempi
più recenti, molti ormai anche tra gli storici più autorevoli.
Senza pretendere qui di riassumerne esaustivamente i termini, basti segnalarne
succintamente alcune delle linee-guida. Sulla scia delle riflessioni di
filosofi post-strutturalisti come Michel Foucault, Jacques Derrida e Jean-François
Lyotard (per citare alcuni tra i nomi più rilevanti), le condizioni
per una ridiscussione dei presupposti teorici, epistemologici e metodologici
della pratica storiografica si sono affacciate progressivamente all’attenzione
degli storici. Detto in sintesi, il dato di partenza è l’ipotesi
“costruttivista’” secondo la quale gli stessi strumenti,
concetti e paradigmi che strutturano la pratica storiografica debbano
essere fatti oggetto di una radicale storicizzazione per riconoscerne
e valutarne il significato e la ragione d’essere nel presente. Alla
luce di questa constatazione, concetti-chiave (non solo per il lavoro
storico) quali “identità”, “società”,
“esperienza” etc. (corredati dei loro predicati) vedono revocato
in dubbio il loro statuto epistemologico “forte” di invarianti
storici: così, ad esempio, il concetto di “identità
di genere” perde la propria connotazione di “dato naturale”
e biologico, per acquisire quella di dato culturalmente e socialmente
costruito e, di conseguenza, storicamente variabile. In questo processo
di storicizzazione delle categorie alcuni studiosi vedono un’apertura
verso una nuova e inesplorata dimensione del lavoro storico stesso, mentre
altri presagiscono il sintomo di un caos relativistico tendenzialmente
delegittimante per la pratica storiografica globalmente intesa.
Su quest’onda, le riviste, le collane tematiche, le raccolte antologiche,
le conferenze e le interviste si sono moltiplicate anche all’interno
delle scienze storiche, offrendo agli studiosi numerose possibilità
di esprimere apertamente la propria posizione e, reciprocamente, ai lettori,
la facoltà di valutare il quadro d’insieme seguendo lo svolgersi
del dibattito e confrontando i diversi punti di vista. Breisach tuttavia
in quest’occasione sembra scegliere un’altra strada: preferisce
presentare On the Future of History come un saggio che analizza
sistematicamente “dall’alto” o dall’esterno del
dibattito nel vivo del suo svolgimento il fenomeno della “sfida
postmoderna”, sia sul piano teorico della sua definizione, sia su
quello diacronico delle sue trasformazioni nel tempo, sia, infine, su
quello sincronico della sua realtà attuale nel contesto del tempo
presente, lasciando (teoricamente) le sorti di questa sfida epocale del
XX-XXI secolo ancora aperte ad una varietà e molteplicità
di esiti e possibilità di sviluppo.
Queste le premesse/promesse del paratesto.
3. Per contro, abbandonando l’apparato paratestuale per addentrarci
nella lettura del testo vero e proprio, la realtà che ci si offre
mostra i tratti di una maggiore complessità ed ambiguità.
Se, da una parte, come anticipato, il taglio è sistematico e il
formalismo è quello “accademico” del saggio storiografico,
dall’altra non è difficile (ma non per questo è meno
importante) capire quanto il testo sia profondamente immerso, in ogni
sua parte, nel dibattito che si propone di analizzare “dall’esterno”
e quanto l’asprezza del dibattito stesso informi di sé le
scelte che costituiscono le premesse, la base e la struttura stessa del
lavoro. La prima parte del saggio, dedicata, come recita il titolo, ad
un’ “esplorazione preliminare della sfida postmoderna”
(pp. 1-26), rappresenta in questo senso, un esempio significativo del
modo di procedere di Breisach.
Posto che la “sfida postmoderna” alla storia costituisce,
in sintesi, l’oggetto dell’indagine storiografica che il saggio
si propone di compiere, la definizione e la ricostruzione storica di questa
sfida viene preventivamente illustrata e schematizzata nelle venticinque
pagine della “esplorazione preliminare” ad essa dedicata.
Questa prima schematizzazione ha essenzialmente il compito di fissare
in astratto e in anticipo le coordinate fondamentali (definizione e scansioni
periodizzanti) del fenomeno indagato: la successiva articolazione dell’indagine
produrrà una galleria di esempi che, nella loro varietà,
sono tutti comunque riconducibili al nucleo teorico in essa proposto.
Si tratta quindi, in un certo senso, di un approccio “deduttivo”,
che ha, da una parte, l’indubitabile pregio di spianare la strada
della comprensione del dibattito al lettore inesperto, ma, d’altra
parte, si espone agli immaginabili rischi associati alla scelta di scrivere
un saggio argomentandolo, per così dire, a partire dalle sue conclusioni.
4. Coerentemente con il taglio prescelto, quindi, il saggio comincia
affrontando e risolvendo preliminarmente la questione cruciale della definizione
del proprio oggetto. Il termine centrale è, in questo caso, come
suggerisce il sottotitolo del saggio, quello di “postmodernismo”.
Scopriamo quindi, fin dalle prime pagine, che se, da una parte, l’approccio
prescelto per arrivare alla sua definizione non è quello filologico
(sebbene non manchi il riferimento a Toynbee e ai “precursori”
nell’uso del termine), d’altra parte non viene dedicata alcuna
specifica attenzione neppure alla ricostruzione della storia più
recente e complessa che, dagli anni ’60 del ‘900, lega i destini
del termine alle molteplici ed eterogenee influenze dell’architettura,
delle arti figurative, della letteratura e, più in generale, della
cosiddetta “cultura di massa”.
Il tentativo di Breisach è infatti piuttosto quello di estrarre
(e di astrarre) dalla complessa vicenda del dibattito una definizione
nitida e coerente di “postmodernismo” applicabile alla teoria
della storiografia, cui affidare il filo conduttore che lega le diverse
parti dell’intero saggio.
Va notato a questo proposito che il termine “postmodernismo”,
che pure, soprattutto a partire dagli anni ‘80, è stato fatto
oggetto di una debordante varietà di usi e accostamenti (all’etica
e all’estetica, alla politica, alla sociologia della famiglia, alla
scienza delle comunicazioni etc.), per quello che concerne la riflessione
filosofico-epistemologica alla base del dibattito storiografico trova,
in verità, assai scarse occasioni di impiego (la maggior parte
delle quali peraltro, soprattutto nei tempi più recenti, da parte
dei critici e ad deterrendum). Con la vistosa eccezione di Lyotard,
la maggior parte degli intellettuali che hanno fornito un contributo fondamentale
all’elaborazione di questa riflessione non ha infatti mai espressamente
associato il proprio pensiero all’ “etichetta postmoderna”,
oscillando per contro tra posizioni di silenzio “neutrale”
e occasionali manifestazioni di insofferenza per un termine sempre più
abusato e fondamentalmente ambiguo (oltre ai già citati Foucault
e Derrida, ricordiamo, tra gli altri, Roland Barthes, Jean Baudrillard,
Richard Rorty, Gilles Deleuze e Felix Guattari). Lo stesso può
dirsi inoltre per molti degli storici che si sono valsi delle riflessioni
di questi intellettuali per riorientare la propria produzione storiografica.
Se d’altra parte l’etichetta del “postmoderno”
non è autoimposta e se il suo contenuto resta, in se stesso, quantomeno
vago ed indeterminato, Breisach -che, del resto, lo concede apertamente
(pp. 4-6)- non rinuncia ad assegnarle un ruolo centrale nella sua analisi,
e provvede, al contrario, a compensarne i limiti operando, dall’esterno,
una vera e propria reductio ad unum della molteplice varietà
dei suoi significati e delle sue declinazioni. Più correttamente,
in realtà, egli articola la sua opera di “sintesi”
della vicenda postmoderna in due momenti fondamentali, cui assegna, rispettivamente,
il nome di “postmodernismo strutturale” (che è oggetto
della seconda parte del saggio) e di “postmodernismo postrutturalista”
(che è oggetto della terza parte). Le due definizioni scandiscono
però, in ultima analisi, nell’intenzione di Breisach, la
periodizzazione complessiva di un unico “postmodernismo di lunga
durata”, se così possiamo chiamarlo, i cui primi inizi possono
situarsi tra la fine del XIX secolo e il primo dopoguerra e le cui propaggini
si spingono fino ai nostri giorni.
5. Nel ricostruire il profilo collettivo dei “postmodernisti strutturali”,
ossia dei protagonisti della prima fase che dalla fin de siècle
si spinge oltre il secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni ’60
(anche se non mancano isolati epigoni nel cuore degli anni ’90),
Breisach fa riferimento alla sensazione crescente di sfiducia, che comincia
a maturare, appunto tra fin de siècle e primo dopoguerra,
nei confronti delle grandi narrazioni storiche di progresso di matrice
illuministico-positivista che avevano dominato lo scenario culturale europeo
e statunitense dalla seconda metà del XVIII fino alla fine del
XIX secolo. Il comune denominatore dell’opera di revisione storica
attuata da questo insieme di intellettuali (nel corso di quasi un secolo
di storia culturale) risiederebbe infatti nella negazione del modello
storico progressista dello sviluppo indefinito così come era stato
formalizzato fin dalla riflessione di Condorcet, a favore di un modello
triadico -dunque, ancora fornito di una struttura stabile e ordinata,
da cui il nome di “postmodernismo strutturale”- (p. 22), la
cui prima elementare elaborazione risale all’opera di Antoine Augustin
Courot, nel contesto francese del Secondo Impero (p. 21).
Tale modello, riprodotto in modo sostanzialmente simile da tutti i “postmodernisti
struttuali”, si articola, in successione, in una prima fase “preistorica”
in cui l’umanità vive in un contesto sociale “naturale”
ed armonico, cui segue una seconda fase di rottura dell’equilibrio
naturale a favore di un’era di instabilità e conflitto che
attiva il meccanismo storico del progresso e della “razionalità”,
cui segue infine – e qui starebbe il tratto fondamentale di novità
e revisione rispetto al modello illuminista - una fase di stagnazione
indefinita asintoticamente tendente alla cristallizzazione in una “routine”
di massificazione sempre più stabile, in cui si realizza uno sganciamento
definitivo dalla storia e dal passato. Tra i “postmodernisti strutturali”
sostenitori di questa visione vengono annoverati quindi nomi assai diversi
(per profilo e spessore intellettuale nonché per epoca) come quelli
di Henry Adams, Max Weber, Alexandre Kojève, Hendrik de Man, Bertrand
de Jouvenel, Arnold Gehlen, Roderick Seidenberg, Francis Fukujama.
6. La seconda “versione del futuro postmoderno”, cronologicamente
successiva alla prima e propugnata dal “postmodernismo postrutturalista”,
comincia ad emergere invece dagli anni ‘60 del XX secolo (p. 22).
Alla successione cronologica tra le due fasi Breisach associa quella che,
più che una relazione di implicazione logica, potrebbe forse essere
definita come una relazione di associazione analogica. Posto infatti che
non viene analizzato il legame diretto (pure, in qualche caso, esistente)
tra i singoli propugnatori del “postmodernismo strutturale”
e quelli del “postmodernismo postrutturalista”, quel che emerge
dalla loro giustapposizione è, sostanzialmente, che, come il primo
nasce in seguito alla disillusione nei confronti delle narrazioni progressiste
di marca illuministico-positivista, così il secondo nasce dalla
perdita di potere persuasivo di quelle che Breisach definisce “tre
alte maree intellettuali” (The Ebbing of Three Intellectual High
Tides, p. 67), ossia “tre grandi interpretazioni del mondo umano
e della sua storia” sulla cui efficacia, sia sul piano analitico
che su quello trasformativo, gli intellettuali (in special modo francesi)
dell’immediato dopoguerra avevano riposto in massa la loro fiducia.
Le “tre alte maree” in questione sono rappresentate, rispettivamente,
dal marxismo, dall’esistenzialismo e dall’antropologia strutturale,
alla cui rimeditazione critica, avviata a partire dalla fine degli anni
’60 nel contesto intellettuale parigino Breisach, peraltro, dedica
succintamente tre paragrafi di una pagina l’uno (pp. 67-69).
In estrema sintesi, la ricostruzione storica delle effettive premesse
teoriche del “postmodernismo postrutturalista” è riassumibile
quindi, con le parole di Breisach, nell’affermazione che “per
i postrutturalisti, il marxismo rappresentò l’età
delle ideologie che hanno divorato milioni di persone, l’esistenzialismo
fu l’apogeo dell’erronea esaltazione dell’individuo
come principale agente nella vita e lo strutturalismo dimostrò
la rigidità propria di sistemi che avevano al centro anche soltanto
un residuale elemento permanente (metafisico)” (p. 67). Conseguenza
di ciò, afferma ancora Breisach, fu che “due decadi di entusiasmo
per l’impegno nel nome della verità, certezza e giustizia
finirono nella sfiducia in questo impegno, ora visto come la fonte di
tutto ciò che era sbagliato nel mondo” (p. 70). E’
dunque nell’ironico scenario della “città che fu capitale
simbolica dell’illuminismo” che si consuma “l’atto
finale del lungo dramma intellettuale che ha avuto la ragione come eroe
tragico” (p. 66): è in questo contesto, infatti, che “Roland
Barthes ed altri [imboccano] la svolta linguistica (linguistic turn)
e [incanalano] le loro energie nell’affermazione di una nuova visione
semiologica del mondo” in cui “l’anonimo lavoro del
linguaggio” è “riconosciuto come l’unica forza
ordinatrice” e il linguistic turn diviene la “nuova,
eccitante promessa... di un mondo di completo flusso” che manca
“di closures, entità fisse e di ogni permanenza”
(p. 70).
7. Questo carattere di promessa, di speranza, di volontà,
associato ai contenuti dell’analisi “postmoderna”
globalmente intesa (che “vorrebbe”, piuttosto che limitarsi
a descrivere, un mondo di completo flusso), viene tematizzato fin dall’introduzione
(a p. 9 si apprende, ad esempio, che i “postmodernisti” hanno
“rotto deliberatamente lo stampo cronologico”
e a p. 11 si argomenta che il prefisso “post” di “postmoderno”
contiene un riferimento all’atteggiamento di avversione [adversarial
attitude] nei confronti della modernità) e viene successivamente
ribadito più volte nel corso del saggio. L’obiettivo che
i postrutturalisti si pongono sarebbe, dunque, estremamente ambizioso:
si tratta infatti di “contrastare l’ideale di poter cogliere
l’autentico passato (la sua verità), la connessione di questo
passato con il presente e con... il futuro (il nesso storico) e con gli
usi tradizionali della storia (gli aspetti pragmatici della storia)”
(p.59-60), attraverso la rottura del “legame diretto tra coscienza
e realtà extralinguistica”, che è la condizione necessaria
“per la realizzazione del loro ideale di un mondo totalmente fluido”
(p. 61).
Sono questi i tratti salienti della definizione che Breisach, sia nell’introduzione
generale che in quella, più specifica, della terza parte del saggio
dedicata al “postmodernismo postrutturalista”, assegna, in
una forma sostanzialmente collettiva ed anonima, ai “postmodernisti
postrutturalisti”. Dunque, in quest’ottica, come già
i “postmodernisti strutturali” avevano reagito alla disillusione
nei confronti della “modernità” postulando/profetizzando
un’uscita dalla storia nella forma della routinizzazione e dell’entropizzazione
della vita in una situazione di indefinita e irreversibile stabilità,
così i “postmodernisti postrutturalisti” reagiscono
ad un’analoga disillusione profetizzando, questa volta, un’uscita
dalla storia nella direzione di una sorta di anarchia intellettuale, verso
“un mondo di flusso continuo, che non ha alcun ordine e significato
interno” e che perciò stesso è in grado di offrire
agli studiosi “infinite possibilità per una costruzione non
intralciata dalle rappresentazioni stabili di entità oggettive”
(p. 71).
8. Se, a questo punto, alla luce della scelta di Breisach di adottare
il taglio sistematico-manualistico della guida super partes, ci
fermiamo un istante a riconsiderare l’insieme delle argomentazioni
utilizzate nella sua ricostruzione globale della “vicenda postmoderna”,
non possiamo fare a meno di considerare come tanta parte dei giudizi valutativi
- che l’autore non esprime nel momento più propriamente descrittivo
della sua analisi - restino in realtà fissati “a monte”,
nelle strutture generali di una sorta di “retorica dell’intransigenza”[1]
utilizzata nel saggio per descrivere il “postmodernismo” nella
sua relazione con “il futuro della storia”. Albert Hirschman,
com’è noto, usa quest’espressione per descrivere un
insieme di tipi formali di argomentazione ricorrentemente utilizzati nella
discussione politica (principalmente, ma non esclusivamente, di parte
conservatrice), per screditare l’introduzione di elementi di novità
presentati come trasformazioni positive dai loro proponenti. Essa è
basata sulla ricorrenza delle tre tesi fondamentali della “perversità”,
“futilità” e “messa a repentaglio” riferite
all’innovazione proposta, che finirebbe invariabilmente per determinare
un effetto contrario (“perverso”) rispetto a quello atteso,
per avere un’influenza minima (“futile”) sulla realtà
che vorrebbe migliorare e per minacciare globalmente (“mettere a
repentaglio”) il sistema al quale si applica.
Breisach, per parte sua, adatta implicitamente in più occasioni
queste tre tesi alla sua analisi del “postmodernismo”. Qui
la “perversità” è quella di un modello che,
negando ogni forma di stabilità e di oggettività del senso,
finirebbe per negare anche se stesso o per autocontraddirsi, come nel
caso esemplare della riflessione di Barthes che “in modo interessante,
afferma che il suo punto di vista sarebbe la conclusione di importanti
sviluppi - un’ammissione di un altrimenti contestato ordine oggettivo
di sviluppo-” (p. 74). La “futilità”, oltre che
essere conseguenza della “perversità” del modello,
risiederebbe nel carattere ciclico e ricorsivo di un sistema che vorrebbe
presentarsi ogni volta come nuovo e rivoluzionario e che invece si limita
ad evocare periodicamente un’ “uscita dalla storia”,
ora nella direzione di un’infinita stabilizzazione entropica, ora
in quella di un mondo di “flusso permanente”, che peraltro
farebbe risalire i suoi tratti originari alla filosofia greca classica
di Eraclito (p. 61).
9. Sull’oggetto del tema della “messa a repentaglio”,
che è contenuto già nel titolo stesso del saggio, non vale
forse la pena di insistere oltre: la posta in gioco è il “futuro
della storia”, il destino della pratica storiografica, ma anche
dell’umanità stessa in un mondo privato della possibilità
di ancorarsi al proprio passato.
A questo punto, se, da una parte, tutte le premesse necessarie e sufficienti
ad affrontare una lettura specifica dei contributi dei singoli rappresentanti
del “postmodernismo postrutturalista”, dei loro immediati
antecedenti e dei loro interlocutori sono state poste, ci accorgiamo,
d’altra parte, che, nell’esaurirsi delle premesse, questa
stessa lettura è divenuta in un certo senso superflua: prima ancora
di affrontare l’opera di Hayden White, di incontrare la riflessione
di Lyotard, di cominciare a conoscere e valutare gli specifici contributi
di Derrida o di Foucault, l’analisi del “postmodernismo”
è già sostanzialmente tutta alle nostre spalle. In questa
cornice finisce infatti per perdere inevitabilmente d’importanza
il fatto che White utilizzi concetti derivati dalle strutture retoriche
dei tropi per parlare di un “mondo totalmente aperto, completamente
contingente, addirittura caotico come di un mondo ‘sublime’”
(p. 81); che Lyotard definisca il “postmoderno” come “incredulità
nei confronti delle metanarrazioni”, “anche se lo schietto
termine di rifiuto avrebbe descritto meglio il suo intento”
(p. 123); che Derrida si valga dei concetti di différance
e di decostruzione per promuovere a sua volta il “concetto postmodernista
di un mondo di flusso caotico” (pp. 102-3); che Foucault approfondisca
invece il nesso potere-sapere, -sulla cui centralità nel
suo pensiero “gli studiosi hanno addotto ragioni psicologiche come
il conflitto giovanile col padre e l’esperienza di esclusione in
quanto omosessuale” (p. 158) – per affermare la sua predilezione
nietzscheana per il “dionisiaco”, “la sua celebrazione
dell’esperienza di trasgressione” e la sua “simpatia
per i critici del razionalismo come Georges Bataille e i profeti del desiderio
e della sofferenza come il Marchese de Sade e Antonin Artaud” (p.
99).
Nella galleria di esempi ed esemplari di questo “bestiario postmoderno”,
se pure molte altre informazioni sono presentate all’attenzione
del lettore (sempre mediate dall’interpretazione di Breisach poiché
nel saggio, in controtendenza con la filosofia statunitense del reader,
le citazioni sono rare) alla fine quel che emerge più chiaramente
è che i “postmoderni”, oltre ad essere in se stessi
alquanto ripetitivi, si somigliano un po’ tutti e se e dove eventualmente
si differenziano è là dove (eventualmente) tradiscono la
loro più autentica “postmodernità”.
Al di là delle specifiche posizioni dell’autore, il saggio,
che si presenta come una guida utile per “chiunque sia coinvolto
nella sfida postmoderna alla storia, sia come sostenitore che come critico”,
anziché avvicinare il lettore all’esplorazione personale
dei testi in questione, rischia, in questo modo, di sostituirsi ad essi
e, quasi, di ostacolare questo incontro: è questo forse, tra tutti
i limiti di una “guida” e tutte le sue possibili (e talvolta
inevitabili) inesattezze, omissioni e parzialità, quello maggiormente
suscettibile di intaccarne complessivamente il valore e revocarne in dubbio
la stessa ragion d’essere.
[1] Cfr. A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991.