Eric J. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico [2002],
edizione italiana a cura di Brunello Lotti, traduzione di Daniele Didero e Sergio Mancini
Milano, Rizzoli, 2003
[€ 20 - ISBN: 88-17-87032-3]

Michele Nani
Università di Padova

1. «Il nostro ideale non può [...] essere quello della quercia o della sequoia, per quanto maestose, ma dev’essere invece quello degli uccelli migratori, che si trovano a casa nell’artico come ai tropici e che sorvolano mezzo mondo. L’anacronismo e il provincialismo sono i due peccati mortali della storia, entrambi dovuti a una completa ignoranza di come stanno le cose altrove: un’ignoranza che anche sterminate letture e il potere dell’immaginazione riescono solo raramente a superare. Il passato rimane un altro paese e i suoi confini possono essere attraversati soltanto da viaggiatori». Queste riflessioni, contenute nelle ultime pagine dell’autobiografia di Eric Hobsbawm, fanno il paio con un altra considerazione: «Gli storici, naturalmente, hanno bisogno di conoscere le lingue più di qualunque altro studioso - eccetto i linguisti e gli studiosi di letterature comparate -, in quanto fermandosi a una sola lingua, è possibile studiare seriamente pochissimi temi (tranne quelli di storia puramente locale): nella maggior parte dei paesi, una singola lingua non basta neppure per studiare la storia nazionale» (pp. 357 e 342). Di fronte alle parole dell’ottuagenario autore del Secolo breve, gli studiosi di storia reagirebbero in tutta probabilità con stizza o vergogna, poiché rappresentano fastidiose sferzate che toccano nervi scoperti del mestiere, sempre più malato di specialismo e concentrato su problemi e contesti ristretti[1]. L’apologia del plurilinguismo e della mobilità geografica non mira semplicemente a definire le virtù cardinali dello storico ideale, quanto ad evidenziare quella che Hobsbawm giudica la «principale debolezza» della contemporaneistica, il «provincialismo»: nonostante l’impulso della decolonizzazione, con la crescita degli studi extra-occidentali, «soprattutto per ragioni istituzionali e linguistiche, la storiografia non è riuscita ad emanciparsi quasi mai dall’orizzonte concettuale dello stato nazionale» (pp. 323-324).
Il rifiuto e la denuncia del «provincialismo» da parte dello storico inglese si comprendono alla luce del suo peculiare itinerario nel XX secolo[2]. Nel primo dopoguerra la famiglia Obstbaum, un cognome destinato a subire svariate torsioni ad opera delle anagrafi, si stabilisce a Vienna. Giunge nella piccola Austria post-asburgica da Alessandria d’Egitto, ove Eric è nato nel 1917, dal matrimonio fra i sudditi di due imperi allora in guerra. In seguito il giovane Hobsbawm approda alla Berlino dei tardi anni di Weimar e infine, dopo il 1933, a Londra. Ha già un bagaglio di conoscenze e di esperienze non comuni, ma in Inghilterra scopre una delle passioni che l’avrebbero accompagnato per tutta la vita, il jazz[3]. Si muove in bicicletta (si veda alle pp. 106-107 l’inno al meraviglioso mezzo di trasporto) e legge forsennatamente, riuscendo ad entrare a Cambridge. Predisposto da una formazione cosmopolita, l’apprendista storico continua ad attraversare confini: visita Parigi nel 1933, viaggia in autostop per la Francia del Front populaire e si concede persino uno sconfinamento a Puigcerdà nella Spagna della guerra civile (pp. 373-376). Sta preparando una tesi sulla questione agraria nel Nordafrica francese, per la quale soggiorna in Tunisia e Algeria nel 1938, ma di lì a poco la guerra interrompe il suo percorso costringendolo a far parte per sei anni dell’esercito inglese.

2. Il matrimonio lo porta ad abbandonare l’itinerario avviato nel periodo prebellico e a studiare la Fabian society, prima tappa di una lunga serie di lavori dedicati alla storia del socialismo e delle classi subalterne. Nel 1949, dopo un biennio londinese al King’s College, il lecturer Hobsbawm torna a Cambridge, ma vede andare in frantumi il matrimonio e il suo primo libro. Fra i fondatori del celebre “gruppo degli storici” del Partito comunista inglese e quindi, nel 1952, dell’importante rivista “Past & Present”, qualche anno dopo l’ancor giovane storico avrebbe pubblicato la sua prima monografia (Rebels, del 1959, frutto di soggiorni in Spagna e Italia) e avviato la serie dei volumi di sintesi che l’hanno reso celebre anche al di fuori dei ristretti cenacoli degli studiosi di storia (p. 208)[4].
Al proprio itinerario storiografico Hobsbawm dedica giusto un capitolo (pp. 312-328), che apre riconoscendo un grande debito verso il suo professore di Cambridge, lo storico economico Mounia Postan. Lo scontro fra Postan e Namier, due studiosi di origine ebraica ed est-europea trasferitisi in Inghilterra, rappresenta per Hobsbawm un «simbolo del grande conflitto che divise la storiografia» fra gli anni Novanta dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento. Dai tempi del Methodenstreit all’affermazione della storia sociale si fronteggiarono infatti due concezioni profondamente diverse del fare storia: la «storia delle strutture e dei cambiamenti delle società e delle culture», analitica ma tesa alla sintesi generalizzante, si contrappose alla storia come «politica del passato», attenta alla narrazione e al contingente (pp. 315-316, ma si vedano anche i numerosi riferimenti alle “Annales”). Naturalmente lo storico inglese si riconosce nella prima visione e ritiene che la marxiana concezione materialistica della storia sia ancora necessaria, oggi più di ieri (p. 334)[5].
Al di là di queste osservazioni e di molti altri spunti disseminati qua e là, nell’autobiografia hobsbawmiana non si trovano troppi accenni al mondo accademico o agli studi dell’autore. Più spazio è dedicato ai mille incontri - per limitarci a qualche nome: da Franz Marek a György Lukács, da Basil Davidson a Edward Thompson, da Albert Soboul a Pierre Bourdieu, da “Che” Guevara a Salvador Allende - e, naturalmente, alle peregrinazioni globali. Hobsbawm colloca lo «spartiacque» della propria vita poco dopo i quarant’anni, negli anni attorno al 1960 (p. 244; il secondo matrimonio risale al 1962). Da allora non smette più di viaggiare: dal 1960 visita a più riprese Cuba nel pieno della trasformazione rivoluzionaria del paese; nel 1962 intraprende un tour sudamericano, nel «laboratorio del cambiamento storico»; nel 1967 è nella San Francisco capitale del flower power e si trova a Parigi in pieno maggio ’68. L’elenco potrebbe continuare e l’ultima parte del volume è dedicata ad una sorta di riepilogo geografico in quattro capitoli, dedicati rispettivamente alla Francia, a Spagna e Italia[6], al “Terzo Mondo” e agli Stati Uniti d’America.

3. L’ampio spazio dedicato ad incontri e viaggi, non impedisce di riconoscere il vero filo conduttore del testo, l’itinerario dell’autore nelle vicende del Novecento. Hobsbawm presenta la propria autobiografia come l’«altra faccia del secolo breve», l’«epoca più sanguinosa, ma anche più rivoluzionaria» della storia e si augura che i suoi lettori non professionali possano trovarvi un’«introduzione al secolo più straordinario e terribile di tutta la storia umana» (pp. 11-12). Per quanto l’autore insista sui contesti e sul significato più ampio della propria vicenda, il centro della narrazione autobiografica resta «un comunista che è rimasto tale per tutta la vita benché in maniera anomala», «’Hobsbawm, lo storico marxista’», con accento sull’aggettivo più che sulla professione (p. 10). È la politica a dominare il racconto, intrecciata alle grandi trasformazioni del secolo apertosi con i massacri della Prima guerra mondiale e conclusosi con il collasso del “socialismo reale”. “Politica” per Hobsbawm significa marxismo, comunismo e movimento operaio. A queste parole oggi cadute in disgrazia si collegano anche molti degli oggetti indagati dello storico[7].
Divenuto «comunista a vita» (p. 71) nel crepuscolo della Germania di Weimar, fra letture iniziatiche (il Capitale, p. 78), osterie proletarie (p. 83) e manifestazioni di massa (p. 90), Hobsbawm rafforza le proprie convinzioni politiche in un contesto assai diverso. In Inghilterra il giovane studente approfondisce e raffina la conoscenza del marxismo (pp. 114 e ss.), aderisce ufficialmente al Partito comunista (nella «Cambridge rossa» del 1936, p. 147 e ss.) e scopre la vita concreta del proletariato facendone letteralmente parte, nella quotidiana condivisione di fatiche e passioni in un reparto dell’esercito inglese (pp. 178-180). Nel dopoguerra fa ancora in tempo a vedere la salma di Stalin, in occasione di un viaggio a Mosca (fra 1954 e 1955, p. 221), ma oramai, come molti intellettuali comunisti inglesi di quella straordinaria generazione, è più vicino alla new left che alle burocrazie di obbedienza sovietica. Rimane iscritto al partito anche dopo l’anno fatale 1956, ma da quel momento abbandona di fatto la militanza diretta, per ritenersi «una specie di membro spirituale del partito comunista italiano, che era molto più consono alla mia idea di comunismo» (pp. 292 e 241). Una convinzione che ha resistito ai tempi duri dell’Europa a cavallo della Seconda guerra mondiale, alla grande trasformazione della golden age del capitalismo occidentale, alla parabola dei regimi comunisti, per giungere fino ai nostri giorni: «Il mondo potrebbe pentirsi del fatto che, posto di fronte all’alternativa di Rosa Luxemburg fra socialismo o barbarie, abbia optato contro il socialismo» (p. 311).

4. La lunga fedeltà ai valori del socialismo impedisce ad Hobsbawm di lasciarsi sedurre dalle mode culturali e storiografiche degli ultimi vent’anni. Rifiuta con particolare vigore le politiche identitarie a cui molti studiosi, da destra come da sinistra, sacrificano il loro spirito critico. Per questo contrappone gli uccelli migratori ai grandi alberi, i viaggiatori lontani dalla comunità d’origine al mito delle radici (p. 457)[8]. Entrato nell’«era della mitologia storica», il mondo odierno ha «più che mai bisogno di storici, soprattutto di quelli scettici» (pp. 327 e 454)[9]. Gli storici scettici sono per Hobsbawm altra cosa dagli storici asettici: «tutti gli storici di valore e comunque la maggior parte degli storici sanno che, nell’investigare il passato, anche quello più remoto, elaborano ed esprimono opinioni che riguardano il presente e i suoi problemi» (p. 312). Riguardo a questi ultimi l’autore resta ben vigile, anche nel considerare retrospettivamente il lungo viaggio della sua esistenza: «Solo la consapevolezza che anche le persone che vivono nella povertà, alla costante presenza della morte e delle catastrofi riescono a ridere o almeno a raccontare barzellette divertenti mi dà il coraggio di dire: la mia vita è stata un bel divertimento. [...] Mi ha dato più felicità personale di quanta me ne fossi mai aspettato [...] ma da qualche parte, dentro di me, c’è un piccolo spettro che si aggira sussurrando: ‘Non ci si dovrebbe trovare a proprio agio in un mondo come il nostro’» (p. 345).

Note

* Nel testo e nelle note i riferimenti in parentesi ai numeri di pagina rimandano all'opera qui recensita

[1] Anche a causa della «crescita stratosferica» della produzione storiografica, che lo stesso Hobsbawm ritiene sia esplosa parallelamente all’espansione universitaria degli anni Sessanta (p. 316).
[2] Sul quale cfr. anche Eric J. Hobsbawm, Il presente come storia [1993], in Id., De historia, Milano, Rizzoli 1997, pp. 266-278; Una storia per «cambiare o almeno criticare il mondo». Intervista ad Eric J. Hobsbawm, a cura di Aldo Agosti, “Passato e presente”, n. 43, 1998, pp. 91-107; Id., A life in history, “Past & Present”, n. 177, 2002, pp. 3-16.
[3] A testimonianza, oltre alle molte recensioni, si veda Id., Storia sociale del jazz [1959], Roma, Editori Riuniti 1982.
[4] I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale seguirono I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna e I rivoluzionari (questi i titoli delle traduzioni italiane: Torino, Einaudi 1966, 1971 e 1975). Come gran parte delle opere di Hobsbawm, anche le sintesi sul «lungo Ottocento» (ispirate al criterio per cui «gli storici ansiosi di giustificare le risorse che la società dedica al loro tema, per modeste che siano, non dovrebbero scrivere esclusivamente per i loro colleghi») sono disponibili in italiano: Le rivoluzioni borghesi (1789-1848) [1962], Milano, il Saggiatore 1963; Il trionfo della borghesia (1848-1875) [1975], Roma-Bari, Laterza 1976 (p. IX per la citazione precedente); L’età degli imperi (1875-1914) [1987], Roma-Bari, Laterza 1987.
[5] Per una scelta di scritti metodologici e di storia della storiografia cfr. Id., De historia, cit.
[6] Sul Bel Paese, nel quale giunge per la prima volta nel 1952, indirizzato da Piero Sraffa a Delio Cantimori, si vedano le pp. 381-398.
[7] Hobsbawm è stato, ad esempio, curatore della grande impresa editoriale della Storia del marxismo Einaudi (4 voll., 1978-1982) ed ha dedicato gran parte delle sue ricerche alla storia delle classi subalterne: a quelle già citate, si aggiungano i lavori raccolti in Studi di storia del movimento operaio [1964], Torino, Einaudi 1972 e Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale [1984], Roma-Bari, Laterza 1986. Come esempio dei condizionamenti indiretti della politica basti ricordare che Hobsbawm riconduce la sua passione per l’Ottocento alle minori possibilità di interferenza - cioè di scontro - con la linea ufficiale sovietica che lo studio di quel periodo riservava (p. 322).
[8] Cfr. anche Id., Identity Politics and the Left, “New Left Review”, n. 217, 1996, pp. 38-47 (parzialmente tradotta in un supplemento al quotidiano “il manifesto”, 15 maggio 1999) e Id., La storia dell’identità non basta [1994], in Id., De historia, cit., pp. 306-318. A queste posizioni non sono estranee le ricerche sfociate nella cura, con Terence Ranger, de L’invenzione della tradizione [1983], Torino, Einaudi 1987 e nel profilo Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà [1990], Torino, Einaudi 1991).
[9] Sul ruolo dello storico, come professionista dello studio del passato contrapposto alle «pressioni politiche» e alle manipolazioni ed invenzioni del mercato mediatico cfr. sempre p. 327 con le considerazioni di p. 459 sulla «fame di continuità» che assilla Stati, movimenti e gruppi, e che porta a produrre sempre «nuove storie», alle quali lavora una vera e propria «industria globale». Anche dieci anni orsono, nell’introdurre la sua sintesi novecentesca, Hobsbawm aveva insistito sulla funzione sociale dello studioso di storia, ma con una giustificazione diversa, incentrata sulla perdita di senso storico, più che sulla costruzione di storie identitarie: «La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi» (Id., Il secolo breve [1994], Milano, Rizzoli 1995, pp. 14-15). Oggi lo storico inglese sembra convinto che non sia «possibile fuggire dal passato, ossia da coloro che lo documentano, lo interpretano, ne discutono e lo ricostruiscono» (p. 312).