1. «Il nostro ideale non può [...] essere quello della quercia
o della sequoia, per quanto maestose, ma dev’essere invece quello
degli uccelli migratori, che si trovano a casa nell’artico come
ai tropici e che sorvolano mezzo mondo. L’anacronismo e il provincialismo
sono i due peccati mortali della storia, entrambi dovuti a una completa
ignoranza di come stanno le cose altrove: un’ignoranza che anche
sterminate letture e il potere dell’immaginazione riescono solo
raramente a superare. Il passato rimane un altro paese e i suoi confini
possono essere attraversati soltanto da viaggiatori». Queste riflessioni,
contenute nelle ultime pagine dell’autobiografia di Eric Hobsbawm,
fanno il paio con un altra considerazione: «Gli storici, naturalmente,
hanno bisogno di conoscere le lingue più di qualunque altro studioso
- eccetto i linguisti e gli studiosi di letterature comparate -, in quanto
fermandosi a una sola lingua, è possibile studiare seriamente pochissimi
temi (tranne quelli di storia puramente locale): nella maggior parte dei
paesi, una singola lingua non basta neppure per studiare la storia nazionale»
(pp. 357 e 342). Di fronte alle parole dell’ottuagenario autore
del Secolo breve, gli studiosi di storia reagirebbero in tutta
probabilità con stizza o vergogna, poiché rappresentano
fastidiose sferzate che toccano nervi scoperti del mestiere, sempre più
malato di specialismo e concentrato su problemi e contesti ristretti[1].
L’apologia del plurilinguismo e della mobilità geografica
non mira semplicemente a definire le virtù cardinali dello storico
ideale, quanto ad evidenziare quella che Hobsbawm giudica la «principale
debolezza» della contemporaneistica, il «provincialismo»:
nonostante l’impulso della decolonizzazione, con la crescita degli
studi extra-occidentali, «soprattutto per ragioni istituzionali e
linguistiche, la storiografia non è riuscita ad emanciparsi quasi
mai dall’orizzonte concettuale dello stato nazionale» (pp.
323-324).
Il rifiuto e la denuncia del «provincialismo» da parte dello
storico inglese si comprendono alla luce del suo peculiare itinerario
nel XX secolo[2]. Nel primo
dopoguerra la famiglia Obstbaum, un cognome destinato a subire svariate
torsioni ad opera delle anagrafi, si stabilisce a Vienna. Giunge nella
piccola Austria post-asburgica da Alessandria d’Egitto, ove Eric
è nato nel 1917, dal matrimonio fra i sudditi di due imperi allora
in guerra. In seguito il giovane Hobsbawm approda alla Berlino dei tardi
anni di Weimar e infine, dopo il 1933, a Londra. Ha già un bagaglio
di conoscenze e di esperienze non comuni, ma in Inghilterra scopre una
delle passioni che l’avrebbero accompagnato per tutta la vita, il
jazz[3]. Si muove in
bicicletta (si veda alle pp. 106-107 l’inno al meraviglioso mezzo
di trasporto) e legge forsennatamente, riuscendo ad entrare a Cambridge.
Predisposto da una formazione cosmopolita, l’apprendista storico
continua ad attraversare confini: visita Parigi nel 1933, viaggia in autostop
per la Francia del Front populaire e si concede persino uno sconfinamento
a Puigcerdà nella Spagna della guerra civile (pp. 373-376). Sta
preparando una tesi sulla questione agraria nel Nordafrica francese, per
la quale soggiorna in Tunisia e Algeria nel 1938, ma di lì a poco
la guerra interrompe il suo percorso costringendolo a far parte per sei
anni dell’esercito inglese.
2. Il matrimonio lo porta ad abbandonare l’itinerario avviato nel
periodo prebellico e a studiare la Fabian society, prima tappa
di una lunga serie di lavori dedicati alla storia del socialismo e delle
classi subalterne. Nel 1949, dopo un biennio londinese al King’s
College, il lecturer Hobsbawm torna a Cambridge, ma vede andare
in frantumi il matrimonio e il suo primo libro. Fra i fondatori del celebre
“gruppo degli storici” del Partito comunista inglese e quindi,
nel 1952, dell’importante rivista “Past & Present”,
qualche anno dopo l’ancor giovane storico avrebbe pubblicato la
sua prima monografia (Rebels, del 1959, frutto di soggiorni in
Spagna e Italia) e avviato la serie dei volumi di sintesi che l’hanno
reso celebre anche al di fuori dei ristretti cenacoli degli studiosi di
storia (p. 208)[4].
Al proprio itinerario storiografico Hobsbawm dedica giusto un capitolo
(pp. 312-328), che apre riconoscendo un grande debito verso il suo professore
di Cambridge, lo storico economico Mounia Postan. Lo scontro fra
Postan e Namier, due studiosi di origine ebraica ed est-europea trasferitisi
in Inghilterra, rappresenta per Hobsbawm un «simbolo del grande conflitto
che divise la storiografia» fra gli anni Novanta dell’Ottocento
e gli anni Settanta del Novecento. Dai tempi del Methodenstreit
all’affermazione della storia sociale si fronteggiarono infatti
due concezioni profondamente diverse del fare storia: la «storia
delle strutture e dei cambiamenti delle società e delle culture»,
analitica ma tesa alla sintesi generalizzante, si contrappose alla storia
come «politica del passato», attenta alla narrazione e al contingente
(pp. 315-316, ma si vedano anche i numerosi riferimenti alle “Annales”).
Naturalmente lo storico inglese si riconosce nella prima visione e ritiene
che la marxiana concezione materialistica della storia sia ancora necessaria,
oggi più di ieri (p. 334)[5].
Al di là di queste osservazioni e di molti altri spunti disseminati
qua e là, nell’autobiografia hobsbawmiana non si trovano
troppi accenni al mondo accademico o agli studi dell’autore. Più
spazio è dedicato ai mille incontri - per limitarci a qualche nome:
da Franz Marek a György Lukács, da Basil Davidson a Edward
Thompson, da Albert Soboul a Pierre Bourdieu, da “Che” Guevara
a Salvador Allende - e, naturalmente, alle peregrinazioni globali. Hobsbawm
colloca lo «spartiacque» della propria vita poco dopo i quarant’anni,
negli anni attorno al 1960 (p. 244; il secondo matrimonio risale al 1962).
Da allora non smette più di viaggiare: dal 1960 visita a più
riprese Cuba nel pieno della trasformazione rivoluzionaria del paese;
nel 1962 intraprende un tour sudamericano, nel «laboratorio
del cambiamento storico»; nel 1967 è nella San Francisco capitale
del flower power e si trova a Parigi in pieno maggio ’68.
L’elenco potrebbe continuare e l’ultima parte del volume è
dedicata ad una sorta di riepilogo geografico in quattro capitoli, dedicati
rispettivamente alla Francia, a Spagna e Italia[6],
al “Terzo Mondo” e agli Stati Uniti d’America.
3. L’ampio spazio dedicato ad incontri e viaggi, non impedisce di
riconoscere il vero filo conduttore del testo, l’itinerario dell’autore
nelle vicende del Novecento. Hobsbawm presenta la propria autobiografia
come l’«altra faccia del secolo breve», l’«epoca
più sanguinosa, ma anche più rivoluzionaria» della
storia e si augura che i suoi lettori non professionali possano trovarvi
un’«introduzione al secolo più straordinario e terribile
di tutta la storia umana» (pp. 11-12). Per quanto l’autore
insista sui contesti e sul significato più ampio della propria
vicenda, il centro della narrazione autobiografica resta «un comunista
che è rimasto tale per tutta la vita benché in maniera anomala»,
«’Hobsbawm, lo storico marxista’», con accento sull’aggettivo
più che sulla professione (p. 10). È la politica a dominare
il racconto, intrecciata alle grandi trasformazioni del secolo apertosi
con i massacri della Prima guerra mondiale e conclusosi con il collasso
del “socialismo reale”. “Politica” per Hobsbawm
significa marxismo, comunismo e movimento operaio. A queste parole oggi
cadute in disgrazia si collegano anche molti degli oggetti indagati dello
storico[7].
Divenuto «comunista a vita» (p. 71) nel crepuscolo della Germania
di Weimar, fra letture iniziatiche (il Capitale, p. 78), osterie
proletarie (p. 83) e manifestazioni di massa (p. 90), Hobsbawm rafforza
le proprie convinzioni politiche in un contesto assai diverso. In Inghilterra
il giovane studente approfondisce e raffina la conoscenza del marxismo
(pp. 114 e ss.), aderisce ufficialmente al Partito comunista (nella «Cambridge
rossa» del 1936, p. 147 e ss.) e scopre la vita concreta del proletariato
facendone letteralmente parte, nella quotidiana condivisione di fatiche
e passioni in un reparto dell’esercito inglese (pp. 178-180). Nel
dopoguerra fa ancora in tempo a vedere la salma di Stalin, in occasione
di un viaggio a Mosca (fra 1954 e 1955, p. 221), ma oramai, come molti
intellettuali comunisti inglesi di quella straordinaria generazione, è
più vicino alla new left che alle burocrazie di obbedienza
sovietica. Rimane iscritto al partito anche dopo l’anno fatale 1956,
ma da quel momento abbandona di fatto la militanza diretta, per ritenersi
«una specie di membro spirituale del partito comunista italiano,
che era molto più consono alla mia idea di comunismo» (pp.
292 e 241). Una convinzione che ha resistito ai tempi duri dell’Europa
a cavallo della Seconda guerra mondiale, alla grande trasformazione della
golden age del capitalismo occidentale, alla parabola dei regimi
comunisti, per giungere fino ai nostri giorni: «Il mondo potrebbe
pentirsi del fatto che, posto di fronte all’alternativa di Rosa
Luxemburg fra socialismo o barbarie, abbia optato contro il socialismo»
(p. 311).
4. La lunga fedeltà ai valori del socialismo impedisce ad Hobsbawm
di lasciarsi sedurre dalle mode culturali e storiografiche degli ultimi
vent’anni. Rifiuta con particolare vigore le politiche identitarie
a cui molti studiosi, da destra come da sinistra, sacrificano il loro
spirito critico. Per questo contrappone gli uccelli migratori ai grandi
alberi, i viaggiatori lontani dalla comunità d’origine al
mito delle radici (p. 457)[8].
Entrato nell’«era della mitologia storica», il mondo odierno
ha «più che mai bisogno di storici, soprattutto di quelli
scettici» (pp. 327 e 454)[9].
Gli storici scettici sono per Hobsbawm altra cosa dagli storici asettici:
«tutti gli storici di valore e comunque la maggior parte degli storici
sanno che, nell’investigare il passato, anche quello più
remoto, elaborano ed esprimono opinioni che riguardano il presente e i
suoi problemi» (p. 312). Riguardo a questi ultimi l’autore
resta ben vigile, anche nel considerare retrospettivamente il lungo viaggio
della sua esistenza: «Solo la consapevolezza che anche le persone
che vivono nella povertà, alla costante presenza della morte e
delle catastrofi riescono a ridere o almeno a raccontare barzellette divertenti
mi dà il coraggio di dire: la mia vita è stata un bel divertimento.
[...] Mi ha dato più felicità personale di quanta me ne
fossi mai aspettato [...] ma da qualche parte, dentro di me, c’è
un piccolo spettro che si aggira sussurrando: ‘Non ci si dovrebbe
trovare a proprio agio in un mondo come il nostro’» (p. 345).
* Nel testo e nelle note i riferimenti in parentesi ai numeri di pagina rimandano all'opera qui recensita
[1] Anche a causa della «crescita
stratosferica» della produzione storiografica, che lo stesso Hobsbawm
ritiene sia esplosa parallelamente all’espansione universitaria
degli anni Sessanta (p. 316).
[2] Sul quale cfr. anche Eric
J. Hobsbawm, Il presente come storia [1993], in Id., De historia,
Milano, Rizzoli 1997, pp. 266-278; Una storia per «cambiare o
almeno criticare il mondo». Intervista ad Eric J. Hobsbawm, a
cura di Aldo Agosti, “Passato e presente”, n. 43, 1998, pp.
91-107; Id., A life in history, “Past & Present”,
n. 177, 2002, pp. 3-16.
[3] A testimonianza, oltre alle
molte recensioni, si veda Id., Storia sociale del jazz [1959],
Roma, Editori Riuniti 1982.
[4] I ribelli. Forme primitive
di rivolta sociale seguirono I banditi. Il banditismo sociale nell’età
moderna e I rivoluzionari (questi i titoli delle traduzioni
italiane: Torino, Einaudi 1966, 1971 e 1975). Come gran parte delle
opere di Hobsbawm, anche le sintesi sul «lungo Ottocento» (ispirate
al criterio per cui «gli storici ansiosi di giustificare le risorse
che la società dedica al loro tema, per modeste che siano, non
dovrebbero scrivere esclusivamente per i loro colleghi») sono disponibili
in italiano: Le rivoluzioni borghesi (1789-1848) [1962], Milano,
il Saggiatore 1963; Il trionfo della borghesia (1848-1875) [1975],
Roma-Bari, Laterza 1976 (p. IX per la citazione precedente); L’età
degli imperi (1875-1914) [1987], Roma-Bari, Laterza 1987.
[5] Per una scelta di scritti
metodologici e di storia della storiografia cfr. Id., De historia,
cit.
[6] Sul Bel Paese, nel quale
giunge per la prima volta nel 1952, indirizzato da Piero Sraffa a Delio
Cantimori, si vedano le pp. 381-398.
[7] Hobsbawm è stato,
ad esempio, curatore della grande impresa editoriale della Storia del
marxismo Einaudi (4 voll., 1978-1982) ed ha dedicato gran parte delle
sue ricerche alla storia delle classi subalterne: a quelle già
citate, si aggiungano i lavori raccolti in Studi di storia del movimento
operaio [1964], Torino, Einaudi 1972 e Lavoro, cultura e mentalità
nella società industriale [1984], Roma-Bari, Laterza 1986.
Come esempio dei condizionamenti indiretti della politica basti ricordare
che Hobsbawm riconduce la sua passione per l’Ottocento alle minori
possibilità di interferenza - cioè di scontro - con la linea
ufficiale sovietica che lo studio di quel periodo riservava (p. 322).
[8] Cfr. anche Id., Identity
Politics and the Left, “New Left Review”, n. 217, 1996,
pp. 38-47 (parzialmente tradotta in un supplemento al quotidiano “il
manifesto”, 15 maggio 1999) e Id., La storia dell’identità
non basta [1994], in Id., De historia, cit., pp. 306-318. A
queste posizioni non sono estranee le ricerche sfociate nella cura, con
Terence Ranger, de L’invenzione della tradizione [1983],
Torino, Einaudi 1987 e nel profilo Nazioni e nazionalismi dal 1780.
Programma, mito, realtà [1990], Torino, Einaudi 1991).
[9] Sul ruolo dello storico,
come professionista dello studio del passato contrapposto alle «pressioni
politiche» e alle manipolazioni ed invenzioni del mercato mediatico
cfr. sempre p. 327 con le considerazioni di p. 459 sulla «fame di
continuità» che assilla Stati, movimenti e gruppi, e che porta
a produrre sempre «nuove storie», alle quali lavora una vera
e propria «industria globale». Anche dieci anni orsono, nell’introdurre
la sua sintesi novecentesca, Hobsbawm aveva insistito sulla funzione sociale
dello studioso di storia, ma con una giustificazione diversa, incentrata
sulla perdita di senso storico, più che sulla costruzione di storie
identitarie: «La distruzione del passato, o meglio la distruzione
dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei
a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più
tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La
maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una
sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con
il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì
che la presenza degli storici, il cui compito è di ricordare ciò
che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine
del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi»
(Id., Il secolo breve [1994], Milano, Rizzoli 1995, pp. 14-15).
Oggi lo storico inglese sembra convinto che non sia «possibile fuggire
dal passato, ossia da coloro che lo documentano, lo interpretano, ne discutono
e lo ricostruiscono» (p. 312).