Ludovic Frobert, Elie Halévy. République et économie (1896-1914),
Lille, Presses Universitaires du Septentrion, 2003
[€ 17 ISBN 2-859-803-1]

Elena Mazzini
Università di Firenze

1. Storico del pensiero economico, ricercatore al CNRS e all’Ècole Normale Supérieure di Lione, Ludovic Frobert affronta in questo denso contributo gli scritti di natura politica ed economica redatti da Elie Halévy anteriormente al primo conflitto mondiale. La scelta cronologica (1896-1914) risponde all’intento di trattare alcune delle opere giovanili del celebre storico e filosofo francese in cui egli aveva elaborato compiutamente quelle originali teorie politico-economiche che indussero Bertrand Russell, Talcott Parsons e John Rawls a parlare con entusiasmo di una vera e propria Halévy Thesis. All’indomani della fine del primo conflitto mondiale, Halévy avrebbe rivisitato in maniera affatto radicale le direttrici principali che avevano animato il proprio sistema speculativo. Se negli anni pre-bellici si era fatto sostenitore di un repubblicanesimo capace di garantire libertà d’opinione, di stampa e d’associazione ed era stato uno dei maggiori artefici della nascita della celebre Revue de métaphysique et de morale (in cui si promuoveva un razionalismo neo-kantiano in grado di coniugare azione politica con teorie filosofiche), dopo il 1918 egli avrebbe registrato con pessimismo il rapido processo di deterioramento delle società europee, avrebbe disperato del socialismo, osservato la vulnerabilità crescente delle democrazie parlamentari e assistito rassegnato alla montante minaccia di sistemi liberticidi e totalitari.

2. Lontano da questa immagine tendente al fatalismo se non al puro catastrofismo, l’Halévy che viene presentato lungo le pagine del libro è sensibilmente più vicino all’immagine di un “riformatore sociale”, instancabilmente dedito ad una scepsi di natura politica, economica e sociologica in grado di accordare le istanze provenienti dalla società con le esigenze derivate dal progresso economico. Una solida cultura del pensiero politico moderno caratterizza La formation du radicalisme philosophique, opera in tre volumi redatti tra il 1901 e il 1904, in cui Halévy individuava nell’utilitarismo di Jeremy Bentham, nell’organizzazione del lavoro concepita da Karl Marx e nella dottrina economica di Saint-Simon i momenti e i protagonisti più significativi della cultura del radicalismo filosofico. L’analisi condotta sui testi dei tre autorevoli pensatori indagava la natura del legame tra il concetto di libertà e il progresso economico. Se in Bentham il radicalismo filosofico appariva allo studioso francese tradito da un crescente interesse per il particolare, Karl Marx invece – definito senza incertezze linguistiche “un homme de génie au sens le plus clair du mot” (p. 35) – seduceva Halévy per quella duplicità teorica sostanziata dalla teoria ricardiana del valore-lavoro e dalla filosofia materialistica hegeliana. La rivoluzione di cui Marx era portatore nel campo dell’analisi economica risiedeva, nell’opinione del pensatore francese, nell’aver posto l’economia al centro della traiettoria della modernità e nell’aver definito con rigore scientifico la categoria di politica economica, due eredità concettuali delle quali Halévy rimarrà un fedele, seppur critico, interprete. Nel biennio 1904-1905 lo studioso francese iniziava un profondo esame delle tesi sostenute da Saint-Simon il cui epicentro speculativo risiedeva nella teorizzazione di uno sviluppo armonico e pacifico dell’economia di età industriale all’interno di un contesto sociale regolamentato da “industriels responsables de l’industrie pratique” e da “les savants responsables de l’industrie théorique”. Se la società industriale figurata da Saint-Simon mostrava sì un forte limite nel risolvere la questione relativa alla “governabilità” della società con una sua “amministrazione” gerarchizzata, tuttavia nell’elaborazione saint-simoniana Halévy apprezzava la lucidità con cui si teorizzava la necessaria composizione tra gli interessi individuali dei produttori ed un impegno etico a favore del bene comune collettivo.

3. Riflessioni di tale tipo caratterizzarono anche il lungo articolo che Halévy pubblicò nel 1906 sulla Revue de métaphysique et de morale (luogo di fecondo e vivace dialogo fra scienza e filosofia, fondata nel 1893 per volontà del politico Xavier Léon che, parallelamente alla rivista, incoraggiò nel 1900 la nascita di altri organismi culturali quali la Société française de philosophie e il Congrès internationaux de philosophie) intitolato Les principes de la distribution des richesses e che Frobert non esita a definire “son véritable manifeste économique” (p. 71). Lontano dalla tradizione economica cosiddetta “ortodossa” – di cui Smith e Ricardo erano gli esponenti di maggior rilievo – animata dalla considerazione che l’economia è principalmente costituita dallo scambio di prodotti di valore equivalente, Halévy enucleava in due concetti chiave la propria analisi economica sulla società contemporanea. Innanzitutto essa prevedeva una progressiva normalizzazione delle relazioni del mercato che, originato da un antagonismo violento ed eslege fra attori indipendenti, si poteva trasformare in una contesa regolata da leggi giuridiche. In secondo luogo ricorreva all’idea di associazione, dagli evidenti echi saint-simoniana. La storia, secondo Halévy, insegnava che se in un primo momento la nozione di association aveva significato la riunione di individui soggetti al regno anarchico della forza, con l’uscita dallo stato di natura aveva piuttosto descritto un organismo regolato da un corpus giuridico funzionale a ripartire ricchezze e competenze con equità e misura: “a ciascuno secondo il suo bisogno”. Nella teoria halévyana, i capisaldi dell’associazione si riassumevano nella discussione continua e sistematica fra tutti i componenti della comunità, un dibattito e un confronto utili a promuovere le modifiche strutturali necessarie ad adattare il presente storico con il progresso economico e politico. L’etica dell’uguaglianza poteva effettivamente essere esercitata là dove esisteva un processo parallelo di istituzionalizzazione della discussione, della negoziazione, di quelle procedure etiche ed economiche che insegnavano all’individuo a relativizzare le proprie motivazioni egoiste a favore di considerazioni di natura morale e collettiva. Il modello politico che veniva in tal modo a delinearsi tendeva di fatto ad abbracciare l’orizzonte di una democrazia sociale – ma potremmo anche dire di repubblica sociale – la cui realizzazione era impedita da una persistente “incapacité politique des classes ouvrières”, persuasione che egli mutuava senz’altro dalla dottrina marxista. Tuttavia i rimedi indicati dal pensatore francese si differenziavano marcatamente dalla tradizione marxista là dove egli individuava nelle istituzioni della società civile – sindacati, cooperative, imprese industriali statali, municipi e organismi preposti alla negoziazione – la strada qualificata per arrivare alla formazione di una effettiva capacità politica della classe operaia.

4. Attivo e vivace partecipante alla vita intellettuale francese, Halévy conobbe molteplici occasioni pubbliche in cui ebbe modo di esporre e discutere le proprie considerazioni filosofiche e sicuramente una delle più rilevanti fu il secondo Congresso Internazionale di filosofia, inaugurato nel 1904 a Ginevra – il primo aveva avuto luogo a Parigi nel 1900 in occasione dell’Esposizione universale – al quale egli partecipò nella duplice veste di relatore e ascoltatore. Con estremo interesse seguì la relazione tenuta da Vilfredo Pareto nella sezione dedicata a “Morale e sociologia” la cui tematica generale riguardava il vivace dibattito sociologico che in quegli anni si stava svolgendo sulle nozioni e definizioni da attribuire all’endiadi “individuale e sociale”. Le divergenze teoriche emerse a tal riguardo fra Pareto e Halévy sfociarono in un acceso e aspro dibattito che si protrasse ben oltre il congresso. Frobert analizza con estrema chiarezza gli snodi principali della controversia, che, originata in ambito filosofico, assunse ben presto l’aspetto di un contrasto di natura politica. La relazione presentata dal sociologo italiano prevedeva due piani argomentativi distinti che accompagnavano da tempo la sua produzione intellettuale. In primo luogo la giustificazione scientifica delle teorizzazioni sociologiche sostenute doveva essere, secondo Pareto, la preoccupazione primaria e centrale del lavoro del sociologo che doveva essere in grado di motivare con convinzione la metodica seguita durante l’elaborazione di dette teorie. In secondo luogo Pareto avanzava seri dubbi circa la plausibilità dell’argomento stesso affidato alla sezione sociologica, dal momento che trattare dell’ “individuale e sociale” era una tipica espressione di un’ideologia del progresso e della solidarietà che egli riassumeva, sprezzante, nella formula di “socialismo umanitario”. Avversando un simile approccio, Pareto argomentava polemicamente nella propria leçon publique che il binomio costituito da “individuale-sociale” in realtà nascondeva, sotto termini universali e solidaristici, interessi, passioni, aspirazioni di natura molto più egoista di quella idealisticamente vagheggiata. Sottolineando con forza la peculiarità della ricerca sociologica animata dallo studio delle realtà oggettive, Pareto propose di sostituire l’astrattezza dei lessemi di “individuale” e “sociale” con lo studio analitico degli individui che vivono e agiscono in una situazione concreta, ovvero nella società. Per società Pareto intendeva non tanto una sorta di giustapposizione o somma di individui, quanto uno spazio d’interdipendenza in cui i singoli si facevano oggetto di una specializzazione progressiva di funzioni che, di volta in volta, venivano assegnate secondo competenze che erano loro proprie. Nell’opinione del sociologo italiano la società andava dunque essenzialmente letta quale luogo di conflitti, di opposizioni, di marcati contrasti che venivano ad essere neutralizzati e razionalizzati da quelle élite che governavano, gestendoli, comportamenti pre-politici ed pre-civili degli uomini. La posizione polemica paretiana traeva ancor più vigore là dove egli passava a definire “tendenzioso” il tema proposto dal congresso, denunciando la marea socialista da cui parte del mondo intellettuale e politico francese era stato drammaticamente invaso – aspre e dirette le accuse indirizzate a leader quali Jean Jaurès o Alexandre Millerand – , incline a dar credito a dei “bons bourgeois qui flattent les travailleurs et s’en servent comme d’un moyen de réussir dans la lutte pour la vie” (p. 90). Fra individuale e sociale, Pareto non sembrava dimostrare esitazioni nel conferire unicamente al primo una validità scientifica e sociologica degna di essere esaminata e discussa in sede congressuale, mentre la nozione di sociale era risolta sbrigativamente alla luce della constatazione che questa altro non era che un concetto sentimentale, nient’affatto concreto, per di più ideologico. La risposta di Halévy non si fece attendere. In primo luogo criticò la definizione paretiana dell’individuo quale essere isolato, egoista, perennemente in conflitto con i propri consimili. Inoltre presentò il “sociologismo” come metodica tramite cui studiare i fenomeni sociali a partire dalla considerazione primaria che in ogni fenomeno sociale vi era un elemento residuale di psicologia individuale. Ma l’individuo non poteva essere affrontato in sede sociologica se non a partire dalla sua azione sociale. Inoltre il concetto stesso di società elaborato da Halévy si nutriva di un corredo culturale del tutto difforme da quello paretiano. Appellandosi al pensiero metafisico tedesco del XIX secolo, Halévy interpretava la società come un fenomeno d’insieme che dominava e al contempo sorpassava gli interessi specifici e particolari degli individui, non forza cieca che schiacciava il singolo, ma capolavoro eseguito grazie alla concorrenza di tutte le forze della collettività, composta da individui attivamente partecipi e dediti alla creazione di quello che egli nominava chef d’oeuvre social. Gli strumenti politici indicati da Halévy per raggiungere il compimento di tale ingegneria sociale, erano tratti da quella tradizione socialista che, soprattutto in ambito economico, definiva necessario e fondamentale il momento del controllo esercitato dalla maggioranza su qualsiasi azione individuale, nonché una gestione della stessa maggioranza (o dei delegati regolari eletti dalla comunità) di tutti i mezzi di produzione. Alcuni mesi dopo la conclusione del congresso, apparve sulla Revue de Métaphysique et de Morale un articolo di Pareto in cui tornò a riproporre le idee espresse vivacemente a Ginevra. Seguì, sulla stessa rivista, la pronta risposta del pensatore francese, il quale, senza indugio, definiva Pareto e la sua filosofia sociologica paladina di un individualismo intenzionato a ridurre la collettività a pura individualità e la società a una semplice costruzione artificiale operata da ingenui teorici innamorati dell’idea solidaristica di derivazione socialista.

5. La parte conclusiva del volume di Frobert è dedicata all’analisi dell’esperienza inglese di Halévy – il primo soggiorno britannico è datato 1892 – , tappa determinante del percorso formativo ed intellettuale del filosofo. I primi studi inglesi di Elie Halévy risalgono al 1903-1906, triennio in cui ebbe modo di intrattenere un ricco e stimolante epistolario con il celebre filosofo Bertrand Russell. In questo scambio di lettere, egli ebbe modo di confrontarsi su questioni legate alle origini del liberalismo economico inglese e alle modifiche strutturali apportate dall’avvento dell’età industriale. La posizione nazionalistica ed imperialista assunta dal filosofo inglese durante la guerra boera (1900), sollecitò Halévy ad intraprendere uno studio complessivo sul sistema imperiale inglese. Rifiutando la definizione proposta da Russell dell’Inghilterra come “Repubblica mercantile”, lo studioso francese individuava nell’epoca in cui Chamberlain era primo ministro un mutamento sostanziale nella gestione imperiale britannica che si arricchì di strategie politiche ed economiche nuove che ampliavano il principio classico di estensione e conquista territoriale, innestando su di esso una riorganizzazione economica organica, fortemente centralizzata e dirigista. Chamberlain, argomentava Halévy, aveva concorso a modificare l’assetto politico dell’Impero trasformandolo in una federazione doganiera all’interno della quale era prevista la libera circolazione dei prodotti imperiali, protetti da tariffa unica, che a sua volta scoraggiava l’importazione di prodotti provenienti da altre nazioni e da altri imperi. L’espansione economica, accresciuta dalla progressiva espansione territoriale, determinava in maniera sempre più accentuata la trasformazione dell’impero inglese da luogo in cui industriali, commercianti ed operai operavano ed interagivano insieme, a monopolio di capitalisti ed amministratori che traevano profitto tramite un prelevamento sistematico di ricchezze derivate dal lavoro eseguito da altri. Il corso politico inaugurato da Chamberlain e la nascita di associazioni di nuovo genere, al contempo militari e industriali, erano, nell’opinione di Halévy, i momenti centrali che definivano il new deal del sistema imperiale inglese. La brillante intuizione haléviana, secondo Frobert, risiede in quella capacità di aver individuato la pericolosità soggiacente alla crescente concentrazione industriale, economica e politica di tale sistema, orientato sempre più a dar luogo a condizioni di difficile controllo e gestione.

6. Parallelo a tale studio, Halévy esaminava il processo storico dell’Inghilterra da un punto di vista culturale di cui centrale risultava essere il fenomeno religioso del metodismo che il filosofo francese fu stimolato ad analizzare sull’onda delle “leggi laiche” approvate fra il 1904 e il 1905 in Francia. Halévy dedicò al movimento metodista inglese due ampi articoli, pubblicati sulla Revue de Paris nel 906 con il titolo de La naissance du méthodisme en Angleterre, che vennero successivamente inseriti e in parte arricchiti da uno studio più dettagliato e analitico ne L’Angleterre en 1815, primo volume della monumentale opera haléviana dell’ Histoire du Peuple Anglais aux XIX siècle edita nel 1912. La tesi centrale che qualifica gli scritti sul metodismo muove dalla considerazione che qualsiasi movimento religioso, anche se nato con intenti riformatori e progressisti come nel caso metodista, è destinato ad assumere gradualmente forme di forte conservazione sociale, economica e politica. Argomenta Halévy che la nascita del metodismo inglese nel 1738 si qualificava inizialmente come risveglio puritano fortemente caratterizzato da una serrata critica verso la Chiesa anglicana avvertita affatto distante dalla comunità dei fedeli e dalle esigenze di varia natura che da questa provenivano. In una situazione di malcontento generale, aggravato da una crisi economica di non marginale portata, s’inserì l’opera del carismatico riformatore John Wesley che dette vita a quella setta non-conformista detta metodista. Tuttavia questa fase primaria di opposizione alla linea statica e rigida praticata dalla chiesa anglicana perse progressivamente di vigore, assumendo caratteristiche organizzative gerarchiche e conservatrici tanto da far pronunciare ad Halévy che “le méthodisme est la Haute Eglise du non-conformisme, fondée par des clergymen anglicans” (p. 123). Nato con la volontà di riformare e rigenerare le parti morte di una religiosità che sembrava essersi sclerotizzata ed ipostatizzata in una ritualità priva di significanza, il metodismo si risolse di fatto in una forza di conservazione dotata di “une Eglise à la fois la plus conservatrice quant aux opinions politiques de ses membres, et la plus hiérarchique quant à son organisation intérieure de toutes les sectes protestantes” (p. 124).

7. Ne L’Angleterrre en 1815, Halévy sviluppa una serie di analisi vicine non tanto ad una narrazione storica di tipo militare e diplomatica, quanto ad un’esposizione articolata di quei fenomeni sociali, politici, religiosi ed economici che avevano concorso a rendere l’Inghilterra il prototipo della nazione moderna in cui liberalismo e progresso civile avevano trovato una loro decisa realizzazione. É primariamente in ambito politico che Halévy scorge il genio britannico là dove aveva permesso al parlamentarismo democratico di divenire forma di governo in grado di assicurare una stabilità feconda e capace di varare un corpus di riforme politiche di segno progressista. È certo che per il filosofo francese una situazione di libertà politica e sociale non poteva non essere legata alla prosperità economica che investì che l’Inghilterra nel corso del XIX secolo durante il quale la rivoluzione industriale avviata nel secolo precedente stava gradualmente forgiando una società di tipo industriale. Nuove classi politiche e sociali dunque si affacciavano sulla scena nazionale in maniera sempre più predominante e di fatto sia il proletariato urbano che il ceto industriale, iniziavano ad assumere ruoli di veri e propri protagonisti della vita del paese. La visibilità e il peso crescente che i due nuovi soggetti politici iniziavano proprio in quel momento ad assumere, non trovavano nella “società religiosa” inglese, ovvero nella Chiesa anglicana e nelle sette non conformiste, opposizioni e resistenze alla propria crescita che, d’altro canto, era una crescita originata da un’espansione economica capitalistica fruttuosa per l’intero sistema economico del paese. La politica di accordo e di non contrasto con la modernità adottata e promossa dalla cultura religiosa del paese costituiva secondo Halévy il momento fondamentale per individuare correttamente i fattori costitutivi di quella libertà e stabilità che qualificavano la vita culturale, politica, sociale ed economica dell’Inghilterra. Scriveva infatti che “L’Angleterre est un pays libre car cette liberté signifie, si l’on va jusqu’au fond des choses, que l’Angleterre est le pays de l’obéissance volontaire, de l’organisation spontanée” (p. 142).
Nonostante le patenti contraddizioni di natura economica e politica emerse nel corso del processo di industrializzazione che investì l’Inghilterra nello spazio di due secoli, Halévy riponeva la propria fiducia in quei settori vitali della società inglese che in passato erano stati in grado di promuovere una capillare cultura delle libertà che aveva reso la nazione l’avanguardia di modelli politici e sociali capaci di coniugare lo sviluppo economico con una parallela crescita di garanzie egualitarie e democratiche della società civile.

8. Nella parte conclusiva del volume, Frobert sintetizza l’ampia produzione haléviana, individuando nella ricerca di un’etica economica l’oggetto centrale di tutti gli scritti del filosofo, isolando con convincimento due questioni essenziali. La prima questione, di natura speculativa, si caratterizza per un tipo di interrogativo orientato ad analizzare le componenti fondative della scala sociale di una comunità e a conferire una collocazione precisa in tale scala alla ricerca teoretica del bene comune. Il ruolo ricoperto dall’associazionismo nella costruzione di tale ingegneria sociale è un aspetto che, mutuato dalla tradizione socialista europea del XIX secolo, si posizionava al centro del sistema speculativo haléviano. Da una parte l’associazione di tipo economico trasferiva in ambito economico l’ideale di partecipazione perpetua e di controllo della maggioranza, dall’altra esprimeva l’esigenza di gestione da parte di una collettività in rapporto al progresso derivato dall’avanzamento di una società sempre più industrializzata, sollecitando proficuamente la ricerca di un equilibrio fra l’imperativo di efficienza con quello dell’equità. I conflitti che naturalmente potevano emergere in dette associazioni erano sciolti, nell’opinione di Halévy, grazie all’eguale ripartizione di responsabilità e di ricchezze in modo tale da istruire gli uomini ad apprendere l’arte del compromesso e della negoziazione. La seconda questione rinviava direttamente al problema del lavoro umano. Il lavoro era considerato nel pensiero del filosofo francese come lo sforzo volto ad adattare l’utile economico alle esigenze di natura individuale. La prassi dello sviluppo economico era sempre accompagnata dalla nascita di conflitti di interesse che potevano essere risolti soltanto alla luce di una partecipazione e con-partecipazione dell’intera comunità alla res economica, pervenendo così ad una negoziazione capace di garantire una forza contraria e oppositiva alla tendenza di una concentrazione di potere e di dominio nelle mani di privilegiate élites.
Se è possibile pensare un’etica del progresso che non concepisca l’uomo unicamente come strumento prestato alla tecnica, ma che possa contemplarlo quale componente primaria e centrale di una traiettoria tesa a migliorare la condizione umana, i contributi di Halévy antecedenti al primo conflitto mondiale riescono, grazie alla capacità e alla profonda conoscenza che Frobert dimostra avere a riguardo, a catturare l’attenzione del lettore contemporaneo per l’afflato etico e l’impegno civile con cui tali opere vennero scritte e pensate.