Pasquale Villani, Rivoluzione e diplomazia. Agenti francesi
in Italia (1792-1798),
presentazione di Anna Maria Rao, Napoli, Vivarium, 2002
[ISBN: 88-85239-66-8, € 20,00]

Alessandro Guerra
Università di Roma "La Sapienza"

1. La raccolta di testi che Pasquale Villani ha dedicato, nell’arco di un decennio e più, all’opera degli agenti francesi in Italia durante la Rivoluzione è un’operazione editoriale di sicuro valore. Raccogliere in un’unica narrazione le molteplici esperienze dei diplomatici francesi in Italia significa non solo rileggere la storia della Rivoluzione francese, ma anche le forme e i tempi con cui le ‘nuove di Francia’ giunsero in Italia; le mille aspettative che il contatto con la Rivoluzione incarnata nei suoi rappresentanti accese nei patrioti italiani. L’indagine prosopografica di Villani è anche utile a chiarire i risvolti profondi della politica estera francese, i suoi limiti e le reazioni che scatenò in una realtà estremamente fragile come era quella degli Stati italiani. Villani utilizza le sue fonti anche per sottolineare un altro aspetto non certo secondario: le valutazioni che gli attori della Rivoluzione davano su chi in Italia provava ad emularli, e sulla propria situazione relegati com’erano ai margini dell’azione. Ma il dato che appare più significativo è il disegno complessivo del lavoro, l’emersione di personaggi nuovi, o un profilo inedito di personaggi già ampiamente noti, che vanno a pieno titolo ad inserirsi nella galleria dei protagonisti della Rivoluzione. Si può pensare che agli occhi di coloro che chiedevano di fare come in Francia, i suoi rappresentanti dovevano esser visti essi stessi come la Rivoluzione: si pensi al cittadino Belleville e alla sua missione misteriosa, imposta dall’ala estremista della Rivoluzione, a Tilly e ai suoi ripetuti tentativi di convincere il governo francese a non abbandonare i giacobini italiani, alla figura eroica di Saliceti e alla miriade di personaggi affascinanti che costellarono la politica francese in Italia. Insieme sono una lente particolare quanto si vuole, ma fondamentale per studiare non più solo la Rivoluzione ma anche le radici del movimento democratico italiano, l’entusiasmo che scatenò e i tanti ripensamenti di fronte alla radicalizzazione rivoluzionaria, la viva opposizione dei sovrani e delle oligarchie cittadine chiuse sul proprio potere, come sottolinea Anna Maria Rao nell’introduzione. Non erano mancati invero precedenti contributi che avevano provveduto ad inserire a pieno titolo nel lavoro dello storico gli aspetti diplomatici della vicenda rivoluzionaria. Recentemente Mario F. Leonardi (Gli agenti civili della Francia rivoluzionaria in Italia, Roma, 1996) ha di nuovo richiamato l’importanza di questo passaggio per arricchire la conoscenza del fenomeno rivoluzionario e di come i diversi Stati italiani si confrontarono con esso. I diplomatici francesi arrivarono in Italia con compiti politici precisi, a volte ai limiti di un’operatività spionistica; e si calarono nella società dei diversi Stati mantenendo forte la loro specificità rivoluzionaria, il ruolo di novità ed il principio di libertà che agli occhi dei democratici italiani la Francia incarnava. Anche in Italia, gli ambasciatori francesi, assai diversi uno dall’altro, portarono l’estrema fragilità della classe politica rivoluzionaria, incapace di mantenere una linea precisa nella politica estera, così come nella politica interna, soggetta come era al saturnismo della Rivoluzione. Per rispondere positivamente alle condizioni che di volta in volta poneva la classe politica che si alternava al governo, anche il corpo diplomatico doveva scivolare lungo il piano inclinato azionato da Parigi: le direttive di politica estera dettate dal Dumouriez non potevano soddisfare le nuove aspettative giacobine; allo stesso modo con la messa in stato d’accusa di Danton doveva necessariamente mutare l’assetto della politica diplomatica seguita fino ad allora. Ugualmente dopo il 9 termidoro ed ogni volta che le oscillazioni della politica interna agitavano lo scenario governativo, o che la politica militare spingeva ad adottare inedite strategie diplomatiche. Quel che appare senz’altro uniforme è la novità indotta dalla Rivoluzione nelle consuetudini della diplomazia di antico regime, prima fra tutte la promozione di individui fino ad allora esclusi da qualsiasi forma attiva di cittadinanza, non in base alla propria estrazione sociale ma in forza della propria capacità e della propria passione rivoluzionaria.

2. È grazie a nuovo materiale scoperto nelle Archives du Ministère des Affaires Etrangères di Parigi che Villani, attraverso alcuni casi esemplari, definisce con precisione e sensibilità il ruolo degli agenti francesi in Italia. Dalle carte si deduce che i primi piani francesi di invasione risalgono al 1792, ma solo con l’uccisione di Bassville il 13 gennaio 1793 il proposito di invadere i territori italiani passa ad essere studiato dagli strateghi militari, anche se si dovrà attendere il 1796 per vederlo operativo. L’uccisione del legato francese a Roma da parte di una folla fanatica e inferocita obbligava la nazione rivoluzionaria a rivedere i propri propositi: bisognava vendicare Bassville, l’onore della Francia e portare un colpo definitivo alla superstizione che si addensava in Italia. Gli inviti alla cautela del «decano» dei diplomatici francesi in Italia, François Cacault valsero a congelare la situazione: non erano solo le condizioni climatiche e il prolungarsi degli effetti della malaria a sconsigliare l’invasione, erano più pregnanti considerazioni politiche a suggerire di usare mille accortezze. La presenza di truppe rivoluzionarie occupanti avrebbe esasperato l’odio antifrancese della gran parte delle popolazioni italiche, che già li considerava come mostri che «ont tué leur roi er sur tout qui ont détruit la religion» (27). La consapevolezza dei rappresentanti diplomatici doveva essere accresciuta dalla piena evidenza della favorevole accoglienza riservata invece agli emigrati e ai preti refrattari che a ondate giungevano dalla Francia, presentati dovunque come le vittime di una rivoluzione che aveva degradato il genere umano. Per venire al profilo dei legati francesi inviati in Italia si può cominciare, seguendo la narrazione di Villani, da Jean Tilly. Incaricato d’affari a Genova nell’aprile 1793 da Lebrun, vi rimase fino al settembre 1794, quando il nuovo potere termidoriano lo richiamò in patria. Giacobino della prima ora, Tilly ha lasciato un’importante testimonianza scritta raccolta nel viaggio che lo portava verso Genova, in cui è documentata l’espansione dello ‘spirito pubblico’ della nazione al cambio della forma istituzionale. I dispacci genovesi del diplomatico francese sono utili non solo per valutare le prime impressioni di Tilly, ma anche per leggere come dall’Italia rimbalzavano le notizie dalla madrepatria: in questo caso le difficoltà di politica interna derivanti dalla caduta in disgrazia dei girondini in seguito al tradimento di Dumouriez, che proiettava in una nuova posizione di forza Danton. La nuova linea politica era non più la difesa strenua della rivoluzione dei popoli contro i propri tiranni, secondo la dichiarazione del novembre 1792, ma una condotta più prudente che mirava a rassicurare gli stati italiani sulla conservazione della propria neutralità. C’era la fondata ipotesi che Genova si schierasse con la coalizione antifrancese, compromettendo così una base salda di appoggio da cui si immaginava di partire per l’eventuale invasione. Era una strategia, quella del I Comitato di Salute Pubblica, che non poteva subire alterazioni, a costo anche di patire cocenti umiliazioni, come nel caso dell’affondamento da parte della flotta inglese di una nave francese, la Modeste, all’ancora nella rada genovese. Di fronte alle proteste dei patrioti locali, desiderosi di punire la compromessa e reazionaria classe dirigente genovese, il governo francese preferì ignorare l’accaduto per non veder perduto l’accordo con la Repubblica. In questo caso Tilly non seguì l’indirizzo del suo governo e si adoperò per denunciare il comportamento doppiogiochista dell’oligarchia cittadina, giudicata «comme la plus hypocrite, comme la plus tenebreuse, la plus perfide et la plus opiniâtre complice de toutes les conspirations qui se succedent en France» (84). Siamo al 16 germinale e Danton, che fino a quel momento aveva indirizzato la linea politica estera francese, era già stato messo sotto accusa e ghigliottinato. La crisi di ventoso aveva già provveduto a ingenerare gravi rivolgimenti nella conduzione degli affari diplomatici, con immediate ripercussioni in Italia. L’avvento della linea robespierrista non cambiò però la tattica verso il governo di Genova, di cui si doveva conservare ad ogni costo la neutralità pena la sconfitta di ogni progetto italiano. Tanto più la condotta dei genovesi lasciava trapelare trattative con la coalizione antagonista, tanto più il Comitato si ostinava a dar prova di credere alla loro fedeltà. Tanto più, ancora, i continui appelli di Tilly al proprio governo a denunciare il cedimento al nemico dell’esecutivo genovese divenivano pericolosi; le accuse che in questo contesto piovvero sul rappresentante diplomatico testimoniano la drammaticità del momento. Neppure con il 9 termidoro cambiò la direttrice della politica estera francese ed il nuovo accordo spazzò via ogni ipotesi di Tilly di influire sulla politica del suo paese; richiamato in Francia, Tilly assistette inattivo a tutte le evoluzioni direttoriali fino a pagare con il confino la sua netta opposizione alla svolta di brumaio.

3. Da Genova, Villani ci trasporta a Napoli per verificare le condizioni politiche del Regno di Napoli e le relazioni con la nazione rivoluzionaria attraverso l’operato del segretario d’ambasciata francese Reinhard. Il quadro che si offre non è meno complesso: anche qui politica interna ed estera francese si condizionavano reciprocamente e insieme dettavano i tempi del rapporto con le potenze italiane non ancora allineate, in una logica chiaramente difensiva. In un dispaccio inviato a Parigi il 17 giugno 1793, Reinhard ricordava ai responsabili del I Comitato di Salute Pubblica le sue sensazioni all’idea di approdare a Napoli dove, pensava, avrebbe dovuto gestire l’opposizione alla Rivoluzione di Francia indotto dalla malsana combinazione fra «la razza dei Borboni» e «il sangue dell’Austria», e esacerbato dalla notizia dell’esecuzione di Luigi XVI. Arrivato a Napoli, aveva rivisto in parte le sue idee perché si era reso conto che la corte di Ferdinando era divisa al suo interno e a maggioranza non amava l’ipotesi di sentirsi stretta dalla tutela oppressiva di Londra e Vienna. Quando l’accordo venne invece ratificato e Napoli entrò a far parte della coalizione antifrancese, Reinhard non si perse d’animo e invitò il suo governo a fare altrettanto poiché la potenza militare del Regno era del tutto risibile. Per il legato francese il vero punto focale su cui doveva concentrarsi la strategia militare della Francia era il Piemonte, che ad ogni costo non si doveva sospingere nell’alleanza con l’Inghilterra. Era necessaria molta cautela quindi per non far precipitare la situazione in un momento in cui la Francia non era ancora in grado di promuovere un’offensiva massiccia, a costo anche di deludere le aspettative degli italiani che invocavano l’arrivo dell’esercito rivoluzionario per liberarsi dai tiranni. Passato a Genova prima di rientrare definitivamente a Parigi nel tardo autunno del 1793, Reinhard ebbe modo di osservare durante il suo viaggio la condizione materiale dei diversi Stati della penisola e alcuni passaggi del rapporto conclusivo, che consegnò al Comitato, confluirono nella relazione di Robespierre di fronte alla Convenzione del 27 brumaio anno II. Era quello di Reinhard un ragguaglio estremamente realistico che nulla concedeva alle utopie, e che in molti tratti sembrava anticipare alcune soluzioni adottate da Bonaparte nella sua campagna italica. Il diplomatico credeva che per assoggettare l’Italia bisognava piegare le grandi città di Torino e Milano, ma sul piano simbolico era invece Roma la città da assoggettare ad ogni costo, non nascondendo che l’Italia poteva fornire alla Francia un ricco serbatoio di opere d’arte e di grano. I popoli italiani non sarebbero stati in grado di opporre alcuna resistenza, divisi com’erano «en petites hordes jalouses les uns des autres»; così come i rispettivi loro governi, illusi di essere uniti in un vincolo federale «sans verité et sans énergie» (120). Un amaro realismo segna anche il giudizio sui patrioti italiani, troppo fragili per pensare di poter ricevere un valido aiuto da loro. Reinhard avanza un singolare quanto interessantissimo paragone, degno di attenzione, sulla sorte dei rivoluzionari italiani condannati, senza l’aiuto francese, a vagare senza posa come gli eretici italiani del Cinquecento.

4. Naturalmente non c’era su questo punto un’uniformità nel giudizio dei diplomatici francesi: il giudizio sulle capacità e la forza dei giacobini italiani variava secondo il carattere ed anche il grado di radicalità politica che ognuno di essi incarnava. Così Eymar, anche lui a Genova dai primi mesi del 1793 fino al dicembre successivo, non perdeva la speranza in una prossima rivoluzione delle coscienze dei popoli: «La France en a donné le signal. Puisse du sein de ma patrie s’élever un homme tel que Rousseau qui soit digne de stipuler les intérêts généraux de l’humanité» (135). Eymar estendeva ai popoli quello che la filosofia riservava all’individuo, cosicché la facoltà che il diritto naturale riservava ad ogni uomo di ribellarsi al tiranno, nella visione del diplomatico si trasformava nel diritto dei popoli di resistere all’oppressione. Anche lui, rispetto al quadro italiano, si fece però assertore di una linea di condotta prudente, che avesse nei piani di conquista di Torino la guida della propria strategia militare, prima che i Savoia si schierassero apertamente contro la Francia trascinando con sé anche la fragile Repubblica di Genova e quella di Venezia, compromettendo in maniera definitiva ogni ipotesi di avanzata della Rivoluzione in Italia. Nonostante questo estremo realismo, anche Eymar venne risucchiato nel gorgo delle lotte intestine della rivoluzione, subendo l’umiliazione della destituzione in seguito al varo della politica antinobiliare intrapresa dal Comitato di Salute Pubblica: «la legge che mi rende inabile alle funzioni pubbliche – scrisse Eymar – mi addolora, senza meravigliarmi» (113). Una sensibilità ancora maggiore verso la questione italiana mostrò Pierre-François Lachèze, che si richiamava ad Annibale per suggerire a Robespierre di badare al «dominio della terra», e non perdersi nel vano tentativo di fronteggiare la potenza marittima inglese oramai insuperabile. Era perciò necessario puntare sulle regioni padane gli sforzi futuri dell’esercito rivoluzionario, e questo «non per delle vane conquiste, contrarie allo spirito della nostra costituzione e inutili alla felicità della Francia», ma solo per la libertà dei popoli soggetti alla tirannide dell’ignoranza. Lachèze arrivò a Genova il 22 marzo 1793, per poi essere nominato nel 1798 console di Napoli: questa lunga permanenza gli fece intuire le potenzialità del movimento rivoluzionario italiano, giacché a prescindere dalle punte di realismo che contrassegnavano anche i suoi dispacci, Lachèze si mostrava sinceramente fiducioso nella possibilità del riscatto del popolo (popoli) italiano, a patto di rispettarne «gli oggetti della loro fede e non chiedere loro viveri che porterebbero anche presso di loro la penuria e la carestia» (158). Contrario all’armistizio di Cherasco che di fatto arrestava l’avanzata rivoluzionaria in Piemonte, dando via libera alla repressione sabauda contro il giacobinismo locale, Lachèze fu ancora più contrario alla politica direttoriale nei confronti di Napoli. La sorte dei giacobini napoletani in carcere, le torture, il clima di paura a cui era assoggettata la città impedivano, secondo il console, di intrattenere rapporti di concordia. E Lachèze pagherà questo spirito di indipendenza con la revoca dal suo incarico.

5. Attraverso il caso di François Cacault, Villani offre una simbolica chiave in grado di decifrare il comportamento tipo della nuova figura di diplomatico creato dalla Rivoluzione. Incaricato d’affari a Napoli fin dal 1788, Cacault visse da protagonista delle trattative diplomatiche l’intero periodo precedente la discesa di Bonaparte in Italia e spaziò lungo tutta la penisola a rappresentare le ragioni della Grande Nazione. Una sorta di indifferentismo che gli permise di prendere ordini dal re come dal ministero girondino, dal Comitato di salute Pubblica come dal Direttorio e infine da Napoleone cercando di fare solo al meglio il proprio mestiere. A Napoli, terra del primo incarico, seppe valutare in maniera attenta la capacità di Ferdinando di riempire gli spazi che nessuno riusciva a occupare prima della Rivoluzione, accumulando un potere immenso; allo stesso modo seppe descrivere la paura che atterriva la monarchia di fronte al propagarsi delle idee di libertà che il 1789 aveva innescato. Certo Cacault non nascondeva che la leva dei rivoluzionari napoletani era piuttosto fragile, impossibilitata ad imporsi senza un valido aiuto delle truppe francesi. A fronte di «un parti de jeunes gens» disposti a cogliere la prima occasione buona «pour débrouiller l’horrible chaos du gouvernement de ce royaume», si ergeva minacciosissima la massa del popolo napoletano – «brute et grossier, superstitieux et ignorant» – disposto a difesa del suo re (194). Ma non erano queste considerazioni a indurre Cacault a sconsigliare al governo parigino di impegnarsi in una guerra contro Napoli, erano piuttosto alte considerazioni strategiche a indicare come obiettivo prioritario il controllo delle grandi città del nord; se si voleva rimanere al sud, che almeno si attaccasse Malta e la Sicilia per sottrarre così all’Inghilterra il controllo assoluto del Mediterraneo. Rispetto alla linea ideologica di Lachèze, Cacault appare caratterizzato da maggior sfoggio di cinismo teso com’era a preservare e garantire prima di tutto l’onore della sua patria: per questo non solo pregava Parigi di contrastare il disegno di insurrezione dei genovesi, ma invitava a considerare che «l’Italie entière offre une conquête facile pour la liberté et un grand objet de compensation en cas de perte dans d’autres parties» (196). In una serie di dispacci con cui aggiornava il Comitato di Salute Pubblica, Cacault si lanciò in una serie di considerazioni socio-politiche sugli Stati italiani: la fraternizzazione secondo il diplomatico era possibile molto più al Nord che al Sud, qui la superstizione religiosa e il dispotismo regio tenevano soggiogate le popolazioni e le corrompevano con il paternalismo, mentre l’aristocrazia occupava i gangli dello Stato badando ai propri interessi. A Roma il potere era strettamente identificato con il pontefice. Sconfitto e umiliato lui, il clero non avrebbe tardato a giurare fedeltà alla Rivoluzione: ben presto, concludeva Cacault, tutti avrebbero iniziato ad acclamare la libertà di coscienza (205). Con uomini ben scelti fra gli elementi più sicuri e moderati, e una gradualità nell’applicazione di precise misure politiche, come l’abolizione del feudalesimo e l’abolizione della nobiltà, l’Italia sarebbe divenuta di certo una delle alleate più solide della Francia. Pesava in queste dichiarazioni il senso del tempo robespierrista, ma c’erano anche valutazioni interessanti come la divisione in tre repubbliche territoriali con capitali in Pavia, Perugia e Acerenza. A differenza di Parigi infatti (siamo a ventoso anno II) le grandi città italiane erano popolate di «maîtres, de valets et d’une populace tres grossier» (210). L’occupazione di Oneglia, l’avvento della stagione termidoriana cambiarono in parte le valutazioni di Cacault: ora bisognava passare all’offensiva per dare vigore ed entusiasmo al popolo francese. Cacault si mostrò sempre contrario ai progetti unitari ventilati da Buonarroti; per lui il toscano era un buon letterato ma un pessimo politico, troppo estremo nella sua volontà di cancellare l’antico regime senza alcun tatticismo e diplomazia. Anche le speranze nutrite sui giacobini italiani non erano così limpide, ad ogni modo non ci si poteva adagiare sulla politica delle insurrezioni spontanee; la Francia avrebbe dovuto procedere all’occupazione militare della penisola e, solo in un secondo tempo, se le coscienze si fossero svegliate dal torpore, passare ad integrare l’Italia nel sistema francese. In caso contrario, tanto valeva restituirla ai precedenti padroni e evitare di fronteggiare una rinnovata disputa fra guelfi e ghibellini. Di certo la politica del Direttorio scalfì queste certezze e di fronte all’eventualità di una cessione della Lombardia avallò la conduzione bonapartista in chiara contrapposizione a quella direttoriale. Con questi presupposti il piano di ridefinizione dei confini venne mutato: nuova centralità assunse Bologna, quale centro nevralgico delle comunicazioni fra il Nord e il centro-sud italiano. Anche la questione romana assunse nuova veste: era indispensabile assicurarsi la neutralità del pontefice ed impedirgli di schierarsi con i nemici. Solo in caso di aperta violazione di questa neutralità, l’esercito francese avrebbe dovuto occupare Roma e provvedere, come primo atto del proprio governo, ad aprire le porte dell’archivio inquisitoriale e «donner connaissance au public de tous les secrètes du gouvernement pontifical» (250). La politica rapace del governo francese non poteva entusiasmare il gradualismo di Cacault, per questo si appellò al Direttorio chiedendogli di non eccitare le già provate popolazioni continuando a depredare le risorse, anche per evitare di consegnare l’intero popolo italiano alla reazione. In questa chiave strategica, sottolinea Villani, si deve intendere la volontà del plenipotenziario francese di continuare a trattare col pontefice dopo Tolentino. Il 18 fruttidoro e l’ennesimo sommovimento interno al Direttorio videro la rottura di ogni rapporto: il nuovo ministro Talleyrand, lo richiamò immediatamente a Parigi. Nonostante la sua sorte precaria Cacault non rinunciò a battersi per sollecitare il Direttorio ad intervenire a Napoli e salvare quei patrioti che tanto avevano dato all’armata di Championnet.

6. Chiude il volume una preziosa lettera di Matteo Galdi a Cacault, del 18 aprile 1796. È l’anticurialismo il nucleo portante delle parole del giacobino italiano, ma traspare anche la triste e dolorosa consapevolezza che a Napoli il governo aveva preso di mira «assolutamente gli uomini di lettere, giacché teme che la rivoluzione delle lettere possa procedere». Una pervicacia nella persecuzione che investiva anche «le ombre degli estinti», come dimostrava la dannazione della memoria di Filangieri. La conclusione era amara e investiva le responsabilità proprie degli intellettuali nei confronti del potere: «non si stampa più, non si legge più, non si produce per timore di estrinsecarsi letterato». Una lezione, quella di Matteo Galdi, che soprattutto oggi andrebbe meditata.