Napoli 1799 fra storia e storiografia,
a cura di Anna Maria Rao, Napoli, Vivarium, 2002
[ISBN: 88-85239-71-4, € 45,00]

Alessandro Guerra
Università di Roma, "La Sapienza"

«Il ribrezzo del sangue è sempre
il sintomo di una civiltà progredita,
ma il passato è accanito, pesa sulle
generazioni presenti, le rende putride,
incancrenite, e l’effetto della diffusione dei lumi
resta tanto incompleto
quanto lento è il suo progresso»
H. de Balzac, Memorie di Sanson


1. La recente ricorrenza del bicentenario del Triennio giacobino in Italia (1796-1799), associandosi al cambio di millennio, pieno in sé di una straordinaria valenza simbolica, ha dato un potente slancio alla storiografia per ripensare se stessa e l’oggetto del proprio interesse. A spingere ad un rinnovamento della storia quanto del mestiere di storico pesava, inoltre, a dire di alcuni, l’urgenza di liberarsi dai gravami ideologici che avevano pesantemente condizionato il lavoro storiografico delle generazioni precedenti. Come che sia, oltre a singoli contributi specifici di notevole spessore, il bicentenario è stato anche l’occasione per far incontrare i maggiori specialisti (italiani e stranieri) della materia e impegnarli a ridefinire le coordinate del Triennio, a partire proprio dalla sua analisi semantica. Al lemma ‘giacobino’ è stato preferito allora ‘democratico’ e ‘repubblicano’, meglio atto, questa in sommaria sintesi la tesi, a tenere insieme la gamma delle posizioni politiche che la sola categoria del giacobinismo non riusciva più a soddisfare. Ed ancora, una parte della storiografia, recependo la profonda revisione storiografica della scuola francese e anglo-sassone, ha messo in evidenza la centralità del movimento neo-giacobino, oltre al continuo dibattersi intorno alla domanda su quanto e se la Rivoluzione in Italia fu passiva. Uno dei migliori momenti in cui un siffatto contesto si è declinato praticamente in un’aperta e chiara sintesi storica (anche perché si è offerta come specchio pubblico delle convergenze e divergenze della storiografia) è senza dubbio il convegno internazionale tenutosi a Napoli dal 21 al 24 gennaio 1999 di cui ora vengono pubblicati gli atti.

2. Il volume offre molteplici chiavi di interpretazione e ha il merito di esplorare in maniera inedita gli incroci fra diverse discipline finora piuttosto trascurati. In apertura non si può non sottolineare l’intervento denso di emozioni di Giuseppe Marotta, anima del rilancio intellettuale del Mezzogiorno: Marotta difende le ragioni di celebrare il 1799, perché «la fiamma brucia ancora», come dice in apertura, ma lascia in eredità il valore del dubbio come costante ricerca della verità. Sono cinque le sezioni in cui si articola il volume: la prima, «Dalle riforme alla rivoluzione: momenti e figure», che sonda il passaggio dai lumi al 1799, attraverso lo studio dei grandi protagonisti (Pagano, Filangieri, Conforti, Galanti) della stagione del riformismo meridionale, la cui lezione fu determinante anche per gli uomini che si aprirono alla Rivoluzione. Quanto si accolse e quanto si innovò di questa tradizione è affidato al dibattito dei diversi saggi. La seconda sezione si compone di saggi che indagano la politicità dell’esperienza repubblicana, all’interno del più vasto panorama del triennio rivoluzionario. Sarà questa ad essere discussa qui. La terza sezione si sofferma invece su «Rivoluzione, linguaggi, strategie e forme di comunicazione». È forse questa la parte più innovativa del volume: accanto ai giornali, la lingua, il teatro, l’iconografia, la musica, la drammaturgia concorrono ad essere nuovi strumenti per leggere la complessità della Repubblica napoletana; quanto essa fu capace di innovare, sia pure nel breve spazio che visse, la dimensione pubblica e civile di chi provò a sentirsi cittadino. Segnalo qui il lavoro davvero molto efficace di Rita Librandi (La comunicazione con la plebe: varietà linguistiche e strategie retoriche nelle ‘parlate’ dei giacobini napoletani, pp. 471-92) che spiega le ragioni del fallimento del tentativo di avvicinarsi alle masse, a dispetto dell’uso di un registro linguistico che si pensava popolare, senza il realtà esserlo del tutto. Il mondo delle province, la «formazione e trasformazione di un ceto politico» va a comporre la quarta sezione, e contribuisce a chiarire come la Repubblica avesse solidi radici anche fuori dalla cerchia urbana di Napoli. Le contraddizioni della città investirono la provincia e con esse si chiarirono le ragioni di chi alla Rivoluzione si opponeva, ma non per questo il resto del Mezzogiorno si deve pensare avvolto nelle tenebre. Al dopo ’99 è dedicata la parte quinta del volume: «immagini storiografiche e letterarie della Repubblica napoletana». Non solo la memoria di Cuoco, né le parabole mazziniane conservano echi di quell’esperienza. Marco Meriggi (Una recezione tedesca della rivoluzione napoletana. La “Storia della repubblica partenopea” di Johann Gottfried Pahl, pp. 799-814) si sofferma su una lettura degli eventi napoletani fatta in territorio tedesco nel 1801 dal pastore evangelico Pahl. È la superstizione, a dominare a Napoli secondo Pahl, che codifica l’immagine del fanatismo dei lazzaroni, che all’autore piace leggere come presupposto della definizione marxiana del sottoproletariato.

3. Proprio il saggio di Anna Maria Rao (Il 1799 e la Repubblica napoletana: il progetto e i lavori del convegno, pp. 63-113), la curatrice del volume, problematizza in maniera molto lucida i nodi storici della ricorrenza, mettendoli in confronto con il primo centenario del 1899 e con le questioni sollevate in quella diversa congiuntura storica. La Rao apre il suo intervento fugando ogni rischio di mitizzazione dell’esperienza rivoluzionaria della Repubblica napoletana, offrendosi come una bussola per orientare nella lettura di una storiografia alla continua ricerca di nuovi indirizzi per indagare il passato. Passando in rapida rassegna la generalità dei temi affrontati dai diversi contributi, la Rao sottolinea come ad imporsi sia, prima di tutto, la consapevolezza delle affinità/diversità fra il contesto della società napoletana e quella della Francia in rivoluzione. La profonda crisi finanziaria, la sfiducia verso la monarchia e lo scollamento fra le classi identificano i punti comuni. La pressoché assenza di canali istituzionali in grado di rappresentare o dare forma alla mobilitazione dell’opinione pubblica segna invece la radicale differenza con la realtà francese dei Parlamenti e degli stati generali. L’Ottantanove prima, il radicalismo rivoluzionario poi, piombarono quindi su Napoli generando interesse o acuendo un contrasto già drammatico nel corpo sociale meridionale. La parte formatasi nel pensiero del riformismo illuministico dei vari Filangieri, Genovesi ... vide nella rottura rivoluzionaria un percorso parallelo a quello intrapreso, ma di immediato rinnovamento dell’assetto statuale che i sovrani non erano più in grado di assicurare: «vari, complessi e sofferti i percorsi individuali che portarono dalle riforme alla rivoluzione che provocò comunque fratture profonde all’interno di ambienti intellettuali tutt’altro che omogenei al loro interno». La Rao, mentre segnala una discontinuità fra il momento le riforme e quello della rivoluzione, fa luce su quei giovani a cui la Rivoluzione accese l’entusiasmo e la passione politica. Giovani come Vincenzio Russo che si affacciavano ora alla vita pubblica, reclamando una radicale rigenerazione della società. E proprio Russo traccia la parabola di quell’estremismo politico, in conflitto con gli sviluppi moderati di una «concezione della democrazia – dice la Rao – da costruire e da praticare. Un conflitto che ebbe anche caratteri generazionali» (83). Di fronte ad panorama sociale tutt’altro che pacificato, molti trovarono nella socialità massonica (su cui chiama a riflettere con la consueta raffinatezza Elvira Chiosi, Massoneria e politica, pp. 217-37) la capacità di espressione della propria opposizione, con l’implicita finalità di aprirsi alle masse facendo la rivoluzione come in Francia e passare così «dalla fratellanza massonica alla fratellanza universale degli uomini liberi ed uguali, dalla cospirazione alla democrazia» (81). Il fallimento della cospirazione del 1794 e l’esilio furono i fondamentali processi di apprendistato dei rivoluzionari napoletani, messi a frutto nel gennaio 1799 col concorso delle armate francesi e in ripulsa alla politica scriteriata di Ferdinando IV e della regina ‘austriaca’. Un esperimento straordinario in grado, oltre che di essere influenzato ovviamente, di influire sulla politica interna della Grande Nazione, di costituire «quasi il laboratorio» di quella corrente neogiacobina radicale in vista di una profonda rigenerazione universale. A contrastare queste spinte diverse stava però una resistenza alle idee rivoluzionarie capace di aggregare consenso nelle diverse classi sociali che non si limitò alle insorgenze dei ‘lazzaroni’ ma ebbe anche momenti propri di elaborazione teorica. In conclusione, l’autrice, ricorda anche che uno degli effetti più importanti dell’esperienza del ’99 fu di formare un ceto politico non da ultimo nelle province, sia esso in accordo o in contrasto col verbo rivoluzionario, capace di innervare il tessuto civile italiano.

4. Il saggio di Giuseppe Galasso (Il 1799 e l’Europa, pp. 23-62) provvede ad inserire le vicende della Repubblica napoletana, e più in generale il destino delle Repubbliche sorelle che nacquero in Italia nel triennio, nel più ampio contesto della politica del Direttorio, interessata a rompere la coalizione sottraendo l’imperatore all’influenza britannica. E lo fa fissando la specificità di quell’anno: il 1799 viene così ad essere paradigma di una politica moderata il cui primo obiettivo era quello di smorzare ogni entusiasmo rivoluzionario, frenare il repubblicanesimo più acceso e combattere ogni rinascita monarchica. Per Galasso, Brumaio è «una fase della storia europea di allora che non ricade del tutto nel ciclo che la precede, né in quella che la segue» (25). Nella ricerca delle cause, l’autore si concentra sulla politica complessiva del Direttorio il cui carattere fallimentare fu profondamente segnato dalla sua incapacità a «nascere», a sviluppare una pratica politica efficace che non fosse solo iniziativa e spregiudicatezza, messe in campo per coprire la «perdurante insussistenza di strutture politiche e di strumenti operativi» capaci di far fronte alla fluidità del clima politico (31). L’onda d’urto di questa incapacità della classe dirigente francese a governare con fermezza la fase turbolenta, «concordemente operosa» solo per garantire la propria permanenza al potere come dimostrò Brumaio, produsse nella già fragile società italiana conseguenze devastanti. Lo studio dello storico napoletano si sofferma quindi sulla dinamica delle insorgenze popolari che costellarono l’avanzata dell’armata francese, mettendo in risalto il carattere istintivo che presiedeva il confuso ma determinato esercizio politico dei nemici della rivoluzione. L’inedito protagonismo delle masse si limitava ad agire un rimpianto senza alcuna capacità di immaginare un futuro che fosse diverso dal passato che conoscevano. In sostanza, si sedimentava rancore senza liberare idee o un nuovo destino, «come bene o male si poteva e si deve dire per la Rivoluzione» (49).

5. Vittorio Criscuolo (L’esperienza della Repubblica napoletana nel quadro del triennio 1796-1799, pp. 241-94), ritorna sulla questione del nesso riforme–rivoluzione e sulla scia dell’analisi dell’evoluzione del pensiero di Francesco Maria Pagano e della considerazione ineludibile e dirimente dell’emersione della forza popolare più o meno organizzata nello scenario politico, può affermare che «il programma dei giacobini del 1799 non era più il grande sogno filangeriano di una riforma guidata dall’alto dai virtuosi filosofi, ma si inseriva consapevolmente nella prospettiva rivoluzionaria aperta dalla Francia, e si fondava perciò sul diretto intervento delle masse nella scena politica» (p. 269). Di diverso avviso è invece senz’altro Vincenzo Ferrone (Gaetano Filangieri, l’illuminismo e la critica politica della scientia juris, pp. 143-65), che indica una continuità di fondo fra i lumi e la rivoluzione, fra i profeti dell’illuminismo e i martiri del ’99. Concetto che proprio recentemente Ferrone è tornato a proporre con nuova forza e ricchezza di argomentazioni[1]. Criscuolo, a proposito dell’esperienza della Repubblica napoletana, riprende inoltre la questione del giacobinismo italiano e discute alcune direttrici della storiografia sul tema. Sensato appare il suo invito iniziale alla cautela nel fissare la specificità di Napoli nel quadro complessivo del Triennio: «è necessario – scrive appunto l’autore – studiare la Repubblica napoletana non come un episodio a sé, o comunque in relazione soprattutto alla storia del Mezzogiorno, ma in stretta correlazione con l’intero Triennio 1796-1799, vale a dire nel contesto storico al quale essa appartiene [...]» (243). Criscuolo critica la tendenza che esaurisce nel neo-giacobinismo (cui non nega però la possibilità di offrire validi spunti di ricerca) la galassia democratica, rimuovendo il vincolo dei patrioti italiani dall’esperienza francese robespierrista ed una sostanziale accettazione della Costituzione del 1795. Senza entrare nel merito di tutte le argomentazioni addotte (prima fra tutte quella che l’Autore chiama la «questione nazionale», e «l’eguaglianza sociale e non solo giuridica» proprie del giacobinismo), Criscuolo, sulla scia del magistero intellettuale di Armando Saitta, sostiene con forza che «i quadri del gruppo dirigente repubblicano» si formarono «almeno a partire dal 1792, per cui al momento della vittoriosa campagna napoleonica si presentarono sulla scena avendo già conosciuto un complesso processo di elaborazione ideologica e programmatica» (282).

6. Il saggio di Girolamo Imbruglia (Vita religiosa e lotta politica a Napoli nei mesi della Rivoluzione, pp. 295-325) muove dall’osservazione specifica della dimensione religiosa nell’ottica repubblicana, ammettendo peraltro che l’unico partito in grado di attivare concretamente il sentimento religioso delle masse fu quello lealista. Attraverso l’apporto di nuove fonti archivistiche, Imbruglia conferma l’uso strategico della religione nella politica repubblicana; fu la cautela a dettare la scelta di non sconvolgere ma regolare le forme tradizionali con cui la sensibilità cattolica delle masse si esprimeva, provando con ciò a contenere il fanatismo e la superstizione senza allontanare il popolo dalla forma pubblica repubblicana. Non bisognava aver fretta, essere impolitici: come teorizzò il teofilantropo Antonio Bruner, i pregiudizi «a poco a poco si possono scomparire mercé i lumi e la pazienza de’ repubblicani istruiti, i quali per la stessa ragione debbono far attenzione di non far gran pompa de’ loro talenti filosofici colle anime deboli e pregiudicate» (308). Nonostante il disegno di Bruner, il divario fra elite e popolo su questo punto segnò l’incomprensione fra i due mondi che marciarono per un momento paralleli per poi dividersi «su una credenza non condivisa» (314). A Napoli, argomenta Imbruglia, la religione democratica non fu compresa dal popolo a cui pure si rivolgeva. Molto più riuscì invece il cardinal Ruffo a tenere insieme le istanze delle classi subalterne, ad intercettarle con la propria offerta tradizionalista, alla fine capace anche di riaggregare parte del ceto nobiliare e intellettuale, prima di venir sconfessato dalle rozze direttive sovrane. Attraverso il caso dell’abate Pietro Paolo Perrelli, Imbruglia ci invita inoltre ad osservare come con la Rivoluzione il popolo non sovvertì la propria cosmogonia rassicurante, se non in un brevissimo frangente e per singoli soggetti già avulsi dalla sfera religiosa. Nelle testimonianze portate a carico dell’abate dai suoi vecchi fedeli all’atto del processo intentatogli durante la Restaurazione, Imbruglia ripercorre la frattura che si era consumata nel seno della società napoletana. Con lui, conclude, «più che la laicizzazione di un religioso, scorgiamo i comportamenti repubblicani di un mondo già laico» (318).

7. Sul tema della religiosità ‘democratica’ è concentrato il saggio di Luciano Guerci (I catechismi repubblicani a Napoli nel 1799, pp. 431-60), non certo un’appendice, piuttosto un arricchimento del lavoro dello storico torinese sui catechismi repubblicani del Triennio[2]. Per Guerci, il catechismo (sia gli scritti che esplicitavano la definizione di ‘catechismo’, sia quelli che ne utilizzavano il procedimento espositivo) fu la principale risorsa dei democratici per spiegare al popolo i concetti di democrazia, libertà, sovranità e eguaglianza. Furono 5 i catechismi stampati a Napoli nei mesi della Repubblica, di cui tre originali, una ristampa e una traduzione di un testo francese. Piegato sulla realtà napoletana era il catechismo di Onofrio Tataranni, materano, che dedicò spazio non solo alla formazione civica del cittadino ma anche al suo apprendistato professionale, con speciale attenzione al lavoro agricolo, utile per liberarsi dalla dispotica divisione del lavoro imposta dal monarca, pur senza spingersi alla richiesta di abolizione della proprietà privata e di una redistribuzione delle terre. Il catechismo di Stefano Pistoia contestava al precedente la inintelligibilità politica da parte delle classi più basse, pur non avventurandosi per converso in dettagliate e più comprensibili valutazioni politico-sociali se non molto vaghe; rilanciava piuttosto su un sapere religioso deista in cui dio finiva con il divenire «un essere potentissimo, creatore, conservatore e benefattore di tutte le creature» (445). Una generica fratellanza universale sostituiva la comunità universale predicata nei catechismi cattolici, privilegiando al vincolo di fede una «amicizia che ogn’uomo deve avere con tutti gli altri uomini che abitano questa terra» (446). Portavoce di una più intensa propaganda pedagogica, magari da svolgere in dialetto e affidare al clero, era invece il catechismo di Stefano Astore. Era forte l’invito al popolo a servirsi anche di questo catechismo per aprire gli occhi e snidare i crimini e l’oscurantismo dei reali a cui lo stesso popolo continuava a credere, fidandosi magari di quel clero indegno che comprometteva il valore della propria missione. A differenza degli altri due, Astore riponeva ancora fiducia nel cattolicesimo, nel suo clero non corrotto e perciò capace di riscoprire «principi e valori convergenti con quelli del governo democratico» (450); tutt’al più seguendo il messaggio positivo diffuso dagli ‘angeli liberatori’, come Astore chiamava i francesi per lui ancora dominati da un fortissimo senso di fede cristiana. Rimandando al volume di Guerci per una più attenta disamina dei catechismi di Natale e della traduzione, quello che si vuol qui richiamare è la complessità della dimensione religiosa nel quadro della dinamica politica del giacobinismo italiano che spesso si finisce col tralasciare e l’autore invita a riesaminare e ricalibrare, alla luce delle nuove acquisizioni storiografiche, le vecchie concettualizzazioni di cattolicesimo democratico e evangelismo giacobino.

8. Con la consapevolezza di dover trascurare molti aspetti, affascinanti, del prisma napoletano, mi limito a ripercorrere come emerge la ‘questione’ del giacobinismo italiano. E allora, Bernard Gainot (I francesi a Napoli nel 1799, pp. 327-39) dopo aver dato atto alla storiografia francese sulla rivoluzione di aver cambiato le proprie impostazioni originarie e aver rivalutato l’apporto dei patrioti italiani nella fase direttoriale, descrive l’azione degli elementi radicali francesi di stanza a Napoli durante la Repubblica. Sono tre i gruppi che Gainot individua: gli ufficiali (che divide in due gruppi legati ai nomi di Mac Donald, più moderati e ligi al Direttorio, e Championnet in grado invece di mettersi in gioco con proprie finalità nella situazione italiana), i commissari civili e gli agitatori francesi (Marc-Antoine Jullien, per intenderci). In quest’ottica e accennando alle vicende politico-militari dei mesi repubblicani e a quelle della sua fine, forse con qualche ambiguità, Gainot propone Napoli come paradigma del destino della democrazia europea del XX secolo. Lo storico francese nel proporre una circolarità «congiunta degli uomini e delle idee, dei programmi e delle organizzazioni» (333) descrive la relazione parallela fra patrioti francesi e italiani capaci di riprendere l’iniziativa rivoluzionaria in opposizione alla linea dell’esecutivo, ma anche in discontinuità con il giacobinismo robespierrista. L’emergere della prospettiva neo-giacobina, condivisa da Antonino De Francesco e Eugenio Di Rienzo ed in maniera più o meno critica dalla Rao, serve ad evidenziare l’insufficienza del criterio interpretativo invalso fino ad ora che circoscrive, lo dico con molta approssimazione, all’identità robespierrista il giacobinismo.

9. La categoria di neo-giacobinismo per contraddistinguere il movimento democratico dell’anno VII, serve a rivalutare tutte quelle posizioni del campo repubblicano, alcune molto avanzate nella proposta politico-sociale, che continuarono ad opporsi al Direttorio per attestarsi nella difesa della democrazia rappresentativa, senza rivendicare il ripristino della Costituzione del 1793 e rifiutando la logica del Terrore. È utile altresì, per individuare coloro che immaginarono una soluzione federale per l’Italia invece di quella unitaria che si vuole propria del movimento robespierrista. Il saggio di Di Rienzo (Dalla Vandea a Napoli (1793-1799): guerra di popolo e democratizzazione delle masse nei manoscritti di M.-A. Jullien de Paris, pp. 341-54) è utile per chiarire e illuminare questa novità storiografica. A Jullien, Di Rienzo aveva già dedicato pagine importanti[3]: arrivato in Italia nell’autunno del 1796, Jullien, prendendo su questo le distanze dalla politica bonapartista e dal nazionalismo direttoriale, vedeva in un rafforzamento delle Repubbliche sorelle un «santuario», dal quale «ripartire per attuare una riconquista politica della Francia» (344). Jullien che era stato fedele robespierrista e severo agente in missione in Vandea, aveva già abbandonato in carcere ogni prospettiva babuvista, trovando nella difesa della Costituzione del 1795 un punto saldo da cui ripartire per avanzare la personale proposta democratica per l’Italia, simile a quella formulata in Francia fin dal 1795 dai neogiacobini: formazione di una classe di piccoli proprietari indipendenti attraverso la vendita dei beni nazionalizzati, divisione della grande proprietà e tassazione progressiva nei paesi liberati dalle armate francesi. Proprio l’esperienza in Vandea aveva inoltre suggerito a Jullien che simili misure potevano servire a legare le masse alle istanze democratiche per poi schierarle in operazioni di guerriglia contro le masse controrivoluzionarie. Un esercito di irregolari insomma, in grado di dare un valido sostegno «alla lotta unitaria intrapresa dai patrioti italiani a difesa del progetto di repubblicanizzazione e di democratizzazione della penisola» (350), in cui l’Autore vede l’esordio del paradigma della guerra civile.

10. Il bel saggio di Antonino De Francesco (Un caso di estremismo politico nella Napoli del 1799: Francesco Lomonaco traduce Mably, pp. 375-91) parte da una disamina della fortuna di Mably in Francia, esaltato tanto dai giacobini che vedevano in lui, come in Rousseau, il teorico della rigenerazione, quanto da coloro che si opponevano alla messa in discussione del diritto di proprietà. Proprio negli anni del Direttorio, nota opportunamente De Francesco, venne stampata l’edizione completa delle opere di Mably, prova di un indirizzo culturale che avrebbe provato a «sottrarre le opere di Rousseau e di Mably dal campo dell’egualitarismo per ricondurle su un terreno dove potessero invece concorrere a fondare il nuovo ordine post-robespierrista» (p. 377). La traduzione ad opera di Lomonaco dell’opera Dei diritti e dei doveri del cittadino nel 1799 rappresenta un caso a suo modo emblematico: Lomonaco era uno di quei patrioti che non avevano mai conosciuto l’esilio, la sua formazione politica non dipendeva quindi dal contatto con la realtà rivoluzionaria francese o da esperienze nelle repubbliche sorelle; il suo estremismo politico sta a testimoniare dunque per De Francesco il rapporto di non obbligata causalità fra un profondo e radicale democratismo e il giacobinismo dell’anno II, più o meno mediato dalla pratica eversiva babuvista. C’era, in altre parole, un’originalità del movimento italiano che supera la dicotomia riforme-rivoluzione, sottraendola però anche al punto di svolta della stagione montagnarda, e si riconnette a tutta forza con la pratica politica e culturale del ‘partito’ democratico sotto il Direttorio. Un’originalità, data dal rifiuto della mediazione della scuola filosofica dell’illuminismo napoletano, non certo priva di accenti radicali, ma altresì consapevole dei limiti da porre per prevenire gli eccessi. Mably si prestava a dare un riferimento per coloro che si battevano per la libertà contro il dispotismo dei sovrani; al contempo però i Droits et devoirs du citoyen denunciavano «la disuguaglianza sociale come la radice dei molti mali dell’antico regime», ma tenevano «fermo sulla fuoriuscita dalla rottura rivoluzionaria per la via di una soluzione di governo che consenta di fondare sul diritto (e sul diritto soltanto) la limitazione del lusso e delle ricchezze» (383). In questo panorama di relazioni, mi sembra si possa dire, si inserisce la concordia discors con Vincenzio Russo: la stessa tensione ad evocare nella Napoli repubblicana una rigenerazione totale che partisse dall’educazione, ora che religione e feudalità erano scomparse, insieme alla necessità di una adeguata legge agraria che governasse la fase rivoluzionaria; il tutto richiamando legittimato dal ricorso continuo al mito dell’antichità. Ma anche la decisa inconciliabilità sul tema della rappresentanza politica: Russo teorico della democrazia diretta, Lomonaco invece con una «visione verticistica della guida del processo politico, dove un ruolo autonomo da parte del popolo è chiaramente escluso» (387). Segnalo solamente che De Francesco ha dato vita ultimamente ad un tentativo importante di rilettura profonda del 1799[4], in cui è espresso il «convincimento che si possa affrontare il 1799 come vicenda italiana (ossia come la facies di un comune spazio politico dischiusosi nell’intera penisola con l’arrivo di Bonaparte)». La parabola napoletana non può essere considerata come un’eccezione, ma come momento finale della storia d’Italia ai tempi di Bonaparte «dove fosse esemplarmente possibile cogliere, a fronte dell’urto rivoluzionario, la via alla costruzione, sotto il segno della nazionalità, di una comune pratica democratica e dove venisse nuovamente plausibile, leggendone le fortune storico-politiche tra Ottocento e Novecento, porre la radice dell’Italia moderna».

11. Probabilmente, ma certo non è una critica, per una valutazione più articolata della ricezione italiana del fenomeno rivoluzionario, avrebbe forse meritato maggior spazio nel volume uno studio autonomo e più sensibile della dinamica religiosa e dell’evoluzione che la rivoluzione accelerò senza creare. Questo per conoscere in maniera più approfondita non solo il personale ecclesiastico che aderì con convinzione alla democrazia o si schierò con nettezza contro, ma anche, e soprattutto, l’interazione fra i due mondi, i mille piani della complessità spirituale che lacerava la comunità cristiana. I tempi e le forme di questi contatti e dello scontro, i molteplici campi della devozione di classi sociali e ceti, le rispettive aree di permeabilità alle idee dell’altro si offrono infatti come cifra capace di tradurre in comprensione i dati di quell’esperienza, come hanno mostrato in questi anni i lavori di Marina Caffiero e Daniele Menozzi; così come probabilmente si poteva riservare maggiore attenzione al fenomeno controrivoluzionario, forse neppur esso confinabile nella mera reazione, ma capace di costruire consenso attraverso la formulazione di una propria proposta politico-teologica.

[1] La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003. L’uscita del volume ha aperto un’importante discussione storiografica sul tema delle radici illuministiche della tradizione democratica e repubblicana in Italia fra Carlo Capra (Repubblicanesimo dei moderni e costituzionalismo illuministico: riflessioni sull’uso di nuove categorie storiografiche, in «Società e storia», 100/101, 2003, pp. 355-7) e lo stesso Ferrone (Risposta a Carlo Capra, ivi, 104, 2004, pp. 401-7). Sempre su questo tema è intervenuto ancora Eugenio Di Rienzo, Antichi e moderni: Filangieri e Constant, in «Nuova Rivista Storica», 88, 2004, pp. 365-96.

[2] Istruire alle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), Bologna, il Mulino, 1999.

[3] Marc-Antoine Jullien de Paris (1789-1848). Una biografia politica, Napoli, Esi, 1999, ma si veda anche L’aquila e il berretto frigio. Per una storia del movimento democratico in Francia da Brumaio ai Cento giorni, Napoli, Esi, 2001.

[4] 1799. Una storia d’Italia, Milano, Guerini e Associati, 2004.