1. Il volume rinnova il paesaggio bibliografico degli studi montesquieuani
– paesaggio in cui già da tempo spicca il nome del curatore –
proponendo un insieme di tracciati all’interno dell’opera del
Président, ciascuno dei quali si rifà alle unità
tematiche in cui si articola l’Esprit des lois. Su questa scelta,
almeno due cose vanno dette. Essa, innanzitutto, intende rispettare le mire
del grande pensatore politico, per il quale la suddivisione in sei parti tematiche
del capolavoro non costituiva un aspetto accidentale, di pura forma editoriale,
ma definiva una precisa Darstellungsweise, quindi in modo indiretto
ed implicito un modo d’interpretare la “scienza nuova” che
si era costituita – nell’espansione delle aree di ricerca e delle
rilevanze, nella considerazione e riconsiderazione delle problematiche classiche
della politica, nella disamina e nella formulazione dei modelli di descrizione
della società e della storia. In secondo luogo, questa caratteristica
composizione dei saggi che si susseguono in Libertà necessità
e storia sembra riflettere fedelmente un’immagine determinata di
Montesquieu – quella che ne fa uno scienziato a tutto campo del mondo
storico, che solo nel passaggio dalla prospettiva economica a quella sociologica
a quella giuridico-istituzionale ecc., può essere riconosciuto nella
profondità della sua riflessione, nell’insaturabilità
delle questioni che sollecita.
Certo, dire che Montesquieu è un ‘classico’, dire che ha
sempre di nuovo qualcosa da dire, non significa ancora rendersi conto minimamente
delle sottili dinamiche che, negli ambienti scientifici e più in genere
nei contesti della trasmissione culturale, modulano e concentrano gli interessi
verso un autore in un senso oppure in un altro. Ma il punto che emerge, allorché
ci si chieda cosa veramente tiene insieme questi saggi, è che differenti,
e non sempre convergenti, sono i significati e le intenzionalità che
rendono il pensatore di La Brède nuovamente leggibile. Non c’è
un evidente minimo comun denominatore tra gli indirizzi di ricerca che hanno
stimolato questi saggi, il che non fa problema; ma ciò, al tempo stesso,
non significa che non si debba essere circospetti verso quelle abitudini intellettuali
che, in termini differenti, hanno caratterizzato praticamente da sempre, qui
da noi, la ricezione del philosophe. Basti citare i due estremi del
cosiddetto «effetto Beccaria»[1],
in qualche modo all’opera in certi punti del saggio di Felice, o del
recupero strumentale, nel saggio di Thomas Casadei, di questioni aperte dell’Esprit
des lois ad un filone del pensiero politico americano, il republicanism[2],
che a tutt’oggi pare circoscritto al dibattito tra liberals e
communitarians – per quanto esso voglia autointerpretarsi come
nuovo orizzonte di consolidamento delle democrazie occidentali. Con quanto
appena detto si vuole soltanto sottolineare come anche con un pensatore come
Montesquieu (spesso visto come un antidoto alle strumentalizzazioni ideologiche
dei mitologemi storicisti o umanisti, liberali o marxisti) non sono infrequenti
gli investimenti ideologici, le celebrazioni posticcie di continuità
dovute quasi esclusivamente all’ingannevole comunanza del lessico politico
di tempi differenti, concepito sub specie aeternitatis. Ad ogni modo,
proprio perché differenti sono i temi, i contesti, le curvature dell’interesse
scientifico (o ideologico) presupposto, bisognerà esaminare brevemente
ciascuno dei saggi, che sono imperniati sull’analisi serrata dei testi
o perlomeno sul riferimento concreto e puntuale ai luoghi dell’Esprit
des lois (non solo, questo è un merito significativo, a quelli
più dibattuti e celebrati) e come tali segnano un contributo innegabile
allo sviluppo della conoscenza storico-critica e all’ermeneutica filosofico-politica
di questo grande teorico della politica[3].
2. Il saggio di Thomas Casadei, «Modelli repubblicani nell’Esprit
des lois. Un ‘ponte’ tra passato e futuro» (pp. 13-74)
sembra da più punti di vista un’operazione arrischiata, già
solo per il fatto che i suoi presupposti fondamentali non sono concepibili
a partire dall’assunto esplicito, e condivisibile, secondo cui l’ideologia
(o la modellistica) repubblicana avrebbe un effetto di sovradeterminazione
e di storicizzazione sulla concezione del politico che viene elaborata nell’Esprit
des lois –a partire dalla teoria del gouvernment. È
chiaro che il problema della repubblica o delle repubbliche, che interviene
in diversi tornanti dell’opera, non viene estinto dalla semplice presa
d’atto che il terreno elettivo di questa forma politica è stato
il mondo degli antichi – condivisibile, in questo senso, la menzione
della repubblica federativa come «residuo» della partizione generale
delle forme di governo (pp. 35-37). Tuttavia, sostenere che la combinazione
tra la riflessione sulla sfera dell’economico (commerce, esprit
de commerce) e l’analisi delle repubbliche porti ad alternative
e a configurazioni della teoria che sono quelle tipiche dell’americano
republicanism sembra proprio un abuso.
In qualche modo, vengono proiettate sui testi e sugli assunti montesquieuani
delle pertinenze che fuori dal loro contesto d’origine distorcono il
quadro delle questioni principali. Chi scrive non crede che rappresenti un
problema effettivo – cioè concretamente derivabile dalla semantica
dei testi – l’alternativa tra una concezione del commercio come
impedimento all’affermazione della repubblica nella modernità,
da un lato, e dall’altro un’opzione a favore di un nuovo modello
di repubblica, di una «repubblica commerciale», che si potrebbe
congetturare a partire dalle considerazioni del philosophe sugli effetti
del commercio nella politica interna ed estera delle nazioni (pp. 39-44).
Che vi possa essere una tensione tra virtù e commercio in Montesquieu
non significa che sia legittimo recuperare le sue posizioni al quadro di una
corrente la quale, tra l’altro, ha condotto ad un definitivo abbandono
del confronto con le fonti storiche (quindi della valutazione critica della
distanza tra il linguaggio politico del presente e quello di epoche altre).
Per arrivare a sostenere, tra l’altro, che lo stesso pensatore che avrebbe
misconosciuto la costituzione e il significato dello Stato assoluto nella
modernità (pp. 54-55, nota 11), sia stato poi capace di anticipare,
proprio tematizzando il ruolo dei corpi intermedi, la «funzione di autogoverno
delle strutture più o meno informali in cui si articola, in piena
autonomia, la società civile» (p. 43, corsivo nostro), o la
«funzione che hanno le varie forme associative di cui i fautori del pluralismo
e dell’organizzazione ‘poliarchica’ a noi contemporanei
si fanno propugnatori» (Ibid., p. 66).
3. Il doppio legame tra l’analisi del potere giudiziario da un lato
e la concezione montesquieuana della pena, dall’altro, definisce il
nucleo tematico del saggio di Domenico Felice, «Autonomia della giustizia
e filosofia della pena nell’Esprit des lois» (pp. 75-136).
In entrambe le parti del saggio ricorre la dicotomizzazione tra governi moderati
e dispotici – al centro degli interessi di ricerca dello studioso[4]
–, ed è dimostrato quanto sia decisivo, stante la logica profonda
delle analisi della parte seconda dell’Esprit des lois, riconoscere
proprio dalla collocazione del giudiziario il senso del ‘garantismo’
che le istituzioni politiche sono in grado di definire.
Così, ci viene spiegato, non basta stabilire una volta per tutte che
il potere giudiziario, in uno Stato moderato o libero, dev’essere separé
dagli altri due – il verbo separer ricorre anche nella trattazione
del rapporto tra potere civile e potere ecclesiastico, a stigmatizzare il
complesso rapporto tra autonomia della giustizia e separazione tra istituti
laici e religiosi (cfr. ibid., p. 80, nota 11) –, o che l’autonomia
della justice sia un «tratto strutturale» dei governi moderati.
Bisogna infatti osservare come la scienza politica del Président
metta in atto le sue risorse analitico-esplicative per rendere conto delle
figure dell’autonomia della giurisdizione nel continente ed in Inghilterra.
«...mentre nella monarchia ‘alla francese’ il corpo giudiziario
è costituito da giudici professionali e ‘permanenti’...
nella monarchia ‘all’inglese’ esso è composto da
giurati non professionali e temporanei» (p. 100), il che vale a dire
che non solo il giudice in Inghilterra condivide la collocazione sociale dell’imputato,
ma soprattutto che la precisione la chiarezza e l’inequivocabilità
dei codici rende sicura l’applicazione della legge anche in coloro i
quali non sono esperti giurisperiti. In Francia, al contrario, è necessario
riprendere ogni volta il lavoro dell’interpretazione, il giudice-ermeneuta
dovendo estrapolare dai testi lo spirito mediante il quale la legge è
stata promulgata, che definisce il suo riferimento fattuale.
Se la considerazione riassuntiva della problematica del giudiziario è
sempre utile per mettere a fuoco alcuni fattori di base della teoria politica
del philosophe – al riguardo della quale non vanno trascurati
gli effetti di un’ottica privatistica e garantista del diritto sull’ideale
della libertà politica –, l’esame del problema della pena
(pp. 105-133) risulta più didascalico, forse eccessivamente ancorato
alla lettera dei testi. Il tratto fondamentale che viene in luce è
sicuramente il nesso tra il meccanismo di garanzia sociale reso effettivo
dalle regole procedurali, da un lato, e l’«ontologia della pena»
che queste regole sottendono: la pena è retributiva, è proporzionale,
è dissuasiva, è necessaria in quanto extrema ratio di
cui il giudice dispone. Tuttavia, e malgrado l’accuratezza e la completezza
dell’esposizione, non viene messo in chiaro a sufficienza che la concezione
della pena in Montesquieu è impossibile senza un preciso uso e significato
del concetto di ‘arbitrario’, irriducibile, in questa accezione,
all’area semantica relativa al concetto di gouvernment despotique;
che tutta la discussione sulla pena in fondo non ha senso se non rispetto
allo scopo di impedire tecnicamente le condizioni dell’esercizio
arbitrario del potere di punire[5];
che l’elemento filosofico, nella tematizzazione del diritto penale,
sta proprio nel circolo ermeneutico che fa della pena il soggetto di una definizione
la quale, a sua volta, se si pretende che sia «tratta dalla natura della
cosa», rischia di ridiventare arbitraria – perché
è sofistica la pretesa di ottenere la qualità della pena dalla
natura di fatti che solo la pena stessa permette di identificare.
4. Il terzo saggio che compone la silloge è quello di Carlo Borghero,
studioso che vanta una presenza non trascurabile nella settecentistica di
lingua italiana, essendosi occupato del rapporto tra fisico e morale, della
polemica sul lusso nell’illuminismo francese, della letteratura di viaggio
all’interno delle fonti dell’Esprit des lois. Il suo studio,
«Libertà e necessità: clima ed ‘esprit general’
nell’Esprit des lois» (pp. 136-201), permette di scrutare
gli snodi tematici e concettuali che rendono tanto significativa e pertinente
la coppia ossimorica che dà il titolo all’opera collettiva.
Sulla teoria del clima nell’Esprit des lois sono stati versati,
sin dai tempi della sua pubblicazione, fiumi d’inchiostro; per introdurre
la tematica, comunque, sono preziose le considerazioni di Rolando Minuti quando
scrive che «la rappresentazione di un determinismo climatico rigido e
superficiale, che divenne presto un luogo quasi caricaturale della critica
all’Esprit des lois – risultato di una lettura forzata
alla quale concorsero tanto Voltaire quanto i giornalisti delle Nouvelles
ecclésiastiques – è smentita dal semplice riferimento
ai testi, e riteniamo che allo stato attuale della riflessione critica sull’opera
di Montesquieu non faccia più problema se non in sede di analisi della
querelle sull’Esprit des lois»[6].
Bene, c’è da aggiungere che, anche qualora non si concordasse
con l’immagine di un Montesquieu tutto scientifico, non si può
negare che questa parte – la terza – del capolavoro settecentesco
costituisce un vero e proprio punto di fuga dell’intento di un’analisi
comprensiva dei processi storici e sociali che anima, ovunque, l’indagine
del Presidént. Il dato fondamentale che emerge dalla lettura,
a questo proposito, è che se la teoria dell’influenza climatica
sul temperamento e sul comportamento delle popolazioni accompagna l’Esprit
des lois nel suo prendere forma, allora la soluzione di stampo organicista
che viene a definirsi compiutamente nel concetto di esprit général
rappresenta proprio il quadro all’interno del quale la suddetta teoria
va valutata e giudicata.
Scrive Borghero, parlando dell’incompiuto Essai sur les causes[7]:
«[...] Lo studio delle relazioni tra physique e moral...
si accompagna... a un’indagine intorno a nozioni come génie,
caractére, esprit, intese come una totalità
di rapporti, un equilibrio di fattori, potenzialmente instabile,
che risponde a criteri di utilità e di convenienza reciproca... Montesquieu
va costruendo un modello epistemologico di tipo organicistico, modellato sui
condizionamenti reciproci che i fattori fisici e morali esercitano negli organismi
individuali e in quelli collettivi» (pp. 152-153, corsivo nel testo).
Borghero mostra che se da un lato fisico e morale costituiscono un dualismo
ineludibile ed intrascendibile, tuttavia l’asse della problematica,
sul versante epistemologico[8],
concerne il loro dinamismo, sulle modalità della loro composizione
e correlazione – in ultima istanza, sull’equilibrio instabile
(nel doppio intreccio tra forme di vita e condizioni di sussistenza, tendenze
culturali e limiti ambientali ecc.) che tramite i due termini è dato
rilevare.
Ancora, il discorso sarebbe incompleto se non si rimarcasse l’evoluzione
su questo punto di vista – ancorato alla formazione cartesiana del Président
e all’approccio medico-biologico (cfr. ibid., pp. 145-152)
in essa ravvisabile[9] – relativamente
alle dinamiche dei regimi politici e al problema della legislazione (cfr.
ibid., pp. 166 ss.; pp. 192 ss.). Sul primo punto, e a partire dalle
Considerations sur les Romains, bisogna dire che l’elemento
determinante nei fattori fisici non sarebbe concepibile, qualora non agisse
su di un substrato morale; soprattutto, la causa fisica che agisce per proprio
conto, che diviene di per sé determinante, è un’eccezione
che segnala una condizione di decadenza, un cedimento delle energie collettive
o una corruzione dei costumi. Roma poteva essere sconfitta dalla vastità
del suo territorio nel momento in cui la virtù che era stata il presupposto
delle sue conquiste militari e del suo ordinamento interno venne meno; insomma,
«Montesquieu mira a mostrare che la natura potrebbe fare poco da sola»
(p. 171).
Il punto concernente la legislazione sembra più complicato: vuoi perché
c’è da tenere conto del caso cinese (cfr. ibid., pp. 170-173
e 198), dove la legislazione – malgrado le sue premesse despotiques
– mostra una specifica capacità di corrispondere ai problemi
posti da condizioni climatiche e ambientali (e al modo in cui definiscono
un temperamento collettivo), il che mette in luce come «tutte le leggi
che riguardano gli uomini devono essere relative ai costumi e alle maniere,
conformi a quanto il loro physique e il loro moral è
in grado di sopportare» (p. 199); vuoi perché l’indirizzo
della pratica legislativa risulta sempre e comunque ‘surdeterminato’
o ‘surcodificato’ dalla disposizione dei fattori dell’esprit
général. Insomma, la legislazione può interessare
la condotta del collettivo su più livelli proprio nella misura in cui
è in grado di interagire con questa in termini differenti. In questi
luoghi Borghero rintraccia l’efficacia esplicativa della soluzione organicista
e si può ricordare che l’azione del clima o del contesto geografico,
se è concepibile, lo diviene in quanto opera in concomitanza
con i costumi o con altri fattori attinenti al piano del moral.
5. Il ‘montaggio’ di scritti già editi del celebre e compianto
Salvatore Rotta, studioso di vasta erudizione che si è occupato soprattutto
dell’origine delle scienze sociali nel Settecento, costituisce un quadro
prezioso e valido per riprendere tematiche meno consuete negli studi su Montesquieu:
demografia ed economia, lusso e rapporti sociali. Puntuali e fertili sono
gli esercizi di contestualizzazione che vi si trovano, e che sono volti a
dare riferimenti sui dibattiti coevi su queste tematiche, dibattiti che configurano
il senso delle posizioni del Président e i loro moventi più
plausibili. Mancando di una formazione da ‘matematico sociale’,
Montesquieu rettifica le sue opinioni in materia di demografia dai tempi delle
Lettres Persanes a quelli della stesura del capolavoro della maturità
(cfr. ibid., pp. 215 ss.): parte infatti dall’assunto che i tempi
moderni abbiano visto una macroscopica recessione demografica e in seguito
si rende conto che la problematica implica simultaneamente diverse prospettive,
tra cui spiccano sia la fluttuazione della popolazione (in rapporto ai cicli
economici) che la complicata congerie di fattori ai quali vanno ascritte le
condizioni di un (auspicabile) sviluppo demografico.
Dai dati che Rotta riporta si capisce come Montesquieu faccia riferimento
ad un rudimentale concetto di «popolazione massimale», cioè
di un livello demografico ancorato alla disponibilità di mezzi e alle
possibilità tecniche; che si renda conto del fatto che in una stessa
nazione coesistono diverse demografie, legate a diverse regioni economiche
e quindi ad una differente disponibilità e utilizzazione delle risorse
(cfr. ibid., pp. 219 ss.) . Il rapporto tra demografia ed economia
diviene esplicito soprattutto in rapporto ai fini del legislatore –
ma il pensatore francese sembra aver misconosciuto del tutto la funzione produttiva
dei capitali da rendita fondiaria, ovvero il fatto che proprio il lusso dei
rentiers rendeva possibile la redistribuzione sociale del denaro –,
presupponendo che una buona legislazione debba mantenere solo la funzione
‘naturale’ del denaro, inteso come strumento degli scambi il cui
valore si definisce ‘spontaneamente’ sui mercati. Insomma, si
delinea una logica in cui i «meccanismi spontanei della vita economica»
possono correggere gli abusi della legislazione, che a sua volta non può
che assecondare quelli (Ibid., pp. 230 ss.).
6. Scopo dell’articolo di Lorenzo Bianchi, in ideale continuità
con le sue ricerche precedenti sulla religione in Montesquieu, è quello
di rendere conto della continuità del libro XXVI («Les lois dans
le rapport qu’elles doivent avoir avec l’ordre des choses sur
lesquelles elles statuent») dell’Esprit des lois con l’approccio
dell’autore alla religione (approccio esplicitamente ed esclusivamente
circoscritto alla riflessione sulla politica e la storia) e alla differenza
tra giustizia umana e giustizia divina. Montesquieu precisa le differenti
sfere d’azione di entrambi i fenomeni ed esplicita le contraddizioni
che possono intervenire tra differenti forme e pertinenze del diritto; si
avvale di un principio di non-confusione tra diversi ordini di legalità,
che differiscono per origine, scopo e attribuzioni (cfr. ibid., p.
249).
Non sembra esserci, nello specifico, una omogeneità tra lo «spirito»
che informa le leggi della religione e lo «spirito» che informa
quelle umane, come già in un contesto discorsivo differente, e con
presupposti ed intenti di tutt’altro genere, aveva potuto osservare
Spinoza nel cap. 4 del suo Trattato Teologico-Politico («Della
legge divina»)[10] Insomma,
un primo approccio alla questione della religione mostra che «il tema
della religione è affrontato essenzialmente nella distinzione tra leggi
divine e leggi umane, nell’opposizione tra precetti religiosi e legge
naturale, nella contrapposizione tra diritto canonico e diritto civile»
(p. 248).
Altri dati di fondo, che qui possiamo solo enumerare brevemente: le leggi
religiose, rispetto a quelle civili, pongono in maggior rilievo il problema
dell’adattamento ai comportamenti sociali preesistenti, per cui se le
prime devono presupporre una qualche moralità collettiva, le seconde
la devono garantire; il problema della tolleranza e del mutamento della religione
confessionale in una nazione vede Montesquieu alternare, con la massima circospezione,
tolleranza e realismo, mentre la sua ostilità verso l’interferenza
dei precetti religiosi nella giurisdizione è palese, come lo è
il suo rifiuto di principio dell’Inquisizione.
7. Ad interessarsi dei cosiddetti «libri storici» dell’Esprit
des lois è Umberto Roberto, già autore di un saggio sull’immagine
di Roma antica in «Leggere l’Esprit des lois»; il punto
di vista che viene a maturazione in questo «Montesquieu, i Germani e
l’identità politica europea» (pp. 277-322) si avvale di
una stimolante ricostruzione della pregnanza ‘europea’ dello storicismo
del président Nel saggio viene in luce come Montesquieu, da
«storico pensante», sia in grado di definire una comprensione del
tutto originale, e profonda, dell’ordinamento sociale dei Germani, favorendo
l’interpretazione dei codici rispetto alla lettura acritica degli storici
latini (Cesare, Tacito) che avevano dato impulso e alimento all’immagine
mitologica di queste popolazioni così decisive nella vicenda dell’Europa
politica.
Il fatto interessante è che il rigore e la puntualità delle
ricostruzioni montesquieuane (differenziazione tra Franchi e Visigoti, analisi
critico-erudita dei documenti e degli istituti giuridici, ecc.) non sono alieni
da una sensibilità preromantica, capace di mettere l’accento
sulla singolarità di un popolo, sul carattere singolare delle sue esperienze,
rendendo vivo il quadro di un ambiente storico che non resta preso in una
contemplazione estetizzante, perché apporta elementi nuovi all’analisi
del politico e all’anatomia del gouvernment. Per Roberto, Montesquieu
«non solo anticipa la rivalutazione del Medioevo nella storia d’Europa;
coglie pure la diversità dei regni romanobarbaraici... E infine intuisce
l’incidenza di questa diversità nella formazione dell’Europa
moderna» (p. 287).
Rifiutando le strumentalizzazioni ideologico-politiche che avevano dominato
il dibattito sull’origine della monarchia in Francia, da Hotman sino
a Boulainvilliers e Dubos, il pensatore di La Brède s’interroga
sugli stessi fatti con un approccio del tutto inedito, volto soprattutto ad
inquadrare la vicenda del regno nel contesto europeo, collocandosi in un paradigma
che è altro come altri sono i metodi che ne permettono la messa in
atto: la storia della Francia è come attraversata dalla vicenda e dall’evoluzione
dell’originale ‘libertà germanica’, dal suo differenziarsi
nei diversi popoli e nella loro collocazione rispetto alle istituzioni indigene,
caratterizzate da un diritto romano ‘imbastardito’. Scrive Roberto:
«La fondazione della monarchia dei Franchi non è... segnata dalla
divisione politica e sociale tra gruppo germanico e gruppo galloromano. Questo
anacronismo dettato dall’abuso delle fonti stride, secondo Montesquieu,
con lo spirito di libertà che le leggi comunicano» (p. 301). Ma
cosa suggeriva, questo «spirito di libertà» al grande illuminista?
La disamina di Roberto permette di rendersene conto con chiarezza. Innanzitutto,
un rapporto di dipendenza e subordinazione tra re e nobili dove la reciprocità
e la tutela della libertà personale, tramite la protezione dei vassalli,
erano fondamentali; un’assemblea della nazione che partecipava con il
re al procedimento legislativo (dando conto del ruolo di mediazione e negoziazione
delle élites aristocratiche); un patto sociale solido, capace di apportare
un contenimento e bilanciamento delle istanze e degli interessi della nobiltà
feudale; un’espansione del dominio politico che era costitutivamente
immune da ogni deriva ‘assolutista’, essendo il re continuamente
mobilitato per ottenere il consenso e la lealtà dei diversi gruppi
sottoposti (cfr. ibid., pp. 302 ss.). Insomma, questo brillante esame
non solo getta luce su un Montesquieu inedito, ma permette di ricapitolare
una serie di aspetti che qualificano sia l’humus della sua concezione
del politico, che la densità e la consistenza delle sue diagnosi storiche.
[1] Cfr. G. BENREKASSA, «Montesquieu an 2000. Bilans, problèmes, perspectives», Revue Montesquieu, 3 (1999), p. 32.
[2] Per un riepilogo della ‘carriera’ del concetto di repubblicanesimo negli Stati Uniti cfr. la prefazione di M. Geuna a P. PETTIT, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. V-XXVII.
[3] Per gli studi recenti di approccio ‘generalista’ sul Président cfr. i due volumi collettanei a cura di D. W. Carrithers citati da Felice nella sua premessa al testo in esame (Ibid., p. 11).
[4] Cfr. D. FELICE, Oppressione e libertà. Filosofia e anatomia del dispotismo in Montesquieu, Pisa, ETS, 2000, passim.
[5] Cfr. C. LARRèRE, «Droit de punit et qualification des crimes de Montesquieu à Beccaria», in M. PORRET (a cura di), Beccaria et la culture juridique des Lumières, Genève, Droz, 1997, pp. 89-108.
[6] R. MINUTI, «Ambiente naturale e dinamica delle società politiche. Aspetti e tensioni di un tema in Montesquieu», in D. FELICE (a cura di), Leggere l’«Esprit des lois». Stato, società e storia nel pensiero di Montesquieu, Napoli, Liguori, 1995, p. 147.
[7] Cfr. ora MONTESQUIEU, Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, a cura di D. Felice, Pisa, ETS, 2004.
[8] Se le cose, come crediamo, stanno veramente così, allora bisogna dire che l’epistemologo Bachelard ha mostrato un’eccessiva severità, d’altronde a lui congeniale, quando ha messo sullo stesso piano la teoria montesquieuana dei climi e il determinismo astrologico, dicendo che «non c’è nulla di più antiscientifico che affermare senza prove, o al riparo di osservazioni generali e imprecise, l’esistenza di causalità fra ordini di fenomeni diversi», G. BACHELARD, La formazione dello spirito scientifico, Milano, Cortina, 1995, p. 260.
[9] Sulla formazione cartesiana di Montesquieu cfr. A. POSTIGLIOLA, «Montesquieu entre Descartes et Newton», in C. VOLPILHAC-AUGER (a cura di), Montesquieu. Les années de formation (1689-1720), Napoli-Parigi-Oxford, Liguori-Universitas-Voltaire Foundation, 1999, pp. 91-108.
[10] Cfr. B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, a cura di E. Giancotti e A. Droetto, Torino, Einaudi, pp. 103-123; per un raffronto con alcune tematiche coeve, cfr. A. CECCARELLI, «Sulla riduzione razionale del miracolo: tracce del capitolo sesto del Tractatus teologico-politicus nelle Lettres Persanes di Montesquieu», Quaderni Spinoziani 1 (2004), pp. 55-71.