1. Il fatto che la maggior parte di questi testi fossero noti al pubblico,
non toglie importanza alla loro pubblicazione in volume, che acquisisce
organicità alla luce del saggio inedito su Croce. Imbruglia si
propone di affrontare il dibattito storiografico sull’illuminismo
come problema interno allo storicismo italiano nel periodo che va dal
1932, quando viene pubblicata la Storia d’Europa, al 1959,
anno in cui si verifica lo scontro tra Chabod e Momigliano a proposito
del necrologio di Antoni (e, più in generale, dell’eredità
storicista). In particolare l’autore intende mostrare come la considerazione
crociana dell’illuminismo muti sensibilmente nel corso del tempo,
ferma restando la sottolineatura delle insufficienze del pensiero settecentesco
e il loro sostanziale superamento nell’idealismo.
Per cogliere il punto di partenza della riflessione di Croce, Imbruglia
risale alla fine dell’Ottocento, quando, giudicando la sorte della
repubblica napoletana, il filosofo svela tutte le illusioni degli illuministi
partenopei: in questa fase, che si traduca in estetica o in diritto, Croce
vede nella politica la produttrice di miti inevitabili, ma fallaci, che
tutt’al più gli storici possono elevare al piano dell’arte.
Questa posizione scettica trova però ben altra espressione nel
corso del secondo periodo individuato da Imbruglia, quello di inizio secolo,
corrispondente all’elaborazione del sistema. Nell’apertura
della “Critica” del 1902 Croce associa strettamente voltairianesimo
e gesuitismo come facce di una stessa medaglia, cui ascrive il tentativo
di lasciare l’uomo nella minorità. Nella Logica l’illuminismo
viene dichiarato figlio legittimo della ragione calcolante di Cartesio
e come tale tacciato di scolasticismo e arretratezza; la sua filosofia
porta del resto alle ‘insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche
e antidemocratiche’ del 1789.
Nella Filosofia della pratica, però, al mito come erranza
comincia a sostituirsi secondo Imbruglia un’idea più articolata,
in cui anche la credenza trova spazio come associazione di mito e fede.
Soprattutto si evidenzia in questa fase, e in modo più marcato
dopo la guerra, la consapevolezza crociana della sovrapposizione tra ragione
e mito, e della potenza pratica della cultura. Al Vico oppositore dell’illuminismo
e precursore dell’idealismo nell’associare filologia e filosofia,
si affianca ora sorprendentemente Voltaire che, pur mischiando pericolosamente
natura e storia, viene lodato come sostenitore di un sano immanentismo
e portatore di un indubbio fattore storico di civiltà: la dissoluzione
dei miti. In particolare l’illuminismo voltairiano affianca ad una
storia pragmatica (e dunque individualista e eteronoma), coerente con
la sua immatura filosofia, la nuova storia della civiltà, che riprende,
secolarizzandola, la storia religiosa; così esso acquista la dimensione
positiva e antiretorica della pratica politica. La frattura tra queste
due concezioni della storia rimane insanata, ma il recupero della dimensione
etica innalza l’illuminismo a premessa indispensabile dello storicismo.
2. A partire dall’elaborazione della Storia del regno di Napoli
sembra quindi farsi strada in Croce una nuova considerazione dell’eredità
illuministica, destinata a trovare coronamento nella Storia d’Europa.
In questa sede, con una lettura che ricorda Tocqueville, Croce rifonde
spessore ai bisogni alla base dell’esperienza rivoluzionaria, ribadendone
la pericolosa ingenuità conoscitiva, ma riconoscendo anche la suggestiva
potenza del mito. Il mutare della situazione politica, le proposte di
De Ruggiero, la teoria dell’élite di Mosca, concorrono
secondo Imbruglia ad una nuova lettura crociana della politica, in cui
la statolatria gentiliana viene completamente superata attraverso il richiamo
all’eccedenza della morale rispetto alla mera forza. Dal romanticismo
tedesco si passa alla restaurazione francese come riferimento essenziale
per la crescita della ragione storica; e si rompe la netta discontinuità
col periodo illuminista. Imbruglia non passa però sotto silenzio
alcuni limiti di questa interpretazione dell’illuminismo, che emergono
soprattutto nella perdurante condanna del suo esito rivoluzionario.
Dopo il conflitto sembra aprirsi nella riflessione crociana una quarta
e ultima fase, in cui il concetto di mito, ‘non più falso
utile, ma vero imperfetto’, costringe Croce a rivedere la filosofia
della pratica; ma va rilevato anche in questo caso come non sia la base
categoriale ad essere messa in discussione, bensì la teoria dell’azione.
Egli rilegge Renan in chiave vichiana, rifiutandone la filosofia della
storia, ma non l’idea del mito politico, riproposta però
in senso moderato e elitario, ancora una volta in contrapposizione all’utopia
rivoluzionaria. E’ un Croce più realista e, almeno negli
ultimi scritti, disincantato, che dal progresso hegeliano muove verso
la ciclicità voltairiana; l’illuminismo assume per lui un
valore di autocritica dei suoi stessi miti.
Nel complesso la rivalutazione crociana dell’illuminismo individuata
da Imbruglia assume un significato decisamente antitotalitario e si inserisce
in un più ampio dibattito che concerne il recupero dei diritti,
la tutela costituzionale della libertà negativa, il risorgere di
una prospettiva cosmopolitica. Al Croce che rilegge se stesso si sovrappongono
in Italia le voci dei suoi lettori ‘più intrinseci, ma non
pedissequi’: essi riprendono il suo collegamento tra storiografia
e filosofia, a fronte di qualsiasi deriva scettica e nichilista; ma le
loro risposte al ‘problema illuminismo’ risultano poi notevolmente
diverse, rimontando a differenti percorsi personali, a contatti col maestro
sfasati nel tempo, all’interazione con altri autori del panorama
europeo (tra i quali Imbruglia mette in evidenza Cassirer).
Senza ambire all’esaustività di una rassegna sistematica,
Imbruglia si concentra sullo storicismo e sul suo ripensare se stesso
alla luce dello specchio illuminista; in quest’ambito è possibile
individuare almeno tre linee di tendenza, che pur senza schematizzazioni
esplicite, vengono utilmente tracciate dall’autore. Mentre Omodeo
(e sulla sua scia de Martino) parte da Croce per tematizzare la storia
della religione, Chabod e Momigliano affrontano direttamente la sua tarda
rivalutazione dell’illuminismo, recependola però con diversa
intensità: più continuista il primo, e dopo di lui Romeo;
più disposto a trarne conseguenze estreme il secondo, anche aldilà
delle intenzioni del maestro. Così facendo però Momigliano
apre la strada al deciso rinnovamento operato da Venturi, per il quale,
pur senza rinnegamenti, la definizione di ‘storicista’ appare
quindi riduttiva.
3. Iniziando la nostra analisi da Adolfo Omodeo ci pare di dover sottolineare
come l’itinerario dello studioso siciliano consenta ad Imbruglia
di richiamare anche il ruolo di Gentile, che però, sulla scorta
di alcune citazioni significative, viene posto in testa alla schiera degli
antilluministi.
Interessato inizialmente al gesuitismo, Omodeo lo vede come fenomeno caratterizzante
di un’epoca buia posta tra due poli di civiltà: il sorgere
del Cristianesimo e il pensiero della restaurazione. La sua ricerca si
concentra allora sul periodo delle origini cristiane, trattando il quale
si trova a partecipare al dibattito sul modernismo. Imbruglia distingue
con attenzione le posizioni in merito di Gentile e di Croce e mostra come
Omodeo muova progressivamente dall’una all’altra, ritrovando
nel primo maestro alcuni dei difetti già imputati al gesuitismo.
L’opposizione alle scelte politiche gentiliane favorisce il distacco
definitivo, che si concretizza a partire dal 1924 e poi si accentua con
le disavventure all’Enciclopedia Italiana. Ma ad attirare Omodeo
in una nuova direzione è anche la nozione crociana di ‘mito’,
con il suo peculiare attaccamento alla storia e la rinnovata considerazione
per il valore pratico di ogni ‘eccedenza di passione’.
Nel corso degli anni ’30 Omodeo svolge una articolata ricostruzione
del periodo della Riforma, verso la quale ha modo di mostrare nuove aperture.
Sintomatico è il fatto che, richiesto da Volpe di redigere una
storia della Controriforma di stampo apologetico, Omodeo finisca per rinunciare;
ancor più rilevante è che, dopo le severe critiche alle
tesi gobettiane, egli tributi pieno riconoscimento alle ricerche di Venturi,
che pure non rinnegano la medesima ascendenza.
E’ comunque nell’analisi della religione civile risorgimentale
che, pur rivelando ancora le proprie radici gentiliane, Omodeo rovescia
sostanzialmente l’interpretazione corrente, sostituendo al Cavour
diplomatico e realista un liberale moderno e europeo. Seguendo Cassirer
e Ramat, Omodeo muove anche oltre Croce, giungendo alla riscoperta di
Rousseau; da qui una nuova continuità tra l’illuminismo e
i grandi storici liberali dell’età successiva, a partire
da Constant.
Ma Imbruglia ricorda anche il dibattito che oppone Omodeo a Gaetano De
Sanctis (e al suo maestro Ferrabino) circa la natura della democrazia
greca. Pur seguendo Momigliano nel rilevare le insufficienze di quest’ultima,
Omodeo non appare disposto a cedere alla posizioni conservatrici di alcuni
antichisti e li affronta a viso aperto sul terreno impervio della filologia.
L’accostamento di Pericle a Mazzini rappresenta in questo senso
un tentativo ardito di innestare le conquiste del moderno liberalismo
su di un impianto costituzionale avanzato, che, pur nel riferimento primario
alla libertà, miri anche alla giustizia e alla pace. A parere di
Imbruglia permane però in Omodeo un latente pregiudizio aristocratico,
che si esprime in una visione discendente delle dinamiche di potere e
in una sostanziale incomprensione del fenomeno totalitario.
4. Pur destinata alla sconfitta sul piano dell’immediatezza politica
(come dimostra lo scioglimento del Partito d’Azione), la rilettura
dell’illuminismo operata da Omodeo si rivela un importante punto
di riferimento sul piano culturale. Nel solco tracciato dallo studioso
siciliano si colloca ad esempio la figura di Ernesto De Martino, che,
pur non potendo essere considerato semplicemente uno storico, trova una
collocazione convincente in questo contesto, nella misura in cui anche
il suo percorso si snoda attraverso e oltre lo storicismo.
De Martino si avvicina alla storia delle religioni nel corso degli anni
’20 grazie all’insegnamento di Macchioro sugli aspetti mistico-magici
del mondo greco, ma poi si laurea con Omodeo nel ’32. Questo passaggio,
che esprime insofferenza verso un’analisi esclusivamente formale,
matura parallelamente ad una evoluzione politica che lo avvicina lentamente
al liberalismo. Nel 1937, proprio tramite Omodeo, De Martino conosce Croce,
e gli scritti del biennio successivo dimostrano quanto egli ne risenta
nella trattazione del problema religioso. Mosso dalla necessità
di superare la teologia e l’empirismo degli studi religiosi italiani,
egli trova in Croce le indicazioni per ricondurre le passioni alla storia
e concepire una feconda idea di ‘religione civile’.
L’irriducibilità dell’elemento originario, vitale e
fondamentalmente irrazionale, che sia Macchioro, che Omodeo avevano individuato,
permane tuttavia in filigrana alla visione crociana; e la tensione utopistica
e millenaristica insita nel pensiero demartiniano reagisce peculiarmente
con le nuove acquisizioni storiciste.La specificità della posizione
di De Martino viene esplicitata da Imbruglia lungo due direttrici principali:
da una parte la sua disponibilità, rispetto all’idealismo,
a seguire Loisy, recuperandone l’esigenza sistematica e il riferimento
alla collegialità del religioso; dall’altra l’originale
lettura di Vico, in direzione di una storicizzazione dell’intera
esistenza umana (e delle sue stesse categorie).
A partire dal 1940 Imbruglia coglie l’innestarsi sullo storicismo
demartiniano di nuovi apporti: la sociologia francese, in particolare
Lévy-Bruhl e la sua idea di ‘persona’; e soprattutto
Cassirer, considerato però, rispetto ad altri coevi lettori italiani,
non tanto come storico della cultura, bensì come teorico delle
forme simboliche. Come e meglio di Croce, lo studioso tedesco sembra in
grado di esplorare lo spazio tra Kant e Hegel senza degenerare nell’irrazionalismo,
ispirando a De Martino la sua ‘dialettica triangolare di persona,
storia e mondo’. Palesi sono però anche le differenze, non
tutte, come la scarsa sensibilità per il tema linguistico, riconducibili
a Croce. Lontana da Cassirer è ad esempio la nozione di ‘mondo’,
inteso come storia, piuttosto che come tramite con l’io; e diversa
è anche la valutazione del tempo, che in De Martino non annulla
mai il ‘rischio esistenziale della presenza’.
5. La linea tracciata da Omodeo e De Martino inserisce il problema dell’illuminismo
nel lungo periodo e ne esce attraverso una via laterale e in qualche modo
extradisciplinare; ma Imbruglia appare interessato soprattutto all’itinerario
proprio della storiografia e in particolare alla divaricazione che si
apre al suo interno nel dopoguerra, culminando nell’acceso contrasto
del 1959 tra Chabod e Momigliano a proposito di Carlo Antoni. A partire
dal necrologio di quest’ultimo Momigliano coinvolge Chabod in una
discussione di più ampio respiro, che chiama in causa tre punti
fondamentali: l’influsso di Antoni su Croce; la datazione della
nazificazione italiana; il disagio della loro generazione intellettuale
nei confronti dell’eredità romantica.
Riguardo al primo aspetto, i due studiosi mostrano di valutare diversamente
l’introduzione della categoria di ‘vitalità’
nell’impianto crociano, attribuita dal primo ad una influenza dell’esistenzialismo
e dall’altro invece al mutare del contesto storico a seguito della
guerra. Il problema della nazificazione italiana, da Momigliano datata
nel 1933, cioè cinque anni prima rispetto al collega, rimonta in
realtà alla questione del consenso al regime: collegarla alle leggi
razziali, come fa Chabod, significa infatti legittimare in qualche modo
la tollerabilità del fascismo precedente, e dare dunque ragione
del massiccio apporto garantitogli dalla popolazione e anche dagli intellettuali.
Ma Momigliano esplicita soprattutto una dura autocritica verso la propria
generazione, includendo in essa anche Chabod, per avere, tramite l’apprezzamento
per il romanticismo, aperto la strada all’irrazionalismo totalitario;
nel nuovo contesto postbellico gli appare invece necessario tracciare
un confine netto a queste derive, e avviare una riflessione improntata
all’illuminismo. Chabod, chiamato in causa personalmente, rifiuta
questa ricostruzione come semplicistica: da un lato perché il romanticismo
non può essere condannato in blocco in nome di una genealogia deterministicamente
orientata al male assoluto; dall’altro perché la considerazione
dell’illuminismo non è in realtà mai venuta meno negli
anni ’30, come dimostrano i suoi stessi studi, ma anche quelli di
Salvatorelli o del gruppo della “Cultura”. L’apprezzamento
di Momigliano per il neoilluminismo di studiosi come De Ruggiero non può
inoltre essere esteso a chi, come Cantimori e Banfi, fa riferimento al
giacobinismo piuttosto che all’eredità razionalista e cosmopolita.
Imbruglia ricorda come questa discussione del ’59 abbia in realtà
importanti precedenti, dal fallito progetto di una storia universale per
Einaudi negli anni ’40, fino al dibattito svoltosi al Congresso
internazionale di scienze storiche del ’55; come intuito da Chabod,
il contrasto riguarda non tanto uno studioso in particolare, ma l’intera
eredità ideale di Croce. Non a caso Momigliano arriva a mettere
in discussione l’idea crociana della storia, cui contrappone un
rinnovato aggancio filologico di fronte alla falsificazione imperante;
e contesta il ruolo tradizionalmente assegnato all’intellettuale,
anticipando, come vedremo, alcune posizioni di Venturi. Al centro del
dilemma si situa comunque secondo Imbruglia la questione nazionale, che
rappresenta il nodo fondamentale di tutta la discussione sull’illuminismo
e più in generale la preoccupazione alla luce della quale esaminare
l’evoluzione novecentesca dello storicismo italiano e della sua
autocoscienza.
6. Analizzando gli scritti chabodiani degli anni ’40, Imbruglia
rileva come lo studioso valdostano riesca a tenere insieme un alto senso
della nazione, un giudizio positivo sull’eredità illuministica
e un immutato apprezzamento dello storicismo idealista come proprio riferimento
privilegiato. Ma nello Chabod degli anni ’20, i cui riferimenti
erano Ranke e Meinecke prima ancora di Croce, il giudizio sull’illuminismo
era stato assai più negativo e apparentemente senza appello. Imbruglia
cerca quindi di mostrare, ricorrendo alle voci dell’Enciclopedia
Italiana, ai corsi universitari e agli scritti chabodiani editi da L.Azzolini,
come avvenga il passaggio dall’una all’altra posizione, attraverso
un tormentato confronto con la ‘revisione’ crociana e con
le altre posizioni emerse nel dibattito nazionale e internazionale (discussione
che sembra attraversare trasversalmente sia il campo fascista che quello
antifascista).
Chabod si colloca sostanzialmente in linea con Omodeo: la soluzione del
‘problema illuminismo’ si ottiene ampliando l’arco cronologico
della modernizzazione, riconducendo il rinnovamento del XVIII secolo alle
sue radici rinascimentali e collegandolo poi all’età della
restaurazione, vista come lo snodo decisivo in cui le istanze morali del
Settecento rivoluzionario trovano un legittimo esito politico. Allo spostamento
verso il 1830 del baricentro della contemporaneità, Chabod aggiunge
però alcune note del tutto originali: da un lato, tramite una lettura
personale (e, secondo Imbruglia, parziale) di Cassirer, il recupero della
figura di Rousseau; dall’altro la scissione tra la nazione romantica
tedesca, destinata a generare il nazionalismo aggressivo e razzista, e
quella francese teorizzata da Montesquieu, storicizzata da Tocqueville,
evocata da Renan.
E’ evidente come questo percorso segni il distacco di Chabod da
Volpe, di cui pure condivideva numerosi presupposti (il senso della patria
come potenza, l’ottica di lungo periodo, l’elitarismo accademico);
di fronte all’8 settembre questi vede crollare il paese senza possibilità
di stabilire quella nuova continuità che invece Chabod difende
e promuove. Ma Imbruglia vuole mostrare come tale percorso diverga fondamentalmente
anche da quello auspicato da Momigliano, che sembra portare a più
estreme conseguenze il passo compiuto da Croce negli anni ’30. Significativo
è il fatto che, in contrasto con la visione dei due protagonisti
del dibattito, venga rivalutata in qualche modo l’attualità
di Antoni, che, ricollegandosi a Kant, ritrova nella stessa nazione delle
origini (e non solo nel suo limite cosmopolitico o nella sintesi ottocentesca)
una base morale da tutelare; di qui il suo appello a Croce circa la necessità
di recuperare all’interno dell’idealismo i temi della responsabilità
individuale e del diritto naturale.
7. In stretta continuità con Chabod Imbruglia colloca invece Rosario
Romeo, di cui analizza lo scritto sui riflessi avuti in Italia dalle scoperte
americane. Originato da una contingenza e considerato per lo più
laterale rispetto agli interessi principali dello storico siciliano, questo
saggio non è invece secondo Imbruglia da relegare tra gli scritti
minori; esso fa infatti emergere con singolare chiarezza sia l’impostazione
chabodiana delle ricerche di Romeo, che le sue integrazioni specifiche
alla lezione del maestro. Per quanto riguarda il primo aspetto, Romeo
sembra trarre dallo storico valdostano una concezione di lungo periodo
della civiltà europea, in cui la rivoluzione culturale del ‘500
e quella economico-tecnica del secolo successivo hanno un ruolo preminente
rispetto al secolo illuminista. Pienamente chabodiane appaiono in questo
saggio l’impostazione, la periodizzazione e persino i riferimenti
a Montaigne e a Botero come limiti della ricostruzione; ma è evidente
come le inquietudini di un nuovo presente portino Romeo ad offrire degli
stessi temi un’interpretazione per altri aspetti peculiare.
Si sente, nel suo rifiuto della letteratura sull’ ‘età
dell’oro’, l’eco delle analisi di Michelet e di Febvre;
si sente soprattutto, anche nel suo caso, il riferimento a Cassirer. Il
risultato è la lucida rilevazione delle ambiguità insite
nei testi sulle scoperte; e da qui una sottile distinzione tra il livello
dell’utopia, da rifiutare in assoluto, e quello del mito polemico,
avente una sua funzione storica, nella misura in cui serve alla civiltà
europea ad analizzare se stessa e a trarne nuovo dinamismo. Come per altri
aspetti Gerbi e De Caprariis, Romeo recupera direttamente dallo storicismo
crociano l’idea che si possa fare storia solo del positivo e del
cosciente, negando invece dignità allo studio della decadenza;
rifiuta invece le aperture al vitalismo dell’ultimo Croce di fronte
allo ‘specchio della barbarie’, rimanendo ancorato al piano
della storia delle idee.
In palese opposizione a questa linea tendenzialmente ‘liberale’,
si pone secondo Imbruglia una linea più ‘radicale’,
che appare disponibile a prendere alla lettera la revisione dell’ultimo
Croce e a trarne conseguenze più sensibili anche sul piano storico-politico.
Al già citato Momigliano, cui lo accomunano gli anni di esilio
e quindi la molteplicità e l’ampiezza dei riferimenti culturali,
viene associato in questo senso Franco Venturi. Imbruglia fa notare come,
a fronte della notevole attenzione critica sollecitata dalla sua scomparsa
nel 1994, sia mancata una adeguata riflessione sul peso della vicenda
politica sul suo lavoro di storico, pure esplicitato in più di
una occasione dallo stesso Venturi; del resto egli ritorna agli studi
- pur così amati - solo dopo l’esaurimento dell’esperienza
resistenziale e il tramontare di altre forme di impegno diretto.
La peculiarità del percorso di Venturi emerge fin dagli anni ’30,
quando, esule a Parigi, si pone il problema del ruolo degli intellettuali
nel mondo moderno tra potere e società, alla ricerca di una autonomia
che non significhi però isolamento. La sua attenzione si concentra
quindi sulle origini del fenomeno, ritrovate nell’illuminismo e
in particolare nell’Enciclopedia. In questa scelta gioca un ruolo
decisivo la sua convinzione di trovarsi in un’epoca in cui, paradossalmente,
il socialismo si è già realizzato, ma non così il
liberalismo, se è vero che la Russia sovietica, pur considerata
paese d’avanguardia, soffoca nell’illibertà. Venturi
svolge nei confronti dell’URSS una critica che ha basi crociane,
nella distinzione tra stato e società, ma che risente anche dei
suoi studi ottocenteschi, per quanto riguarda l’assenza di costruttività
nella politica sovietica; egli attribuisce le responsabilità di
questa grave degenerazione, per la quale non esita ad adottare il termine
di ‘totalitarismo’, ad una fatale tendenza a declinare il
marxismo come economicismo e anti-politicismo, ossia perdendo le sue radici
illuministiche.
8. Per salvare insieme l’individuo e il cittadino, serve invece
una politica non incentrata sul partito, ma sul diritto e insieme sulla
morale pubblica; di qui la premura di Venturi per i problemi delle istituzioni
e per una religione civile che possa sostanziarle. Contro il mito, inteso
dal primo Croce come cinico sfruttamento della menzogna, Venturi recupera
in maniera originale il valore dell’utopia, che pone i diritti come
verità fondamentali alla base di ogni politica; non Sorel dunque,
ma piuttosto Jaures. Come tra gli altri vedranno Omodeo e Cantimori, pur
non condividendone per intero l’indirizzo, il Diderot di
Venturi porta una nota nuova negli studi settecenteschi europei, in consonanza
(non sempre riconosciuta) con la voce di Cassirer. Diderot risulta, come
Rousseau, un pensatore concreto, il cui realismo risiede nel valore sostanziale
attribuito alle dinamiche religiose e la cui teoria ha come naturale conseguenza
una azione che non è solo morale, ma propriamente politica. La
ragione degli illuministi non è semplice calcolo, ma si allarga
e si approfondisce, sostanziandosi di significati naturali e sociali;
l’utopia, nell’arco che va da Shaftesbury a Kant ‘non
può essere ridotta a fantasia letteraria o a mito razionalista,
ma va considerata forza politica di civiltà’. Sulla scia
di Gobetti e di Rosselli, ma anche grazie ai contatti con Halévy,
Venturi reimposta dunque completamente il problema politico dell’illuminismo,
individuando un possibile equilibrio dinamico tra individuo e Stato, promosso
e controllato da una ‘rivoluzione degli intellettuali’.
Nella prolusione sulla Circolazione delle idee del 1953 si annuncia
però un nuovo orientamento, che trova espressione nelle antologie
sugli illuministi italiani e dà poi vita al grande affresco sul
Settecento riformatore. L’analisi degli storici sociali francesi
ha come esito una rinnovata concentrazione sulla storia delle idee; ma
è soprattutto il clima della guerra fredda e l’esaurirsi
della spinta resistenziale a sollecitare in Venturi una nuova attenzione
per il versante riformista dell’esperienza settecentesca. Fedele
in questo all’idea della storia ‘come pensiero e azione’,
Venturi riscontra nella nuova situazione, segnata dagli schieramenti ideologici
e dal sostanziale fallimento dell’esperienza azionista, una sorprendente
analogia con l’epoca prerivoluzionaria. In questo contesto, l’azione
dell’intellettuale deve indirizzarsi alla promozione di una politica
positiva, che sappia guadagnare spazio al nuovo avendo come modello di
riferimento i valori dell’utopia, ma incardinandone le conseguenze
nella trama della storia, attraverso i mezzi messi a disposizione dal
sistema istituzionale.
Il Venturi degli anni ’50-‘60 può essere quindi avvicinato
a Bobbio, che nello stesso periodo riflette sul rapporto tra politica
e cultura, delineandone insieme il dinamismo e la precarietà; ma
interessante (e meritevole forse di maggiori sviluppi) è anche
il confronto con la complessa galassia del Neoilluminismo filosofico.
Nel complesso Imbruglia ascrive a Venturi un ruolo decisivo per fare uscire
gli studi illuministici italiani dalle secche dell’epoca tra le
due guerre: il confronto critico con le esperienze straniere e il riferimento
morale alla figura di Croce gli consentono di superare la dicotomia tra
una ricerca ossessiva delle radici autoctone del Risorgimento nel secolo
precedente, ridotto a fase preparatoria senza una propria identità
storica; e l’opposta riduzione dell’illuminismo a semplice
prodotto d’importazione francese e di impronta rivoluzionaria.
9. La descrizione del volume di Imbruglia non sarebbe completa se non
aggiungessimo che esso riporta in coda (chiamarla ‘appendice’
è in effetti riduttivo, trattandosi di più di cento pagine)
l’importante carteggio tra Venturi e Delio Cantimori, finora in
gran parte inedito. Il curatore sottolinea la rilevanza di questa documentazione,
a partire dall’esistenza stessa di un rapporto stretto e duraturo
tra due studiosi così diversi (per età, formazione, idee,
interessi, personalità), oltretutto già maturi e affermati
al momento del loro incontro nel 1945; in particolare egli individua nel
carteggio tre possibili livelli di lettura.
Innanzitutto quello politico, da cui emergono tutte le perplessità
di Venturi sull’esperienza azionista e sulle sorti del paese, fino
alla scelta benaccetta, ma forzata, di ritornare agli studi. Imbruglia
rileva a questo proposito le impressioni contrastanti ricavate dallo storico
nel corso della sua triennale permanenza in URSS come addetto culturale
dell’ambasciata italiana; il palesarsi delle difficili condizioni
di vita del paese non sembra intaccare le sue convinzioni circa la futuribilità
del socialismo, ma lo porta a svilupparne la declinazione rosselliana,
riservando invece dure critiche al regime liberticida. Imbruglia sottolinea
del resto la forte tensione ideale che anima entrambi i corrispondenti
e si traduce in un continuo e esplicito richiamo alle responsabilità
dell’intellettuale e alla ‘passione per la verità’.
Si ritrova poi nel carteggio un piano strettamente storiografico, nel
quale si avverte il forte interesse di Cantimori per le ricerche del collega,
apprezzate sia per il taglio moderno e sprovincializzante, che per la
valorizzazione del Settecento in quanto tale. Imbruglia sottolinea come
alla base della divergenza circa il giudizio sul giacobinismo ci sia una
diversa concezione dell’utopia, considerata per lo più negativamente
da Cantimori. Si avverte però il comune interesse per l’argomento
(ad esempio nella figura di dom Deschamps); condivisa è anche l’attenzione
per le origini dell’illuminismo (Radicati) e per la ‘storia
dei vinti’.
Un ultimo piano meritevole di menzione è quello editoriale, da
cui emerge la comune esperienza dei due autori alla Einaudi e il progressivo
imporsi di Venturi nelle scelte storiche dell’editore; su questo
terreno si ricavano dal carteggio importanti informazioni circa la genesi
delle opere e la vicenda degli inediti di Venturi. Interessante anche
il riferimento ad alcune iniziative poi non portate a termine dalla casa
torinese, in particolare una storia universale, promossa da Cantimori,
cui Venturi antepone la necessità di una moderna storia d’Italia.
Dopo aver ripercorso le linee fondamentali del volume, possiamo tributare
al lavoro di Imbruglia un sincero apprezzamento, a partire dall’ampiezza
degli estremi temporali e spaziali presi in considerazione, che di fatto
vanno ben oltre l’Italia tra il ‘32 e il ’58 cui si
fa riferimento. Va inoltre rilevata la grande serietà e densità
delle analisi proposte, che testimoniano la volontà di superare
alcuni luoghi comuni storiografici e la capacità di intrecciare
piani diversi senza perdere di vista l’articolazione argomentativa.
In ultima istanza ci preme sottolineare la credibilità di questo
approccio alla storia della storiografia, che si propone di indagare le
singole posizioni ideali attraverso i risultati conseguiti nella ricerca
concreta, senza perdersi in eccessivi nominalismi o in dispute autoreferenziali.
Aldilà di queste osservazioni, è la proposta di fondo dell’autore
che appare meritevole di seria considerazione: risulta nel complesso convincente
la tesi secondo cui l’illuminismo abbia rappresentato un snodo problematico
fondamentale per la vita intellettuale italiana del Novecento; e in particolare
appare persuasiva l’idea che la riflessione storiografica su questo
tema abbia implicato una ridiscussione interna allo storicismo tale da
superare le posizioni ottocentesche e da aprire fronti di dissenso interni
alla stessa tradizione etico-politica.
Chiariti gli indubbi meriti del volume, dobbiamo rilevare però
anche qualche squilibrio nell’impianto del volume, sia in merito
all’ordine dei saggi che al loro diverso peso specifico: i capitoli
su Croce e Omodeo appaiono di respiro troppo diverso da quello su Romeo
e il saggio iniziale su Chabod è in realtà un ampliamento
dell’introduzione che però, invertendo l’ordine cronologico
dei fatti, rischia di produrre qualche sfasatura nella comprensione. Restano
inoltre perplessità sulle ragioni che hanno indotto a pubblicare
solo la prima parte del carteggio Venturi-Cantimori, peraltro richiamate
nella presentazione dell'epistolario.
Il volume di Imbruglia contiene comunque una ricostruzione avvertita della
storiografia italiana sull’illuminismo (e sullo storicismo); condividiamo
quindi pienamente l’auspicio dell’autore affinché altre
pagine affini della nostra storia culturale, a partire dal rapporto Cantimori-Chabod,
trovino al più presto analoga attenzione critica.