Girolamo Imbruglia, Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana, Napoli, Bibliopolis, 2003
[€ 26 - ISBN 88-7088-427-9]

Mirco Carrattieri
Università di Bologna

1. Il fatto che la maggior parte di questi testi fossero noti al pubblico, non toglie importanza alla loro pubblicazione in volume, che acquisisce organicità alla luce del saggio inedito su Croce. Imbruglia si propone di affrontare il dibattito storiografico sull’illuminismo come problema interno allo storicismo italiano nel periodo che va dal 1932, quando viene pubblicata la Storia d’Europa, al 1959, anno in cui si verifica lo scontro tra Chabod e Momigliano a proposito del necrologio di Antoni (e, più in generale, dell’eredità storicista). In particolare l’autore intende mostrare come la considerazione crociana dell’illuminismo muti sensibilmente nel corso del tempo, ferma restando la sottolineatura delle insufficienze del pensiero settecentesco e il loro sostanziale superamento nell’idealismo.
Per cogliere il punto di partenza della riflessione di Croce, Imbruglia risale alla fine dell’Ottocento, quando, giudicando la sorte della repubblica napoletana, il filosofo svela tutte le illusioni degli illuministi partenopei: in questa fase, che si traduca in estetica o in diritto, Croce vede nella politica la produttrice di miti inevitabili, ma fallaci, che tutt’al più gli storici possono elevare al piano dell’arte. Questa posizione scettica trova però ben altra espressione nel corso del secondo periodo individuato da Imbruglia, quello di inizio secolo, corrispondente all’elaborazione del sistema. Nell’apertura della “Critica” del 1902 Croce associa strettamente voltairianesimo e gesuitismo come facce di una stessa medaglia, cui ascrive il tentativo di lasciare l’uomo nella minorità. Nella Logica l’illuminismo viene dichiarato figlio legittimo della ragione calcolante di Cartesio e come tale tacciato di scolasticismo e arretratezza; la sua filosofia porta del resto alle ‘insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e antidemocratiche’ del 1789.
Nella Filosofia della pratica, però, al mito come erranza comincia a sostituirsi secondo Imbruglia un’idea più articolata, in cui anche la credenza trova spazio come associazione di mito e fede. Soprattutto si evidenzia in questa fase, e in modo più marcato dopo la guerra, la consapevolezza crociana della sovrapposizione tra ragione e mito, e della potenza pratica della cultura. Al Vico oppositore dell’illuminismo e precursore dell’idealismo nell’associare filologia e filosofia, si affianca ora sorprendentemente Voltaire che, pur mischiando pericolosamente natura e storia, viene lodato come sostenitore di un sano immanentismo e portatore di un indubbio fattore storico di civiltà: la dissoluzione dei miti. In particolare l’illuminismo voltairiano affianca ad una storia pragmatica (e dunque individualista e eteronoma), coerente con la sua immatura filosofia, la nuova storia della civiltà, che riprende, secolarizzandola, la storia religiosa; così esso acquista la dimensione positiva e antiretorica della pratica politica. La frattura tra queste due concezioni della storia rimane insanata, ma il recupero della dimensione etica innalza l’illuminismo a premessa indispensabile dello storicismo.

2. A partire dall’elaborazione della Storia del regno di Napoli sembra quindi farsi strada in Croce una nuova considerazione dell’eredità illuministica, destinata a trovare coronamento nella Storia d’Europa. In questa sede, con una lettura che ricorda Tocqueville, Croce rifonde spessore ai bisogni alla base dell’esperienza rivoluzionaria, ribadendone la pericolosa ingenuità conoscitiva, ma riconoscendo anche la suggestiva potenza del mito. Il mutare della situazione politica, le proposte di De Ruggiero, la teoria dell’élite di Mosca, concorrono secondo Imbruglia ad una nuova lettura crociana della politica, in cui la statolatria gentiliana viene completamente superata attraverso il richiamo all’eccedenza della morale rispetto alla mera forza. Dal romanticismo tedesco si passa alla restaurazione francese come riferimento essenziale per la crescita della ragione storica; e si rompe la netta discontinuità col periodo illuminista. Imbruglia non passa però sotto silenzio alcuni limiti di questa interpretazione dell’illuminismo, che emergono soprattutto nella perdurante condanna del suo esito rivoluzionario.
Dopo il conflitto sembra aprirsi nella riflessione crociana una quarta e ultima fase, in cui il concetto di mito, ‘non più falso utile, ma vero imperfetto’, costringe Croce a rivedere la filosofia della pratica; ma va rilevato anche in questo caso come non sia la base categoriale ad essere messa in discussione, bensì la teoria dell’azione. Egli rilegge Renan in chiave vichiana, rifiutandone la filosofia della storia, ma non l’idea del mito politico, riproposta però in senso moderato e elitario, ancora una volta in contrapposizione all’utopia rivoluzionaria. E’ un Croce più realista e, almeno negli ultimi scritti, disincantato, che dal progresso hegeliano muove verso la ciclicità voltairiana; l’illuminismo assume per lui un valore di autocritica dei suoi stessi miti.
Nel complesso la rivalutazione crociana dell’illuminismo individuata da Imbruglia assume un significato decisamente antitotalitario e si inserisce in un più ampio dibattito che concerne il recupero dei diritti, la tutela costituzionale della libertà negativa, il risorgere di una prospettiva cosmopolitica. Al Croce che rilegge se stesso si sovrappongono in Italia le voci dei suoi lettori ‘più intrinseci, ma non pedissequi’: essi riprendono il suo collegamento tra storiografia e filosofia, a fronte di qualsiasi deriva scettica e nichilista; ma le loro risposte al ‘problema illuminismo’ risultano poi notevolmente diverse, rimontando a differenti percorsi personali, a contatti col maestro sfasati nel tempo, all’interazione con altri autori del panorama europeo (tra i quali Imbruglia mette in evidenza Cassirer).
Senza ambire all’esaustività di una rassegna sistematica, Imbruglia si concentra sullo storicismo e sul suo ripensare se stesso alla luce dello specchio illuminista; in quest’ambito è possibile individuare almeno tre linee di tendenza, che pur senza schematizzazioni esplicite, vengono utilmente tracciate dall’autore. Mentre Omodeo (e sulla sua scia de Martino) parte da Croce per tematizzare la storia della religione, Chabod e Momigliano affrontano direttamente la sua tarda rivalutazione dell’illuminismo, recependola però con diversa intensità: più continuista il primo, e dopo di lui Romeo; più disposto a trarne conseguenze estreme il secondo, anche aldilà delle intenzioni del maestro. Così facendo però Momigliano apre la strada al deciso rinnovamento operato da Venturi, per il quale, pur senza rinnegamenti, la definizione di ‘storicista’ appare quindi riduttiva.

3. Iniziando la nostra analisi da Adolfo Omodeo ci pare di dover sottolineare come l’itinerario dello studioso siciliano consenta ad Imbruglia di richiamare anche il ruolo di Gentile, che però, sulla scorta di alcune citazioni significative, viene posto in testa alla schiera degli antilluministi.
Interessato inizialmente al gesuitismo, Omodeo lo vede come fenomeno caratterizzante di un’epoca buia posta tra due poli di civiltà: il sorgere del Cristianesimo e il pensiero della restaurazione. La sua ricerca si concentra allora sul periodo delle origini cristiane, trattando il quale si trova a partecipare al dibattito sul modernismo. Imbruglia distingue con attenzione le posizioni in merito di Gentile e di Croce e mostra come Omodeo muova progressivamente dall’una all’altra, ritrovando nel primo maestro alcuni dei difetti già imputati al gesuitismo. L’opposizione alle scelte politiche gentiliane favorisce il distacco definitivo, che si concretizza a partire dal 1924 e poi si accentua con le disavventure all’Enciclopedia Italiana. Ma ad attirare Omodeo in una nuova direzione è anche la nozione crociana di ‘mito’, con il suo peculiare attaccamento alla storia e la rinnovata considerazione per il valore pratico di ogni ‘eccedenza di passione’.
Nel corso degli anni ’30 Omodeo svolge una articolata ricostruzione del periodo della Riforma, verso la quale ha modo di mostrare nuove aperture. Sintomatico è il fatto che, richiesto da Volpe di redigere una storia della Controriforma di stampo apologetico, Omodeo finisca per rinunciare; ancor più rilevante è che, dopo le severe critiche alle tesi gobettiane, egli tributi pieno riconoscimento alle ricerche di Venturi, che pure non rinnegano la medesima ascendenza.
E’ comunque nell’analisi della religione civile risorgimentale che, pur rivelando ancora le proprie radici gentiliane, Omodeo rovescia sostanzialmente l’interpretazione corrente, sostituendo al Cavour diplomatico e realista un liberale moderno e europeo. Seguendo Cassirer e Ramat, Omodeo muove anche oltre Croce, giungendo alla riscoperta di Rousseau; da qui una nuova continuità tra l’illuminismo e i grandi storici liberali dell’età successiva, a partire da Constant.
Ma Imbruglia ricorda anche il dibattito che oppone Omodeo a Gaetano De Sanctis (e al suo maestro Ferrabino) circa la natura della democrazia greca. Pur seguendo Momigliano nel rilevare le insufficienze di quest’ultima, Omodeo non appare disposto a cedere alla posizioni conservatrici di alcuni antichisti e li affronta a viso aperto sul terreno impervio della filologia. L’accostamento di Pericle a Mazzini rappresenta in questo senso un tentativo ardito di innestare le conquiste del moderno liberalismo su di un impianto costituzionale avanzato, che, pur nel riferimento primario alla libertà, miri anche alla giustizia e alla pace. A parere di Imbruglia permane però in Omodeo un latente pregiudizio aristocratico, che si esprime in una visione discendente delle dinamiche di potere e in una sostanziale incomprensione del fenomeno totalitario.

4. Pur destinata alla sconfitta sul piano dell’immediatezza politica (come dimostra lo scioglimento del Partito d’Azione), la rilettura dell’illuminismo operata da Omodeo si rivela un importante punto di riferimento sul piano culturale. Nel solco tracciato dallo studioso siciliano si colloca ad esempio la figura di Ernesto De Martino, che, pur non potendo essere considerato semplicemente uno storico, trova una collocazione convincente in questo contesto, nella misura in cui anche il suo percorso si snoda attraverso e oltre lo storicismo.
De Martino si avvicina alla storia delle religioni nel corso degli anni ’20 grazie all’insegnamento di Macchioro sugli aspetti mistico-magici del mondo greco, ma poi si laurea con Omodeo nel ’32. Questo passaggio, che esprime insofferenza verso un’analisi esclusivamente formale, matura parallelamente ad una evoluzione politica che lo avvicina lentamente al liberalismo. Nel 1937, proprio tramite Omodeo, De Martino conosce Croce, e gli scritti del biennio successivo dimostrano quanto egli ne risenta nella trattazione del problema religioso. Mosso dalla necessità di superare la teologia e l’empirismo degli studi religiosi italiani, egli trova in Croce le indicazioni per ricondurre le passioni alla storia e concepire una feconda idea di ‘religione civile’.
L’irriducibilità dell’elemento originario, vitale e fondamentalmente irrazionale, che sia Macchioro, che Omodeo avevano individuato, permane tuttavia in filigrana alla visione crociana; e la tensione utopistica e millenaristica insita nel pensiero demartiniano reagisce peculiarmente con le nuove acquisizioni storiciste.La specificità della posizione di De Martino viene esplicitata da Imbruglia lungo due direttrici principali: da una parte la sua disponibilità, rispetto all’idealismo, a seguire Loisy, recuperandone l’esigenza sistematica e il riferimento alla collegialità del religioso; dall’altra l’originale lettura di Vico, in direzione di una storicizzazione dell’intera esistenza umana (e delle sue stesse categorie).
A partire dal 1940 Imbruglia coglie l’innestarsi sullo storicismo demartiniano di nuovi apporti: la sociologia francese, in particolare Lévy-Bruhl e la sua idea di ‘persona’; e soprattutto Cassirer, considerato però, rispetto ad altri coevi lettori italiani, non tanto come storico della cultura, bensì come teorico delle forme simboliche. Come e meglio di Croce, lo studioso tedesco sembra in grado di esplorare lo spazio tra Kant e Hegel senza degenerare nell’irrazionalismo, ispirando a De Martino la sua ‘dialettica triangolare di persona, storia e mondo’. Palesi sono però anche le differenze, non tutte, come la scarsa sensibilità per il tema linguistico, riconducibili a Croce. Lontana da Cassirer è ad esempio la nozione di ‘mondo’, inteso come storia, piuttosto che come tramite con l’io; e diversa è anche la valutazione del tempo, che in De Martino non annulla mai il ‘rischio esistenziale della presenza’.

5. La linea tracciata da Omodeo e De Martino inserisce il problema dell’illuminismo nel lungo periodo e ne esce attraverso una via laterale e in qualche modo extradisciplinare; ma Imbruglia appare interessato soprattutto all’itinerario proprio della storiografia e in particolare alla divaricazione che si apre al suo interno nel dopoguerra, culminando nell’acceso contrasto del 1959 tra Chabod e Momigliano a proposito di Carlo Antoni. A partire dal necrologio di quest’ultimo Momigliano coinvolge Chabod in una discussione di più ampio respiro, che chiama in causa tre punti fondamentali: l’influsso di Antoni su Croce; la datazione della nazificazione italiana; il disagio della loro generazione intellettuale nei confronti dell’eredità romantica.
Riguardo al primo aspetto, i due studiosi mostrano di valutare diversamente l’introduzione della categoria di ‘vitalità’ nell’impianto crociano, attribuita dal primo ad una influenza dell’esistenzialismo e dall’altro invece al mutare del contesto storico a seguito della guerra. Il problema della nazificazione italiana, da Momigliano datata nel 1933, cioè cinque anni prima rispetto al collega, rimonta in realtà alla questione del consenso al regime: collegarla alle leggi razziali, come fa Chabod, significa infatti legittimare in qualche modo la tollerabilità del fascismo precedente, e dare dunque ragione del massiccio apporto garantitogli dalla popolazione e anche dagli intellettuali.
Ma Momigliano esplicita soprattutto una dura autocritica verso la propria generazione, includendo in essa anche Chabod, per avere, tramite l’apprezzamento per il romanticismo, aperto la strada all’irrazionalismo totalitario; nel nuovo contesto postbellico gli appare invece necessario tracciare un confine netto a queste derive, e avviare una riflessione improntata all’illuminismo. Chabod, chiamato in causa personalmente, rifiuta questa ricostruzione come semplicistica: da un lato perché il romanticismo non può essere condannato in blocco in nome di una genealogia deterministicamente orientata al male assoluto; dall’altro perché la considerazione dell’illuminismo non è in realtà mai venuta meno negli anni ’30, come dimostrano i suoi stessi studi, ma anche quelli di Salvatorelli o del gruppo della “Cultura”. L’apprezzamento di Momigliano per il neoilluminismo di studiosi come De Ruggiero non può inoltre essere esteso a chi, come Cantimori e Banfi, fa riferimento al giacobinismo piuttosto che all’eredità razionalista e cosmopolita.
Imbruglia ricorda come questa discussione del ’59 abbia in realtà importanti precedenti, dal fallito progetto di una storia universale per Einaudi negli anni ’40, fino al dibattito svoltosi al Congresso internazionale di scienze storiche del ’55; come intuito da Chabod, il contrasto riguarda non tanto uno studioso in particolare, ma l’intera eredità ideale di Croce. Non a caso Momigliano arriva a mettere in discussione l’idea crociana della storia, cui contrappone un rinnovato aggancio filologico di fronte alla falsificazione imperante; e contesta il ruolo tradizionalmente assegnato all’intellettuale, anticipando, come vedremo, alcune posizioni di Venturi. Al centro del dilemma si situa comunque secondo Imbruglia la questione nazionale, che rappresenta il nodo fondamentale di tutta la discussione sull’illuminismo e più in generale la preoccupazione alla luce della quale esaminare l’evoluzione novecentesca dello storicismo italiano e della sua autocoscienza.

6. Analizzando gli scritti chabodiani degli anni ’40, Imbruglia rileva come lo studioso valdostano riesca a tenere insieme un alto senso della nazione, un giudizio positivo sull’eredità illuministica e un immutato apprezzamento dello storicismo idealista come proprio riferimento privilegiato. Ma nello Chabod degli anni ’20, i cui riferimenti erano Ranke e Meinecke prima ancora di Croce, il giudizio sull’illuminismo era stato assai più negativo e apparentemente senza appello. Imbruglia cerca quindi di mostrare, ricorrendo alle voci dell’Enciclopedia Italiana, ai corsi universitari e agli scritti chabodiani editi da L.Azzolini, come avvenga il passaggio dall’una all’altra posizione, attraverso un tormentato confronto con la ‘revisione’ crociana e con le altre posizioni emerse nel dibattito nazionale e internazionale (discussione che sembra attraversare trasversalmente sia il campo fascista che quello antifascista).
Chabod si colloca sostanzialmente in linea con Omodeo: la soluzione del ‘problema illuminismo’ si ottiene ampliando l’arco cronologico della modernizzazione, riconducendo il rinnovamento del XVIII secolo alle sue radici rinascimentali e collegandolo poi all’età della restaurazione, vista come lo snodo decisivo in cui le istanze morali del Settecento rivoluzionario trovano un legittimo esito politico. Allo spostamento verso il 1830 del baricentro della contemporaneità, Chabod aggiunge però alcune note del tutto originali: da un lato, tramite una lettura personale (e, secondo Imbruglia, parziale) di Cassirer, il recupero della figura di Rousseau; dall’altro la scissione tra la nazione romantica tedesca, destinata a generare il nazionalismo aggressivo e razzista, e quella francese teorizzata da Montesquieu, storicizzata da Tocqueville, evocata da Renan.
E’ evidente come questo percorso segni il distacco di Chabod da Volpe, di cui pure condivideva numerosi presupposti (il senso della patria come potenza, l’ottica di lungo periodo, l’elitarismo accademico); di fronte all’8 settembre questi vede crollare il paese senza possibilità di stabilire quella nuova continuità che invece Chabod difende e promuove. Ma Imbruglia vuole mostrare come tale percorso diverga fondamentalmente anche da quello auspicato da Momigliano, che sembra portare a più estreme conseguenze il passo compiuto da Croce negli anni ’30. Significativo è il fatto che, in contrasto con la visione dei due protagonisti del dibattito, venga rivalutata in qualche modo l’attualità di Antoni, che, ricollegandosi a Kant, ritrova nella stessa nazione delle origini (e non solo nel suo limite cosmopolitico o nella sintesi ottocentesca) una base morale da tutelare; di qui il suo appello a Croce circa la necessità di recuperare all’interno dell’idealismo i temi della responsabilità individuale e del diritto naturale.

7. In stretta continuità con Chabod Imbruglia colloca invece Rosario Romeo, di cui analizza lo scritto sui riflessi avuti in Italia dalle scoperte americane. Originato da una contingenza e considerato per lo più laterale rispetto agli interessi principali dello storico siciliano, questo saggio non è invece secondo Imbruglia da relegare tra gli scritti minori; esso fa infatti emergere con singolare chiarezza sia l’impostazione chabodiana delle ricerche di Romeo, che le sue integrazioni specifiche alla lezione del maestro. Per quanto riguarda il primo aspetto, Romeo sembra trarre dallo storico valdostano una concezione di lungo periodo della civiltà europea, in cui la rivoluzione culturale del ‘500 e quella economico-tecnica del secolo successivo hanno un ruolo preminente rispetto al secolo illuminista. Pienamente chabodiane appaiono in questo saggio l’impostazione, la periodizzazione e persino i riferimenti a Montaigne e a Botero come limiti della ricostruzione; ma è evidente come le inquietudini di un nuovo presente portino Romeo ad offrire degli stessi temi un’interpretazione per altri aspetti peculiare.
Si sente, nel suo rifiuto della letteratura sull’ ‘età dell’oro’, l’eco delle analisi di Michelet e di Febvre; si sente soprattutto, anche nel suo caso, il riferimento a Cassirer. Il risultato è la lucida rilevazione delle ambiguità insite nei testi sulle scoperte; e da qui una sottile distinzione tra il livello dell’utopia, da rifiutare in assoluto, e quello del mito polemico, avente una sua funzione storica, nella misura in cui serve alla civiltà europea ad analizzare se stessa e a trarne nuovo dinamismo. Come per altri aspetti Gerbi e De Caprariis, Romeo recupera direttamente dallo storicismo crociano l’idea che si possa fare storia solo del positivo e del cosciente, negando invece dignità allo studio della decadenza; rifiuta invece le aperture al vitalismo dell’ultimo Croce di fronte allo ‘specchio della barbarie’, rimanendo ancorato al piano della storia delle idee.
In palese opposizione a questa linea tendenzialmente ‘liberale’, si pone secondo Imbruglia una linea più ‘radicale’, che appare disponibile a prendere alla lettera la revisione dell’ultimo Croce e a trarne conseguenze più sensibili anche sul piano storico-politico. Al già citato Momigliano, cui lo accomunano gli anni di esilio e quindi la molteplicità e l’ampiezza dei riferimenti culturali, viene associato in questo senso Franco Venturi. Imbruglia fa notare come, a fronte della notevole attenzione critica sollecitata dalla sua scomparsa nel 1994, sia mancata una adeguata riflessione sul peso della vicenda politica sul suo lavoro di storico, pure esplicitato in più di una occasione dallo stesso Venturi; del resto egli ritorna agli studi - pur così amati - solo dopo l’esaurimento dell’esperienza resistenziale e il tramontare di altre forme di impegno diretto.
La peculiarità del percorso di Venturi emerge fin dagli anni ’30, quando, esule a Parigi, si pone il problema del ruolo degli intellettuali nel mondo moderno tra potere e società, alla ricerca di una autonomia che non significhi però isolamento. La sua attenzione si concentra quindi sulle origini del fenomeno, ritrovate nell’illuminismo e in particolare nell’Enciclopedia. In questa scelta gioca un ruolo decisivo la sua convinzione di trovarsi in un’epoca in cui, paradossalmente, il socialismo si è già realizzato, ma non così il liberalismo, se è vero che la Russia sovietica, pur considerata paese d’avanguardia, soffoca nell’illibertà. Venturi svolge nei confronti dell’URSS una critica che ha basi crociane, nella distinzione tra stato e società, ma che risente anche dei suoi studi ottocenteschi, per quanto riguarda l’assenza di costruttività nella politica sovietica; egli attribuisce le responsabilità di questa grave degenerazione, per la quale non esita ad adottare il termine di ‘totalitarismo’, ad una fatale tendenza a declinare il marxismo come economicismo e anti-politicismo, ossia perdendo le sue radici illuministiche.

8. Per salvare insieme l’individuo e il cittadino, serve invece una politica non incentrata sul partito, ma sul diritto e insieme sulla morale pubblica; di qui la premura di Venturi per i problemi delle istituzioni e per una religione civile che possa sostanziarle. Contro il mito, inteso dal primo Croce come cinico sfruttamento della menzogna, Venturi recupera in maniera originale il valore dell’utopia, che pone i diritti come verità fondamentali alla base di ogni politica; non Sorel dunque, ma piuttosto Jaures. Come tra gli altri vedranno Omodeo e Cantimori, pur non condividendone per intero l’indirizzo, il Diderot di Venturi porta una nota nuova negli studi settecenteschi europei, in consonanza (non sempre riconosciuta) con la voce di Cassirer. Diderot risulta, come Rousseau, un pensatore concreto, il cui realismo risiede nel valore sostanziale attribuito alle dinamiche religiose e la cui teoria ha come naturale conseguenza una azione che non è solo morale, ma propriamente politica. La ragione degli illuministi non è semplice calcolo, ma si allarga e si approfondisce, sostanziandosi di significati naturali e sociali; l’utopia, nell’arco che va da Shaftesbury a Kant ‘non può essere ridotta a fantasia letteraria o a mito razionalista, ma va considerata forza politica di civiltà’. Sulla scia di Gobetti e di Rosselli, ma anche grazie ai contatti con Halévy, Venturi reimposta dunque completamente il problema politico dell’illuminismo, individuando un possibile equilibrio dinamico tra individuo e Stato, promosso e controllato da una ‘rivoluzione degli intellettuali’.
Nella prolusione sulla Circolazione delle idee del 1953 si annuncia però un nuovo orientamento, che trova espressione nelle antologie sugli illuministi italiani e dà poi vita al grande affresco sul Settecento riformatore. L’analisi degli storici sociali francesi ha come esito una rinnovata concentrazione sulla storia delle idee; ma è soprattutto il clima della guerra fredda e l’esaurirsi della spinta resistenziale a sollecitare in Venturi una nuova attenzione per il versante riformista dell’esperienza settecentesca. Fedele in questo all’idea della storia ‘come pensiero e azione’, Venturi riscontra nella nuova situazione, segnata dagli schieramenti ideologici e dal sostanziale fallimento dell’esperienza azionista, una sorprendente analogia con l’epoca prerivoluzionaria. In questo contesto, l’azione dell’intellettuale deve indirizzarsi alla promozione di una politica positiva, che sappia guadagnare spazio al nuovo avendo come modello di riferimento i valori dell’utopia, ma incardinandone le conseguenze nella trama della storia, attraverso i mezzi messi a disposizione dal sistema istituzionale.
Il Venturi degli anni ’50-‘60 può essere quindi avvicinato a Bobbio, che nello stesso periodo riflette sul rapporto tra politica e cultura, delineandone insieme il dinamismo e la precarietà; ma interessante (e meritevole forse di maggiori sviluppi) è anche il confronto con la complessa galassia del Neoilluminismo filosofico. Nel complesso Imbruglia ascrive a Venturi un ruolo decisivo per fare uscire gli studi illuministici italiani dalle secche dell’epoca tra le due guerre: il confronto critico con le esperienze straniere e il riferimento morale alla figura di Croce gli consentono di superare la dicotomia tra una ricerca ossessiva delle radici autoctone del Risorgimento nel secolo precedente, ridotto a fase preparatoria senza una propria identità storica; e l’opposta riduzione dell’illuminismo a semplice prodotto d’importazione francese e di impronta rivoluzionaria.

9. La descrizione del volume di Imbruglia non sarebbe completa se non aggiungessimo che esso riporta in coda (chiamarla ‘appendice’ è in effetti riduttivo, trattandosi di più di cento pagine) l’importante carteggio tra Venturi e Delio Cantimori, finora in gran parte inedito. Il curatore sottolinea la rilevanza di questa documentazione, a partire dall’esistenza stessa di un rapporto stretto e duraturo tra due studiosi così diversi (per età, formazione, idee, interessi, personalità), oltretutto già maturi e affermati al momento del loro incontro nel 1945; in particolare egli individua nel carteggio tre possibili livelli di lettura.
Innanzitutto quello politico, da cui emergono tutte le perplessità di Venturi sull’esperienza azionista e sulle sorti del paese, fino alla scelta benaccetta, ma forzata, di ritornare agli studi. Imbruglia rileva a questo proposito le impressioni contrastanti ricavate dallo storico nel corso della sua triennale permanenza in URSS come addetto culturale dell’ambasciata italiana; il palesarsi delle difficili condizioni di vita del paese non sembra intaccare le sue convinzioni circa la futuribilità del socialismo, ma lo porta a svilupparne la declinazione rosselliana, riservando invece dure critiche al regime liberticida. Imbruglia sottolinea del resto la forte tensione ideale che anima entrambi i corrispondenti e si traduce in un continuo e esplicito richiamo alle responsabilità dell’intellettuale e alla ‘passione per la verità’.
Si ritrova poi nel carteggio un piano strettamente storiografico, nel quale si avverte il forte interesse di Cantimori per le ricerche del collega, apprezzate sia per il taglio moderno e sprovincializzante, che per la valorizzazione del Settecento in quanto tale. Imbruglia sottolinea come alla base della divergenza circa il giudizio sul giacobinismo ci sia una diversa concezione dell’utopia, considerata per lo più negativamente da Cantimori. Si avverte però il comune interesse per l’argomento (ad esempio nella figura di dom Deschamps); condivisa è anche l’attenzione per le origini dell’illuminismo (Radicati) e per la ‘storia dei vinti’.
Un ultimo piano meritevole di menzione è quello editoriale, da cui emerge la comune esperienza dei due autori alla Einaudi e il progressivo imporsi di Venturi nelle scelte storiche dell’editore; su questo terreno si ricavano dal carteggio importanti informazioni circa la genesi delle opere e la vicenda degli inediti di Venturi. Interessante anche il riferimento ad alcune iniziative poi non portate a termine dalla casa torinese, in particolare una storia universale, promossa da Cantimori, cui Venturi antepone la necessità di una moderna storia d’Italia.
Dopo aver ripercorso le linee fondamentali del volume, possiamo tributare al lavoro di Imbruglia un sincero apprezzamento, a partire dall’ampiezza degli estremi temporali e spaziali presi in considerazione, che di fatto vanno ben oltre l’Italia tra il ‘32 e il ’58 cui si fa riferimento. Va inoltre rilevata la grande serietà e densità delle analisi proposte, che testimoniano la volontà di superare alcuni luoghi comuni storiografici e la capacità di intrecciare piani diversi senza perdere di vista l’articolazione argomentativa. In ultima istanza ci preme sottolineare la credibilità di questo approccio alla storia della storiografia, che si propone di indagare le singole posizioni ideali attraverso i risultati conseguiti nella ricerca concreta, senza perdersi in eccessivi nominalismi o in dispute autoreferenziali.
Aldilà di queste osservazioni, è la proposta di fondo dell’autore che appare meritevole di seria considerazione: risulta nel complesso convincente la tesi secondo cui l’illuminismo abbia rappresentato un snodo problematico fondamentale per la vita intellettuale italiana del Novecento; e in particolare appare persuasiva l’idea che la riflessione storiografica su questo tema abbia implicato una ridiscussione interna allo storicismo tale da superare le posizioni ottocentesche e da aprire fronti di dissenso interni alla stessa tradizione etico-politica.
Chiariti gli indubbi meriti del volume, dobbiamo rilevare però anche qualche squilibrio nell’impianto del volume, sia in merito all’ordine dei saggi che al loro diverso peso specifico: i capitoli su Croce e Omodeo appaiono di respiro troppo diverso da quello su Romeo e il saggio iniziale su Chabod è in realtà un ampliamento dell’introduzione che però, invertendo l’ordine cronologico dei fatti, rischia di produrre qualche sfasatura nella comprensione. Restano inoltre perplessità sulle ragioni che hanno indotto a pubblicare solo la prima parte del carteggio Venturi-Cantimori, peraltro richiamate nella presentazione dell'epistolario.
Il volume di Imbruglia contiene comunque una ricostruzione avvertita della storiografia italiana sull’illuminismo (e sullo storicismo); condividiamo quindi pienamente l’auspicio dell’autore affinché altre pagine affini della nostra storia culturale, a partire dal rapporto Cantimori-Chabod, trovino al più presto analoga attenzione critica.