1. Il volume Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica si colloca all’interno di un panorama storiografico in cui, inaspettatamente, sono a tutt’oggi scarsi i lavori di sintesi sul delicato trapasso degli studi storici dal periodo fascista all’età repubblicana. Il motivo è probabilmente da ascriversi innanzitutto alla genericità del termine “studi storici” che copre un ampio spettro di ambiti di ricerca (dalla storia antica a quella contemporanea), e di “luoghi” di attività (dagli istituti alle università, dalle riviste ai progetti editoriali). In secondo luogo il ritardo effettivo nell’affrontare il tema, in particolare per il secondo dopoguerra, è dovuto alla delicatezza del tema che deve prendere in esame sia le rotture che le continuità col periodo precedente. Il volume di Eugenio Di Rienzo è volto a colmare parte di questa lacuna e lo fa analizzando il difficile trapasso di una generazione di storici attraverso una serie notevole di carteggi personali inediti.
2. La tesi centrale intorno a cui si muove l’intero volume è sinteticamente raccolta nel primo capitolo, intitolato emblematicamente Una memoria imperfetta. L’Autore, dando voce direttamente ai protagonisti delle vicende storiografiche dell’Italia post-bellica, vuole sviscerare i meccanismi della creazione di quella che egli ritiene essere una memoria ancora incompleta. Eugenio Di Rienzo intende colmare quest’omissione che dipese, a suo avviso, dall’egemonia culturale antifascista creatasi durante la «guerra civile» e dall’interpretazione monumentale della Resistenza che fu poi portata avanti. L’uso strumentale della memoria fu costruito e sostenuto così con «il silenzio, la rimozione, il funambolismo politico dei più responsabili, dei più coinvolti, di tutti coloro che nel giro di pochi mesi, dal 25 luglio all’8 settembre 1943, intrapresero il “breve viaggio” che li portò a trasfigurarsi da intellettuali organici alla dittatura, a “intellettuali mediatori” tra questa e le forze dell’opposizione, a protomartiri della resistenza, infine» [p. 22]. La mancata assunzione di responsabilità da parte di chi transitò «trionfalmente nei fasti della vita accademica del dopoguerra» [p. 22], fece sì che la vicenda storiografica italiana assumesse i tratti sempre più marcati di una “nuova guerra civile” promossa da una generazione di intellettuali, spesso reduce dall’adesione piena al passato fascista, una generazione che recise volontariamente ogni rapporto con la storiografia italiana del primo dopoguerra [p. 30].
3. Gioacchino Volpe e Federico Chabod sono emblematicamente il punto
di partenza e di arrivo di questo libro, entrambi fondamentali per il
ruolo che ebbero nell’ambito degli studi storici in momenti cronologicamente
distanti. Volpe fu maestro e organizzatore di cultura per un’intera
generazione, Chabod divenne punto di riferimento nel secondo dopoguerra
per molti storici anche giovanissimi. Gioacchino Volpe è in un
certo qual modo il protagonista del libro: maestro di un’intera
generazione che lo avrebbe poi ripudiato, egli visse nei primi anni del
dopoguerra una «drammatica e lunga resa dei conti col passato»
che avrebbe dovuto coinvolgere più di uno storico, ma che si riversò
quasi per intero sull’anziano caposcuola [p. 202]. Per questo motivo
il libro entra nel vivo col secondo e lungo capitolo Contro
passato prossimo, dedicato a Gioacchino Volpe e a parte della sua
scuola. In esso l’Autore analizza l’evoluzione storica e politica
di Volpe dai primi anni del ‘900 alla caduta del fascismo. Seguire
attentamente l’analisi che l’Autore conduce intorno alla vita
e all’opera dello storico è quindi fondamentale per comprendere
l’impostazione del libro.
L’importante ruolo che Volpe assunse nell’organizzazione della
cultura storica durante il Ventennio non è stato ancora attentamente
studiato[1]. Gioacchino Volpe
collaborò a numerose imprese promosse dal fascismo: insegnò
all’Università di Roma tra il 1924 e il 1943, fu segretario
generale dell’Accademia d’Italia (1929-34), direttore della
sezione di Storia Medievale e Moderna della Enciclopedia Italiana (1925-37),
Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei (1935-46) e diresse, fino
al 1943, la rinomata Scuola di Storia Moderna e Contemporanea a Roma.
Allievi di questa scuola furono storici importanti quali Nello Rosselli,
Federico Chabod, Walter Maturi e Carlo Morandi. Il libro di Eugenio Di
Rienzo ripercorre le tappe della biografia dello storico abruzzese cercando
di dimostrare la sua presunta liberalità durante il Ventennio.
Il suo impegno politico, iniziato a Milano nel primo decennio del Novecento,
mantenne negli anni, secondo l’Autore, una sostanziale seppur non
rettilinea continuità cementata e rafforzata continuamente dalla
pratica storiografica [pp. 42 e segg.]. Per questo motivo Gioacchino Volpe
attraversò il fascismo tra molte difficoltà intellettuali:
il suo fiancheggiamento non si risolse, per Di Rienzo, in piena adesione,
ma si identificò fin dall’inizio, sulla scorta della lettura
di Renzo De Felice, con la corrente “revisionista-costituzionale”
che auspicava una normalizzazione della rivoluzione e un suo porsi nel
quadro della monarchia[2]. Citando
continuamente le parole dello storico, ed in particolare il suo memoriale
al Ministro della Pubblica Istruzione del 1946, Eugenio Di Rienzo cerca
di restituire l’immagine di un Volpe sicuramente fascista ma «a
modo suo»: un fascista, nelle parole dello stesso storico abruzzese,
«indipendente e a volte di opposizione; fascista, se l’accoppiamento
è lecito, liberale e meglio si potrebbe dire nazional-liberale»[3].
Il fascismo di Gioacchino Volpe è pertanto da considerasi atipico
e si inserisce nella visione della storia di una Italia “in cammino”
verso la modernità, un movimento che è quindi destinato
ad esaurirsi nel tempo [p. 187]. Volpe, secondo l’Autore, mantenne
durante tutto l’arco del Ventennio una posizione sostanzialmente
eterodossa, lontana dall’osservanza ideologica e poco incline a
conformarsi con la mitologia fascista: anche le sue posizioni più
vicine alla propaganda, come l’adesione all’imperialismo fascista,
non sono che «gocce nel mare del consenso» [p. 71]. Gioacchino
Volpe dava prova così di un continuo e «sistematico nicodemismo
intellettuale» [p. 163], scontando una «tristissima condizione
di libertà vigilata» e «di sorveglianza speciale»
per essere infine progressivamente condannato «all’esilio politico
nel regime» [p. 66]. La sua emarginazione politica, cominciata nel
1925, ebbe il suo culmine nel 1936 e per l’intero arco del Ventennio
non gli fu concessa «altra possibilità d’intervento
che quella culturale» [p. 75]. Una funzione questa che egli assolse
in grande autonomia, in linea con la sua adesione distaccata e di «resistenza
individuale» sul «piano dell’onestà e della serietà
scientifica» [p. 75][4].
Lungo questa linea si definisce e si delinea tutta la sua opera di organizzatore
di cultura, di maestro e di storico. L’approccio critico e scientifico
sarebbe rimasto una costante nella sua produzione, largo spazio è
dedicato a questo proposito alle posizioni assunte da Volpe, lontane dalla
retorica fascista, sulla storia del Risorgimento italiano [pp. 80-105]
e al noto episodio dell’osteggiamento al suo volume Ottobre
1917 [pp. 113-137]. Da segnalare è il rinvenimento di una
voce inedita Risorgimento per
l’Enciclopedia Italiana,
successivamente non pubblicata e redatta invece da Walter Maturi [pp.
86-87]. L’Autore intende dimostrare, in questo secondo capitolo,
l’ostilità acrimoniosa a cui Volpe dovette far fronte da
più parti, e che si strinse intorno a lui arrivando alla persecuzione
anche accademica alle soglie della caduta del regime [pp. 188-202].
4. Il terzo capitolo Storici e maestri, si apre con l’inizio della «guerra civile» a cui si sarebbe aggiunta, secondo Di Rienzo, «l’onta di una “dittatura antifascista” che aveva iniziato ad incrudelire illiberalmente contro i suoi avversari» [p. 187]. Si apre così la seconda e corposa parte del libro, dedicata al periodo tra il 1943 e il 1960, che si muove attraverso una messe davvero notevole di informazioni, di fatti storici e storiografici di maggiore o minore rilievo: dal giuramento di Omodeo alla partecipazione di molti intellettuali alle imprese dell’Ispi, all’ipotizzata influenza che Volpe ebbe sull’opera di Delio Cantimori. Proprio da quest’ultimo esempio secondo Di Rienzo «viene alla luce un ritratto indubbiamente meno plumbeo, meno totalitario, meno provinciale e più complesso della cultura italiana durante il regime e soprattutto un’immagine del sapere storico certo profondamente diviso su diversi fronti ideologici [...], ma non per intero dilacerato sul crinale fascismo/antifascismo, come la narrazione vulgata di quei decenni ha troppo a lungo sostenuto» [pp. 235-236]. Il terzo capitolo costituisce anche il preambolo al quarto e conclusivo (La guerra continua), vero cardine del volume, in cui l’Autore cerca, in linea con le premesse iniziali, di dimostrare come il «bellum civile» tra gli storici sarebbe stato un proseguimento del conflitto politico precedente, ma «con altri mezzi». Il 12 dicembre 1944 uscì un opuscoletto di Benedetto Croce intitolato Intorno ai criteri dell’epurazione: poche pagine ma, secondo Di Rienzo, dense di significato. In esse il filosofo napoletano espresse la necessità di castigare i crimini di regime non erigendo «Tribunali di coscienza», o incorrendo in nuovi processi di Inquisizione, ma cercando di mantenere un comportamento sostanzialmente laico. Si sarebbe dovuto epurare quindi, allontanando coloro che, ancora nostalgici del Ventennio, potevano essere pericolosi se lasciati nei posti dove si trovavano[5]. Per Di Rienzo però «l’indulgenza consigliata da Croce poteva e forse doveva necessariamente degenerare in spregiudicato tatticismo, nella trasformazione della giustizia in giurisdizione politica, aprendo larghi spazi ad un’amnistia indiscriminata, e spazi altrettanto larghi ad un’individuazione ad personam del colpevole, che sarebbe stato riconoscibile, non per delitti oggettivi, bensì tramite un “esame individuale, da condurre con larghezza di mente, con umanità di cuore e con severità di giudice”. Le indicazioni di Croce venivano immediatamente riprese, ad litteram e solo con qualche concessione ai toni della propaganda da Carlo Sforza, ministro senza portafogli» [p. 206]. Il desiderio di giudicare l’altrui passato prossimo coinvolse attivamente, secondo l’Autore, tutte le parti politiche e gli intellettuali: a partire in primis dagli azionisti e dai liberali, per passare alla ferocia dimostrata dai comunisti e per concludersi con la vera e propria inquisizione libraria e politica attuata dai cattolici [pp. 203-218]. L’epurazione divenne in questo modo una sorta di «guerra privata» in cui chi era privo della protezione di una rete di relazioni avrebbe scontato le pene maggiori; tra questi certamente Gioacchino Volpe, che assurge ad emblema in quanto vittima di una persecuzione che avrebbe dovuto colpire invece un’intera generazione. Egli, sostenuto dai propri allievi e conoscenti negli anni ’40, fu abbandonato poi sulla soglia del 1950. Cosa accadde in questo lasso di tempo? Una sorda e irriconoscente messa all’indice dell’uomo e della sua opera lo avrebbe lasciato alla deriva in una Italia in cui la guerra aveva provocato una rottura insanabile. Il 1° agosto 1944, col provvedimento firmato dal Ministro De Ruggiero, Gioacchino Volpe venne sospeso dall’insegnamento e sottoposto a processo epurativo: nel dicembre dello stesso anno egli fu dispensato dal servizio e collocato successivamente a riposo. Nel 1945, il processo epurativo venne dichiarato estinto, ma nel 1946 Volpe venne sottoposto ad inchiesta penale “per atti rilevanti antecedenti al 1943”. «Forse anche in conseguenza [...] della sentenza formulata da Croce, il ricorso del 15 luglio veniva respinto con il decreto del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, del 18 dicembre 1947, quando Volpe aveva oltrepassato il suo sessantesimo anniversario e raggiunta quindi l’età fisiologica per il suo collocamento a riposo» [p. 244]. Nonostante le richieste di reintegro attuate nel 1948 dalle Facoltà di Lettere e Filosofia e di Scienze Politiche, il Ministero della Pubblica Istruzione non tornò sulle proprie decisioni[6]. «L’onda lunga dei provvedimenti contro l’anziano maestro lambiva intanto le istituzioni da lui create durante il ventennio e la sua figliolanza intellettuale» [p. 244]. Omodeo, intervenendo nel primo numero di Belfagor sui problemi dell’Università post-fascista, aveva auspicato la soppressione degli Istituti Storici creati dal fascismo, i quali a suo giudizio avevano favorito una sorta di «casta» che aveva confiscato per sé quasi tutte le cattedre universitarie a deterioramento di studiosi di maggior valore. «Al j’accuse del vecchio allievo di Gentile, ormai trasmigrato nelle fila dell’azionismo barricadiero, replicava divertito Carlo Morandi» [p. 245] e, nonostante gli auspici di Omodeo, gli Istituti non vennero soppressi nonostante le difficoltà finanziarie. Molte altre iniziative, forgiate o sostenute da Volpe, «conoscevano un malinconico tramonto [p. 247]» nel primo dopoguerra, e nessuna delle sue creature «sembrava dover sopravvivere al gran repulisti»: né le sue creazioni né gli istituti di cultura da lui promossi [p. 248]. Gioacchino Volpe dovette subire continui affronti sul piano morale ed intellettuale, e si avvicinò progressivamente alla destra revanscista [pp. 255-260]. Di Rienzo ritiene che «anche il rifugio in un nostalgico legittimismo costituiva per Volpe la possibilità di opporsi ad un regime politico e ad un sistema culturale che aveva sancito nei suoi confronti un’implacabile messa al bando» [p. 263]. Volpe, profondamente amareggiato, si chiuse in posizioni sempre più estremiste sentendosi tradito da più parti, perfino dai suoi ex-allievi. Attraverso le pagine del libro possiamo farci un’idea degli eventi che causarono la progressiva e sempre più grave rottura, provocata dalla messa all’indice dell’uomo e della sua opera. Due le circostanze che la scatenarono: la mancata recensione al suo libro Italia Moderna e la pubblicazione della raccolta di saggi in onore di Benedetto Croce[7], in cui comparvero i contributi dei suoi allievi accanto ad un articolo di Gabriele Pepe nel quale Volpe venne giudicato come un «cottimista» della cultura a servizio del fascismo. La frattura tra allievi e maestro appare molto profonda ed è ricostruita attraverso la voce dei protagonisti e gli scambi epistolari che in quegli anni si accavallarono.
5. L’ultimo capitolo, La guerra continua, chiude circolarmente la narrazione degli eventi post-bellici. L’Autore prende le mosse dalle vicende del passaggio della direzione della “Rivista Storica Italiana” da Federico Chabod a Franco Venturi [pp. 345-371]. Nel paragrafo Il trono vuoto egli descrive l’ascesa di Venturi che avvenne «nei climi della guerra fredda» che «impetuosamente, soffiava anche dentro i castelli dell’alta cultura» [p. 347]. L’ascesa di Venturi alla direzione della “Rivista Storica Italiana” fu dovuta, secondo Di Rienzo, ad una oscura congiura di palazzo orchestrata dai suoi amici e co-direttori[8]. Dopo aver svelato i retroscena di questo complotto con il secondo paragrafo Una lite in famiglia [pp. 371-394], l’Autore passa a commentare l’episodio dello scambio epistolare tra Momigliano e Chabod del 1959 recentemente portato alla luce[9]. L’aspra contrapposizione che coinvolse i due storici, «nutrita ormai anche da motivi personali» [p. 375], aveva, secondo l’Autore, ragioni precise e profonde: «Chabod doveva avvertire più forte l’implicito veleno della questione posta sul tappeto da Momigliano, dove l’orgogliosa professione di fede neo-illuminista diveniva non solo testimonianza di un ripudio sostanziale dell’eredità di Croce, ma momento di discrimine invalicabile tra nuova e vecchia cultura» [p. 376]. Si trovava così in quelle lettere un’implicita imputazione all’opera di Chabod, un’accusa che toccava la sua partecipazione a molte istituzioni durante il periodo fascista, ma che coinvolgeva anche la sua opera. Questa polemica privata sfociò nell’articolo comparso nel numero speciale della “Rivista Storica Italiana” dedicato a Federico Chabod; in esso Momigliano si sbilanciava pubblicamente dichiarando lo storico aostano correo di Volpe. Un giudizio che venne successivamente condiviso da più di uno storico, diramandosi così in direzioni diverse fino a formare l’ingiustificata ed oscura «leggenda grigia» che è presente, secondo l’Autore, ancora oggi nella pagine di Piergiorgio Zunino [pp. 379-383]. Alcune perplessità e critiche erano già state espresse da altri storici prima della morte di Federico Chabod. Delio Cantimori nelle sue Note sugli studi storici in Italia dal 1926 al 1951, stigmatizzava duramente il paradigma storiografico di Volpe e sosteneva che tale tendenza operasse ancora fortemente negli allievi. «Questa requisitoria, che conosceva qualche distinguo proprio per Chabod, avrebbe costituito» afferma Di Rienzo «il nocciolo duro di una interpretazione della lezione di Volpe, in quanto instrumentum diaboli, destinato a lunga durata [p. 385]». Ancora Cantimori, in un necrologio su Chabod apparso nel 1960 su “Belfagor” («accidentato, volutamente oscuro e criptico, contraddittorio, non esente da punte di forte intenzionalità critica» [p. 334]), avrebbe mescolato ampie riserve alla «messa in evidenza di zone oscure, di sentieri storiografici pericolosi e non più praticabili» [p.334]. «Il paradigma cantimoriano» si sarebbe così trasportato, secondo Eugenio Di Rienzo, senza modificazioni «fino ad alcuni interventi degli anni ’70 e oltre», venendo «ripreso nella monografia di Innocenzo Cervelli, dove l’opera di Volpe veniva definitivamente tumulata sotto la cifra unificante di “storiografia fascista” [p. 385]». Il libro si chiude con una lunga lettera di Cantimori a Volpe che dimostra un sentimento di «stima profonda e di sentitissimo elogio, che davvero contrastava con i taglienti e irosi giudizi che di Volpe aveva fornito nel secondo dopoguerra» [p.426]. Si tratta dell’epistola con cui Cantimori presentava la sua allieva Seidel Menchi a Volpe ed essa è posta in conclusione al libro perché estremamente emblematica dell’intero clima descritto nel volume: in questa testimonianza, difatti, «si palesa», secondo l’Autore, «l’endemica sindrome nicodemitica che aveva afflitto questo studioso e con lui buona parte della storiografia italiana, ben oltre le colonne d’Ercole dell’età fascista» [p. 426].
6. Come si può notare anche dalle note conclusive del libro, il perno dell’intero volume ruota intorno alla vicenda di Gioacchino Volpe. La scelta, nonostante non sia esplicitata nel titolo, è sicuramente azzeccata, ma risulta al contempo estremamente problematica per una serie di motivi. Il lettore si aspetterebbe dal titolo, Un dopoguerra storiografico, che la trattazione rispettasse l’arco cronologico e che all’interno del volume, oltre alla voce dei protagonisti, fosse dato maggiore spazio ad un esame complessivo della storia della storiografia del secondo dopoguerra. L’analisi storiografica di Eugenio Di Rienzo si sforza prevalentemente di mettere in luce e di chiarire le linee di atipicità del pensiero e dell’operato di Gioacchino Volpe. Certamente come già aveva rilevato efficacemente Gabriele Turi, tutta la produzione storiografica di Volpe, anche quella più marcatamente ideologica, è percorsa da un fine realismo[10] e si può certamente affermare con Silvio Lanaro che egli, «dopo aver cercato di sfruttare fino in fondo tutte le risorse del plurilinguismo nazionalista, finisce per accontentarsi del fascismo, senza fiancheggiarlo stancamente ma anche senza idoleggiarlo come alba di una nuova età»[11]. Volpe fu a tutti gli effetti, come hanno messo in luce anche gli autori sopra citati, uno tra gli storici ufficiali del fascismo, non assumendo affatto un ruolo marginale all’interno dei meccanismi di potere creati dal regime. Nell’indagine su Gioacchino Volpe condotta da Di Rienzo sembra invece esistere talora una sottile antinomia tra alta cultura e regime, in una visione che sembrerebbe identificare la “cultura storica” del fascismo quasi solo con la mitopoiesi portata avanti da alcuni gerarchi del regime e da Mussolini stesso. Al contempo la vicenda di altri importanti storici, quali Carlo Morandi o dell’antifascista Nello Rosselli, viene invece eccessivamente schiacciata sul fascismo. La rappresentazione complessiva che emerge non rivolge così, ad avviso di chi scrive, la giusta attenzione alla pluralità e complessità di posizioni all’interno dell’elaborazione ideologica e della riflessione storiografica patrocinata dal regime. La vicenda dell’epurazione dell’anziano caposcuola, nella ricostruzione finale dell’Autore, è solo la punta di un iceberg: l’intero dopoguerra “storiografico” assume nelle sue parole gli oscuri contorni di una guerra civile in cui le diverse anime intellettuali e storiografiche si unirono compatte «in linea con il giustizionalismo della nuova retorica antifascista» [p. 313]. Da questa presunta decadenza sembra non “salvarsi” quasi nessuno, eccezion fatta per Federico Chabod; il volume diviene così più di una volta una requisitoria che cerca di sviscerare i retroscena del presunto totalitarismo culturale che dominò nel secondo dopoguerra. L’Autore partendo dall’idea che l’antifascismo applicò una netta intransigenza ideologica alla lettura delle vicende storiografiche descritte, giunge così ad affermare che esso rifiutò di ricordare e tramandare la vera storia italiana. L’antifascismo è sicuramente uno spazio politico plurale che va analizzato nella realtà delle divisioni e dei conflitti, nelle sue memorie divise che costituiscono parte della nostra identità nazionale, ma non può essere ridotto, a parere di chi scrive, solo ad una memoria imperfetta fatta di malevolenza e giustizionalismo diffuso. L’anteporre alla propria trattazione un presupposto ideologico così forte rende purtroppo spesso problematiche e non equidistanti le conclusioni a cui giunge l’Autore e la stessa narrazione degli eventi, nonostante la ricchezza di fonti anche bibliografiche, spesso non riesce a mantenere una mediata moderazione. L’analisi più propriamente storiografica è anch’essa talora piegata a dimostrare la tesi iniziale del libro, finendo per privilegiare esclusivamente la netta rottura col periodo precedente, e non riuscendo ad evidenziare a sufficienza le pur presenti linee di continuità. Il lavoro di Eugenio Di Rienzo è sicuramente degno di nota per il notevole scavo archivistico che riesce a restituire al lettore il difficile e fino ad ora inesplorato trapasso di un’intera ed importante categoria intellettuale, un passaggio che è per molti versi ancora sconosciuto e che darà sicuramente avvio ad ulteriori approfondimenti storiografici e non solo archivistici.
[1]Gli studi fino ad ora condotti concludono tutti la loro analisi prima dell’affermarsi del regime fascista. Cfr. in linea generale: I. CERVELLI, Gioacchino Volpe, Napoli, Guida, 1977; B. BRACCO, Storici italiani e politica estera. Tra Salvemini e Volpe 1917-1925, Milano, Franco Angeli, 1998; G. BELARDELLI, Il mito della «Nuova Italia»: Gioacchino Volpe tra guerra e fascismo, Roma, Lavoro, 1988.
[2]Vedi R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, 1921- 1925, Torino, Einaudi, 1996, pp. 445 e segg.
[3]Parole di Gioacchino Volpe tratte dal memoriale
sopra citato, recentemente pubblicato da I.
VALENTINI, Le interferenze politiche
nell’epurazione universitaria. L’ “esame di coscienza”
di Gioacchino Volpe e la “carriera” di Luigi Salvatorelli,
in «Nuova storia contemporanea», 2, 2003, pp. 123-134.
[4]Si può confrontare anche il giudizio
espresso da De Felice in Mussolini il duce.
Gli anni del consenso, Torino, Einaudi, 1996, pp.106 e segg.
[5]Ora in B. CROCE, Scritti e discorsi politici, 1943-1947, vol. I, Bari, Laterza, 1973, pp. 44 e segg.
[6]Sulla vicenda si veda R. DE FELICE, Per la restituzione della cattedra a Gioacchino Volpe, in «Nuova Antologia», 1, 1995, pp. 71-75.
[7]C. ANTONI, R. MATTIOLI (a cura di), Cinquant’anni di vita intellettuale italiana: scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, 1896-1946, Napoli, Esi, 1950.
[8]Lontano da quanto aveva affermato E. TORTAROLO, Chabod e Venturi. Dal Partito d’Azione alla «Rivista storica italiana», in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, a cura di M. HERLING e P. G. ZUNINO, Firenze, Olschki, 2002, pp. 283-297.
[9]F. CHABOD, A. MOMIGLIANO, Un carteggio del 1959, a cura e con introduzione di Gennaro Sasso, postfazione di Riccardo Di Donato, Bologna, Il Mulino, 2002.
[10] Su questo tema e a titolo di esempio si rinvia ai numerosi lavori di Gabriele Turi, in particolare Il problema Volpe, in «Studi Storici», XIX, 1978, pp.175-186, o più in generale a M. ISNENGHI, Storia e storiografia, in C. STAJANO (a cura di), La cultura italiana del Novecento, Bari, Laterza, 1996, pp. 687-724.
[11]S. LANARO, 1910-1920. La guerra multanime dei nazionalisti, in «Meridiana», 6, 1989, pp. 145-172: 172.