1. Nel 1821 apparvero a Parigi i Mémoires historiques sur la
vie et les oeuvrages de Diderot. Ne era autore Jacques-André
Naigeon, interessato in larga parte alla genesi del Rêve de d’Alembert,
alla sua tradizione manoscritta e ai problemi di critica filologica connessi
al celebre testo. Tutti temi ai quali veniva dedicata una lunga e apposita
sezione, che tuttavia non si salva dalle critiche del nostro secolo, prestando
il fianco a molteplici quanto varie osservazioni in merito soprattutto
agli inediti, resesi una volta di più necessarie a seguito di studi
assai più recenti ed approfonditi.[1]
Quella prima romantica ricostruzione rimase comunque per tutto l’Ottocento
il saggio con il quale confrontarsi ogniqualvolta si tornava a parlare
del philosophe, a leggerlo e a studiarlo. Ancora nella prima metà
del secolo appena trascorso esso ha costituito il punto di partenza irrinunciabile,
sotto alcuni aspetti quasi un faro, per la stesura della biografia diderottiana,
ancora oggi. Molto è venuto anche dai maggiori settecentisti italiani,[2]
i quali hanno scelto di puntare la propria attenzione sulle due vere dominanti
all’interno dell’altrimenti vastissima produzione diderottiana,
vale a dire le iniziative enciclopediche ed il naturalismo scientifico,
andato quest’ultimo sempre più affrancandosi, negli anni
della piena maturità del Nostro, dall’originario creazionismo
di manifesto sapore lockiano e newtoniano, per approdare infine a una
filosofia laica e fortemente scettica, quasi humiana in certe sue sconfortate
conclusioni metafisiche,[3]
comunque assai più vicina al catechismo ateo contenuto negli Elements
d’holbachiani che non alla rassicurante teologia naturale del primo
Settecento.[4] Il movimento,
che con la figura aveva costituito l’elemento principale nella disposizione
cartesiana del reale, veniva ora inteso come l’essenza stessa della
materia, il mondo e la società come in un eterno e dinamico fluire.
Quella filosofia della sfiducia e del disincanto, senza mai alzare la
voce, aveva radicalizzato sino alle estreme conseguenze teoretiche e gnoseologiche
il portato della tradizione iatrochimica e iatromeccanica, sorta in Francia
per mano di Mersenne e Cartesio e capace ora, nella seconda metà
del XVIII secolo, di fare registrare con l’ultimo Diderot esiti
che in molti dicono marcatamente materialisti,[5]
per riprendere un’etichetta utile e semplice, ma della quale certa
critica storiografica ha abusato fino a farne un contenuto vuoto, entro
cui ricomprendere troppo elasticamente tutto e nulla.[6]
A venire sacrificato rimane così sempre e comunque il messaggio
ultimo del Nostro, se poi di messaggio si può davvero parlare,
le sue contraddizzioni e il suo sorriso amaro, la sua “estetica
senza paradossi” (Belaval), le sue inquietudini letterarie e i suoi
impegni di uomo di cultura, ingigantiti persino oltre misura dalla storica
impresa dell’Encyclopédie.[7]
La figura di Diderot rimane inesorabilmente troppo complessa, troppo articolata
la sua produzione, per pretendere di fotografare il personaggio con una
definizione univoca e di comodo, insieme banale e riduttiva, qualunque
essa sia. Pena il ricadere nel peggiore e più scontato manualismo.
2. Il Diderot che qui ci interessa riprendere e approfondire è principalmente quello che redasse nel 1775 il Plan d’une université, su richiesta di Caterina II di Russia. Malgrado tutte le frustrazioni interiori che abbiamo richiamato, malgrado l’approdo incontestabilmente cosmobiologico del Rêve, il Diderot del Plan non smise di guardare al sistema newtoniano come a un’orizzonte di pensiero a un tempo razionale quanto equilibrato, tutt’altro che periferico nel suo lungo cammino intellettuale, al di là delle più ingannevoli apparenze. Il philosophe consiglia ai futuri studenti dell’università russa la lettura dei circostanziati e fedeli manuali newtoniani messi a punto da John Keill e Henry Pemberton in Inghilterra, o ancora qualcun altro dei “cent bon abrégés de la philosophie de Newton” circolanti per l’intero arco di un secolo straordinariamente ricco e creativo. Inoltre, sotto l’aspetto più eminentemente didascalico, la grande sintesi newtoniana si rivela un passaggio di estrema utilità, ancorché quasi obbligato ai fini di una formazione culturale che voglia dirsi veramente corretta e completa, degna di questo nome. L’astronomia e le sue tecniche di ricerca si segnalano come particolarmente edificanti. Scrive Diderot che sarebbe indizio di autentica vergogna per un uomo colto non sapere nulla del globo terrestre sul quale cammina e della volta celeste sotto la quale passeggia. Se il Creatore ha segnato, assai più fortemente che altrove, la grandezza della sua infinita potenza nell’ordinamento dei cieli, anche l’uomo ha segnato, pure lui più fortemente che altrove, l’estensione delle sue facoltà mentali negli sviluppi della scienza astronomica, in particolare sei e settecentesca.[8] Non siamo qui al cospetto, come forse si potrebbe pensare, di una concessione convenzionale e forzata al credo newtoniano che il Settecento ha eletto a suo paradigma. Semmai, si tratta invece di un programma pedagogico che affonda ancora una volta le sue radici nell’ideale enciclopedico del Nostro, in cui il newtonianesimo “figura, con il suo giusto peso, al posto d’onore”, come ha scritto Paolo Casini.[9] E’ peraltro altrettanto vero che Diderot, al momento della richiesta di Caterina la Grande, non ha ancora fatto sua la disillusione epistemica degli anni a venire e si trova impegnato su più fronti con moltissime e diverse iniziative, editoriali e istituzionali, il ricordo dei primi scritti matematici non ancora sbiadito dal tempo e dalle scelte.[10]
3. In Russia, la stima di Caterina per Diderot e Voltaire era sincera
quanto cordiale. Formatasi sulle pagine di Montesquieu, del quale sarebbe
rimasta per tutta la vita una studiosa appassionata, la regina volle imprimere
un indirizzo volutamente lockiano alle riforme istituzionali intraprese
nel campo dell’educazione tra il 1760 e il 1770, le stesse per le
quali aveva preventivamente chiesto un parere proprio a Diderot, al quale
offrì un’ospitalità paragonabile solo a quella accordata
a Voltaire da un altro grande sovrano illuminista del Settecento, quale
Federico II di Prussia.[11]
Caterina doveva apparire agli occhi degli illuministi europei il vero
capolavoro del secolo, la concreta realizzazione dei loro ideali e delle
loro vedute teoriche, anzi la dimostrazione stessa di come i valori possano
e debbano ispirare la retta politica. Era lei il sovrano per eccellenza,
la perfetta figura di monarca razionalizzatore capace di unire in sé
e il potere e la scienza, ormai assisa sul trono di quell’impero
culturale che era nel secondo Settecento la società universale
degli spiriti e delle intelligenze, come si era verificato con la regina
Cristina di Svezia nella Roma barocca un secolo prima.[12]
La prima parte dei Mémoires diderottiani per Caterina ci
lascia intuire tutto il fascino di cui era pregna una speranza forse troppo
ardita, quella cioè di un’azione politica modernizzatrice
come una sorta di tabula rasa, analoga e parallela a quella americana
in campo liberale. Il vero azzardo sta nella presunta onnipotenza che
il philosophe vuole a tutti i costi cogliere dietro quel progetto.
Si tratta peraltro di contraddizioni che non nascondono nemmeno il loro
portato più fecondo. Diderot, nelle pagine dei Mémoires,
si tiene sempre e comunque lontano dal mito del dispotismo illuminato,
che lo storico della filosofia sa assolutamente estraneo al suo pensiero,
ma dal quale molti dei suoi colleghi si lasciarono volentieri accecare.
Semmai, lo sguardo ammirato e commosso gettato sulla Russia della sovrana
gli permette di tracciare un ipotetico e sconfortato confronto.
L’enciclopedista non riesce a nascondere le proprie perplessità
e il proprio scoramento di fronte alle reali possibilità di rigenerare
la sua Francia ricca di storia, così come Caterina sta cercanco
di fare con il suo paese. Come ha osservato Godechot, è da un altrove
talvolta mitizzato che sorge spesso, al di là dei limiti storici
e culturali, il fermento di un pensiero nuovo circa la società.
Anche se, nel caso di Diderot, il senso d’impotenza ha ancora una
volta la meglio sull’idealizzazione più pura e astratta.
La verità è che la Caterina che elargisce ricchi doni e
ospitalità al filosofo francese lo fa senza poi tradurre in fatti
il nucleo più fervido di idee del progetto diderottiano per trasformare
l’Impero russo. La sua accoglienza era in realtà per le parole
e non per le cose, il che dimostra come il sovrano illuminato pensi con
lo stesso apparato linguistico degli intellettuali, ma molto spesso senza
il medesimo significato concettuale da loro attribuito alle iniziative
di riforma statale.[13]
Resta comunque il fatto, indubitabile quanto innegabile, che l’impresa
enciclopedica parigina seppe raccogliere in un solo fuoco, come un grande
specchio ustorio della tradizione archimedea, i raggi della nuova sensibilità
culturale che splendevano allora quasi ovunque in Europa, per irradiarli
tutt’intorno a sé con forza infinitamente maggiore, Russia
compresa. Lo si può leggere tra le righe anche ripensando all’entità
dei regali fatti da Caterina a Diderot nel 1765. Naturalmente, dietro
le munificenze della sovrana si nascondeva anche e soprattutto l’attenta
strategia politica di lusinghe propria dei despoti illuminati, calcolatori
abilissimi nel saper cogliere l’importanza di conservarsi in Francia
una fazione di amici e collaboratori autorevoli, influenti e sull’opinione
pubblica (la vera palestra dei Lumi) e sulle stesse scelte politiche dei
governi.[14] In tal senso,
con Diderot Caterina non sbagliò scelta. Per il philosophe
come per molti altri dei suoi colleghi, l’astro della zarina non
tramontò mai, contrariamente a quello di Federico il Grande, del
quale Diderot rimase per tutta la vita un ammiratore piuttosto tiepido
e talvolta aspramente critico. Il caso della Russia invece, diversamente
dalla realtà prussiana coeva, mostrava agli occhi dell’enciclopedista
francese di quale infinito potere l’intellettuale fosse ormai entrato
in possesso nei confronti dell’iniziativa politica e dell’opinione
pubblica, da lui sempre più influenzabile. Nonostante le riserve
di Montesquieu verso l’operato di Pietro il Grande, non si poteva
negare che l’Impero russo avesse realizzato un grado di sviluppo
interno tanto veloce quanto effettivo, lungo l’impervia strada dell’occidentalizzazione.
4. Tra il 1760 e il 1785, negli anni in cui il parti philosophique
si assunse con orgoglio il compito oneroso di rifare il mondo, furono
in molti, sulla scia di Voltaire, a manifestare senza freni la propria
russofilia. All’inizio del suo regno, nel 1762, il patriarca di
Farney scriveva di ammirare e amare la nuova sovrana senza limiti di sorta.
Effettivamente, va osservato in questa sede almeno di passaggio che la
rinnovata considerazione verso la Russia, promossa ed entrata a far parte
a pieno diritto della realtà europea, si segnala come uno degli
accadimenti più sorprendenti dell’intera storia intellettuale
del Settecento, in particolare se si pone mente alla qualifica di barbaro
che soltanto mezzo secolo prima accompagnava ancora il mondo slavo.[15]
Ora, Diderot – e, sulla sua scia, Marmontel e Galiani – possono
guardare con occhi nuovi un vecchio paese che si è aperto alla
civilisation.
Nella Francia di Diderot e Voltaire, non si negava peraltro che la regina
fosse in qualche modo coinvolta nell’omicidio del marito, lo zar
Pietro III, ma all’episodio non si dava semplicemente troppo peso,
liquidandolo alla stregua di una faccenda privata.[16]
E ricorda Salvatore Rotta che, quando cinque anni più tardi le
truppe dell’esercito russo invasero il territorio polacco (1767),
“Voltaire approvò incondizionatamente un intervento che mirava
soltanto ad introdurre in quell’infelice paese la tolleranza, ossia
a proteggere ortodossi, protestanti ed ebrei dalle persecuzioni cattoliche.
E derideva i confederati di Bar, quei bigotti, quei fanatici che rifiutavano
tale insigne beneficio e si alleavano addirittura col turco. Diderot,
grande sedentario, si lasciò sedurre da Semiramide a Pietroburgo
nel 1773-1774, proprio quando la tragedia polacca era in atto. Dai lunghi
incontri informali con l’imperatrice – una delle icones
symbolicae dei lumi – ritrasse un senso inebriante di libertà”.[17]
Se la maggior parte degli intellettuali illuministi levò così
voci di approvazione, o comunque non di disapprovazione, per la spartizione
russa della Polonia, ciò fu dovuto a quei tratti che rendevano
il cattolicesimo polacco ancor più oltranzista e intransigente
di quello spagnolo. Inoltre, lo stesso Diderot era obiettivamente troppo
legato a Caterina per prender posizione in pubblico contro quella che,
nelle carte private, avrebbe definito una vera “offense à
l’espèce humaine”.[18]
Il philosophe, che sino a quel momento si era ritenuto uno schiavo
nel paese così detto degli uomini liberi, confessava ora di essersi
ritrovato uomo libero nel così detto paese degli schiavi. E invitava
gli scettici tra i propri connazionali a fare come lui, a trascorrere
almeno un mese a San Pietroburgo, il luogo ideale per una vera presa di
coscienza, indispensabile per liberarsi dalle catene del degrado e delle
costrizioni. Sensazioni trasmessegli anche dal principe Dmitri Aleksandrovic
Golicyn, amico anche di Helvétius, inviato russo prima a Parigi
e poi all’Aja. In un’Europa in cui la libertà pareva
essersi irrimediabilmente eclissata, a Diderot non restava che additare
la Russia quale società in continua trasformazione, la sola candidata
a diventare il terreno privilegiato di un grande esperimento, la capitale
di una nuova cultura per una nuova umanità. Francia, Inghilterra
e Prussia lo avevano deluso, l’Impero di Caterina II no. Il profeta
della “pubblica felicità” intensificava la sua lotta
contro ogni forma di superstizione legata al passato, cercando di coinvolgervi
anche la sovrana, grazie alla quale la Russia pareva una volta per tutte
uscita dal feudalesimo.
5. A Caterina, Diderot mostrava tutta la necessità e l’urgenza
politica delle lotte per la ragione. Il philosophe rendeva un servizio
al principe annientando le superstizioni, da sempre vere nemiche del potere.
Consigli preziosi quanto utili per l’imperatrice, in quanto le insegnavano
a prevenire la pericolosa “rivolta dei cuori”, figlia degenere
di una virtù esasperata fino ai limiti dell’atrocità.
Diderot, autore di queste considerazioni, mentre così si rivolgeva
a Caterina, parlava in realtà ai monarchi tutti dell’Occidente
europeo e lo faceva con un perentorio “laissez écrire”.
Alla sovrana voleva far capire definitivamente che senza la filosofia
non si governa, né bene né male. Il governo giusto deve
almeno consentire agli spiriti superiori di vegliare sullo Stato. Diderot
si ritiene membro di questa coterie spirituale, poiché ogni
scrittore di genio è magistrato nato nella propria patria, ha il
dovere e il diritto di illuminarla e il suo diritto coincide (in quest’ottica
squisitamente meritocratica) con il talento. Quanto alla posizione sociale,
non conta nulla. I veri titoli vengono dai suoi Lumi. Il philosophe,
mentre indirizza a Caterina i suoi pratici consigli, parla in realtà
a tutti e per il bene di tutti. Il suo unico tribunale è l’intera
nazione, il suo solo giudice l’opinione pubblica, come si legge
nelle Pensées détachées. Un vero tentativo
di moralizzazione del potere (comune anche a Lessing e a Kant), destinato
però ad incontrare lo scacco della storia. Nelle voci stesse dell’Illuminismo,
che sappiamo essere la prima corrente d’idee a carattere veramente
paneuropeo, si insinuò nella seconda metà degli anni Settanta
una prima serie di dubbi e incertezze in merito alle finalità stesse
della lotta per la ragione e per i valori civili. E nelle interpretazioni
in lotta tra di loro si frantumò la purezza di un’idea.
Diderot, da fautore entusiasticamente baconiano della cultura tecnico-scientifica
quale era stato nei primi anni dell’Encyclopédie,
se ne fece adesso un implacabile avversario. Forse, scriveva nel 1774,
l’industrie humaine si era spinta troppo oltre ed
era venuto il momento di porre un freno al suo processo di crescita, contrariamente
a quanto predicavano Condorcet e Turgot. Questo volere ritardare il progresso
dei figli di Prometeo, a conti fatti, poteva non a torto rammentare le
posizioni di un celebre fratello-nemico, l’anima persa Rousseau.
Lo stesso Diderot, che aveva eletto la lotta contro la natura a principio
primo della società, si rammaricava ora, a fronte dell’industrializzazione
sempre più crescente,[19]
che in quella sua lotta l’uomo avesse voluto alla fine non soltanto
vincere, ma stravincere. Cercando ora, tra natura e cultura, una mediazione
forse non più possibile, un equilibrio forse non più realizzabile.
La Religione dell’uomo, quale per un certo arco di tempo l’Illuminismo
diderottiano si era presentato, faticava adesso a ritrovare i propri articoli
di fede. Vittima della storia, prima ancora che di se stessa. Su questo
punto, Rotta è stato chiaro.
6. Si è visto che fu Diderot a indicare, con estrema lucidità
e franchezza, come la Russia avesse bisogno, piuttosto che di importare
dall’Europa occidentale delle nuove teorie pedagogiche, di un modello
migliore per l’ordinamento scolastico già esistente, ma ancora
molto arretrato. L’Essai sur les études en Russie,
appositamente elaborato su richiesta dell’imperatrice, rinveniva
quel modello nella Prussia luterana, anziché nella Francia cattolica.
Le pagine del saggio, inviato a Caterina nel 1773, si rifacevano quindi
in maniera esplicita all’esperienza tedesca, segnatamente federiciana.
Tra l’altro, l’opera parve esercitare sulla regina un’impressione
ancora più grande di quella del Plan, inviatole tre anni
più tardi, nel 1776. Tuttavia, non fu Diderot soltanto
a rivolgere l’attenzione della zarina verso il caso tedesco, che
peraltro assicurava l’educazione di cittadini sia validi sia fedeli
al trono. Il rinnovato sistema scolastico di Federico II aveva preso piede
nel 1769 e, quattro anni più tardi, era stata inaugurata la Commissione
nazionale per l’istruzione in Polonia. Inoltre, una rilevanza ancor
maggiore assume qui il fatto che Caterina aveva appreso da Giuseppe II
in persona, nel corso della sua visita ufficiale in Russia, nel 1780,
dell’ottimo esito incontrato dal riassetto delle istituzioni scolastiche
avviato sei anni prima nell’Impero austriaco, al momento dello scoglimento
della Compagnia di Gesù. Caterina si era ormai profondamente convinta
che il potere politico fosse assai più illuminato della società
civile, concetto quest’ultimo ribaditole senza sosta da tutti i
suoi più fedeli collaboratori e consulenti, da Diderot allo “stimatissimo
Brown”, il medico e botanico inglese di cui all’epoca si parlava
tanto nell’Europa delle accademie scientifiche. A titolo di puro
esempio, Diderot rammenta nel Plan a “Sa Majesté”
che “elle a devant elle un champ vaste, un espace libre de tout
obstacle sur lequel elle peut édifier à son gré”.[20]
Se l’insospettata adulazione voltairiana per “la Nostra Signora
di San Pietroburgo” ancora oggi lascia perplessi alcuni storici
dell’età dei Lumi, Diderot, il quale peraltro vantava nei
confronti della sovrana un debito molto maggiore, conservò tuttavia
sempre un atteggiamento più discreto e dignitoso. Al momento in
cui entrò in contatto con Caterina, stava proseguendo non senza
fatiche la pubblicazione a Parigi della grande Encyclopédie
francese, per i tipi del Panckroucke.
E si può dire che furono le difficoltà economiche incontrate
a segnalarlo di nuovo all’attenzione della regina. Quest’ultima
non si fece sfuggire l’occasione per un colpo ad effetto che può
dirsi veramente magistrale, acquistando la biblioteca privata che Diderot
si era infine deciso a porre in vendita per far fronte alla crisi finanziaria
e lasciando poi al filosofo l’usufrutto vitalizio degli stessi libri.
Un trattamento davvero principesco, che ebbe come prima conseguenza quella
di lasciare senza parole Diderot, il quale si fece da allora in poi, lui
sempre cordiale ed espansivo di carattere, direttore di quel coro di lodi
che gli illuministi levavano in quegli anni alla “Semiramide del
Nord”.[21] Il filosofo
francese si gettò da quel momento anima e corpo nell’impresa
di reperire talenti per Caterina e di fornire consigli di ogni tipo ai
visitatori russi nella capitale francese. Fu poi sempre il Diderot a rendere
un favore non certo indifferente all’imperatrice, riuscendo a dissuadere
lo storico Claude de Rulhière, allora segretario dell’ambasciata
francese a San Pietroburgo, dallo stampare quei suoi Anecdotes,
in cui si potevano trovare manifeste allusioni circa l’implicazione
della regina nella tragica morte del marito Pietro III.
E fu ancora grazie al felice intervento diderottiano che lo scultore francese
Falconet si fece infine convincere ad andare in Russia, per erigervi il
noto monumento a Pietro il Grande, a sua volta immortalato nel Cavaliere
di bronzo di Puskin. Sempre il philosophe contribuì
ad avvicinare la zarina e Mercier de la Rivière, all’epoca
membro della cerchia di Raynal,[22]
autore del trattato De l’ordre naturel et essentiel des societés
politiques e per due anni consulente imperiale presso il procuratore
generale nell’opera di codificazione della Commissione legislativa
russa, impegnata nel 1767 nella nota redazione di un nuovo codice. I successivi
passi della sovrana furono, si sa, l’istituzione dei governatori
(nel 1775) allo scopo di decentrare l’azione governativa e la trasformazione
della nobiltà in una rigida corporazione.
7. Nel mese di ottobre 1773, mentre Caterina ancora si rigirava perplessa
tra le pagine scritte da Rousseau sul tema del contratto sociale, Diderot
prese coraggio per affrontare il lungo viaggio in Russia e arrivò
infine a San Pietroburgo. Si trattava di un viaggio divenuto ormai doveroso
verso la sovrana, ma ben visto anche dall’autorità centrale
parigina, che si augurava di poter sfruttare la fama del philosophe
allo scopo di un riavvicinamento diplomatico tra monarchia francese e
impero russo. La storia della cordiale amicizia tra il filosofo e la regina
è storia nota, fatta di frequenti tête-à-tête
privati e reciproca quanto sincera stima. Diderot veniva ricevuto da Caterina
mediamente tre pomeriggi alla settimana. In un primo momento, i temi dei
colloqui furono di ambito vastissimo, all’insegna di una notevole
libertà di espressione. Solamente in seguito la regina dovette
rendersi conto del carattere eminentemente teorico proprio dei progetti
diderottiani, astratti e assai poco adatti ad essere concretati nella
realtà specifica dell’Impero, costituita da esigenze pratiche
di vita troppo lontane dalle riflessioni dell’illuminista francese.
Lo riferisce il successivo resoconto scritto dall’imperatrice, la
quale rimprovera al philosophe di non lavorare che sulla carta,
che accetta ogni cosa, mentre a lei toccava invece lavorare sulla pelle
degli uomini, il che è ben altro.[23]
Della Russia Diderot vide assai poco all’infuori della capitale,
ma almeno ebbe la possibilità di vedere Caterina molto da vicino.
I lunghi incontri del filosofo con l’imperatrice, nell’autunno
del 1773, restano ancora degni della massima attenzione da parte dello
storico, comunque andarono poi le cose. Quei convegni pomeridiani erano
regolari nella loro totale informalità e mai Diderot si fece trasportare
dal suo altrimenti proverbiale entusiasmo. Lei era solita sedere sul divano
imperiale, lui nella poltrona di fronte. Forse, come ha notato Isabel
de Madariaga, “la cordialità con la quale fu accolto fece
sperare a Diderot di avere finalmente trovato una regnante disposta a
farsi educare nei principi dell’Illuminismo per poi metterli in
pratica nel governo. D’altro canto, come molti suoi contemporanei,
anch’egli era convinto che fosse più semplice riformare la
Russia della Francia: la Russia era terra vergine, era una pagina bianca
su cui la storia fino ad allora non aveva scritto nulla, un paese senza
strutture o istituzioni pre-esistenti”.[24]
Solitamente, Diderot preparava di volta in volta una piccola traccia con
quelli che sarebbero stati gli argomenti da affrontare nella discussione,
scrivendo note più o meno lunghe che leggeva a Caterina e che finivano
così per costituite la trama dei vari colloqui. Quelle carte sono
arrivate sino a noi e ci confermano, ancora una volta, l’estrema
libertà di espressione orale e scritta che regnava tra i due. Il
filosofo sottoponeva alla zarina le proprie idee non solo in materia di
educazione, ma anche di altri temi che figurano tra i cavalli di battaglia
dei Lumi, quali la tolleranza, il diritto, il divorzio (cui si dichiarava
favorevole) o ancora il gioco d’azzardo (al quale si diceva invece
contrario).[25] Diderot chiese
anche a Caterina di fornire la Russia di una legge successoria e di mantenere
in vita la Commissione legislativa, da lui intesa quale “depositaria
delle leggi” russe, nonché garante del consenso popolare
ai provvedimenti da lei emanati. La sollecitò anche ad incentivare
il più possibile gli studi di anatomia e le sottopose anche la
sua traduzione dell’Enquiry Concerning Virtue (1745) di Anthony
Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury, da lui voltato in francese
con il titolo di Principes de la philosophie morale, autentico
manifesto del primo Illuminismo inglese, fortemente intriso di richiami
platonici. Peraltro, abbiamo già detto come tutto questo insieme
di suggestioni fosse destinato a rimanere vivo solo sulla carta. Prigioniere
nella gabbia dorata delle parole, le idee diderottiane non potevano rapresentare
per la Russia del secondo Settecento un effettivo programma di riforme.
8. Così, la filosofia rimaneva inevitabilmente una cosa, la gestione
dell’apparato amministrativo un’altra. Erano molte, in quel
castello di nobili e generose convinzioni, le porte destinate a restare
malinconicamente chiuse. Si trattava infatti di progetti che la stessa
sovrana doveva sentire come di sicuro interesse sul piano puramente concettuale,
ma senza alcun riferimento preciso. Ha ragione la Madariaga a scrivere
che quelle idee “delineavano una forma mentis piuttosto che
un programma politico”,[26]
un modo di pensare e di rapportarsi al mondo piuttosto che non un’effettiva
capacità di incidere su di esso, nonostante tutta la bontà
insita nelle intenzioni. Diderot lasciò San Pietroburgo alla volta
della sua amata e odiata Francia il 4 marzo 1774, la nostalgia di casa
divenuta sempre più forte alla vigilia della partenza. Al momento
dell’addio con Caterina, avvenne il celebre scambio di doni, cui
in tanti hanno fatto riferimento. L’imperatrice si fece carico delle
spese di viaggio e gli mise a disposizione una carrozza. I due non si
sarebbero mai più rivisti. In Olanda, il filosofo fu ospite del
delegato russo all’Aja e, nel corso della permanenza presso Golycin,
predispose la stampa in francese degli statuti sull’istruzione e
dei regolamenti per gli orfanotrofi russi messi a punto per Caterina dal
ministro ‘lockiano’ Ivan Beckoi. Sempre in questa circostanza
stese le Considerations sur le Nakaz, altrimenti noti sotto il
nome di commenti circa la “grande istruzione” di Caterina,
inviati poi all’imperatrice solo dopo la morte di Diderot, tra la
fine del 1784 e l’inizio del 1785.[27]
Si era alla vigilia di un mondo nuovo e l’età delle rivuluzioni
europee, come la tradizione storiografica ha sottolineato, fece invecchiare
di colpo un secolo colmo di buoni propositi.
Fino a quando il filosofo rimase in vita, la regina continuò a
esprimere per lui un interesse ed una stima molto cordiali, ma l’amicizia
letteraria che sarebbe durata sino alla fine dei suoi giorni la trovò
solo nella persona del tedesco di nascita e francese d’adozione
Friedrich Grimm, direttore della nota Correspondance Littéraire,
il notiziario fondato dall’abate Raynal che vide l’imperatrice
di Russia tra i propri sottoscrittori. Con Grimm Caterina poté
non solo parlare, ma anche capirsi in profondità, diversamente
da quanto era accaduto con Diderot. I Mémoires redatti da
quest’ultimo per la sovrana sono il riflesso proprio di quel dialogo
tra due monologhi che tante volte dovette svolgersi nei pomeriggi trascorsi
a Palazzo d’Inverno, tra due superbi attori che si cercavano senza
trovarsi mai veramente. Consegnando alla storia una donna concreta e un
grande idealista.
[1] Il migliore resta forse
quello di F. MARCHAL, La culture de Diderot, Paris, Champion, 1999,
notevole anche sotto il profilo metodico.
[2] Cfr. S. ROTTA, “Destino
di Diderot”, Il lavoro nuovo, VI, 1950, p. 3; P. CASINI,
Diderot philosophe, Bari, Laterza, 1962; F. VENTURI, Giovinezza
di Diderot (1713-1753), Palermo, Sellerio, 1988. Riferimenti utili
anche nel saggio più complessivo di P. CASINI, Scienza, utopia
e progresso. Profilo dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 1994.
[3] Sul philosophe e
la cultura britannica, cfr. G. GOGGI, “L’ultimo Diderot e
la prima rivoluzione inglese”, Studi settecenteschi, VII-VIII,
1985-1986, p. 392; C. DEDEYEN, Diderot et la pensée anglaise,
Firenze, Olschki, 1987; A. STRUGNELL, “Diderot entre la Révolution
américaine et le libéralisme anglais”, Studi settecenteschi,
XI-XII, 1988-1989, p. 370.
[4] Cfr. P. T. D’HOLBACH,
Elementi di morale universale o catechismo della natura, a cura
di V. BARBA, Roma-Bari, Laterza, 1993; D. DIDEROT, Ritorno alla natura,
a cura di A. SANTUCCI, Roma-Bari, Laterza, 1993.
[5] Cfr. J. E. PERKINS, “Diderot
and La Mettrie”, Studies on Voltaire and the XVIIIth Century,
X, 1960, pp. 49-100; J. STAROBINSKI, “Le philosophe, le géomètre,
l’hybride”, Poétique, VI, 1975, pp. 8-23; H.
BERNSTEIN, “Diderot on scientific method”, Archives internationales
d’histoire des sciences, XXVIII, 1978, pp. 36-48; A. VARTANIAN,
“The Diderot’s rethoric of paradoxe or the conscious automaton
observed”, Eighteenth Century Studies, XIV, 1981, pp. 379-405;
M. F. SPALLANZANI, “Philosophus-philosophe. Descartes et gli illuministi
francesi”, Studi settecenteschi, XV, 1995, pp. 83-114.
[6] Cfr., in proposito, R. TROUSSON,
Images de Diderot en France, Paris, Champion, 1997; R. TARIN, Diderot
e la Révolution française, Paris, Champion, 2001.
[7] Cfr. E. CASSIRER, La
filosofia dell’Illuminismo, tr. it. Firenze, La Nuova Italia,
1936 [1932]; F. VENTURI, Le origini dell’Enciclopedia, Torino,
Einaudi, 1963. Due dei tanti, tantissimi saggi che si potrebbero qui menzionare.
[8] Cfr. D. DIDEROT, Oeuvres
complètes, edizione Lewinter, XI, 776-778. Si vedano inoltre
“Les Oeuvres complètes de Diderot: éditer les manuscrits”,
Studi settecenteschi, XIV, 1994 (saggi di G. DULAC, J. VARLOOT,
M. DELON, R. DERNÉ, D. KAHN, A. LORENCEAU, J.-N. PASCAL, G. GOGGI).
[9] Cfr. P. CASINI, Newton
e la coscienza europea, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 117-118.
[10] Cfr. J. G. KRAKEUR-R.
L. KRUEGER, “The mathematical writings of Diderot”, Isis,
XXXI (1941), pp. 219 e segg.
[11] Cfr. G. RUDÉ,
L’Europa del Settecento. Storia e cultura, tr. it. Roma-Bari,
Laterza, 1993 [1972], pp. 144 e segg., 229 e segg.
[12] Cfr. S. ROTTA, “L’Accademia
fisico-matematica ciampiniana”, in Cristina di Svezia. Scienza
e alchimia nella Roma barocca, Bari, Dedalo, 1990, pp. 99-186. Sulla
figura della regina Cristina e sul suo universo di relazioni mi si consenta
di rinviare anche al mio “Scienziati e accademie nel secondo Seicento.
Scienza e storia in Giovanni Giustino Ciampini”, In Novitate,
novembre 2002, pp. 69-78.
[13] Cfr. V. FERRONE, D. ROCHE,
Storia e storiografia dell’Illuminismo, in Illuminismo.
Dizionario storico, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 581.
[14] Aspetto ridiscusso da
S. ROTTA, “Maturazione e contraddizioni della cultura europea nell’Illuminismo”,
in Storia d’Italia e d’Europa, V, Milano, Jaca Book,
1981, pp. 129 e segg. Ricostruzione esemplare, da me qui ampiamente utilizzata.
Altrettanto splendido rimane il profilo delineato solo un paio d’anni
prima da E. DI RIENZO, Il principe, il mercante e le lettere. Per una
storia dell’intellettuale francese dall’Ancien régime
alla rivoluzione, Roma, Bulzoni, 1979.
[15] Su questi temi cfr. R.
MINUTI, Oriente barbarico e storiografia settecentesca, Venezia,
Marsilio, 1994.
[16] L. BERGERON, F. FURET,
R. KOSELLECK, L’età della rivoluzione europea (1780-1848),
tr.it. Milano, Feltrinelli, 1970 [1969], pp. 122 e segg.
[17] ROTTA, Maturazione
e contraddizioni della cultura europea nell’Illuminismo, p.
151.
[18] Ibidem, p. 153.
[19] Cfr. P. DEANE, La
prima rivoluzione industriale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1990 [1965].
[20] DIDEROT, Oeuvres complètes,
III, 416-428.
[21] Ibidem, III, 441.
[22] Cfr., su quest’ultimo,
almeno G. ABBATTISTA, “La prima volta dell’abate Raynal. L’Histoire
du Stadhoudérat e il repubblicanesimo olandese”, Studi
settecenteschi, XVII, 1997, pp. 111-151.
[23] Cfr. L. P. SÉGUR,
Mémoires ou souvenirs et anecdotes, III, Paris, s.e., 1827
[1785], pp. 36-38.
[24] I. MADARIAGA, Caterina
di Russia, tr. it. Torino, Einaudi, 1988 [1981], p. 454. Cfr., in
proposito, anche E. TORTAROLO, “Un inedito di Diderot a Berlino.
Le Questions à Catherine II e Girolamo Lucchesini”,
Rivista Storica Italiana, CIV, 1992, passim.
[25] Cfr. D. DIDEROT, Mémoires
pour Catherine II, a cura di P. VERNIÈRE, Paris, PUF, 1966.
[26] MADARIAGA, Caterina
di Russia, p. 455. La biografia definitiva, attenta e al dato politico
e a quello intellettuale. E anche la fine di tante leggende storiografiche.
[27] Cfr. D. DIDEROT, Oeuvres
politiques, a cura di P. VERNIÈRE, Paris, PUF, 1963, pp. 331
e segg. F. DIAZ, Scritti politici di Diderot, Torino, UTET, 1967;
F. DIAZ, "I filosofi e il potere", in Per una storia illuministica,
Napoli, Guida, 1973, pp. 7-33; F. DIAZ, "L’ultimo Diderot dall’entusiasmo
alla rinunzia, dalla rinunzia all'entusiasmo", Intersezioni, IV,
1984, pp. 533-547; F. DIAZ, "Discorso sulle Lumières. Programmi
politici e idea-forza della libertà", in L'età dei Lumi.
Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, I,
Napoli, Jovene, 1985, pp. 101-163.