1. Nelle pagine seguenti cercherò di illustrare le ragioni che
hanno ispirato un percorso di ricerca, guidandone l’orientamento
– da una riflessione all’altra e di traccia in traccia –
verso esiti relativamente distanti, se non altro in termini cronologici,
rispetto al punto di partenza originario[1].
Quest’ultimo è rappresentato da un tema particolare scaturito
dal lavoro che chi scrive da tempo sta svolgendo nell’ambito di
un progetto internazionale per l’edizione critica della Histoire
des deux Indes dell’abate Raynal (1770-1780). Il tema in questione,
che ha offerto lo spunto per l’apertura di un filone di ricerca
autonomo, è costituito dalla rappresentazione di un gruppo umano
ben noto alla cultura scientifica e all’opinione settecentesche,
già inserito nelle tassonomie antropiche a partire dalla classica
linneana e tuttavia ancora oggetto tra ‘700 e ‘800 di contraddittorie
raffigurazioni e dunque di curiosità e di fantasie, ossia i cosiddetti
Ottentotti dell’Africa australe. Anche su questa complessa realtà
etnico-antropologica indicata dalle lingue europee col termine arbitrario
di Ottentotti, di origine olandese – l’odierna etnologia usa
il termine più appropriato di “Khoisan” –, quella
grande enciclopedia storica del colonialismo moderno che è l’Histoire
raynaliana offre, come per molti altri temi centrali del coevo dibattito
storico, politico ed economico, una sintesi delle nozioni, dei punti di
vista, delle opinioni correnti in un’epoca in cui la fonte principale
di conoscenza su materie del genere – in modo particolare con riferimento
a regioni della Terra e a popolazioni ancora così poco familiari
– sono le testimonianze letterarie dei viaggiatori, spesso fantasiose
e sensazionalistiche, assai più che l’osservazione diretta,
accorta e ordinata di scienziati e naturalisti. Nelle pagine di Raynal,
come sempre formicolanti di informazioni, spunti, annotazioni e allusioni,
convivono la tendenza alla descrizione antropologica e alla definizione
dei caratteri sociologici, muovendo da un intento scientifico, oggettivo,
alieno di giudizi di valore, anche a prezzo di suscitare dubbi sul grado
di sviluppo umano civile degli uomini e della società ottentotti
sotto osservazione, e un chiaro desiderio di mitizzazione all’inverso
di un tipo umano che fino a quel momento era stato spesso rappresentato
come l’anello più remoto della catena dell’essere e
come il diaframma ultimo, o primo, a seconda del punto di vista, che separava
l’uomo dall’animale: una rappresentazione negativa, invero,
che avrebbe continuato ad essere in voga molto a lungo ben dopo Raynal.
Due le questioni più problematiche collegate all’esistenza
degli Ottentotti fin dalla seconda metà del sec. XVII, quando i
coloni olandesi, fondato l’insediamento del Capo, avrebbero cominciato
una lenta penetrazione nelle zone interne dell’estremo sud del continente
africano. La prima, di tipo antropologico-culturale: come doveva giudicarsi
la condizione di società che presentavano il grado infimo di sviluppo
civile tra quelle conosciute ? Che rapporto aveva tale condizione di vita
con le nozioni di felicità correnti nel mondo europeo ?
La seconda, invece, di tipo squisitamente anatomico-fisiologico: la presenza
di talune particolarità fisiche consentiva di considerare gli Ottentotti
come pienamente appartenenti ad un unico genere umano o non dimostrava
piuttosto l’esistenza di razze umane differenziate in modo sostanziale
e irreversibile; e in questo secondo caso, non era da trovare proprio
qui la spiegazione dei diversi gradi di sviluppo lungo una linea che dalla
condizione brutalmente e totalmente selvaggia portava a forme socio-culturali
via via più complesse, che attraverso le società barbare
raggiungeva le estreme espressioni di incivilimento realizzatesi nell’Europa
moderna ? Gli Ottentotti parevano prestarsi particolarmente bene a riflettere
per questi temi, poiché tutte le testimonianze disponibili li raffiguravano
come una popolazione prossima ad una condizione di reale animalità,
con sviluppo intellettivo, forme di vita materiale, aspetto fisico che
li approssimavano alla pura brutalità, cosicché per taluni
viaggiatori si trattava senza dubbio del tipo umano più vicino
alle scimmie. Non solo, ma da parecchi decenni, almeno dalla fine del
‘600, le fonti (sembra che la prima testimonianza sia stata dell’olandese
Olfert Dapper nella sua Naukeurige Beschrijvinge der afrikaensche gewesten
van Egypten, Barbaryen, Libyen, Biledulgerid, Negroslant,
Guinea, Ethiopiën, Abyssinie, Amsterdam, 1668) riferivano
dell’esistenza di un dettaglio anatomico proprio delle donne ottentotte
– il cosiddetto “grembiule”, “tablier” o
“apron” – che faceva senz’altro pensare a una
razza umana diversa, tale da infrangere il mito dell’unità
del genere umano: si tratta di quella che veniva descritta sommariamente
come una ampia plica di epidermide che dal basso ventre ricadeva sui genitali
a coprirli per intero, come una sorta di gonnellino naturale. Sull’esatta
natura e conformazione di questo “tablier” gli scienziati
e gli uomini di cultura tutti avrebbero continuato lungamente ad interrogarsi,
ben oltre la fine del ‘700, per stabilire di cosa esattamente si
trattasse, se fosse una particolarità innata o acquisita, naturale
o artificiale, se costituisse un organo distinto e autonomo con una sua
propria funzionalità, se invece fosse solo una escrescenza priva
di specificità fisiologiche, insomma, un accrescimento che configurava
una pura diversità di proporzioni e non di funzioni. Né
si trattava dell’unica bizzarria fisica che pareva fare degli Ottentotti
una razza a sé, perché a questa immagine di stupidità
brutale contribuivano altri usi e particolari fisici: dal monorchismo
ottenuto con l’ablazione di un testicolo nei bambini, all’amputazione
di una falange del mignolo della mano sinistra, all’abitudine di
cospargere il corpo e i capelli di grasso animale, poi impastato di terriccio
fino a ottenere una specie di crosta a parziale copertura dell’epidermide
(chiaramente una protezione molto efficace dai raggi del sole, molto diffusa
presso varie popolazioni africane).
2. D’altra parte, lasciando la questione del “tablier”
ai naturalisti in senso stretto, i filosofi e gli studiosi dell’uomo
in generale, per parte loro, non avevano mancato di presentare e usare
l’immagine dell’Ottentotto in un duplice senso: selvaggio
“ignobile” per taluni, “nobile” per altri. Da
un lato, dunque, ci troviamo al cospetto di un simbolo e sinonimo di primitività
estrema, di stupidità e di abbrutimento (da Linneo a Genovesi,
da Voltaire a Chateaubriand, per arrivare addirittura a Leopardi); ma
dall’altro, al contrario, quello che viene proposto è un
esempio di condizione umana prossima al vagheggiato stato di natura, ossia
come variazione sul tema del buon selvaggio, analoga a quelle che, tramontata
l’attenzione prevalente verso i selvaggi caraibici, brasiliani o
nordamericani, ora prendeva spunto da nuovi tipi umani. Tra questi i tahitiani,
la cui straordinaria bellezza fisica sembrava a Diderot, James Cook e
Joshua Reynolds rispecchiare una virtù morale di assoluta naturalità.
Oppure, appunto, gli Ottentotti: un Ottentotto idealizzato, selvaggio
allo stato puro e perfetto espediente per esemplificare forme di vita
prossime allo stato di natura, come nel Rousseau del Discours sur l’inégalité,
e per personificare forme letterarie di straniamento, come nel “dialogo
tra il Pedante e l’Ottentotto” di Alessandro Verri apparso
su Il Caffè nel 1765.
Ci troviamo così di fronte a una raffigurazione bifronte, che,
elaborata nel corso del ‘700, continuerà a resistere nella
sua contraddittorietà nella cultura europea ben addentro l’800,
alimentando curiosità, domande, desiderio di conoscere la realtà
nel modo più oggettivo possibile. Quando Raynal scrive, negli anni
’70, è certo che si dispone ormai di tutta una serie di testimonianze
tendenti a riscattare l’Ottentotto da una rappresentazione fisica
e morale totalmente negativa che ne faceva un essere degradato, vicino
alla bestialità pura e tipico esempio di diversità razziale.
Viaggiatori di notevole levatura intellettuale, come Cook e Forster, Bernardin
de Saint-Pierre, Querhoënt, Berg, Gordon, anteriori o coevi alla
composizione dell’Histoire des deux Indes di Raynal e di
cui faranno tesoro naturalisti come Blumenbach e Buffon, e altri invece
immediatamente posteriori a Raynal, come Thunberg e Le Vaillant, contribuiranno
a sfatare il mito negativo dell’Ottentotto, in certi casi con una
dichiarata intenzione, come nel caso di François Le Vaillant, che
viaggia negli anni ’80 e la cui relazione appare negli anni ’90
con notevole successo europeo, di contrapporre la naturale virtuosità
del selvaggio alla corruzione e alla crudeltà degli Europei che
lo vittimizzano e ne stravolgono il modo di vita, le abitudini, gli usi,
attentando alla stessa sopravivenza di questa etnia sfortunata. Raynal
è esattamente su questa linea.
Questo non basterà tuttavia a fare definitiva chiarezza su alcune
questioni controverse, alle quali, anzi, altre si aggiungeranno. Sul “grembiule”,
anche una volta abbandonata l’idea della “mostruosa difformità”,
segno di irrimediabile diversità razziale, le conclusioni non saranno
definitive e continuerà a restare una certa confusione. E stranamente:
se pensiamo che un medico olandese, Wilhelm ten Rhyne, già molti
anni prima, nel 1686, aveva descritto precisamente il cosiddetto “grembiule”
come un fenomeno di macroninfia, anche se restava da stabilire se si trattasse
di un caso molto frequente, oppure di una caratteristica generale di tutte
le donne ottentotte. Comunque, dal primo viaggio di Cook (1769-1771) in
poi non sarà più possibile fantasticare sul “grembiule”.
L’attenzione resterà invece desta su altri aspetti della
questione: la macroninfia è un effetto del clima ? È il
risultato di manipolazioni artificiali obbedienti a credenze, rituali,
criteri estetici, richiami sessuali ? Oppure si tratta di una specie di
organo dotato di una sua particolarità anatomica e fisiologica
? D’altra parte, gli Ottentotti continueranno a suscitare forti
curiosità oltre che per le particolarità anatomiche che
abbiamo menzionato, anche per un’altra, che comincia ad essere osservata
e descritta quasi contemporaneamente alla fine del ‘700 dall’allievo
di Linneo Carl Thunberg (Voyages au Japon, par le Cap de Bonne-Espérance,
Paris, 1792: nell’ed. Paris, 1795, I, 386) e da François
Le Vaillant (Second Voyage en Afrique, 1795 II, 187-188):
ossia quella che sarebbe poi stata definita “steatopigia”,
la presenza, cioè, nelle donne ottentotte (ma il preciso Le Vaillant
parla correttamente di “Houzouanas”), di una massa adiposa
depositata sulle natiche a conferir loro un aspetto enorme e protuberante
all’infuori e in alto. Anche di questo si continuerà a parlare
negli ambienti dei naturalisti fino nel tardo ‘800 e ogni occasione
di osservazione di membri delle etnie ottentotta o boscimane (termine,
quest’ultimo, usato per la prima volta dal francese Nicolas-Louis
de La Caille [1712-1762] nel 1763 nell’edizione postuma dei suo
viaggi al Capo e poi ripreso da André Sparrmann nel 1787, anche
se la prima chiara distinzione tra i due gruppi risale, a quanto pare,
proprio a Le Vaillant) porterà alla produzione di dotte memorie
sulla steatopigia nelle donne, per esempio con Raphaël Blanchard,
nell’Étude sur la stéatopygie et le tablier des
femmes boschimanes (in “Bulletin de la Société
Zoologique de France”, VIII, 1883, pp. 34-77), con Paul Topinard,
autore di La stéatopygie des Hottentotes du Jardin d'acclimation:
conclusions d'une conférence faite le 31 juillet 1888 au Jardin
d'acclimation (in “Revue d’anthropologie”, n. 2,
15 Mars 1889, pp. 194-199) e con Cesare Lombroso, prima negli Studi
sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle ottentotte, cammelli
e zebù (Torino, 1879) e che in seguito, nel suo L’uomo
bianco e l’uomo di colore (Torino, 1892), dedicherà una
appendice alla descrizione del “cuscino posteriore delle Ottentotte”,
tornando ad occuparsi della questione ne La Donna delinquente, la prostituta
e la donna normale (1893). La citazione della memoria di Topinard
(1830-1911), uno dei massimi antropologi francesi
dell’800, allievo di Paul Broca, fondatore con Jacques Bertillon,
Isidore
Geoffroy Saint-Hilaire, Louis-Pierre Gratiolet, della Société
d’anthropologie nel 1859, ci consente di fare un passo in avanti
nella ricostruzione delle tappe che hanno fatto evolvere la ricerca nella
direzione che ha finalmente assunto.
3. Spunto dell’articolo del 1889 sulla steatopigia era stata una
conferenza tenuta da Topinard al “Jardin acclimatation” di
Parigi, un’area che, aperta nel 1850 per l’esibizione di animali
e di vegetali provenienti da ogni parte del mondo, era divenuta una sorta
di laboratorio en plein air per l’osservazione delle razze
umane. Qui, tra il 1877 e il 1891 erano stati ripetutamente esposti agli
occhi del pubblico francese, ma anche fotografati, misurati e studiati
dagli antropologi francesi, membri di popolazioni nubiane, sudanesi, ashanti,
ottentotte, boscimane, somale, etiopi, zulu, dahomiane: esattamente ciò
che sarebbe avvenuto, niente affatto solo in Francia, anche in altre occasioni,
come le esposizioni internazionali, mondiali o universali, per esempio
quelle di Parigi del 1878 e del 1889, quella di Amsterdam del 1883, di
Chicago del 1893, di St. Louis del 1904, per ricordarne solo alcune delle
più celebri. L’esibizione in pubblico di membri di etnie
extraeuropee – indiani nordamericani, lapponi, eschimesi, calmucchi,
indios sudamericani, siamesi, tailandesi, malesi, giavanesi, filippini
e naturalmente africani delle più diverse provenienze, a rispecchiare
la crescente penetrazione bianca nel “continente nero” –
costituisce non solo un capitolo della storia dell’osservazione
antropologica, ma anche uno dei fenomeni più interessanti della
storia sociale europea in un’epoca in cui imperialismo, colonialismo,
diretta dominazione occidentale sul resto del mondo raggiungono forse
la massima intensità, producendo insieme il progetto di un controllo
globale da parte dell’Europa, l’idea dell’espansione
inevitabile e storicamente necessaria dell’economia e della civiltà
dell’Occidente, l’illusione che questo sia il risultato fatale
e il senso più profondo del progresso in ogni suo aspetto e la
cinica conclusione che l’umanità non europea debba rassegnarsi
a giocare un ruolo subordinato nel copione scritto dall’imperialismo
economico, politico e culturale. In occasione del rutilante spettacolo
delle grandi manifestazioni espositive e fieristiche della seconda metà
del sec. XIX, che tendono ormai ad andare oltre le semplici rassegne della
produzione industriale e della tecnica moderna, agli appartenenti all’umanità
non europea si chiede di fornire i figuranti di una gigantesca messa in
scena, comparse di un’esposizione di cui il pubblico occidentale
è assetato, spoglie umane delle conquiste, esibite come trofei,
date in pasto sia alle masse, a saziarne le curiosità, la voglia
di divertimento e di insolito, sia alla scienza, ansiosa di tutto misurare
e catalogare creando gabinetti di osservazione artificiali e rassicuranti.
L’Europa imperialistica – come gli Stati Uniti post-guerra
civile – ha regolato almeno in parte e almeno formalmente i conti
con la schiavitù e addirittura cerca di nobilitare le proprie imprese
africane in nome dell’antischiavismo, ma da un lato procede alla
spartizione territoriale dell’Africa, cercando di nobilitare l’accaparramento
del continente in nome della diffusione del messaggio cristiano, e, dall’altra,
è completamente dominata dall’idea di una gerarchia razziale
del genere umano, del quale la componente di pelle nera non andrà
più trasportata in catene fuori dal continente perché conviene
ora assoggettarla nella sua stessa terra e al tempo stesso continua ad
essere associata a immagini di animalità: perciò potrà
convenientemente essere rimirata nei recinti degli “zoo umani”
e delle esposizioni etnografiche. Gli “zoo umani”, che vanno
ad affiancarsi ai parchi zoologici in via di apertura nelle capitali europee
nei primi decenni dell’800, appartengono ad un genere di spettacolarità,
quello del “freak show”, dell’esibizione di mirabilia,
di curiosità, di esotismi, di mostri e deformità animali
e umane, vive o morte, di cui grande imprenditore fu il celebre americano
Phineas T. Barnum (1810-1891) e altri famosi esempi d’oltreoceano
furono Guillermo Antonio Farini, il “Grande” Farini (1838-1929),
l’impresario di “Krao, The Missing Link,”, e, per certi
loro aspetti, i “Wild West Show” di Gordon W. Lillie e di
William Cody, inaugurati nel 1883 e nel 1886.
Non si tratta, naturalmente, di un fenomeno nuovo nella storia socio-culturale
dell’Occidente europeo. Nel secolo XIX cambiano certamente le proporzioni,
i protagonisti, i destinatari, gli scenari, gli scopi e la capacità
di incidere sull’opinione da parte di eventi ormai capaci di suscitare
vastissima risonanza grazie all’illustrazione a stampa e alla fotografia.
Resta però, al fondo, quell’esigenza insieme celebrativa,
trionfalistica, propagandistica, voyeuristica che aveva fatto sì
che apoteosi e trionfi nell’antichità classica, corti medievali,
regge rinascimentali, processioni regali, cortei funebri, feste, società
di corte di antico regime, salons aristocratici, gabinetti di savants
avessero già accolto non solo servitori, valletti e concubine di
colore, ma anche “gingilli di lusso”, “voltigeurs”,
suonatori, arcieri, lottatori, nani o giganti di ogni colore e fisionomia:
esotici figuranti da esibire per particolari capacità artistiche,
abilità fisiche, diversità o stranezza fisionomica o semplicemente
a testimonianza del rapporto di forza, da superiore a inferiore, esistente
tra l’espositore e l’esposto (DEBRUNNER, 1979, pp. 18 sgg.,
RICCI, 2002, pp. 43 sgg.).
4. L’insaziabile curiosità che abbiamo visto concentrarsi per tutto il ‘700 sugli Ottentotti può spiegare perché probabilmente non il primo cronologicamente, ma di certo uno dei più celebri casi di esposizione di un essere umano africano davanti a un pubblico europeo abbia avuto per oggetto proprio una donna ottentotta, la famosa Sarah Baartmann, nota come la “Venere Ottentotta”. Portata a Londra dalla Colonia del Capo nel 1810 da improvvisati impresari bianchi, da questi esibita in pubblico a pagamento, successivamente trasferitasi a Parigi nel 1814 e qui morta nel dicembre 1815, Sarah Baartmann finirà dissecata e messa sotto formaldeide dal grande anatomista Cuvier e poi riprodotta in un moulage destinato fino al 1982 a stupire i visitatori del parigino Musée de l’Homme. L’interesse di questo episodio deriva da molteplici ragioni, non ultimo il fatto che la sua memoria è stata di recente esplorata e ravvivata da un movimento politico-culturale sudafricano che ha ottenuto l’interessamento attivo del Sudafrica democratico post-apartheid di Mandela e M’beki e che ha finito con l’ottenere, nell’estate 2002, la restituzione delle spoglie mortali della sfortunata ottentotta che per alcuni anni aveva tenuto banco nel mondo degli spettacoli e delle attrazioni di Londra e Parigi. Testimonianza senza dubbio suggestiva – e non unica nel suo genere (si pensi alla mummia dell’uomo boscimane detto “El Negro” presso il Museo di Storia Naturale di Banyoles, in Spagna, e a collezioni di teste umane mummificate come quelle Khoisan del British Museum, replica in grande di precedenti, più modeste collezioni private come quella settecentesca del cardinale Stefano Borgia) – della percezione tuttora acuta di certi episodi come autentiche ferite inferte dall’arroganza imperialistica ai popoli non europei e, come tali, in attesa riparazione. Dal nostro punto di vista, però, una storia come quella della “Venere Ottentotta” va ricordata perché si tratta forse del primo caso – ricerche più approfondite ce lo rivelerebbero probabilmente come non il primo in assoluto – di programmatico sfruttamento sia per gli obiettivi di profitto di una pur rudimentale imprenditoria dello spettacolo sia per le crude esigenze della scienza anatomica: un caso, per di più, di cui ci è rimasta una quantità non indifferente di testimonianze documentarie, a stampa e iconografiche e del quale numerose analisi critiche sono apparse in anni recenti in Europa, America e Africa, ad opera di critici letterari, storici del costume, dell’arte e dello spettacolo, studiosi di storia di genere di entrambi i sessi, femministe militanti, poeti, artisti figurativi, cineasti e autori di teatro. Una storia, dunque, questa della “Venere Ottentotta”, che si ricollega all’indietro con le intense discussioni settecentesche sulla natura e i caratteri di quelle popolazioni sudafricane, ma che appartiene anche, come archetipo, ad un contesto tutto ottocentesco: quello, appunto, degli spettacoli etnografici, “ethno-show”, “Völkerschauen”, esposizioni umane, organizzate all’interno di giardini zoologici, circhi, esibizioni itineranti, oppure, in modo più sistematico e con ambizioni più specificamente scientifiche, nell’ambito della grandiose esposizioni industrial-commerciali e artistiche: periodici appuntamenti che nei maggiori paesi europei, a partire dalla metà del secolo XIX, si posero come occasioni autocelebrative e propagandistiche della potenza, del progresso e delle risorse economiche, culturali, tecnologiche e scientifiche.
5. Nel contesto del “discorso” di autoesaltazione formulato
all’interno delle grandi esposizioni universali, la presenza di
gruppi umani non europei e soprattutto provenienti dal continente africano,
il cui entroterra si stava cominciando appena a conoscere con maggiore
precisione, assolveva a una funzione evidente: mostrare l’opposto
speculare della civiltà avanzata, offrire una specie di repertorio
di forme esotiche di umanità capace di rafforzare l’autopercezione
dell’identità europea, soddisfare visivamente il gusto occidentale
per il sensazionale e le fantasie accese dai resoconti dei viaggiatori
nel “continente nero”, ma anche dare la possibilità
ai cultori di discipline in via di consolidamento come l’etnologia,
l’antropologia, con la sua variante antropometrica, di compiere
osservazioni, rilevamenti, accurate misurazioni e catalogazioni. Dell’insieme
di questi fenomeni, noti ma non sempre approfonditi, quando non sorprendentemente
trascurati, nell’ambito delle storie dell’antropologia, del
teatro etnico, della storia del folklore, dell’etnomusicologia o
della fotografia, hanno cominciato ad occuparsi, insieme alla storia economica,
col suo consolidato interesse per le grandi esposizioni ottocentesche,
discipline storiografiche, come la storia sociale, la storia della cultura,
la storia della mentalità. E da poco disponiamo di una prima messa
a punto, grazie ad una serie di indagini che hanno cercato di investigare
con una certa ampiezza il variegato mondo di quelli che sono stati definiti
“zoo umani”. Una recente raccolta di saggi (ZOOS HUMAINS,
2002) ha delineato un variegato contesto entro il quale acquistano
senso non solo la storia della “Venere Ottentotta” e dei numerosi
gruppi “indigeni” messi in mostra nell’Europa ottocentesca,
ma perfino certi tratti caratteristici del vissuto e all’immaginario
del mondo mediatico novecentesco e del terzo millennio. È precisamente
questo genere di studi che ha offerto la cornice generale entro la quale
è stato possibile impostare in modo problematico le ricerche di
cui parlerò tra poco e che costituiscono il punto di arrivo –
e insieme di partenza – del percorso fin qui delineato e che si
snoda seguendo il filo rosso della riflessione sulla la diversità
umana: dai dibattiti teorici settecenteschi, appunto, alle esibizioni
e ai contributi scientifici del primo Ottocento, per arrivare al mondo
delle grandi esposizioni e degli spettacolo etnografici dell’Inghilterra
vittoriana, della Germania bismarckiana, della Francia alla vigilia della
belle époque, della Svizzera, ma anche dell’Italia
umbertina.
La raccolta di saggi sopra citata investiga a tutto campo tra ‘800
e ‘900 il fenomeno degli “zoo umani”, che si può
considerare come l’evoluzione e la generalizzazione di fenomeni,
come quello della “Venere Ottentotta”, avvenuta dietro la
spinta di elementi strettamente interconnessi: innanzitutto la nascita
della società industriale e la direzione imperialistica e colonialista
decisamente imboccata dalla politica europea nell’età della
seconda rivoluzione industriale, ma anche l’affermarsi dei miti
scientisti e positivisti del progresso, dell’onnipotenza e delle
meraviglie tecnologiche, della superiorità della civiltà
occidentale e dei suoi fondamenti razziali, e, infine, l’avvento
dell’imprenditoria capitalistica nel mondo dello spettacolo, l’apparizione
dell’intrattenimento e della festa popolare di massa, i profondi
mutamenti nei sistemi di comunicazione pubblica legati ai giornali popolari
e illustrati e alla fotografia. Una ricognizione, questa, sicuramente
di estremo interesse e ricchezza, che presenta numerosi spunti di ricerca
e di riflessione, ma che in certi casi lascia assai insoddisfatti e rischia
addirittura di produrre un’immagine distorta, come nel caso delle
brevi e francamente deludenti pagine dedicate all’Italia umbertina
e giolittiana (ZOOS HUMAINS, 2002, 239-243). Da quelle pagine si ricava
l’impressione che in Italia il fenomeno delle esibizioni di esseri
umani – in questo caso esclusivamente africani, data la natura degli
interessi coloniali italiani – sia stato insignificante e comunque
legato non tanto al mondo dell’imprenditoria dello spettacolo, delle
esposizioni o della scienza, quanto soprattutto alle iniziative missionarie.
Ora, se è certamente vero che gli ambienti missionari si fecero
promotori sia dell’invio in Italia di giovani conversi da avviare
al sacerdozio sia di importanti operazioni propagandistiche consistenti
nel trasporto in Italia di rappresentanti di popolazioni africane per
dimostrare, in occasione di eventi espositivi, il successo o le prospettive
dell’evangelizzazione, è altrettanto vero che l’Italia
post-unitaria, umbertina e giolittiana, per non parlare di quella fascista,
conobbero una sempre più significativa presenza di uomini, donne
e bambini africani giunti nel nostro paese in obbedienza al medesimo gusto
per l’esotico, il selvaggio, il primitivo che ovunque in Europa
stava alimentando l’industria dello spettacolo etnico e connotando
le sempre più numerose imprese espositive nazionali, internazionali
e mondiali che andarono affermandosi nelle maggiori città europee,
non escluse città italiane che furono sedi di importanti esposizioni
tardo-ottocentesche, come Torino o Palermo. È vero che Torino o
Milano, pur con i loro teatri specializzati, rispettivamente “Rossini”
e “Balbo”, e “Follia”, non ebbero niente di paragonabile
alle Folies Bergère o al Saint-Pauli di Amburgo, ma questo non
basta per concludere che lo spettacolo o l’esposizione etnici furono
da noi un fenomeno trascurabile e che, se presenza africana vi fu, questa
sarebbe da collegare alle sole intraprese missionarie.
6. Sono stati sufficienti alcuni sondaggi in questa direzione per approdare
ad una constatazione di fatto che ha immediatamente innescato l’apertura
di un fronte di ricerca nuovo e promettente. Possediamo una notevole messe
di studi sul rapporto tra colonialismo italiano e lo sviluppo degli studi
antropologici in Italia, sulla raffigurazione (letteraria, giornalistica,
iconografica, museologica e fotografica) dell’Africa nell’opinione
pubblica italiana nelle fasi iniziali del colonialismo in Eritrea, all’epoca
della guerra di Libia e poi della guerra d’Etiopia, sulle iniziative
propagandistiche del fascismo, anche di tipo espositivo, tese a celebrare
e popolarizzare l’idea di impero e dell’Africa come terra
promessa per le energie del regime. Nessuno studio, tuttavia, ha ancora
approfondito in modo conveniente il tema delle forme di presenza e di
esposizione umana (africana) e di spettacolo etnico (africano) in Italia
alla fine dell’800, a partire cioè dal momento in cui l’Africa
diviene anche per l’Italia, dopo la fase dei viaggi esplorativi,
scientifici e missionari, oggetto di mire espansionistiche e colonizzatrici.
Fa parziale eccezione il pur interessante volume collettaneo L’Africa
in vetrina (AFRICA IN VETRINA, 1992), che tuttavia si concentra quasi
esclusivamente sulla prima metà del ‘900. Il meritorio tentativo
di inventariazione delle esposizioni coloniali che vi è presentato
ha infatti una vistosa omissione relativa proprio al secolo XIX (BONO,
in AFRICA IN VETRINA, 1992). Forse non si tratta tanto di una lacuna
accidentale negli studi, quanto di una dichiarata sottovalutazione dell’importanza
di questi fenomeni ai fini dello studio delle raffigurazioni collettive
e della formazione delle mentalità e dell’opinione pubblica,
da parte di una storiografia che, nel compiere una radicale revisione
della storia del colonialismo italiano, si è giustamente, ma forse
esclusivamente concentrata sull’”alta politica” e sullo
studio dell’opinione pubblica con riferimento ai grandi fatti della
storia politica, militare, coloniale e delle relazioni internazionali.
Ma, a questo proposito, suona sempre attuale l’ammonimento di Federico
Chabod: non potersi studiare la politica estera di un paese se non in
stretto, costante riferimento non solo alla politica internazionale e
interna, ma anche alla cultura, allo stato dell’opinione e delle
mentalità, alle forme del sentire generale e popolare su grandi
temi quale certamente fu, nell’Italia di ‘800, l’espansionismo
coloniale in Africa. E da questo punto di vista può apparire decisamente
riduttivo liquidare sbrigativamente e quasi con scherno singoli episodi,
quasi fossero casi unici ed isolati, interpretandoli come solo sintomatici
di “incredibili” approssimazione e volontà mistificatoria
da parte di una classe politica votata all’inganno e ad un colonialismo
cialtrone e farsesco (DEL BOCA, 1992, 166).
In realtà, tali episodi rientrano a pieno titolo nel contesto della
grande storia europea delle esposizioni umane come specifico prodotto
dell’età dell’imperialismo maturo e sono perciò
caratterizzati da un linguaggio e da una logica che richiedono un approccio
metodologico adeguato e una conseguente ricerca, selezione e analisi delle
fonti. Del resto, più in generale, non disponiamo nemmeno, per
il nostro paese, di una storia della presenza nera africana in età
tardo-moderna e contemporanea paragonabili a quelle esistenti per paesi
con una tradizione coloniale o con una consuetudine interetnica ben più
consolidate delle nostre, come l’Inghilterra, la Francia o gli Stati
Uniti, se facciamo eccezione per i cenni sparsi – relativi però
alla sola età moderna – contenuti nella vasta rassegna di
Debrunner (DEBRUNNER, 1979, SHYLLON, 1977).
In risposta alle domande su chi e quanti furono e a quali categorie appartennero
i neri fisicamente presenti nell’Italia ottocentesca, quali le regioni
di provenienza – africane o europee – e quali i canali e le
modalità di arrivo, quali le ragioni e i tempi della venuta, quale
l’accoglienza da parte della popolazione ospitante, quali gli esiti
della permanenza abbiamo solo una quantità di indizi, di segni,
di tracce che attendono di essere ricomposte in un quadro d’insieme.
Servitori, aiutanti, concubine o mogli giunte al seguito di esploratori
o militari rientrati in patria, con tanto di parenti e figliolanza, bambini
spediti dai missionari a riscattarsi con un’educazione cristiana
e magari un’istruzione artigianale o professionale, convertiti inviati
in collegi e seminari cattolici (il francescano Collegio dei Mori a Napoli,
l’Istituto Mazza e l’Istituto delle Missioni Africane a Verona,
noto per la figura di Daniele Comboni, numerosi altri istituti religiosi
a Roma), singoli avventurieri provenienti dall’Africa, come quel
nero che vestì la camicia rossa e seguì Garibaldi nella
liberazione d’Italia, bambini acquistati e inviati in dono a sovrani
europei, come gli ormai celebri pigmei Akka del viaggiatore Giovanni Miani
o l’altra pigmea meno nota, la bambina di nome Saida, condotta in
Italia da Romolo Gessi nel 1877, o i “moretti” (egiziani,
marocchini e tunisini) del Collegio internazionale, poi scuola commerciale
pubblica di Torino ricordati da Augusto Monti. E poi, ancora, i figuranti
di spettacoli etnici in tournée attraverso l’Europa
e giunti anche in Italia, come i Dinka del Sudan, a Torino e Milano nel
1895, le Amazzoni del Dahomey portate a Torino nel 1898 dall’impresario
Urbach, i Togo e i Mandingo ancora a Torino nel 1903 al seguito dell’impresario
africano J. C. Bruce, le comparse nere dello show di Buffalo Bill
che nel 1906 girò in 34 città italiane: probabilmente anche
a troupes di questo genere (oltre che alla categoria dei camerieri
di facoltose famiglie inglesi residenti in Italia) appartenne qualcuno
dei quattordici neri morti a Torino in fasi successive nell’ultimo
quindicennio dell’800 e che finirono sul tavolo anatomico del comparatista
Carlo Giacomini senza che finora sia stato possibile chiarirne meglio
l’identità. Le tipologie, come si vede, sono numerose: ma
l’elencazione non sarebbe completa se non menzionassimo i gruppi
giunti in Italia come ospiti o figuranti nell’ambito delle esposizioni
italiane, come i 60 Abissini di Palermo nel 1892, i sudanesi di Torino
nel 1902 e soprattutto quello che fu quasi certamente il primo gruppo
di africani ad arrivare in Italia per prendere parte ad un evento fieristico-espositivo:
gli Assabesi (dàncali provenienti dal territorio retrostante la
Baia di Assab) dell’Esposizione Generale Italiana di Torino nel
1884, coinvolti in un evento concepito a imitazione di quello orchestrato
all’Expo di Parigi del 1868: la realizzazione di “une section
dans laquelle les produits exotiques seront accompagnés des types
vivants de leurs producteurs” (BROCA, 1866).
7. Con gli Assabesi che nel 1884 furono “condotti” ed “esposti”
(o che “parteciparono”: l’uso di verbi attivi o passivi
non è indifferente – né lo fu per i contemporanei,
a leggerne le testimonianze –, ma rimanda a interpretazioni o ad
accentuazioni di aspetti diversi dell’episodio in questione) all’Esposizione
Generale Italiana di Torino veniamo alla tappa finale di questo percorso
illustrativo delle ragioni di una ricerca. Una ricerca di cui non è
certo questa la sede per esporre i risultati, peraltro non ancora definitivi,
ma che finora ha comunque permesso di mettere in luce l’enorme risonanza
presso l’opinione pubblica piemontese e italiana di un episodio
quasi totalmente trascurato dalla storiografia e che tuttavia costituisce
per l’Italia il primo esempio in assoluto di mostra coloniale e,
insieme, di esposizione etnica, sia pure con caratteristiche peculiari.
Un recente contributo non ne ha fornito che una descrizione breve e superficiale
(ACCORNERO, 1999, 76); una seconda, più avvertita, considerazione
si è avuta in un quadro analitico più ampio e articolato
che non ne ha però effettuato un adeguato approfondimento (NANI,
1999); solo Silvano Montaldo gli ha dedicato una certa attenzione all’interno
del suo pregevole studio su Tommaso Villa (MONTALDO, 1999, 338-346), senza
peraltro spingere troppo a fondo la ricerca e forse con un certo schematismo
interpretativo (“mistica imperialistica” è espressione
francamente forte per il clima d’opinione nell’Italia dei
primi anni ’80; né è forse giusto affermare che nel
dibattito dell’epoca vi fosse all’ordine del giorno una “guerra
di conquista coloniale”; né, infine, è così
evidente che quella degli Assabesi sia stata “una rappresentazione
apertamente razzistica del diverso da sé”, se non altro per
la molteplicità e contraddittorietà delle voci che la commentarono).
Un episodio, questo degli Assabesi di Torino, che, pur non avendo attratto
sufficientemente l’attenzione degli specialisti, rientra tuttavia
a pieno titolo in ambiti d’indagine pur eterogenei quali la storia
della politica coloniale italiana, la storia sociale delle esposizioni
in Italia, la storia della mentalità collettiva, la storia della
rappresentazione del ‘diverso’ nel nostro paese in età
umbertina. Si tratta di un episodio sul quale è stato possibile
reperire una documentazione d’archivio e a stampa, scritta e iconografica,
estremamente ricca e affascinante, e che appartiene, anche se con sensibili
varianti dovute alla specificità della situazione italiana, alla
famiglia delle esibizioni umane organizzate nell’ambito dei grandi
eventi espositivi, contribuendo a determinarne la natura di straordinari
avvenimenti mediatici e propagandistici. Probabilmente solo saldando insieme
la storia della politica coloniale, la storia delle esposizioni, la storia
dell’opinione pubblica e la storia della percezione della diversità
è possibile trovare le chiavi di lettura di quello che non si presenta
affatto come un semplice frammento di storiografia aneddotica, bensì
come un case study microstorico dotato di propria autonomia e originalità
e appartenente ad uno specifico contesto: quello, appunto, della ricchissima
e complessa storia europea delle esposizioni-esibizioni pubbliche di esseri
umani. Una storia che, come accennavamo sopra, solo da poco tempo si comincia
a conoscere in maggior dettaglio e rispetto alla quale alcuni contributi
importanti (ZOOS HUMAINS, 2002, LINDFORS, 1999, KARP & LAVINE, 1991)
hanno approfondito la riflessione di metodo e messo a punto questioni
e interrogativi, che anche nel caso di specie vanno ripresi.
Lo studio di una significativa sequenza di case studies permette
di affermare che nel corso dell’800 si assiste ad una improvvisa
accelerazione e trasformazione morfologica di questo genere di esposizioni,
con l’apparizione di una vera e propria industria specializzata
e di una strutturazione nell’ambito delle abitudini sociali. A Amburgo,
per esempio, nel locale zoo, fin dal 1875 figurano esposti al pubblico
gruppi etnici vari, appositamente trasportati dalla ditta specializzata
di Carl Hagenbeck – vero pioniere nel settore. A Parigi, come già
accennato, dal 1877 in poi esposizioni umane si tengono al “Jardin
d’acclimatation”, mentre Champs de Mars e il Trocadéro
saranno scenari particolarmente grandiosi delle imponenti esibizioni etniche
organizzate nel contesto delle grandi esposizioni universali del 1878
e del 1889, mentre le “Folies Bergère” offriranno un
palcoscenico di grande richiamo a troupes di danzatori e artisti
vari di provenienza africana. Ma già in anni anteriori iniziative
analoghe si erano svolte in Inghilterra, alle fiere di Croydon oppure
a Londra al Crystal Palace, all’Olympia, a Earl’s Court o
presso la Egyptian Hall; così come numerosissime altre ne seguiranno
a Basilea, Zurigo, Francoforte, in quella che si configura come una delle
grandi attrazioni della società europea di fine secolo. A questo
sviluppo contribuiscono insieme le diverse esigenze della spettacolarità
sociale di massa, della divulgazione scientifica, della scienza etno-antropologica:
piani spesso coesistenti, ma che vanno sempre tenuti logicamente distinti,
che non di rado si troveranno in aperto conflitto tra loro e che comunque
sono chiaramente presenti agli osservatori contemporanei più sensibili.
Da qui discende l’identificazione delle diverse figure implicate
nei singoli eventi, sul cui rispettivo ruolo deve concentrarsi l’indagine.
Promotori (imprenditori, politici o scienziati), attori (rappresentanti
di etnie non europee di varia provenienza, autentici o fasulli) e spettatori
sono i tre gruppi principali di protagonisti, ciascuno dei quali porta
con sé differenti intenzioni, bisogni, obbiettivi, aspettative,
azioni e comportamenti, al cui chiarimento la ricerca deve cercare di
contribuire, consapevole delle specifiche difficoltà che si presentano
in ciascun caso, soprattutto in quello degli attori, privi perlopiù
della possibilità di lasciare diretta testimonianza del proprio
passaggio.
8. È possibile, innanzitutto, restituire un’identità
quanto più possibile precisa ai protagonisti dei diversi episodi
? È possibile, nel caso dei membri delle etnie extraeuropee giunte
in Europa, dar loro un volto, coglierli nei loro tratti fisici attraverso
immagini di differente natura e definirne, per mezzo di testimonianze
dirette o indirette, le reazioni psicologiche e comportamentali ? Inoltre,
quali (differenti) scopi ispirarono chi organizzò tali imprese,
chi vi si prestò o vi fu coinvolto e chi vi assistette ? Come furono
di fatto organizzate e realizzate le venute dei gruppi umani ? Come interagirono
le diverse priorità di imprenditori, espositori, pubblico e scienziati,
alla cui coscienza la distinzione tra esibizioni scientifiche ed esposizioni
spettacolari “à la Barnum” fu ben chiara ? Quali
furono le condizioni materiali di soggiorno, dal punto di vista ambientale,
climatico, alimentare, igienico, di salute, di contatto fisico con il
pubblico degli astanti o degli osservatori ? Che rapporto si instaurò
tra attori, promotori e spettatori, una volta realizzata e inscenata l’esposizione
? Quali furono le reazioni del pubblico ? Quale l’atteggiamento
dell’opinione pubblica nelle sue varie sezioni (politica, religiosa,
economica, scientifico-culturale) e, in particolare, che rapporto vi fu
tra opinione popolare e opinione scientifica ? Che immagine degli Africani
e dell’Africa, o di qualsiasi altro paese esotico si trattasse,
quelle (diverse) esposizioni/esibizioni avrebbero inteso produrre e di
fatto produssero ? Che influenza ebbe la vista dei membri di quelle etnie
sulla percezione della diversità del genere umano e in particolare
sulla formazione o rafforzamento di stereotipi razzisti nell’opinione
degli scienziati e in quella popolare ? Che rapporto vi fu nell’opinione
europea tra rappresentazioni pre-esistenti e osservazione diretta e quale
il contenuto di ‘autenticità’ della proposta espositiva
? Qual fu il lessico col quale eventi e persone furono descritti ? Cosa
si attesero o cosa pensarono della propria trasferta i protagonisti non
europei e come vissero l’esperienza ? Cosa rappresentarono quel
viaggio e quella permanenza (in molti casi prolungata fin oltre un anno
e caratterizzata da una serie di tappe ed esperienze successive, come
in vere tournées europee) nel panorama delle loro vite e
quali cambiamenti immediati o duraturi derivarono da quell’esperienza
? Che tipo di fenomeno sociale ciascuna diversa esposizione umana rappresentò
nella città e nel paese nel quale si svolse ?
C’è un ulteriore problema del quale l’analisi in profondità
di un case-study come quello torinese può consentire una
verifica ‘sul campo’. Alcuni di coloro che più recentemente
si sono interrogati sul significato complessivo delle etno-esposizioni
nell’Europa dell’Ottocento hanno sostenuto che attraverso
simili esperienze sarebbe avvenuta quella da loro definita la “popularisation
du racisme”, ossia la diffusione di massa di teorie e idee nate
in ambienti scientifici mediante il loro travaso nell’immaginario
sociale (BLANCHARD, BANCEL, LEMAIRE, 2002, pp. 63 sgg.). Con termine insolito,
questo processo è stato definito anche della “inferiorisation
de l’indigène par l’image” (p. 65) attraverso
una rappresentazione-reificazione fondata sulla volontà di “animaliser
l’Autre”: esposizione-segregazione-confinamento e ricorso
al “vocabulaire de stygmatisation de la sauvagerie” sarebbero
stati i mezzi per sancire una irriducibile inferiorità razziale.
Simili episodi, inoltre, avrebbero favorito la messa a nudo, il palesamento
del razzismo latente degli spiriti dell’Occidente europeo e come
tali, secondo questi autori, sarebbero riscontrabili in una non meglio
specificata “quasi-totalité des pays occidentaux” (p.
69). Si tratta, però, a ben vedere, di una generalizzazione non
sufficientemente sostenuta da analisi particolari. La nozione stessa di
“razzismo popolare” sembra perdere nettezza di contorni se
non sorretta da dettagli analitici e somiglia ad una petizione di principio
se associata automaticamente al mero fatto della partecipazione e del
gradimento popolare delle esposizioni etniche. Si ha insomma l’impressione
di eccessiva disinvoltura nel rubricare con concetti analoghi un insieme
di eventi, certo, dalla fisionomia apparentemente comune, ma che compito
dello storico è di descrivere e comprendere nella specificità
delle singole manifestazioni. Da questo punto di vista, lo studio di un
contesto italiano come quello degli Assabesi di Torino permette di cogliere
elementi anche decisamente dissonanti rispetto alle concettualizzazioni
un po’ schematiche proposte dagli autori citati.
Questi sono alcuni dei principali problemi messi a fuoco durante l’esperienza
della ricerca e che anche nel caso degli Assabesi di Torino hanno dato
il necessario orientamento all’indagine, permettendo di collocarla
entro un insieme assai ricco di episodi appartenenti alla storia della
cultura, dell’opinione e delle mentalità. D’altra parte,
la riuscita di un’indagine dipende anche dalla retroazione esercitata
dalle fonti rispetto agli interrogativi del ricercatore. La possibilità
di dare precisione e incisività alle domande, in altre parole,
deriva non solo dalla consapevolezza formale dei problemi implicati e
della tipologia di fonti teoricamente desiderabili, ma anche dal concreto
reperimento di queste ultime e dal diretto confronto con il loro potenziale
informativo. Proprio grazie a questa sorta di feedback il lavoro
di scavo archivistico sul caso degli Assabesi di Torino ha effettivamente
permesso di formulare quesiti articolati e di elaborare risposte plausibili,
giungendo così a una descrizione e a una interpretazione dei fatti
complessivamente convincente.
9. Con il riepilogo di questi interrogativi si può concludere
un contributo che ha voluto semplicemente illustrare attraverso quali
vie è nata una ricerca, come è stata impostata, quali direzioni
ha imboccato: i primi risultati sono stati già oggetto di pubblicazione
in un volume collettaneo sulle esposizioni torinesi tra Ottocento e Novecento
al quale mi permetto di rimandare (ABBATTISTA, 2003).
Preme sottolineare tuttavia che si tratta dei medesimi interrogativi che
potrebbero guidare analisi centrate non solo sui vari episodi italiani
occorsi tra fine ‘800 e primo ‘900, ma anche su momenti decisamente
meno lontani della storia delle esposizioni umane: particolari pratiche
collettive, queste ultime, che non appartengono affatto ad un passato
ormai definitivamente alle nostre spalle, così come non possiamo
affatto dire di esserci del tutto lasciati alle spalle atteggiamenti di
pensiero e forme di comportamento che tradiscono atavici sensi di superiorità
e volontà di sopraffazione.
Ancora oggi, pur nella diversità degli scopi e dei protagonisti,
varianti di esposizioni umane continuano a caratterizzare il vissuto contemporaneo,
alimentando la polemica o l’immaginario creativo. Ben lo dimostra
il recentissimo caso dei pigmei Baka del Camerun, letteralmente ‘esposti’
nell’estate 2002 a Yvoir, in Belgio. Una iniziativa di matrice non
imperialistica, bensì di ispirazione umanitaria, tesa cioè
ad assicurare la protezione e la sopravvivenza di questa etnia, ma che
agli occhi di molti osservatori non è parsa sufficiente giustificazione
per l’esibizione di esseri umani esplicitamente presentati nella
veste di testimoni della condizione umana di 2000 anni fa. Primitivi viventi,
dunque, reclamizzati tra le attrazioni di una riserva naturale come una
specie in via d’estinzione, e pur sempre oggetto di rappresentazione
nell’immaginario occidentale, anche se quello non razzista delle
famigliole dei visitatori bianchi ambientalisti, antimperialisti e politicamente
corretti (BERHUSE, 2002, FRADCOURT, 2002).
ABBATTISTA, 2003 Guido Abbattista, “La rappresentazione dell’ ‘altro’ “, in Le esposizioni torinesi, 1805-1911. Specchio del progresso e macchina del consenso, a cura di Umberto Levra e Rosanna Roccia, Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 2003, pp. 253-268.
ACCORNERO, 1999 Cristina Accornero, «Meraviglia, divertimento e scienza: l’immagine dell’Africa attraverso le esposizioni torinesi (1884-1928)”, in L’Africa in Piemonte, 1999, pp. 75-86.
AFRICA IN PIEMONTE, 1999 L’Africa in Piemonte tra ‘800 e ‘900, a cura di Cecilia Pennacini, Torino, Centro Piemontese Studi Africani/Regione Piemonte, 1999.
AFRICA IN VETRINA, 1992 L' Africa in vetrina: storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, a cura di Nicola Labanca, Paese, Pagus (Tv), 1992.
BERHUSE, 2002 S. Berhuse, L’affaire des Baka du Cameroun en
Belgique, in http://belgium.indymedia.org/news/2002/09/31136.php,
12 settembre 2002.
BLANCHARD, BANCEL, LEMAIRE, 2002 Pascal Blanchard, Nicolas Bancel et Sandrine Lemaire, « Les zoos humains : le passage d’un ‘racisme scientifique’ vers un ‘racisme populaire et colonial’ en Occident », in ZOOS HUMAINS, 2002, pp. 63-71.
BONO, 1992 Salvatore Bono, “Esposizioni coloniali italiane. Ipotesi e contributi per un censimento”, in L’Africa in vetrina, 1992, pp. 17-35.
BROCA, 1866 Paul Broca, Exposition anthropologique égyptienne, in «Bulletin de la Société d’anthropologie de Paris», 1886, tome 1, pp. 574-588.
COOMBES, 1994 Annie E. Coombes, Reinventing Africa. Museums, Material Culture and Popular Imagination in Late Victorian and Edwardian England, New Haven and London, Yale University Press, 1994.
DEBRUNNER, 1979 Hans W. Debrunner, Presence and Prestige, Africans in Europe: A History of Africans in Europe Before 1918, Basel, Basler Afrika Bibliographien, 1979.
DEL BOCA, 1992 Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa orientale, vol. I, Dall’Unità alla Marcia su Roma, 1976, rist. Milano, Mondadori, 1992.
KARP & LAVINE, 1991 Exhibiting Cultures: the Poetics and Politics of Museum Display, edited by Ivan Karp and Steven D. Lavine, Washington and London, Smithsonian Institution Press, 1991, tr. it. parziale Bologna, Clueb, 1994.
FRADCOURT, 2002 Ariane Fradcourt, Pygmées: du parc naturel
au musée, in «La Libre Belgique », 6 agosto
2002 edizione Internet:
http://www.cobelco.org/Library/pygmees_parc%20naturel_musee.htm.
LINDFORS, 1999 Africans on Stage, Studies in Ethnological Show Business, ed. by Bernth Lindfors, Bloomington & Indianapolis, Indiana University Press, 1999.
MONTALDO, 1999 Silvano Montaldo, Patria e affari: Tommaso Villa e la costruzione del consenso tra unità e grande guerra, Roma, Carocci, 1999.
NANI, 1999 Michele Nani, “Ai confini della nazione. Ebrei, meridionali e africani nella stampa torinese dell’età umbertina”, tesi di dottorato ciclo XII, Università degli Studi di Venezia.
RICCI, 2002 Giovanni Ricci, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2002.
SHYLLON, 1977 Folarin Shyllon, Black People in Britain 1553-1833, Oxford, Oxford University Press, 1977.
ZOOS HUMAINS, 2002 Zoos humains. De la Vénus hottentote aux «reality shows», sous la direction de Nicolas Bancel, Pascal Blanchard, Gilles Boetsch, Éric Deroo, Sandrine Lemaire, Paris, Éditions La Découverte, 2002 (tr. it. Verona, Ombre Corte, 2003).
[1] Questo saggio è l’anticipazione di uno scritto originariamente steso per una miscellanea di studi in onore di Giovanni Miccoli tuttora in corso di pubblicazione.