Dagli Ottentotti agli Assabesi.
Preambolo a una ricerca sulle esposizioni etniche in Italia nel sec. XIX

Guido Abbattista

1. Nelle pagine seguenti cercherò di illustrare le ragioni che hanno ispirato un percorso di ricerca, guidandone l’orientamento – da una riflessione all’altra e di traccia in traccia – verso esiti relativamente distanti, se non altro in termini cronologici, rispetto al punto di partenza originario[1].
Quest’ultimo è rappresentato da un tema particolare scaturito dal lavoro che chi scrive da tempo sta svolgendo nell’ambito di un progetto internazionale per l’edizione critica della Histoire des deux Indes dell’abate Raynal (1770-1780). Il tema in questione, che ha offerto lo spunto per l’apertura di un filone di ricerca autonomo, è costituito dalla rappresentazione di un gruppo umano ben noto alla cultura scientifica e all’opinione settecentesche, già inserito nelle tassonomie antropiche a partire dalla classica linneana e tuttavia ancora oggetto tra ‘700 e ‘800 di contraddittorie raffigurazioni e dunque di curiosità e di fantasie, ossia i cosiddetti Ottentotti dell’Africa australe. Anche su questa complessa realtà etnico-antropologica indicata dalle lingue europee col termine arbitrario di Ottentotti, di origine olandese – l’odierna etnologia usa il termine più appropriato di “Khoisan” –, quella grande enciclopedia storica del colonialismo moderno che è l’Histoire raynaliana offre, come per molti altri temi centrali del coevo dibattito storico, politico ed economico, una sintesi delle nozioni, dei punti di vista, delle opinioni correnti in un’epoca in cui la fonte principale di conoscenza su materie del genere – in modo particolare con riferimento a regioni della Terra e a popolazioni ancora così poco familiari – sono le testimonianze letterarie dei viaggiatori, spesso fantasiose e sensazionalistiche, assai più che l’osservazione diretta, accorta e ordinata di scienziati e naturalisti. Nelle pagine di Raynal, come sempre formicolanti di informazioni, spunti, annotazioni e allusioni, convivono la tendenza alla descrizione antropologica e alla definizione dei caratteri sociologici, muovendo da un intento scientifico, oggettivo, alieno di giudizi di valore, anche a prezzo di suscitare dubbi sul grado di sviluppo umano civile degli uomini e della società ottentotti sotto osservazione, e un chiaro desiderio di mitizzazione all’inverso di un tipo umano che fino a quel momento era stato spesso rappresentato come l’anello più remoto della catena dell’essere e come il diaframma ultimo, o primo, a seconda del punto di vista, che separava l’uomo dall’animale: una rappresentazione negativa, invero, che avrebbe continuato ad essere in voga molto a lungo ben dopo Raynal. Due le questioni più problematiche collegate all’esistenza degli Ottentotti fin dalla seconda metà del sec. XVII, quando i coloni olandesi, fondato l’insediamento del Capo, avrebbero cominciato una lenta penetrazione nelle zone interne dell’estremo sud del continente africano. La prima, di tipo antropologico-culturale: come doveva giudicarsi la condizione di società che presentavano il grado infimo di sviluppo civile tra quelle conosciute ? Che rapporto aveva tale condizione di vita con le nozioni di felicità correnti nel mondo europeo ? La seconda, invece, di tipo squisitamente anatomico-fisiologico: la presenza di talune particolarità fisiche consentiva di considerare gli Ottentotti come pienamente appartenenti ad un unico genere umano o non dimostrava piuttosto l’esistenza di razze umane differenziate in modo sostanziale e irreversibile; e in questo secondo caso, non era da trovare proprio qui la spiegazione dei diversi gradi di sviluppo lungo una linea che dalla condizione brutalmente e totalmente selvaggia portava a forme socio-culturali via via più complesse, che attraverso le società barbare raggiungeva le estreme espressioni di incivilimento realizzatesi nell’Europa moderna ? Gli Ottentotti parevano prestarsi particolarmente bene a riflettere per questi temi, poiché tutte le testimonianze disponibili li raffiguravano come una popolazione prossima ad una condizione di reale animalità, con sviluppo intellettivo, forme di vita materiale, aspetto fisico che li approssimavano alla pura brutalità, cosicché per taluni viaggiatori si trattava senza dubbio del tipo umano più vicino alle scimmie. Non solo, ma da parecchi decenni, almeno dalla fine del ‘600, le fonti (sembra che la prima testimonianza sia stata dell’olandese Olfert Dapper nella sua Naukeurige Beschrijvinge der afrikaensche gewesten van Egypten, Barbaryen, Libyen, Biledulgerid, Negroslant, Guinea, Ethiopiën, Abyssinie, Amsterdam, 1668) riferivano dell’esistenza di un dettaglio anatomico proprio delle donne ottentotte – il cosiddetto “grembiule”, “tablier” o “apron” – che faceva senz’altro pensare a una razza umana diversa, tale da infrangere il mito dell’unità del genere umano: si tratta di quella che veniva descritta sommariamente come una ampia plica di epidermide che dal basso ventre ricadeva sui genitali a coprirli per intero, come una sorta di gonnellino naturale. Sull’esatta natura e conformazione di questo “tablier” gli scienziati e gli uomini di cultura tutti avrebbero continuato lungamente ad interrogarsi, ben oltre la fine del ‘700, per stabilire di cosa esattamente si trattasse, se fosse una particolarità innata o acquisita, naturale o artificiale, se costituisse un organo distinto e autonomo con una sua propria funzionalità, se invece fosse solo una escrescenza priva di specificità fisiologiche, insomma, un accrescimento che configurava una pura diversità di proporzioni e non di funzioni. Né si trattava dell’unica bizzarria fisica che pareva fare degli Ottentotti una razza a sé, perché a questa immagine di stupidità brutale contribuivano altri usi e particolari fisici: dal monorchismo ottenuto con l’ablazione di un testicolo nei bambini, all’amputazione di una falange del mignolo della mano sinistra, all’abitudine di cospargere il corpo e i capelli di grasso animale, poi impastato di terriccio fino a ottenere una specie di crosta a parziale copertura dell’epidermide (chiaramente una protezione molto efficace dai raggi del sole, molto diffusa presso varie popolazioni africane).

2. D’altra parte, lasciando la questione del “tablier” ai naturalisti in senso stretto, i filosofi e gli studiosi dell’uomo in generale, per parte loro, non avevano mancato di presentare e usare l’immagine dell’Ottentotto in un duplice senso: selvaggio “ignobile” per taluni, “nobile” per altri. Da un lato, dunque, ci troviamo al cospetto di un simbolo e sinonimo di primitività estrema, di stupidità e di abbrutimento (da Linneo a Genovesi, da Voltaire a Chateaubriand, per arrivare addirittura a Leopardi); ma dall’altro, al contrario, quello che viene proposto è un esempio di condizione umana prossima al vagheggiato stato di natura, ossia come variazione sul tema del buon selvaggio, analoga a quelle che, tramontata l’attenzione prevalente verso i selvaggi caraibici, brasiliani o nordamericani, ora prendeva spunto da nuovi tipi umani. Tra questi i tahitiani, la cui straordinaria bellezza fisica sembrava a Diderot, James Cook e Joshua Reynolds rispecchiare una virtù morale di assoluta naturalità. Oppure, appunto, gli Ottentotti: un Ottentotto idealizzato, selvaggio allo stato puro e perfetto espediente per esemplificare forme di vita prossime allo stato di natura, come nel Rousseau del Discours sur l’inégalité, e per personificare forme letterarie di straniamento, come nel “dialogo tra il Pedante e l’Ottentotto” di Alessandro Verri apparso su Il Caffè nel 1765.
Ci troviamo così di fronte a una raffigurazione bifronte, che, elaborata nel corso del ‘700, continuerà a resistere nella sua contraddittorietà nella cultura europea ben addentro l’800, alimentando curiosità, domande, desiderio di conoscere la realtà nel modo più oggettivo possibile. Quando Raynal scrive, negli anni ’70, è certo che si dispone ormai di tutta una serie di testimonianze tendenti a riscattare l’Ottentotto da una rappresentazione fisica e morale totalmente negativa che ne faceva un essere degradato, vicino alla bestialità pura e tipico esempio di diversità razziale. Viaggiatori di notevole levatura intellettuale, come Cook e Forster, Bernardin de Saint-Pierre, Querhoënt, Berg, Gordon, anteriori o coevi alla composizione dell’Histoire des deux Indes di Raynal e di cui faranno tesoro naturalisti come Blumenbach e Buffon, e altri invece immediatamente posteriori a Raynal, come Thunberg e Le Vaillant, contribuiranno a sfatare il mito negativo dell’Ottentotto, in certi casi con una dichiarata intenzione, come nel caso di François Le Vaillant, che viaggia negli anni ’80 e la cui relazione appare negli anni ’90 con notevole successo europeo, di contrapporre la naturale virtuosità del selvaggio alla corruzione e alla crudeltà degli Europei che lo vittimizzano e ne stravolgono il modo di vita, le abitudini, gli usi, attentando alla stessa sopravivenza di questa etnia sfortunata. Raynal è esattamente su questa linea.
Questo non basterà tuttavia a fare definitiva chiarezza su alcune questioni controverse, alle quali, anzi, altre si aggiungeranno. Sul “grembiule”, anche una volta abbandonata l’idea della “mostruosa difformità”, segno di irrimediabile diversità razziale, le conclusioni non saranno definitive e continuerà a restare una certa confusione. E stranamente: se pensiamo che un medico olandese, Wilhelm ten Rhyne, già molti anni prima, nel 1686, aveva descritto precisamente il cosiddetto “grembiule” come un fenomeno di macroninfia, anche se restava da stabilire se si trattasse di un caso molto frequente, oppure di una caratteristica generale di tutte le donne ottentotte. Comunque, dal primo viaggio di Cook (1769-1771) in poi non sarà più possibile fantasticare sul “grembiule”. L’attenzione resterà invece desta su altri aspetti della questione: la macroninfia è un effetto del clima ? È il risultato di manipolazioni artificiali obbedienti a credenze, rituali, criteri estetici, richiami sessuali ? Oppure si tratta di una specie di organo dotato di una sua particolarità anatomica e fisiologica ? D’altra parte, gli Ottentotti continueranno a suscitare forti curiosità oltre che per le particolarità anatomiche che abbiamo menzionato, anche per un’altra, che comincia ad essere osservata e descritta quasi contemporaneamente alla fine del ‘700 dall’allievo di Linneo Carl Thunberg (Voyages au Japon, par le Cap de Bonne-Espérance, Paris, 1792: nell’ed. Paris, 1795, I, 386) e da François Le Vaillant (Second Voyage en Afrique, 1795 II, 187-188): ossia quella che sarebbe poi stata definita “steatopigia”, la presenza, cioè, nelle donne ottentotte (ma il preciso Le Vaillant parla correttamente di “Houzouanas”), di una massa adiposa depositata sulle natiche a conferir loro un aspetto enorme e protuberante all’infuori e in alto. Anche di questo si continuerà a parlare negli ambienti dei naturalisti fino nel tardo ‘800 e ogni occasione di osservazione di membri delle etnie ottentotta o boscimane (termine, quest’ultimo, usato per la prima volta dal francese Nicolas-Louis de La Caille [1712-1762] nel 1763 nell’edizione postuma dei suo viaggi al Capo e poi ripreso da André Sparrmann nel 1787, anche se la prima chiara distinzione tra i due gruppi risale, a quanto pare, proprio a Le Vaillant) porterà alla produzione di dotte memorie sulla steatopigia nelle donne, per esempio con Raphaël Blanchard, nell’Étude sur la stéatopygie et le tablier des femmes boschimanes (in “Bulletin de la Société Zoologique de France”, VIII, 1883, pp. 34-77), con Paul Topinard, autore di La stéatopygie des Hottentotes du Jardin d'acclimation: conclusions d'une conférence faite le 31 juillet 1888 au Jardin d'acclimation (in “Revue d’anthropologie”, n. 2, 15 Mars 1889, pp. 194-199) e con Cesare Lombroso, prima negli Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle ottentotte, cammelli e zebù (Torino, 1879) e che in seguito, nel suo L’uomo bianco e l’uomo di colore (Torino, 1892), dedicherà una appendice alla descrizione del “cuscino posteriore delle Ottentotte”, tornando ad occuparsi della questione ne La Donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1893). La citazione della memoria di Topinard (1830-1911), uno dei massimi antropologi francesi dell’800, allievo di Paul Broca, fondatore con Jacques Bertillon, Isidore Geoffroy Saint-Hilaire, Louis-Pierre Gratiolet, della Société d’anthropologie nel 1859, ci consente di fare un passo in avanti nella ricostruzione delle tappe che hanno fatto evolvere la ricerca nella direzione che ha finalmente assunto.

3. Spunto dell’articolo del 1889 sulla steatopigia era stata una conferenza tenuta da Topinard al “Jardin acclimatation” di Parigi, un’area che, aperta nel 1850 per l’esibizione di animali e di vegetali provenienti da ogni parte del mondo, era divenuta una sorta di laboratorio en plein air per l’osservazione delle razze umane. Qui, tra il 1877 e il 1891 erano stati ripetutamente esposti agli occhi del pubblico francese, ma anche fotografati, misurati e studiati dagli antropologi francesi, membri di popolazioni nubiane, sudanesi, ashanti, ottentotte, boscimane, somale, etiopi, zulu, dahomiane: esattamente ciò che sarebbe avvenuto, niente affatto solo in Francia, anche in altre occasioni, come le esposizioni internazionali, mondiali o universali, per esempio quelle di Parigi del 1878 e del 1889, quella di Amsterdam del 1883, di Chicago del 1893, di St. Louis del 1904, per ricordarne solo alcune delle più celebri. L’esibizione in pubblico di membri di etnie extraeuropee – indiani nordamericani, lapponi, eschimesi, calmucchi, indios sudamericani, siamesi, tailandesi, malesi, giavanesi, filippini e naturalmente africani delle più diverse provenienze, a rispecchiare la crescente penetrazione bianca nel “continente nero” – costituisce non solo un capitolo della storia dell’osservazione antropologica, ma anche uno dei fenomeni più interessanti della storia sociale europea in un’epoca in cui imperialismo, colonialismo, diretta dominazione occidentale sul resto del mondo raggiungono forse la massima intensità, producendo insieme il progetto di un controllo globale da parte dell’Europa, l’idea dell’espansione inevitabile e storicamente necessaria dell’economia e della civiltà dell’Occidente, l’illusione che questo sia il risultato fatale e il senso più profondo del progresso in ogni suo aspetto e la cinica conclusione che l’umanità non europea debba rassegnarsi a giocare un ruolo subordinato nel copione scritto dall’imperialismo economico, politico e culturale. In occasione del rutilante spettacolo delle grandi manifestazioni espositive e fieristiche della seconda metà del sec. XIX, che tendono ormai ad andare oltre le semplici rassegne della produzione industriale e della tecnica moderna, agli appartenenti all’umanità non europea si chiede di fornire i figuranti di una gigantesca messa in scena, comparse di un’esposizione di cui il pubblico occidentale è assetato, spoglie umane delle conquiste, esibite come trofei, date in pasto sia alle masse, a saziarne le curiosità, la voglia di divertimento e di insolito, sia alla scienza, ansiosa di tutto misurare e catalogare creando gabinetti di osservazione artificiali e rassicuranti. L’Europa imperialistica – come gli Stati Uniti post-guerra civile – ha regolato almeno in parte e almeno formalmente i conti con la schiavitù e addirittura cerca di nobilitare le proprie imprese africane in nome dell’antischiavismo, ma da un lato procede alla spartizione territoriale dell’Africa, cercando di nobilitare l’accaparramento del continente in nome della diffusione del messaggio cristiano, e, dall’altra, è completamente dominata dall’idea di una gerarchia razziale del genere umano, del quale la componente di pelle nera non andrà più trasportata in catene fuori dal continente perché conviene ora assoggettarla nella sua stessa terra e al tempo stesso continua ad essere associata a immagini di animalità: perciò potrà convenientemente essere rimirata nei recinti degli “zoo umani” e delle esposizioni etnografiche. Gli “zoo umani”, che vanno ad affiancarsi ai parchi zoologici in via di apertura nelle capitali europee nei primi decenni dell’800, appartengono ad un genere di spettacolarità, quello del “freak show”, dell’esibizione di mirabilia, di curiosità, di esotismi, di mostri e deformità animali e umane, vive o morte, di cui grande imprenditore fu il celebre americano Phineas T. Barnum (1810-1891) e altri famosi esempi d’oltreoceano furono Guillermo Antonio Farini, il “Grande” Farini (1838-1929), l’impresario di “Krao, The Missing Link,”, e, per certi loro aspetti, i “Wild West Show” di Gordon W. Lillie e di William Cody, inaugurati nel 1883 e nel 1886.
Non si tratta, naturalmente, di un fenomeno nuovo nella storia socio-culturale dell’Occidente europeo. Nel secolo XIX cambiano certamente le proporzioni, i protagonisti, i destinatari, gli scenari, gli scopi e la capacità di incidere sull’opinione da parte di eventi ormai capaci di suscitare vastissima risonanza grazie all’illustrazione a stampa e alla fotografia. Resta però, al fondo, quell’esigenza insieme celebrativa, trionfalistica, propagandistica, voyeuristica che aveva fatto sì che apoteosi e trionfi nell’antichità classica, corti medievali, regge rinascimentali, processioni regali, cortei funebri, feste, società di corte di antico regime, salons aristocratici, gabinetti di savants avessero già accolto non solo servitori, valletti e concubine di colore, ma anche “gingilli di lusso”, “voltigeurs”, suonatori, arcieri, lottatori, nani o giganti di ogni colore e fisionomia: esotici figuranti da esibire per particolari capacità artistiche, abilità fisiche, diversità o stranezza fisionomica o semplicemente a testimonianza del rapporto di forza, da superiore a inferiore, esistente tra l’espositore e l’esposto (DEBRUNNER, 1979, pp. 18 sgg., RICCI, 2002, pp. 43 sgg.).

4. L’insaziabile curiosità che abbiamo visto concentrarsi per tutto il ‘700 sugli Ottentotti può spiegare perché probabilmente non il primo cronologicamente, ma di certo uno dei più celebri casi di esposizione di un essere umano africano davanti a un pubblico europeo abbia avuto per oggetto proprio una donna ottentotta, la famosa Sarah Baartmann, nota come la “Venere Ottentotta”. Portata a Londra dalla Colonia del Capo nel 1810 da improvvisati impresari bianchi, da questi esibita in pubblico a pagamento, successivamente trasferitasi a Parigi nel 1814 e qui morta nel dicembre 1815, Sarah Baartmann finirà dissecata e messa sotto formaldeide dal grande anatomista Cuvier e poi riprodotta in un moulage destinato fino al 1982 a stupire i visitatori del parigino Musée de l’Homme. L’interesse di questo episodio deriva da molteplici ragioni, non ultimo il fatto che la sua memoria è stata di recente esplorata e ravvivata da un movimento politico-culturale sudafricano che ha ottenuto l’interessamento attivo del Sudafrica democratico post-apartheid di Mandela e M’beki e che ha finito con l’ottenere, nell’estate 2002, la restituzione delle spoglie mortali della sfortunata ottentotta che per alcuni anni aveva tenuto banco nel mondo degli spettacoli e delle attrazioni di Londra e Parigi. Testimonianza senza dubbio suggestiva – e non unica nel suo genere (si pensi alla mummia dell’uomo boscimane detto “El Negro” presso il Museo di Storia Naturale di Banyoles, in Spagna, e a collezioni di teste umane mummificate come quelle Khoisan del British Museum, replica in grande di precedenti, più modeste collezioni private come quella settecentesca del cardinale Stefano Borgia) – della percezione tuttora acuta di certi episodi come autentiche ferite inferte dall’arroganza imperialistica ai popoli non europei e, come tali, in attesa riparazione. Dal nostro punto di vista, però, una storia come quella della “Venere Ottentotta” va ricordata perché si tratta forse del primo caso – ricerche più approfondite ce lo rivelerebbero probabilmente come non il primo in assoluto – di programmatico sfruttamento sia per gli obiettivi di profitto di una pur rudimentale imprenditoria dello spettacolo sia per le crude esigenze della scienza anatomica: un caso, per di più, di cui ci è rimasta una quantità non indifferente di testimonianze documentarie, a stampa e iconografiche e del quale numerose analisi critiche sono apparse in anni recenti in Europa, America e Africa, ad opera di critici letterari, storici del costume, dell’arte e dello spettacolo, studiosi di storia di genere di entrambi i sessi, femministe militanti, poeti, artisti figurativi, cineasti e autori di teatro. Una storia, dunque, questa della “Venere Ottentotta”, che si ricollega all’indietro con le intense discussioni settecentesche sulla natura e i caratteri di quelle popolazioni sudafricane, ma che appartiene anche, come archetipo, ad un contesto tutto ottocentesco: quello, appunto, degli spettacoli etnografici, “ethno-show”, “Völkerschauen”, esposizioni umane, organizzate all’interno di giardini zoologici, circhi, esibizioni itineranti, oppure, in modo più sistematico e con ambizioni più specificamente scientifiche, nell’ambito della grandiose esposizioni industrial-commerciali e artistiche: periodici appuntamenti che nei maggiori paesi europei, a partire dalla metà del secolo XIX, si posero come occasioni autocelebrative e propagandistiche della potenza, del progresso e delle risorse economiche, culturali, tecnologiche e scientifiche.

5. Nel contesto del “discorso” di autoesaltazione formulato all’interno delle grandi esposizioni universali, la presenza di gruppi umani non europei e soprattutto provenienti dal continente africano, il cui entroterra si stava cominciando appena a conoscere con maggiore precisione, assolveva a una funzione evidente: mostrare l’opposto speculare della civiltà avanzata, offrire una specie di repertorio di forme esotiche di umanità capace di rafforzare l’autopercezione dell’identità europea, soddisfare visivamente il gusto occidentale per il sensazionale e le fantasie accese dai resoconti dei viaggiatori nel “continente nero”, ma anche dare la possibilità ai cultori di discipline in via di consolidamento come l’etnologia, l’antropologia, con la sua variante antropometrica, di compiere osservazioni, rilevamenti, accurate misurazioni e catalogazioni. Dell’insieme di questi fenomeni, noti ma non sempre approfonditi, quando non sorprendentemente trascurati, nell’ambito delle storie dell’antropologia, del teatro etnico, della storia del folklore, dell’etnomusicologia o della fotografia, hanno cominciato ad occuparsi, insieme alla storia economica, col suo consolidato interesse per le grandi esposizioni ottocentesche, discipline storiografiche, come la storia sociale, la storia della cultura, la storia della mentalità. E da poco disponiamo di una prima messa a punto, grazie ad una serie di indagini che hanno cercato di investigare con una certa ampiezza il variegato mondo di quelli che sono stati definiti “zoo umani”. Una recente raccolta di saggi (ZOOS HUMAINS, 2002) ha delineato un variegato contesto entro il quale acquistano senso non solo la storia della “Venere Ottentotta” e dei numerosi gruppi “indigeni” messi in mostra nell’Europa ottocentesca, ma perfino certi tratti caratteristici del vissuto e all’immaginario del mondo mediatico novecentesco e del terzo millennio. È precisamente questo genere di studi che ha offerto la cornice generale entro la quale è stato possibile impostare in modo problematico le ricerche di cui parlerò tra poco e che costituiscono il punto di arrivo – e insieme di partenza – del percorso fin qui delineato e che si snoda seguendo il filo rosso della riflessione sulla la diversità umana: dai dibattiti teorici settecenteschi, appunto, alle esibizioni e ai contributi scientifici del primo Ottocento, per arrivare al mondo delle grandi esposizioni e degli spettacolo etnografici dell’Inghilterra vittoriana, della Germania bismarckiana, della Francia alla vigilia della belle époque, della Svizzera, ma anche dell’Italia umbertina.
La raccolta di saggi sopra citata investiga a tutto campo tra ‘800 e ‘900 il fenomeno degli “zoo umani”, che si può considerare come l’evoluzione e la generalizzazione di fenomeni, come quello della “Venere Ottentotta”, avvenuta dietro la spinta di elementi strettamente interconnessi: innanzitutto la nascita della società industriale e la direzione imperialistica e colonialista decisamente imboccata dalla politica europea nell’età della seconda rivoluzione industriale, ma anche l’affermarsi dei miti scientisti e positivisti del progresso, dell’onnipotenza e delle meraviglie tecnologiche, della superiorità della civiltà occidentale e dei suoi fondamenti razziali, e, infine, l’avvento dell’imprenditoria capitalistica nel mondo dello spettacolo, l’apparizione dell’intrattenimento e della festa popolare di massa, i profondi mutamenti nei sistemi di comunicazione pubblica legati ai giornali popolari e illustrati e alla fotografia. Una ricognizione, questa, sicuramente di estremo interesse e ricchezza, che presenta numerosi spunti di ricerca e di riflessione, ma che in certi casi lascia assai insoddisfatti e rischia addirittura di produrre un’immagine distorta, come nel caso delle brevi e francamente deludenti pagine dedicate all’Italia umbertina e giolittiana (ZOOS HUMAINS, 2002, 239-243). Da quelle pagine si ricava l’impressione che in Italia il fenomeno delle esibizioni di esseri umani – in questo caso esclusivamente africani, data la natura degli interessi coloniali italiani – sia stato insignificante e comunque legato non tanto al mondo dell’imprenditoria dello spettacolo, delle esposizioni o della scienza, quanto soprattutto alle iniziative missionarie. Ora, se è certamente vero che gli ambienti missionari si fecero promotori sia dell’invio in Italia di giovani conversi da avviare al sacerdozio sia di importanti operazioni propagandistiche consistenti nel trasporto in Italia di rappresentanti di popolazioni africane per dimostrare, in occasione di eventi espositivi, il successo o le prospettive dell’evangelizzazione, è altrettanto vero che l’Italia post-unitaria, umbertina e giolittiana, per non parlare di quella fascista, conobbero una sempre più significativa presenza di uomini, donne e bambini africani giunti nel nostro paese in obbedienza al medesimo gusto per l’esotico, il selvaggio, il primitivo che ovunque in Europa stava alimentando l’industria dello spettacolo etnico e connotando le sempre più numerose imprese espositive nazionali, internazionali e mondiali che andarono affermandosi nelle maggiori città europee, non escluse città italiane che furono sedi di importanti esposizioni tardo-ottocentesche, come Torino o Palermo. È vero che Torino o Milano, pur con i loro teatri specializzati, rispettivamente “Rossini” e “Balbo”, e “Follia”, non ebbero niente di paragonabile alle Folies Bergère o al Saint-Pauli di Amburgo, ma questo non basta per concludere che lo spettacolo o l’esposizione etnici furono da noi un fenomeno trascurabile e che, se presenza africana vi fu, questa sarebbe da collegare alle sole intraprese missionarie.

6. Sono stati sufficienti alcuni sondaggi in questa direzione per approdare ad una constatazione di fatto che ha immediatamente innescato l’apertura di un fronte di ricerca nuovo e promettente. Possediamo una notevole messe di studi sul rapporto tra colonialismo italiano e lo sviluppo degli studi antropologici in Italia, sulla raffigurazione (letteraria, giornalistica, iconografica, museologica e fotografica) dell’Africa nell’opinione pubblica italiana nelle fasi iniziali del colonialismo in Eritrea, all’epoca della guerra di Libia e poi della guerra d’Etiopia, sulle iniziative propagandistiche del fascismo, anche di tipo espositivo, tese a celebrare e popolarizzare l’idea di impero e dell’Africa come terra promessa per le energie del regime. Nessuno studio, tuttavia, ha ancora approfondito in modo conveniente il tema delle forme di presenza e di esposizione umana (africana) e di spettacolo etnico (africano) in Italia alla fine dell’800, a partire cioè dal momento in cui l’Africa diviene anche per l’Italia, dopo la fase dei viaggi esplorativi, scientifici e missionari, oggetto di mire espansionistiche e colonizzatrici. Fa parziale eccezione il pur interessante volume collettaneo L’Africa in vetrina (AFRICA IN VETRINA, 1992), che tuttavia si concentra quasi esclusivamente sulla prima metà del ‘900. Il meritorio tentativo di inventariazione delle esposizioni coloniali che vi è presentato ha infatti una vistosa omissione relativa proprio al secolo XIX (BONO, in AFRICA IN VETRINA, 1992). Forse non si tratta tanto di una lacuna accidentale negli studi, quanto di una dichiarata sottovalutazione dell’importanza di questi fenomeni ai fini dello studio delle raffigurazioni collettive e della formazione delle mentalità e dell’opinione pubblica, da parte di una storiografia che, nel compiere una radicale revisione della storia del colonialismo italiano, si è giustamente, ma forse esclusivamente concentrata sull’”alta politica” e sullo studio dell’opinione pubblica con riferimento ai grandi fatti della storia politica, militare, coloniale e delle relazioni internazionali. Ma, a questo proposito, suona sempre attuale l’ammonimento di Federico Chabod: non potersi studiare la politica estera di un paese se non in stretto, costante riferimento non solo alla politica internazionale e interna, ma anche alla cultura, allo stato dell’opinione e delle mentalità, alle forme del sentire generale e popolare su grandi temi quale certamente fu, nell’Italia di ‘800, l’espansionismo coloniale in Africa. E da questo punto di vista può apparire decisamente riduttivo liquidare sbrigativamente e quasi con scherno singoli episodi, quasi fossero casi unici ed isolati, interpretandoli come solo sintomatici di “incredibili” approssimazione e volontà mistificatoria da parte di una classe politica votata all’inganno e ad un colonialismo cialtrone e farsesco (DEL BOCA, 1992, 166).
In realtà, tali episodi rientrano a pieno titolo nel contesto della grande storia europea delle esposizioni umane come specifico prodotto dell’età dell’imperialismo maturo e sono perciò caratterizzati da un linguaggio e da una logica che richiedono un approccio metodologico adeguato e una conseguente ricerca, selezione e analisi delle fonti. Del resto, più in generale, non disponiamo nemmeno, per il nostro paese, di una storia della presenza nera africana in età tardo-moderna e contemporanea paragonabili a quelle esistenti per paesi con una tradizione coloniale o con una consuetudine interetnica ben più consolidate delle nostre, come l’Inghilterra, la Francia o gli Stati Uniti, se facciamo eccezione per i cenni sparsi – relativi però alla sola età moderna – contenuti nella vasta rassegna di Debrunner (DEBRUNNER, 1979, SHYLLON, 1977).
In risposta alle domande su chi e quanti furono e a quali categorie appartennero i neri fisicamente presenti nell’Italia ottocentesca, quali le regioni di provenienza – africane o europee – e quali i canali e le modalità di arrivo, quali le ragioni e i tempi della venuta, quale l’accoglienza da parte della popolazione ospitante, quali gli esiti della permanenza abbiamo solo una quantità di indizi, di segni, di tracce che attendono di essere ricomposte in un quadro d’insieme. Servitori, aiutanti, concubine o mogli giunte al seguito di esploratori o militari rientrati in patria, con tanto di parenti e figliolanza, bambini spediti dai missionari a riscattarsi con un’educazione cristiana e magari un’istruzione artigianale o professionale, convertiti inviati in collegi e seminari cattolici (il francescano Collegio dei Mori a Napoli, l’Istituto Mazza e l’Istituto delle Missioni Africane a Verona, noto per la figura di Daniele Comboni, numerosi altri istituti religiosi a Roma), singoli avventurieri provenienti dall’Africa, come quel nero che vestì la camicia rossa e seguì Garibaldi nella liberazione d’Italia, bambini acquistati e inviati in dono a sovrani europei, come gli ormai celebri pigmei Akka del viaggiatore Giovanni Miani o l’altra pigmea meno nota, la bambina di nome Saida, condotta in Italia da Romolo Gessi nel 1877, o i “moretti” (egiziani, marocchini e tunisini) del Collegio internazionale, poi scuola commerciale pubblica di Torino ricordati da Augusto Monti. E poi, ancora, i figuranti di spettacoli etnici in tournée attraverso l’Europa e giunti anche in Italia, come i Dinka del Sudan, a Torino e Milano nel 1895, le Amazzoni del Dahomey portate a Torino nel 1898 dall’impresario Urbach, i Togo e i Mandingo ancora a Torino nel 1903 al seguito dell’impresario africano J. C. Bruce, le comparse nere dello show di Buffalo Bill che nel 1906 girò in 34 città italiane: probabilmente anche a troupes di questo genere (oltre che alla categoria dei camerieri di facoltose famiglie inglesi residenti in Italia) appartenne qualcuno dei quattordici neri morti a Torino in fasi successive nell’ultimo quindicennio dell’800 e che finirono sul tavolo anatomico del comparatista Carlo Giacomini senza che finora sia stato possibile chiarirne meglio l’identità. Le tipologie, come si vede, sono numerose: ma l’elencazione non sarebbe completa se non menzionassimo i gruppi giunti in Italia come ospiti o figuranti nell’ambito delle esposizioni italiane, come i 60 Abissini di Palermo nel 1892, i sudanesi di Torino nel 1902 e soprattutto quello che fu quasi certamente il primo gruppo di africani ad arrivare in Italia per prendere parte ad un evento fieristico-espositivo: gli Assabesi (dàncali provenienti dal territorio retrostante la Baia di Assab) dell’Esposizione Generale Italiana di Torino nel 1884, coinvolti in un evento concepito a imitazione di quello orchestrato all’Expo di Parigi del 1868: la realizzazione di “une section dans laquelle les produits exotiques seront accompagnés des types vivants de leurs producteurs” (BROCA, 1866).

7. Con gli Assabesi che nel 1884 furono “condotti” ed “esposti” (o che “parteciparono”: l’uso di verbi attivi o passivi non è indifferente – né lo fu per i contemporanei, a leggerne le testimonianze –, ma rimanda a interpretazioni o ad accentuazioni di aspetti diversi dell’episodio in questione) all’Esposizione Generale Italiana di Torino veniamo alla tappa finale di questo percorso illustrativo delle ragioni di una ricerca. Una ricerca di cui non è certo questa la sede per esporre i risultati, peraltro non ancora definitivi, ma che finora ha comunque permesso di mettere in luce l’enorme risonanza presso l’opinione pubblica piemontese e italiana di un episodio quasi totalmente trascurato dalla storiografia e che tuttavia costituisce per l’Italia il primo esempio in assoluto di mostra coloniale e, insieme, di esposizione etnica, sia pure con caratteristiche peculiari. Un recente contributo non ne ha fornito che una descrizione breve e superficiale (ACCORNERO, 1999, 76); una seconda, più avvertita, considerazione si è avuta in un quadro analitico più ampio e articolato che non ne ha però effettuato un adeguato approfondimento (NANI, 1999); solo Silvano Montaldo gli ha dedicato una certa attenzione all’interno del suo pregevole studio su Tommaso Villa (MONTALDO, 1999, 338-346), senza peraltro spingere troppo a fondo la ricerca e forse con un certo schematismo interpretativo (“mistica imperialistica” è espressione francamente forte per il clima d’opinione nell’Italia dei primi anni ’80; né è forse giusto affermare che nel dibattito dell’epoca vi fosse all’ordine del giorno una “guerra di conquista coloniale”; né, infine, è così evidente che quella degli Assabesi sia stata “una rappresentazione apertamente razzistica del diverso da sé”, se non altro per la molteplicità e contraddittorietà delle voci che la commentarono).
Un episodio, questo degli Assabesi di Torino, che, pur non avendo attratto sufficientemente l’attenzione degli specialisti, rientra tuttavia a pieno titolo in ambiti d’indagine pur eterogenei quali la storia della politica coloniale italiana, la storia sociale delle esposizioni in Italia, la storia della mentalità collettiva, la storia della rappresentazione del ‘diverso’ nel nostro paese in età umbertina. Si tratta di un episodio sul quale è stato possibile reperire una documentazione d’archivio e a stampa, scritta e iconografica, estremamente ricca e affascinante, e che appartiene, anche se con sensibili varianti dovute alla specificità della situazione italiana, alla famiglia delle esibizioni umane organizzate nell’ambito dei grandi eventi espositivi, contribuendo a determinarne la natura di straordinari avvenimenti mediatici e propagandistici. Probabilmente solo saldando insieme la storia della politica coloniale, la storia delle esposizioni, la storia dell’opinione pubblica e la storia della percezione della diversità è possibile trovare le chiavi di lettura di quello che non si presenta affatto come un semplice frammento di storiografia aneddotica, bensì come un case study microstorico dotato di propria autonomia e originalità e appartenente ad uno specifico contesto: quello, appunto, della ricchissima e complessa storia europea delle esposizioni-esibizioni pubbliche di esseri umani. Una storia che, come accennavamo sopra, solo da poco tempo si comincia a conoscere in maggior dettaglio e rispetto alla quale alcuni contributi importanti (ZOOS HUMAINS, 2002, LINDFORS, 1999, KARP & LAVINE, 1991) hanno approfondito la riflessione di metodo e messo a punto questioni e interrogativi, che anche nel caso di specie vanno ripresi.
Lo studio di una significativa sequenza di case studies permette di affermare che nel corso dell’800 si assiste ad una improvvisa accelerazione e trasformazione morfologica di questo genere di esposizioni, con l’apparizione di una vera e propria industria specializzata e di una strutturazione nell’ambito delle abitudini sociali. A Amburgo, per esempio, nel locale zoo, fin dal 1875 figurano esposti al pubblico gruppi etnici vari, appositamente trasportati dalla ditta specializzata di Carl Hagenbeck – vero pioniere nel settore. A Parigi, come già accennato, dal 1877 in poi esposizioni umane si tengono al “Jardin d’acclimatation”, mentre Champs de Mars e il Trocadéro saranno scenari particolarmente grandiosi delle imponenti esibizioni etniche organizzate nel contesto delle grandi esposizioni universali del 1878 e del 1889, mentre le “Folies Bergère” offriranno un palcoscenico di grande richiamo a troupes di danzatori e artisti vari di provenienza africana. Ma già in anni anteriori iniziative analoghe si erano svolte in Inghilterra, alle fiere di Croydon oppure a Londra al Crystal Palace, all’Olympia, a Earl’s Court o presso la Egyptian Hall; così come numerosissime altre ne seguiranno a Basilea, Zurigo, Francoforte, in quella che si configura come una delle grandi attrazioni della società europea di fine secolo. A questo sviluppo contribuiscono insieme le diverse esigenze della spettacolarità sociale di massa, della divulgazione scientifica, della scienza etno-antropologica: piani spesso coesistenti, ma che vanno sempre tenuti logicamente distinti, che non di rado si troveranno in aperto conflitto tra loro e che comunque sono chiaramente presenti agli osservatori contemporanei più sensibili. Da qui discende l’identificazione delle diverse figure implicate nei singoli eventi, sul cui rispettivo ruolo deve concentrarsi l’indagine. Promotori (imprenditori, politici o scienziati), attori (rappresentanti di etnie non europee di varia provenienza, autentici o fasulli) e spettatori sono i tre gruppi principali di protagonisti, ciascuno dei quali porta con sé differenti intenzioni, bisogni, obbiettivi, aspettative, azioni e comportamenti, al cui chiarimento la ricerca deve cercare di contribuire, consapevole delle specifiche difficoltà che si presentano in ciascun caso, soprattutto in quello degli attori, privi perlopiù della possibilità di lasciare diretta testimonianza del proprio passaggio.

8. È possibile, innanzitutto, restituire un’identità quanto più possibile precisa ai protagonisti dei diversi episodi ? È possibile, nel caso dei membri delle etnie extraeuropee giunte in Europa, dar loro un volto, coglierli nei loro tratti fisici attraverso immagini di differente natura e definirne, per mezzo di testimonianze dirette o indirette, le reazioni psicologiche e comportamentali ? Inoltre, quali (differenti) scopi ispirarono chi organizzò tali imprese, chi vi si prestò o vi fu coinvolto e chi vi assistette ? Come furono di fatto organizzate e realizzate le venute dei gruppi umani ? Come interagirono le diverse priorità di imprenditori, espositori, pubblico e scienziati, alla cui coscienza la distinzione tra esibizioni scientifiche ed esposizioni spettacolari “à la Barnum” fu ben chiara ? Quali furono le condizioni materiali di soggiorno, dal punto di vista ambientale, climatico, alimentare, igienico, di salute, di contatto fisico con il pubblico degli astanti o degli osservatori ? Che rapporto si instaurò tra attori, promotori e spettatori, una volta realizzata e inscenata l’esposizione ? Quali furono le reazioni del pubblico ? Quale l’atteggiamento dell’opinione pubblica nelle sue varie sezioni (politica, religiosa, economica, scientifico-culturale) e, in particolare, che rapporto vi fu tra opinione popolare e opinione scientifica ? Che immagine degli Africani e dell’Africa, o di qualsiasi altro paese esotico si trattasse, quelle (diverse) esposizioni/esibizioni avrebbero inteso produrre e di fatto produssero ? Che influenza ebbe la vista dei membri di quelle etnie sulla percezione della diversità del genere umano e in particolare sulla formazione o rafforzamento di stereotipi razzisti nell’opinione degli scienziati e in quella popolare ? Che rapporto vi fu nell’opinione europea tra rappresentazioni pre-esistenti e osservazione diretta e quale il contenuto di ‘autenticità’ della proposta espositiva ? Qual fu il lessico col quale eventi e persone furono descritti ? Cosa si attesero o cosa pensarono della propria trasferta i protagonisti non europei e come vissero l’esperienza ? Cosa rappresentarono quel viaggio e quella permanenza (in molti casi prolungata fin oltre un anno e caratterizzata da una serie di tappe ed esperienze successive, come in vere tournées europee) nel panorama delle loro vite e quali cambiamenti immediati o duraturi derivarono da quell’esperienza ? Che tipo di fenomeno sociale ciascuna diversa esposizione umana rappresentò nella città e nel paese nel quale si svolse ?
C’è un ulteriore problema del quale l’analisi in profondità di un case-study come quello torinese può consentire una verifica ‘sul campo’. Alcuni di coloro che più recentemente si sono interrogati sul significato complessivo delle etno-esposizioni nell’Europa dell’Ottocento hanno sostenuto che attraverso simili esperienze sarebbe avvenuta quella da loro definita la “popularisation du racisme”, ossia la diffusione di massa di teorie e idee nate in ambienti scientifici mediante il loro travaso nell’immaginario sociale (BLANCHARD, BANCEL, LEMAIRE, 2002, pp. 63 sgg.). Con termine insolito, questo processo è stato definito anche della “inferiorisation de l’indigène par l’image” (p. 65) attraverso una rappresentazione-reificazione fondata sulla volontà di “animaliser l’Autre”: esposizione-segregazione-confinamento e ricorso al “vocabulaire de stygmatisation de la sauvagerie” sarebbero stati i mezzi per sancire una irriducibile inferiorità razziale. Simili episodi, inoltre, avrebbero favorito la messa a nudo, il palesamento del razzismo latente degli spiriti dell’Occidente europeo e come tali, secondo questi autori, sarebbero riscontrabili in una non meglio specificata “quasi-totalité des pays occidentaux” (p. 69). Si tratta, però, a ben vedere, di una generalizzazione non sufficientemente sostenuta da analisi particolari. La nozione stessa di “razzismo popolare” sembra perdere nettezza di contorni se non sorretta da dettagli analitici e somiglia ad una petizione di principio se associata automaticamente al mero fatto della partecipazione e del gradimento popolare delle esposizioni etniche. Si ha insomma l’impressione di eccessiva disinvoltura nel rubricare con concetti analoghi un insieme di eventi, certo, dalla fisionomia apparentemente comune, ma che compito dello storico è di descrivere e comprendere nella specificità delle singole manifestazioni. Da questo punto di vista, lo studio di un contesto italiano come quello degli Assabesi di Torino permette di cogliere elementi anche decisamente dissonanti rispetto alle concettualizzazioni un po’ schematiche proposte dagli autori citati.
Questi sono alcuni dei principali problemi messi a fuoco durante l’esperienza della ricerca e che anche nel caso degli Assabesi di Torino hanno dato il necessario orientamento all’indagine, permettendo di collocarla entro un insieme assai ricco di episodi appartenenti alla storia della cultura, dell’opinione e delle mentalità. D’altra parte, la riuscita di un’indagine dipende anche dalla retroazione esercitata dalle fonti rispetto agli interrogativi del ricercatore. La possibilità di dare precisione e incisività alle domande, in altre parole, deriva non solo dalla consapevolezza formale dei problemi implicati e della tipologia di fonti teoricamente desiderabili, ma anche dal concreto reperimento di queste ultime e dal diretto confronto con il loro potenziale informativo. Proprio grazie a questa sorta di feedback il lavoro di scavo archivistico sul caso degli Assabesi di Torino ha effettivamente permesso di formulare quesiti articolati e di elaborare risposte plausibili, giungendo così a una descrizione e a una interpretazione dei fatti complessivamente convincente.

9. Con il riepilogo di questi interrogativi si può concludere un contributo che ha voluto semplicemente illustrare attraverso quali vie è nata una ricerca, come è stata impostata, quali direzioni ha imboccato: i primi risultati sono stati già oggetto di pubblicazione in un volume collettaneo sulle esposizioni torinesi tra Ottocento e Novecento al quale mi permetto di rimandare (ABBATTISTA, 2003).
Preme sottolineare tuttavia che si tratta dei medesimi interrogativi che potrebbero guidare analisi centrate non solo sui vari episodi italiani occorsi tra fine ‘800 e primo ‘900, ma anche su momenti decisamente meno lontani della storia delle esposizioni umane: particolari pratiche collettive, queste ultime, che non appartengono affatto ad un passato ormai definitivamente alle nostre spalle, così come non possiamo affatto dire di esserci del tutto lasciati alle spalle atteggiamenti di pensiero e forme di comportamento che tradiscono atavici sensi di superiorità e volontà di sopraffazione.
Ancora oggi, pur nella diversità degli scopi e dei protagonisti, varianti di esposizioni umane continuano a caratterizzare il vissuto contemporaneo, alimentando la polemica o l’immaginario creativo. Ben lo dimostra il recentissimo caso dei pigmei Baka del Camerun, letteralmente ‘esposti’ nell’estate 2002 a Yvoir, in Belgio. Una iniziativa di matrice non imperialistica, bensì di ispirazione umanitaria, tesa cioè ad assicurare la protezione e la sopravvivenza di questa etnia, ma che agli occhi di molti osservatori non è parsa sufficiente giustificazione per l’esibizione di esseri umani esplicitamente presentati nella veste di testimoni della condizione umana di 2000 anni fa. Primitivi viventi, dunque, reclamizzati tra le attrazioni di una riserva naturale come una specie in via d’estinzione, e pur sempre oggetto di rappresentazione nell’immaginario occidentale, anche se quello non razzista delle famigliole dei visitatori bianchi ambientalisti, antimperialisti e politicamente corretti (BERHUSE, 2002, FRADCOURT, 2002).

Bibliografia scelta

ABBATTISTA, 2003 Guido Abbattista, “La rappresentazione dell’ ‘altro’ “, in Le esposizioni torinesi, 1805-1911. Specchio del progresso e macchina del consenso, a cura di Umberto Levra e Rosanna Roccia, Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 2003, pp. 253-268.

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BLANCHARD, BANCEL, LEMAIRE, 2002 Pascal Blanchard, Nicolas Bancel et Sandrine Lemaire, « Les zoos humains : le passage d’un ‘racisme scientifique’ vers un ‘racisme populaire et colonial’ en Occident », in ZOOS HUMAINS, 2002, pp. 63-71.

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Note

[1] Questo saggio è l’anticipazione di uno scritto originariamente steso per una miscellanea di studi in onore di Giovanni Miccoli tuttora in corso di pubblicazione.