Benedetto Croce e l'Italia del Novecento
Napoli, Istituto "Suor Orsola Benincasa"
16 maggio 2003

Mirco Carrattieri
Università di Bologna

1. Il seminario di studi organizzato dall'Istituto "Suor Orsola Benincasa" di Napoli ha inteso proseguire idealmente le celebrazioni del 2002, in occasione dei cinquant'anni dalla morte di Croce. Nonostante le assenze forzate di Piero Craveri e di Tarcisio Amato l'incontro si è rivelato molto interessante per approfondire il ruolo storico di Croce nella sua dimensione più propriamente pubblica. Tra i punti forti dell'iniziativa il presidente vicario Eugenio Capozzi ha ricordato soprattutto il clima informale della discussione, il confronto tra ottiche disciplinari diverse e il dialogo tra più generazioni di lettori crociani.
Michele Maggi ha aperto il convegno con un'ampia relazione introduttiva, nella quale ha descritto il modo in cui Croce ha strutturato nel lungo periodo la relazione tra filosofia e politica. Pur tenendo nella dovuta considerazione le storicizzazioni realizzate da Gennaro Sasso e Giuseppe Galasso, Maggi ha ammesso di non apprezzare troppo gli approcci discontinuisti al pensiero crociano e ha deplorato le facili dissociazioni tra l'impianto teoretico e la vicenda pratica del filosofo. Egli ha inteso invece mostrare come l'atteggiamento di Croce verso la politica mantenga una sostanziale coerenza e come, pur sviluppandosi in stretta correlazione con la realtà del suo tempo, non arrivi mai a inseguirla o a forzarla.
Le accuse di Labriola a Croce di essere un "epicureo contemplativo che non tiene in conto le ripercussioni della sua filosofia" appaiono a Maggi mal indirizzate e derivano a suo parere da un errore di fondo, ossia quello di considerare il Croce di fine secolo come un revisionista tra gli altri all'interno del dibattito marxista. Già in queste prime elaborazioni, invece, l'ottica crociana, se sottoposta ad una analisi più attenta, oltrepassa l'orizzonte analitico del marxismo senza trascurarne il valore come sintomo dei nuovi fermenti sociali. Pur non essendo né una scienza rigorosa, né una filosofia matura, il marxismo travalica le categorie del positivismo e anticipa le risposte che saranno tipiche del nuovo secolo. Non a caso Croce recupera l'analisi storico-culturale di Labriola laddove essa evidenzia il carattere empirico del progresso e ne abbraccia la filosofia della prassi in quanto non attivistica, bensì immanente e realistica; ne rifiuta invece risolutamente il millenarismo e la pedagogia sociale di lungo periodo. Croce coglie dunque le tensioni della nuova temperie intellettuale, ma ne circoscrive la portata e vi si confronta senza cedere a spinte squilibranti.

2. A parere di Maggi, comunque, un rapporto consistente ed originale con la dimensione politica si chiarisce solo con l'elaborazione del sistema, allorché la filosofia crociana si presenta non come un surrogato della realtà, bensì come la regola che la organizza; non come espressione di una parte (con il rischio di stimolare tensioni), ma quale conoscenza piena dell'intero; non sbilanciata, bensì portatrice di un equilibrio dinamico tra essere e logos. Il suo riferimento non è quindi una storia "effettiva", con un inizio e una fine predeterminate, ma la storia reale, in cui l'eternità delle categorie non impedisce un procedere dialettico, ma anzi garantisce, di fronte alle volgari semplificazioni degli "energumeni del cangiamento" , l'estrema difesa dalla deriva nel caos.
Maggi ricorda come nel 1907 Croce lodi Hegel per la sua dialettica, ma denunci il fatto che senza la logica dei distinti la filosofia hegeliana degeneri in un "panlogismo astratto", in cui le forme dello spirito finiscono per soggiacere al tempo e venirne divorate. Queste posizioni collocano Croce in totale antitesi con qualunque filosofia che preveda una dissociazione dalla realtà. Deciso oppositore dei ripiegamenti intimistici e soggettivistici dell'esistenzialismo, Croce rifiuta però anche la strada tutta gentiliana dell'intellettuale salvifico che, servendosi di una vuota retorica, piega alla propria militanza l'amore per la verità e la libertà. Ad esso oppone invece la figura del "filosofo-operaio", agganciato alla realtà proprio tramite la filosofia, che si fa conoscenza di essa e prudente premessa ad una condotta consapevole.
Lo scontro con Gentile, già implicito nel diverso rapporto con la filosofia di Marx, diviene palese nel confronto con la dialettica hegeliana (che il filosofo siciliano corregge in direzione diametralmente opposta a quella proposta da Croce); dopo la prima disputa pubblica nel 1913 è però la guerra a far decantare le due impostazioni e a svelarne l'incompatibilità strutturale. Mentre per Gentile essa è "filosofia in atto", per Croce il conflitto conferma la complessità del reale, la specificità dei suoi diversi livelli, le problematiche di ogni azione individuale.
Ben prima della rottura del '24, quindi, i due filosofi appaiono separati proprio dal modo in cui concepiscono la relazione tra pensiero e politica: da una parte la filosofia come eticizzazione assoluta, che vede nel fascismo la sua occasione storica; dall'altra una distinzione di politica ed etica che valorizza la specificità e l'irriducibilità di entrambe, ma evidenzia soprattutto l'incomprimibilità della morale come spazio decisivo di libertà, in grado di impedire il collasso della politica in mera forza. Maggi ricorda a questo proposito come nella Politica in nuce del 1924 sia esplicito il rifiuto di ogni "delirio statale" di marca gentiliana, a favore invece di quella vita morale che trabocca continuamente dai limiti imposti dallo Stato; e la fiducia crociana nell'operare della libertà, anche in anni in cui l'ideologia appare trionfante, risulta preziosissima nel momento del crollo del regime, allorché essa contribuisce a garantire la continuità dell'identità nazionale, sia sul piano istituzionale, che su quello più profondo della tradizione culturale.

3. Quella di Croce è dunque secondo Maggi una filosofia intrinsecamente politica, che senza cedere alla tentazione di farsi teoria dell'azione si configura però come chiave per un'interazione feconda con la realtà. In questo senso egli considera inaccettabile l'immagine del Croce olimpico ed inerte diffusa nel dopoguerra e la riconduce ad un fortunato ma pericoloso luogo comune del Novecento italiano, che dal velleitarismo della "Voce" è giunto, attraverso la mediazione di Gentile, fino a Gramsci. Si tratta di quell'accento manicheo che risuona ad esempio nel Risorgimento di Gobetti, il quale, pur recependo l'eredità crociana, può essere inserito a buon diritto nella prospettiva gentiliana per quanto concerne la sua concezione del ruolo pubblico dell'intellettuale. Croce, invece, pur partecipando dello stesso clima intellettuale, coglie i rischi di ogni esaltazione volontaristica che cerchi riscatto dal presente in una qualunque visione ideale. Già nel 1903, infatti, ammonisce in questo senso i giovani del "Leonardo"; e nel 1911, in uno scritto poi lodato da Amendola, chiarisce come il vero problema della politica non sia creare un nuovo mondo, bensì seguitare a lavorare, in qualunque condizione, per migliorare quello vecchio, ossia l'unico reale.
La posizione di Croce, che pure si impegna per il recupero e la valorizzazione della tradizione italiana, si distingue anche in questo dal programma nazionale di Gentile. Egli rifiuta ogni confusione tra "partecipare" e "parteggiare"; nega l'immagine politicizzata di De Sanctis diffusa dai nazionalisti; ricorda come gli intellettuali possano avere un ruolo pubblico attivo, senza necessariamente adottare un atteggiamento romantico. Pur non considerando quello della scuola l'unico problema del paese, Croce ne sottolinea più volte il ruolo fondamentale, non tanto per la formazione della classe dirigente, bensì per rafforzare la coesione sociale a tutti i livelli, attraverso l'aggregazione di un ceto civile in grado di realizzare una mediazione culturale interclassista. Contro ogni uso strumentale o profetico della storia, infine, egli nega che essa sia determinante al di sopra e al di fuori delle nostre responsabilità nei suoi confronti e di ogni scelta individuale.

4. Girolamo Imbruglia, che ha recentemente pubblicato un'importante ricerca sulle interpretazioni dell'Illuminismo nel Novecento italiano, si è soffermato in questa sede sul rapporto tra Croce e la filosofia dei lumi, vedendo in questo tema una chiave importante per cogliere le peculiarità e le ambivalenze della lettura crociana dell'attualità.
Imbruglia ha constatato innanzitutto l'enorme distanza che separa le critiche giovanili a Voltaire (accomunato al "gesuitismo" nella prospettiva critica) ad un passo del '48 in cui, descrivendo la storia come alternanza drammatica di epoche "vitali" e "razionali", appare invece quasi letterale la ripresa di alcune tesi del filosofo francese. La durata cinquantennale del confronto con questo autore e la distanza radicale che separa il giudizio iniziale da quello conclusivo rimandano all'importanza e all'evoluzione della riflessione crociana sul mito.
Nel Croce di fine Ottocento e ancora nella lettere a Vossler di inizio secolo la storia è il regno della violenza in cui i convincimenti morali dei filosofi risultano poco più di un sogno shakespeariano. Una prima torsione appare però con l'elaborazione del sistema, allorché "il secolo riformista e giacobino" appare come figlio legittimo della filosofia cartesiana, il cui ufficio storico è nel dissolvere, attraverso la propria voce scettica, il pregiudizio cattolico. Allo storicismo tedesco, che con Droysen descrive l'Illuminismo come "il terribile perché che demolisce le istituzioni", Croce sembra anteporre in questa fase il riferimento a Toqueville e alla sua messa a fuoco della religione come terreno fondamentale della lotta politica moderna.
Ed è proprio il riferimento alla dimensione religiosa che riscatta la storia pragmatica voltairiana, pure accusata da Croce di astrazione e discontinuismo. Voltaire bandisce il certo dalla storia, perdendone così lo svolgimento, ma intuisce che l'oggetto della conoscenza storica sono le creazioni positive e che compito dello storico è riportarle dall'esterno dell'uomo, dove si sono istituzionalizzate, al suo interno. La sua storiografia rischia in ogni momento di cedere al naturalismo o alla relativizzazione delle categorie, ma è in fondo a lui che si deve il nuovo riferimento alle fonti, l'ampliamento dell'orizzonte di osservazione e soprattutto l'indirizzo della vicenda storica all'unità dell'esprit.

5. E' comunque attorno al problema della religiosità che, dopo la Grande Guerra, si schiude progressivamente a Croce la dimensione etico-politica. Nelle opere storiche crociane il concetto di "cultura" non si riferisce soltanto ad un generico incivilimento, ma include la religiosità divenendone la forma moderna e critica. Croce contrappone implicitamente la religione dogmatica, con il suo Dio e i suoi ecclesiastici, ad una religiosità umana e filosofica, in cui la fede si traduce praticamente in mito.
Qui Imbruglia ha individuato uno scarto nel breve percorso che va dalla Logica alla Filosofia pratica: quel mito che in precedenza era l'equivalente della religione e, in forma di "istorismo", un errore da attribuire ad ogni storia che si atteggi a filosofia, diviene ora credenza e speranza, desiderio non utopico, veicolato da quel sacerdote dei tempi moderni che è l'uomo di pensiero. In questi nuovi termini l'Illuminismo, da semplice maestro di scetticismo, diventa creatore di una cultura autonoma, che è mediazione necessaria tra teoria e azione, credenza in cui coesistono emozione e convincimento.
Imbruglia si è quindi soffermato sulle recensioni a Mosca e Pareto dei primi anni '20 in cui Croce sembra riesaminare la portata della secolarizzazione della classe politica italiana e non oppone più la forza alla persuasione come forme alternative di reggimento dello Stato. Liberalismo e democrazia non appaiono più in conflitto nella misura in cui il primo si situa a livello dell'ideale, mentre la seconda è una realtà empirica. La politica genera una morale dalla quale è poi incessantemente superata, poiché lo Stato appare troppo angusto per contenere la libertà.
Il riconoscimento della forza del mito positivo appare ormai acquisito nella relazione a Oxford sull'Antistoricismo, in cui il riferimento alla cultura stabilisce una discontinuità rispetto alla teoria dell'elite e fissa, sulla scia di Vico, una nuova configurazione del problema. Pur non potendosi soffermare su questo autore per motivi di tempo, Imbruglia ha voluto ribadire come il suo pensiero rappresenti una sfida costante per la riflessione di Croce e un importante banco di prova delle sue elaborazioni riguardo il rapporto tra ragione e mito.
Se Croce non scrive quel libro sull'Illuminismo che aveva adombrato a Omodeo in una lettera del 1937, non è dunque perché questo tema non rappresenti per lui un nodo significativo, ma anzi perché, riflettendo su di esso, si ritrova a fare i conti con i problemi sfuggenti del suo presente; questioni che solo nel secondo dopoguerra trovano una sistemazione più equilibrata, la quale non a caso si accompagna, secondo le conclusioni di Imbruglia, ad una ripresa del vocabolario e della concettualizzazione voltairiana.

6. Ad aprire il dibattito col pubblico sono stati gli studenti, che hanno posto il problema del rapporto di Croce con i teorici tedeschi della ragion di stato, sulla base del comune apprezzamento per il realismo politico di Machiavelli. Imbruglia ha ricordato come le due tradizioni di pensiero abbiano affrontato in modo diverso il problema del mito giungendo ad esiti pressoché incompatibili. Maggi ha fatto notare inoltre come le comuni critiche al facile moralismo nascondano una opposizione di fondo, che viene peraltro esplicitata da Croce nei confronti di Meinecke. A parere del filosofo italiano infatti questi, riprendendo alcuni elementi della tradizione protestante, scinderebbe in maniera impropria la ferinità e il senso morale dell'uomo, promuovendo così un tentativo illusorio di esorcizzazione della realtà nelle sue distinzioni.
Un contributo importante è giunto poi dai due relatori del pomeriggio, Maurizio Griffo e Roberto Pertici, che già in mattinata hanno espresso qualche dubbio sulle tesi esposte dai colleghi. Il primo ha avanzato l'ipotesi che nelle posizioni di Croce se non una statica olimpicità sia comunque presente uno sforzo evidente di razionalizzazione; ha riproposto la questione della periodizzazione dell'itinerario crociano, con particolare riferimento al passaggio della Grande Guerra; ha infine richiesto maggiori chiarimenti sulle differenze tra le pedagogie nazionali di Croce e Gentile.
Pertici invece ha ripercorso le origini della tesi , ricordata da Maggi, del Croce "erasmiano" e ha poi ripreso da Imbruglia la questione del mito come base dell'egemonia di ogni classe politica moderna. Ha tuttavia sollecitato un confronto più serrato con l'ampio dibattito sul concetto di "cultura" che caratterizza l'immediato dopoguerra; ed ha espresso qualche perplessità sulla coerenza e la persuasività del recupero dell'Illuminismo, compiuto da Croce sul piano degli effetti politici, ma non su quello della fondazione teoretica della filosofia.
Imbruglia ha rilevato a questo punto come il problema implicito nella posizione crociana sia il giudizio su Rousseau, la cui teoria sulla democrazia di massa guadagna un seguito tale da imporre a Croce una seria riflessione. Maggi, dal canto suo, ha voluto chiarire la distanza con Gentile nel rapporto con la tradizione nazionale. Croce infatti non riduce la vecchia Italia a "Italietta" ed anzi fa dell'Italia reale la base per recuperare non retoricamente il meglio dell'Italia ideale. Se è vero che Croce non è democratico, la sua opposizione non implica una scarsa sensibilità per la dimensione popolare della vicenda storica, bensì il rifiuto di qualunque semplificazione delle strutturate articolazioni del reale.

7. A questi interrogativi si sono riallacciati per un intervento critico gli altri professori presenti. Eugenio Capozzi, dopo aver ribadito il ruolo della riflessione sull'Illuminismo come importante "zattera di salvataggio" per ogni rapporto tormentato tra filosofia e politica, ha però auspicato una riflessione più articolata sul liberalismo crociano, che vada oltre quanto scritto da Bobbio nel '55 e stabilisca un confronto con le posizioni degli allievi che, senza rinnegare il magistero di Croce, ne riprendono in chiave giuridica il discorso sui valori.
Sebastiano Maffettone ha espresso le proprie perplessità circa un'interpretazione continuistica dell'itinerario crociano, che renderebbe difficile spiegare l'emergere di una vera e propria apologia della libertà; questo esito sembra invece implicare una messa in discussione del sistema che però rimane confinata alle opere storiche senza tradursi esplicitamente in una revisione dell'impianto categoriale.
Chiamato in causa da questi interventi, Maggi ha ammesso la pertinenza di alcuni dubbi, ma ha invitato la platea a tenere presente il fatto che la riflessione di Croce, soprattutto a cavallo della seconda guerra mondiale, procede su due livelli diversi: da una parte quello rigorosamente teorico e dall'altra, non staccata, ma distinta, la polemica di civiltà, in cui egli arriva a recuperare anche Kant di fronte alle degenerazioni dell'hegelismo. Leggendo ogni testo crociano bisogna quindi considerare con attenzione l'occasione e il contesto che lo originano per cogliere le pertinenze di ciascuno dei due ambiti.
Maggi ha ribadito la propria convinzione nella sostanziale coerenza e nella estrema rilevanza della posizione politica di Croce, che anche su questo piano gli appare un pensatore di assoluto rilievo europeo. A fronte di un crocianesimo umanista che ha separato forse troppo nettamente la dimensione umana da quella generale dello spirito, bisogna a suo parere recuperare l'aspetto aristotelico e non kantiano dell'etica crociana, che non si configura come rimozione delle passioni, bensì come equilibrio positivo.
In quest'ottica ha chiesto agli studenti intervenuti di raccontare il loro modo di conoscere e leggere Croce, ottenendo risposte abbastanza sorprendenti riguardo all'effettiva circolazione dei testi crociani nella scuola; da queste testimonianze infatti è emerso come Croce sia conosciuto soprattutto come storico e critico della letteratura e sia presentato il più delle volte come un bersaglio polemico di cui contrastare la supposta egemonia.

8. La parte pomeridiana dell'incontro è stata condotta da Fulvio Cammarano ed ha assunto un taglio più strettamente storico.
Roberto Pertici, sulla base di uno spoglio di prima mano dei testi crociani e di una vasta conoscenza della storia intellettuale degli anni '20, ha cercato di portare nuova luce sull'atteggiamento di Croce di fronte all'avvento del fascismo, con particolare riferimento alla marcia su Roma e alle sue conseguenze più immediate.
Per introdurre l'argomento Pertici ha citato un noto passo crociano, tratto dalla Storia d'Europa , in cui si rievoca il colpo di stato di Napoleone III, sottolineando come l'iniziativa del tiranno non fosse aliena da radici di lungo periodo, né da un pur effimero appoggio popolare. Senza cedere a forzature, appare stimolante il parallelo con un Croce sorpreso dal rapido successo del fascismo (piuttosto che dalle sue modalità) e non alieno da una certa fiducia nella capacità di Mussolini di fare ordine; posizione che risulta delineata almeno fino al 1924 e anche oltre il delitto Matteotti. Le polemiche con Gentile dell'estate '25 lasciano però presagire un mutamento di indirizzo che appare ormai irrevocabile in autunno, anche se più delle leggi liberticide sembrano sollecitarlo le vicende tormentate della "Stampa" di Frassati e Salvatorelli.
Pertici ha ricordato come su questo itinerario crociano siano pesate nel dopoguerra molteplici accuse di miopia e passività, che hanno avuto poi conseguenze di lungo periodo sul dibattito non solo storico e culturale, ma anche propriamente politico; tali condanne a posteriori rischiano tuttavia di degenerare in atteggiamenti di anacronismo e moralismo che non si addicono allo storico. Per esorcizzarne i pericoli è necessario tener in maggior conto l'ottica dei contemporanei e attenersi quindi scrupolosamente ai testi; senza che questo significhi abdicare alle osservazioni critiche, ma ricordando che il vantaggio di conoscere l'esito delle vicende trascorse può facilmente scivolare nel teleologismo.
Citando Pombeni, Pertici ha rilevato come proprio riguardo all'avvento del fascismo un approccio prudente sia quanto mai opportuno: i fatti del '22 riguardano un partito che ancora l'anno precedente è sostanzialmente insignificante, guidato da un leader trentanovenne, proveniente dalle classi subalterne e reduce dal carcere solo tre anni prima. In quel momento è dunque assai difficile prevedere non solo che esso avrebbe dato vita ad un fenomeno di proporzioni europee e portato il paese al disastro, ma anche solo che il governo Mussolini sarebbe durato più dei suoi poco brillanti predecessori.

9. Pertici ha segnalato come non ci siano tracce di riferimenti al fascismo negli scritti crociani fino alla fine del 1922 e come lo stesso Gentile, pochi anni più tardi, dichiari di non aver conosciuto le posizioni del movimento (né mai incontrato il suo leader) prima della stessa data.
Confrontando l'atteggiamento di Croce con quello dei suoi contemporanei si scopre che, a parte isolate eccezioni come Levi Della Vida, la maggior parte degli intellettuali di quella generazione, compresi i sicuri oppositori come Salvemini, si esprimono negli anni '20 in termini non molto diversi da quelli del filosofo napoletano. Queste posizioni, moderatamente favorevoli, sono ampliamente condivise dall'opinione pubblica italiana, e soprattutto in meridione, laddove alla visione "governativa" della politica propria dell'elite dirigente si aggiunge un oggettiva lontananza dagli esordi violenti del fascismo.
Pur ammettendo che le testimonianze sul Croce "simpatizzante del fascismo" forniteci da Volpe e Russo siano, per il momento in cui sono espresse e per le opinioni degli autori, da vagliare con estrema attenzione, Pertici ha sostenuto che esistono comunque motivi fondati per dubitare che Croce sia stato scosso negativamente dalla presa del potere di Mussolini (una per tutte: la partecipazione al comizio mussoliniano al teatro San Carlo del 24 ottobre del '22 - pur rispondente ad una antica consuetudine dei senatori napoletani).
Sgombrato il campo dalle eccessive cautele (ed essendo nell'impossibilità di ricostruire il complesso itinerario che porta Croce a correggere il suo giudizio), Pertici si è posto come obiettivo di rivisitare i vari terreni sui quali avviene l' "agganciamento" della classe dirigente da parte del fascismo, per verificare da quali argomenti sia stato coinvolto anche Croce. Ha quindi preso in considerazione tre nodi principali, rispetto ai quali la proposta mussoliniana manifesta la sua maggiore attrattiva, sovrapponendosi e coagulandosi con motivazioni preesistenti e con altri programmi politici: la politica estera, l'anticomunismo e la crisi di governabilità.
Per quanto concerne i primi due la posizione di Croce, nonostante la storiografia appaia tutt'altro che unanime, sembra essere molto distante da quelle fasciste. Alla fatale progressione interventismo-caporettismo-nazionalismo-revisionismo-fiumanesimo Croce è sicuramente estraneo, almeno per quanto riguarda i primi passaggi. Nelle polemiche del '18-'19 esprime, in polemica con Salvemini e Prezzolini, posizioni paranazionaliste, riconducibili alla politica di Orlando; ma poi di fronte all'iniziativa dannunziana è chiara una ulteriore svolta critica che lo porta a partecipare al governo Giolitti, a sostenere la politica adriatica di Sforza e a riprendere le polemiche col nazionalismo. Anche in quest'ambito è illuminante il confronto con Gentile alla fine della guerra: mentre per il filosofo siciliano bisogna continuare la lotta per sconfiggere i nemici interni, il problema di Croce è quello di riallacciare il filo delle memorie comuni per superare le ferite del conflitto. Il motivo, già mazziniano e più tardi azionista, delle due Italie contrapposte (quella vecchia, letteraria e individualista, e quella nuova, comunitaria e imperiale), per Croce letteralmente non si pone, nella misura in cui esse convivono armoniosamente in un'unica tradizione.

10. Passando al terreno dell'antibolscevismo, Pertici ha messo in discussione l'opinione di Zunino sull'antisocialismo di Croce nel dopoguerra, poiché le polemiche del filosofo gli appaiono indirizzate più al disfattismo dei riformisti che al massimalismo; d'altronde i socialisti non vengono mai descritti da Croce come barbari costituzionalmente estranei alla nazione. In una lettera a Castellano del '18 egli si mostra convinto che il mondo muova effettivamente verso il socialismo, e i suoi dubbi riguardano piuttosto l'alternativa tra un'evoluzione organica e un anarchismo bolscevico, che peraltro gli sembra da escludere sulla base della forte convinzione che "i vincitori sono generalmente nemici dell'anarchia".
Pertici ha sottolineato il fatto che, anche di fronte ai gravi disagi che l'ondata di scioperi del '20 crea alla popolazione, Croce non invochi mai una reazione violenta, bensì inviti ad un'attesa prudente. Indicativi sono due episodi non molto noti: il bonario richiamo ad un dirigente scolastico di Spilamberto che proibisce contemporaneamente l'esposizione del tricolore e della bandiera rossa; e il rifiuto alla proposta dei senatori napoletani di costituire una associazione di uomini d'ordine in chiave antisocialista (è significativo che Croce ascriva alla paura piuttosto che al reale bisogno questa iniziativa).
Questo tema ha suggerito comunque a Pertici due osservazioni interessanti: da una parte l'opportunità di studiare meglio il proliferare di associazioni di riscossa borghese (ma non fascista) che segue il biennio rosso; dall'altra la necessità di comprendere storicamente il dilagare delle preoccupazioni per la vittoria dei massimalisti, che non sempre rimandano ad un chiuso conservatorismo, ma rispondono all'offesa della sincera sensibilità patriottica della maggioranza del paese.
E' quindi sull'ultimo dei piani considerati che Pertici ha puntato come elemento decisivo per comprendere le prese di posizione crociane. Si tratta del diffuso timore circa la crisi del sistema politico e della governabilità del paese, che fa sì che Croce, intervenendo sul "Giornale d'Italia" nel '23, si chieda dove siano le alternative credibili al fascismo nell'arginare tale emergenza e denunci, con termini salveminiani, ma con intenti opposti, la dilagante paura di una vera e propria "paralisi parlamentare".

11. Il nocciolo del problema appare a Pertici la questione del sistema elettorale. Quando infatti nel 1943 Croce si produce in una articolata ricostruzione della genesi del fascismo (più interessante ma assai meno citata della teoria della "parentesi"), egli elenca come elementi decisivi le conseguenze della guerra, il logoramento della classe politica e "l'improvvida riforma elettorale" che porta alla ribalta persone impreparate e a suo giudizio indegne.
Pertici ha tentato allora di ripercorrere a ritroso le prese di posizione di Croce sull'argomento e ha verificato come accenti negativi ricorrano già nel '24 (quando, ricordando la sua esperienza come ministro dell'Istruzione, rievoca alcune tensioni con collaboratori scadenti); nel '22 (allorché critica il veto Sturzo al ritorno di Giolitti); nel '21 (quando stigmatizza le minoranze che, invece di puntare a divenire maggioranza, si preoccupano di ostacolare quella in carica); fino al '19 (quando non si presenta in Senato alla votazione della proporzionale).
L'impressione complessiva che Pertici ne ha tratto è quella di un possibile avvicinamento a Giolitti fin dal '20 (simile a quello che più tardi lo porterà a simpatizzare per De Gasperi); sia nella valutazione della legge elettorale che nel giudizio su Sturzo le parole del filosofo napoletano sembrano in effetti ricalcare quelle dello statista di Dronero.
Ma è tutta la vecchia classe dirigente liberale, da Salandra ad Orlando, fino a Nitti ed Amendola ad essere convinta, ben dentro l'autunno del 1922, che il fascismo rappresenti un male minore e probabilmente necessario. Solo così del resto è possibile capire come questi esperti statisti siano stati letteralmente giocati da Mussolini sulla legge Acerbo, approvata da una commissione parlamentare presieduta proprio da Giolitti, ma divenuta occasione della rottura del Partito Liberale e del sostanziale accodarsi dei suoi membri di punta al fascismo, in un sostanziale rovesciamento dell'alleanza del '21.
Pertici ha ricordato tra l'altro come in un passo inedito della Politica in nuce della primavera del '24, in una fase in cui appoggia ancora il governo, Croce si riferisca al fascismo come "dittatura" e come lui facciano, anche in anni precedenti, uomini come Orlando; in tutti questi autori il termine viene dunque inteso nel suo significato classico, a designare cioè un potere concentrato per breve tempo nelle mani di un commissario in grado di risolvere efficacemente la crisi contingente.

12. Maurizio Griffo ha cercato di ripercorrere l'attività politica di Croce nel periodo tra seconda guerra mondiale e ricostruzione. Egli ha premesso come questo impegno diretto possa essere pienamente compreso solo tenendo conto di due elementi di più lungo periodo dell'impostazione crociana, e in effetti di tutta una generazione di intellettuali. Bisogna ricordare innanzitutto la sua precisa concezione dei rapporti civili, attinente il processo di "nation building" che l'elite del paese porta avanti, attraverso uno sforzo di valorizzazione della tradizione e di edificazione della coscienza nazionale. In questo senso è molto forte in Croce l'ascendente risorgimentale di Fortunato e soprattutto di De Sanctis (ripreso anche da Gentile con scopi analoghi ma con modi e conseguenze differenti); ma è indicativa anche la sua partecipazione al dibattito sulle origini storiche dell'Italia, su posizioni diverse, almeno inizialmente, dal continuismo di Salvatorelli. D'altra parte Croce fa parte di quella "repubblica europea delle lettere" che ha visto infrangersi la propria armonia con la Grande Guerra e ricorda dolorosamente, sulla scia di Zweig, l'antica koine.
Solo tenendo conto di questi elementi è possibile comprendere lo stato di tedio e di angoscia che caratterizza il Croce dei primi anni '40, frastornato dalla propria inadeguatezza di fronte alla crisi epocale e preoccupato per l'identità del paese e la sua sorte nello scenario a venire. Griffo ha rilevato tuttavia l'originalità e la vitalità dell'atteggiamento crociano, anche in questo frangente difficile: lo smarrimento non porta a un'inutile nostalgia, ma spinge il filosofo a riaffermare con umiltà e coraggio il suo specifico ruolo intellettuale, in una tenace prosecuzione dell'attività quotidiana da leggersi non come disimpegno, bensì come trepida attesa e prudente preparazione dei tempi migliori.
Ecco dunque che quando nel '43 la situazione cambia, Croce, per il suo prestigio intellettuale e morale, ma anche per la credibilità conferitagli dall'ininterrotta pratica culturale (e dai legami personali e organizzativi da essa scaturiti), diventa quasi naturalmente il referente di molte aspettative ed esercita una supplenza "fisiologica" nei confronti di istituzioni pubbliche in disarmo o in via di riconfigurazione.

13. Griffo ha distinto il quinquennio successivo in due fasi, separate dalla liberazione della capitale nella tarda primavera del '44, e ha cercato di delineare gli obiettivi, l'azione e i risultati di Croce nel corso di ciascuna. Nel primo periodo il filosofo ha modo di svolgere un ruolo più propriamente istituzionale, come tramite tra il sovrano, il governo Badoglio e i partiti del CLN. In stretta collaborazione con Sforza e De Nicola, Croce si prodiga (inutilmente) per l'abdicazione del re e l'istituzione della luogotenenza; propone inoltre (anche qui senza alcun esito immediato) la formazione di un corpo di volontari italiani che combatta a fianco dei nuovi alleati.
L'azione di Croce si rivela però determinante nel fornire al nuovo governo una legittimazione diversa (e tendenzialmente più democratica) rispetto all'avallo del sovrano. Il suo intervento al congresso di Bari e la sua partecipazione diretta al secondo governo Badoglio e alla costituzione del gabinetto Bonomi contribuiscono a dare la massima visibilità al CLN, senza però delegittimare la monarchia come elemento principale di continuità della tradizione nazionale.
Con lo spostamento del governo a Roma il suo impegno diretto si esaurisce ed egli assume un ruolo più defilato nella ripresa della vita politica del paese. In questa fase egli appare impegnato soprattutto nella formazione di una nuova classe dirigente liberale, missione nella quale si trova in contrasto sia con i vecchi membri del partito, sia con i suoi discepoli filoazionisti. A Nitti, Orlando e Bonomi Croce contesta l'eccessiva disponibilità alle manovre politiche e agli opportunismi parlamentari, come è evidente a proposito della costituzionalizzazione del Concordato; a Omodeo o De Ruggiero, che gli muovono a loro volta critiche severe di conservatorismo, egli replica denunciando il loro moralismo e le pericolose concessioni ai comunisti. Proprio la polemica col comunismo rappresenta secondo Griffo una seconda linea strategica della politica di Croce negli anni '40, mossa dall'esperienza sovietica come nuova minaccia e dunque assoluta priorità per tutte le forze autenticamente liberali. Questo rinvigorimento della battaglia intellettuale traspare non solo dalle recensioni simpatetiche a Koestler e Orwell, ma anche dalle diffuse ironie sul fiancheggiamento nittiano, sulle ingenuità critiche del formalismo, sulla partigianeria delle pubblicazioni Einaudi. Del resto Croce plaude esplicitamente agli esiti delle elezioni del '48, arridendo alla sconfitta dei "demagoghi della violenza"; e si presenta al Senato nel '49, dopo una lunga assenza, solo per votare l'adesione dell'Italia alla NATO.
Il reinserimento del paese nello scenario internazionale è in effetti l'ultimo obiettivo che Griffo ha attribuito al Croce del dopoguerra, ricordando come, dopo aver polemizzato contro la ratifica del disonorevole "dettato" di pace, il filosofo finisca per concedere fiducia a De Gasperi e abbracciare con lui la scelta filoamericana.

14. Anche a questa sessione hanno fatto seguito alcuni interrogativi che hanno permesso ai relatori di ritornare sugli snodi più importanti delle loro tesi.
Chiamato in causa circa la considerazione di Croce per il partito politico, Pertici ha ricordato come il dispregio per la proporzionale, ribadito nel dopoguerra con la firma all'appello per l'uninominale, dimostri un evidente preoccupazione circa la nuova configurazione dei partiti di massa e, aldilà delle posizioni teoriche sintetizzate nel famoso saggio del '12 sul Partito come giudizio e pregiudizio, esprima un forte scetticismo verso l'appartenenza esclusiva che il partito sembra imporre alle nuove generazioni.
Relativamente alla cronologia della presa di coscienza di Croce sulla pericolosità del fascismo, Pertici ha accolto come significativo il riferimento al decreto sulla libertà di stampa del '25, rafforzando in questi termini il parallelo con Giolitti. Ha inoltre notato come l'adesione ufficiale di Croce al Partito Liberale, che esiste fin dal '22, avvenga solo al congresso del '25, allorché il gruppo abbandona il fiancheggiamento al governo; nello stesso periodo, tra l'altro, in cui Gentile si iscrive al partito fascista.
Richiesto di un parere sull'europeismo crociano, Griffo ha sostenuto che aldilà di una temporanea coincidenza di interessi con l'amico Sforza, l'ottica di Croce rimanga sempre essenzialmente nazionale e semmai atlantica.
Riguardo poi al problema dell'epurazione introdotto dalla platea, i due storici hanno ricordato come, sia ricostruendo alcuni episodi della storia napoletana, sia discutendo con gli studenti dell'IISS, Croce rifiuti esplicitamente questa formula come soluzione dei problemi legati al passaggio di regime, pronunciandosi invece a favore della conciliazione; posizione che, come è stato fatto notare, chiarisce quanto Croce, avendo ben presenti le difficili condizioni imposte dal fascismo, comprenda i limiti del consenso in quanto imposto dal regime.
L'incontro si è concluso con i ringraziamenti degli organizzatori, nella diffusa consapevolezza di aver fornito spunti interessanti per la rivisitazione delle principali problematiche crociane, ma anche per la riproposizione delle sue tesi più originali, a volte discutibili, ma comunque imprescindibili per storicizzare adeguatamente le vicende del Novecento italiano.