1. Il seminario di studi organizzato dall'Istituto "Suor
Orsola Benincasa" di Napoli ha inteso proseguire idealmente le celebrazioni
del 2002, in occasione dei cinquant'anni dalla morte di Croce. Nonostante
le assenze forzate di Piero Craveri e di Tarcisio Amato l'incontro
si è rivelato molto interessante per approfondire il ruolo storico
di Croce nella sua dimensione più propriamente pubblica. Tra i
punti forti dell'iniziativa il presidente vicario Eugenio Capozzi
ha ricordato soprattutto il clima informale della discussione, il confronto
tra ottiche disciplinari diverse e il dialogo tra più generazioni
di lettori crociani.
Michele Maggi ha aperto il convegno con un'ampia relazione introduttiva,
nella quale ha descritto il modo in cui Croce ha strutturato nel lungo
periodo la relazione tra filosofia e politica. Pur tenendo nella dovuta
considerazione le storicizzazioni realizzate da Gennaro Sasso e Giuseppe
Galasso, Maggi ha ammesso di non apprezzare troppo gli approcci discontinuisti
al pensiero crociano e ha deplorato le facili dissociazioni tra l'impianto
teoretico e la vicenda pratica del filosofo. Egli ha inteso invece mostrare
come l'atteggiamento di Croce verso la politica mantenga una sostanziale
coerenza e come, pur sviluppandosi in stretta correlazione con la realtà
del suo tempo, non arrivi mai a inseguirla o a forzarla.
Le accuse di Labriola a Croce di essere un "epicureo contemplativo
che non tiene in conto le ripercussioni della sua filosofia" appaiono
a Maggi mal indirizzate e derivano a suo parere da un errore di fondo,
ossia quello di considerare il Croce di fine secolo come un revisionista
tra gli altri all'interno del dibattito marxista. Già in
queste prime elaborazioni, invece, l'ottica crociana, se sottoposta
ad una analisi più attenta, oltrepassa l'orizzonte analitico
del marxismo senza trascurarne il valore come sintomo dei nuovi fermenti
sociali. Pur non essendo né una scienza rigorosa, né una
filosofia matura, il marxismo travalica le categorie del positivismo e
anticipa le risposte che saranno tipiche del nuovo secolo. Non a caso
Croce recupera l'analisi storico-culturale di Labriola laddove essa
evidenzia il carattere empirico del progresso e ne abbraccia la filosofia
della prassi in quanto non attivistica, bensì immanente e realistica;
ne rifiuta invece risolutamente il millenarismo e la pedagogia sociale
di lungo periodo. Croce coglie dunque le tensioni della nuova temperie
intellettuale, ma ne circoscrive la portata e vi si confronta senza cedere
a spinte squilibranti.
2. A parere di Maggi, comunque, un rapporto consistente ed originale con
la dimensione politica si chiarisce solo con l'elaborazione del
sistema, allorché la filosofia crociana si presenta non come un
surrogato della realtà, bensì come la regola che la organizza;
non come espressione di una parte (con il rischio di stimolare tensioni),
ma quale conoscenza piena dell'intero; non sbilanciata, bensì
portatrice di un equilibrio dinamico tra essere e logos. Il suo riferimento
non è quindi una storia "effettiva", con un inizio
e una fine predeterminate, ma la storia reale, in cui l'eternità
delle categorie non impedisce un procedere dialettico, ma anzi garantisce,
di fronte alle volgari semplificazioni degli "energumeni del cangiamento"
, l'estrema difesa dalla deriva nel caos.
Maggi ricorda come nel 1907 Croce lodi Hegel per la sua dialettica, ma
denunci il fatto che senza la logica dei distinti la filosofia hegeliana
degeneri in un "panlogismo astratto", in cui le forme dello
spirito finiscono per soggiacere al tempo e venirne divorate. Queste posizioni
collocano Croce in totale antitesi con qualunque filosofia che preveda
una dissociazione dalla realtà. Deciso oppositore dei ripiegamenti
intimistici e soggettivistici dell'esistenzialismo, Croce rifiuta
però anche la strada tutta gentiliana dell'intellettuale
salvifico che, servendosi di una vuota retorica, piega alla propria militanza
l'amore per la verità e la libertà. Ad esso oppone
invece la figura del "filosofo-operaio", agganciato alla realtà
proprio tramite la filosofia, che si fa conoscenza di essa e prudente
premessa ad una condotta consapevole.
Lo scontro con Gentile, già implicito nel diverso rapporto con
la filosofia di Marx, diviene palese nel confronto con la dialettica hegeliana
(che il filosofo siciliano corregge in direzione diametralmente opposta
a quella proposta da Croce); dopo la prima disputa pubblica nel 1913 è
però la guerra a far decantare le due impostazioni e a svelarne
l'incompatibilità strutturale. Mentre per Gentile essa è
"filosofia in atto", per Croce il conflitto conferma la complessità
del reale, la specificità dei suoi diversi livelli, le problematiche
di ogni azione individuale.
Ben prima della rottura del '24, quindi, i due filosofi appaiono
separati proprio dal modo in cui concepiscono la relazione tra pensiero
e politica: da una parte la filosofia come eticizzazione assoluta, che
vede nel fascismo la sua occasione storica; dall'altra una distinzione
di politica ed etica che valorizza la specificità e l'irriducibilità
di entrambe, ma evidenzia soprattutto l'incomprimibilità
della morale come spazio decisivo di libertà, in grado di impedire
il collasso della politica in mera forza. Maggi ricorda a questo proposito
come nella Politica in nuce del 1924 sia esplicito il rifiuto di
ogni "delirio statale" di marca gentiliana, a favore invece
di quella vita morale che trabocca continuamente dai limiti imposti dallo
Stato; e la fiducia crociana nell'operare della libertà,
anche in anni in cui l'ideologia appare trionfante, risulta preziosissima
nel momento del crollo del regime, allorché essa contribuisce a
garantire la continuità dell'identità nazionale, sia
sul piano istituzionale, che su quello più profondo della tradizione
culturale.
3. Quella di Croce è dunque secondo Maggi una filosofia intrinsecamente
politica, che senza cedere alla tentazione di farsi teoria dell'azione
si configura però come chiave per un'interazione feconda
con la realtà. In questo senso egli considera inaccettabile l'immagine
del Croce olimpico ed inerte diffusa nel dopoguerra e la riconduce ad
un fortunato ma pericoloso luogo comune del Novecento italiano, che dal
velleitarismo della "Voce" è giunto, attraverso la
mediazione di Gentile, fino a Gramsci. Si tratta di quell'accento
manicheo che risuona ad esempio nel Risorgimento di Gobetti, il
quale, pur recependo l'eredità crociana, può essere
inserito a buon diritto nella prospettiva gentiliana per quanto concerne
la sua concezione del ruolo pubblico dell'intellettuale. Croce,
invece, pur partecipando dello stesso clima intellettuale, coglie i rischi
di ogni esaltazione volontaristica che cerchi riscatto dal presente in
una qualunque visione ideale. Già nel 1903, infatti, ammonisce
in questo senso i giovani del "Leonardo"; e nel 1911, in uno
scritto poi lodato da Amendola, chiarisce come il vero problema della
politica non sia creare un nuovo mondo, bensì seguitare a lavorare,
in qualunque condizione, per migliorare quello vecchio, ossia l'unico
reale.
La posizione di Croce, che pure si impegna per il recupero e la valorizzazione
della tradizione italiana, si distingue anche in questo dal programma
nazionale di Gentile. Egli rifiuta ogni confusione tra "partecipare"
e "parteggiare"; nega l'immagine politicizzata di De
Sanctis diffusa dai nazionalisti; ricorda come gli intellettuali possano
avere un ruolo pubblico attivo, senza necessariamente adottare un atteggiamento
romantico. Pur non considerando quello della scuola l'unico problema
del paese, Croce ne sottolinea più volte il ruolo fondamentale,
non tanto per la formazione della classe dirigente, bensì per rafforzare
la coesione sociale a tutti i livelli, attraverso l'aggregazione
di un ceto civile in grado di realizzare una mediazione culturale interclassista.
Contro ogni uso strumentale o profetico della storia, infine, egli nega
che essa sia determinante al di sopra e al di fuori delle nostre responsabilità
nei suoi confronti e di ogni scelta individuale.
4. Girolamo Imbruglia, che ha recentemente pubblicato un'importante ricerca
sulle interpretazioni dell'Illuminismo nel Novecento italiano, si
è soffermato in questa sede sul rapporto tra Croce e la filosofia
dei lumi, vedendo in questo tema una chiave importante per cogliere le
peculiarità e le ambivalenze della lettura crociana dell'attualità.
Imbruglia ha constatato innanzitutto l'enorme distanza che separa
le critiche giovanili a Voltaire (accomunato al "gesuitismo"
nella prospettiva critica) ad un passo del '48 in cui, descrivendo
la storia come alternanza drammatica di epoche "vitali" e
"razionali", appare invece quasi letterale la ripresa di alcune
tesi del filosofo francese. La durata cinquantennale del confronto con
questo autore e la distanza radicale che separa il giudizio iniziale da
quello conclusivo rimandano all'importanza e all'evoluzione
della riflessione crociana sul mito.
Nel Croce di fine Ottocento e ancora nella lettere a Vossler di inizio
secolo la storia è il regno della violenza in cui i convincimenti
morali dei filosofi risultano poco più di un sogno shakespeariano.
Una prima torsione appare però con l'elaborazione del sistema,
allorché "il secolo riformista e giacobino" appare
come figlio legittimo della filosofia cartesiana, il cui ufficio storico
è nel dissolvere, attraverso la propria voce scettica, il pregiudizio
cattolico. Allo storicismo tedesco, che con Droysen descrive l'Illuminismo
come "il terribile perché che demolisce le istituzioni",
Croce sembra anteporre in questa fase il riferimento a Toqueville e alla
sua messa a fuoco della religione come terreno fondamentale della lotta
politica moderna.
Ed è proprio il riferimento alla dimensione religiosa che riscatta
la storia pragmatica voltairiana, pure accusata da Croce di astrazione
e discontinuismo. Voltaire bandisce il certo dalla storia, perdendone
così lo svolgimento, ma intuisce che l'oggetto della conoscenza
storica sono le creazioni positive e che compito dello storico è
riportarle dall'esterno dell'uomo, dove si sono istituzionalizzate,
al suo interno. La sua storiografia rischia in ogni momento di cedere
al naturalismo o alla relativizzazione delle categorie, ma è in
fondo a lui che si deve il nuovo riferimento alle fonti, l'ampliamento
dell'orizzonte di osservazione e soprattutto l'indirizzo della
vicenda storica all'unità dell'esprit.
5. E' comunque attorno al problema della religiosità che,
dopo la Grande Guerra, si schiude progressivamente a Croce la dimensione
etico-politica. Nelle opere storiche crociane il concetto di "cultura"
non si riferisce soltanto ad un generico incivilimento, ma include la
religiosità divenendone la forma moderna e critica. Croce contrappone
implicitamente la religione dogmatica, con il suo Dio e i suoi ecclesiastici,
ad una religiosità umana e filosofica, in cui la fede si traduce
praticamente in mito.
Qui Imbruglia ha individuato uno scarto nel breve percorso che va dalla
Logica alla Filosofia pratica: quel mito che in precedenza
era l'equivalente della religione e, in forma di "istorismo",
un errore da attribuire ad ogni storia che si atteggi a filosofia, diviene
ora credenza e speranza, desiderio non utopico, veicolato da quel sacerdote
dei tempi moderni che è l'uomo di pensiero. In questi nuovi
termini l'Illuminismo, da semplice maestro di scetticismo, diventa
creatore di una cultura autonoma, che è mediazione necessaria tra
teoria e azione, credenza in cui coesistono emozione e convincimento.
Imbruglia si è quindi soffermato sulle recensioni a Mosca e Pareto
dei primi anni '20 in cui Croce sembra riesaminare la portata della
secolarizzazione della classe politica italiana e non oppone più
la forza alla persuasione come forme alternative di reggimento dello Stato.
Liberalismo e democrazia non appaiono più in conflitto nella misura
in cui il primo si situa a livello dell'ideale, mentre la seconda
è una realtà empirica. La politica genera una morale dalla
quale è poi incessantemente superata, poiché lo Stato appare
troppo angusto per contenere la libertà.
Il riconoscimento della forza del mito positivo appare ormai acquisito
nella relazione a Oxford sull'Antistoricismo, in cui il riferimento
alla cultura stabilisce una discontinuità rispetto alla teoria
dell'elite e fissa, sulla scia di Vico, una nuova configurazione
del problema. Pur non potendosi soffermare su questo autore per motivi
di tempo, Imbruglia ha voluto ribadire come il suo pensiero rappresenti
una sfida costante per la riflessione di Croce e un importante banco di
prova delle sue elaborazioni riguardo il rapporto tra ragione e mito.
Se Croce non scrive quel libro sull'Illuminismo che aveva adombrato
a Omodeo in una lettera del 1937, non è dunque perché questo
tema non rappresenti per lui un nodo significativo, ma anzi perché,
riflettendo su di esso, si ritrova a fare i conti con i problemi sfuggenti
del suo presente; questioni che solo nel secondo dopoguerra trovano una
sistemazione più equilibrata, la quale non a caso si accompagna,
secondo le conclusioni di Imbruglia, ad una ripresa del vocabolario e
della concettualizzazione voltairiana.
6. Ad aprire il dibattito col pubblico sono stati gli studenti, che hanno
posto il problema del rapporto di Croce con i teorici tedeschi della ragion
di stato, sulla base del comune apprezzamento per il realismo politico
di Machiavelli. Imbruglia ha ricordato come le due tradizioni di pensiero
abbiano affrontato in modo diverso il problema del mito giungendo ad esiti
pressoché incompatibili. Maggi ha fatto notare inoltre come le
comuni critiche al facile moralismo nascondano una opposizione di fondo,
che viene peraltro esplicitata da Croce nei confronti di Meinecke. A parere
del filosofo italiano infatti questi, riprendendo alcuni elementi della
tradizione protestante, scinderebbe in maniera impropria la ferinità
e il senso morale dell'uomo, promuovendo così un tentativo
illusorio di esorcizzazione della realtà nelle sue distinzioni.
Un contributo importante è giunto poi dai due relatori del pomeriggio,
Maurizio Griffo e Roberto Pertici, che già in mattinata hanno espresso
qualche dubbio sulle tesi esposte dai colleghi. Il primo ha avanzato l'ipotesi
che nelle posizioni di Croce se non una statica olimpicità sia
comunque presente uno sforzo evidente di razionalizzazione; ha riproposto
la questione della periodizzazione dell'itinerario crociano, con
particolare riferimento al passaggio della Grande Guerra; ha infine richiesto
maggiori chiarimenti sulle differenze tra le pedagogie nazionali di Croce
e Gentile.
Pertici invece ha ripercorso le origini della tesi , ricordata da Maggi,
del Croce "erasmiano" e ha poi ripreso da Imbruglia la questione
del mito come base dell'egemonia di ogni classe politica moderna.
Ha tuttavia sollecitato un confronto più serrato con l'ampio
dibattito sul concetto di "cultura" che caratterizza l'immediato
dopoguerra; ed ha espresso qualche perplessità sulla coerenza e
la persuasività del recupero dell'Illuminismo, compiuto da
Croce sul piano degli effetti politici, ma non su quello della fondazione
teoretica della filosofia.
Imbruglia ha rilevato a questo punto come il problema implicito nella
posizione crociana sia il giudizio su Rousseau, la cui teoria sulla democrazia
di massa guadagna un seguito tale da imporre a Croce una seria riflessione.
Maggi, dal canto suo, ha voluto chiarire la distanza con Gentile nel rapporto
con la tradizione nazionale. Croce infatti non riduce la vecchia Italia
a "Italietta" ed anzi fa dell'Italia reale la base per
recuperare non retoricamente il meglio dell'Italia ideale. Se è
vero che Croce non è democratico, la sua opposizione non implica
una scarsa sensibilità per la dimensione popolare della vicenda
storica, bensì il rifiuto di qualunque semplificazione delle strutturate
articolazioni del reale.
7. A questi interrogativi si sono riallacciati per un intervento critico
gli altri professori presenti. Eugenio Capozzi, dopo aver ribadito il
ruolo della riflessione sull'Illuminismo come importante "zattera
di salvataggio" per ogni rapporto tormentato tra filosofia e politica,
ha però auspicato una riflessione più articolata sul liberalismo
crociano, che vada oltre quanto scritto da Bobbio nel '55 e stabilisca
un confronto con le posizioni degli allievi che, senza rinnegare il magistero
di Croce, ne riprendono in chiave giuridica il discorso sui valori.
Sebastiano Maffettone ha espresso le proprie perplessità circa
un'interpretazione continuistica dell'itinerario crociano,
che renderebbe difficile spiegare l'emergere di una vera e propria
apologia della libertà; questo esito sembra invece implicare una
messa in discussione del sistema che però rimane confinata alle
opere storiche senza tradursi esplicitamente in una revisione dell'impianto
categoriale.
Chiamato in causa da questi interventi, Maggi ha ammesso la pertinenza
di alcuni dubbi, ma ha invitato la platea a tenere presente il fatto che
la riflessione di Croce, soprattutto a cavallo della seconda guerra mondiale,
procede su due livelli diversi: da una parte quello rigorosamente teorico
e dall'altra, non staccata, ma distinta, la polemica di civiltà,
in cui egli arriva a recuperare anche Kant di fronte alle degenerazioni
dell'hegelismo. Leggendo ogni testo crociano bisogna quindi considerare
con attenzione l'occasione e il contesto che lo originano per cogliere
le pertinenze di ciascuno dei due ambiti.
Maggi ha ribadito la propria convinzione nella sostanziale coerenza e
nella estrema rilevanza della posizione politica di Croce, che anche su
questo piano gli appare un pensatore di assoluto rilievo europeo. A fronte
di un crocianesimo umanista che ha separato forse troppo nettamente la
dimensione umana da quella generale dello spirito, bisogna a suo parere
recuperare l'aspetto aristotelico e non kantiano dell'etica
crociana, che non si configura come rimozione delle passioni, bensì
come equilibrio positivo.
In quest'ottica ha chiesto agli studenti intervenuti di raccontare
il loro modo di conoscere e leggere Croce, ottenendo risposte abbastanza
sorprendenti riguardo all'effettiva circolazione dei testi crociani
nella scuola; da queste testimonianze infatti è emerso come Croce
sia conosciuto soprattutto come storico e critico della letteratura e
sia presentato il più delle volte come un bersaglio polemico di
cui contrastare la supposta egemonia.
8. La parte pomeridiana dell'incontro è stata condotta da
Fulvio Cammarano ed ha assunto un taglio più strettamente storico.
Roberto Pertici, sulla base di uno spoglio di prima mano dei testi crociani
e di una vasta conoscenza della storia intellettuale degli anni '20,
ha cercato di portare nuova luce sull'atteggiamento di Croce di
fronte all'avvento del fascismo, con particolare riferimento alla
marcia su Roma e alle sue conseguenze più immediate.
Per introdurre l'argomento Pertici ha citato un noto passo crociano,
tratto dalla Storia d'Europa , in cui si rievoca il colpo
di stato di Napoleone III, sottolineando come l'iniziativa del tiranno
non fosse aliena da radici di lungo periodo, né da un pur effimero
appoggio popolare. Senza cedere a forzature, appare stimolante il parallelo
con un Croce sorpreso dal rapido successo del fascismo (piuttosto che
dalle sue modalità) e non alieno da una certa fiducia nella capacità
di Mussolini di fare ordine; posizione che risulta delineata almeno fino
al 1924 e anche oltre il delitto Matteotti. Le polemiche con Gentile dell'estate
'25 lasciano però presagire un mutamento di indirizzo che
appare ormai irrevocabile in autunno, anche se più delle leggi
liberticide sembrano sollecitarlo le vicende tormentate della "Stampa"
di Frassati e Salvatorelli.
Pertici ha ricordato come su questo itinerario crociano siano pesate nel
dopoguerra molteplici accuse di miopia e passività, che hanno avuto
poi conseguenze di lungo periodo sul dibattito non solo storico e culturale,
ma anche propriamente politico; tali condanne a posteriori rischiano tuttavia
di degenerare in atteggiamenti di anacronismo e moralismo che non si addicono
allo storico. Per esorcizzarne i pericoli è necessario tener in
maggior conto l'ottica dei contemporanei e attenersi quindi scrupolosamente
ai testi; senza che questo significhi abdicare alle osservazioni critiche,
ma ricordando che il vantaggio di conoscere l'esito delle vicende
trascorse può facilmente scivolare nel teleologismo.
Citando Pombeni, Pertici ha rilevato come proprio riguardo all'avvento
del fascismo un approccio prudente sia quanto mai opportuno: i fatti del
'22 riguardano un partito che ancora l'anno precedente è
sostanzialmente insignificante, guidato da un leader trentanovenne, proveniente
dalle classi subalterne e reduce dal carcere solo tre anni prima. In quel
momento è dunque assai difficile prevedere non solo che esso avrebbe
dato vita ad un fenomeno di proporzioni europee e portato il paese al
disastro, ma anche solo che il governo Mussolini sarebbe durato più
dei suoi poco brillanti predecessori.
9. Pertici ha segnalato come non ci siano tracce di riferimenti al fascismo
negli scritti crociani fino alla fine del 1922 e come lo stesso Gentile,
pochi anni più tardi, dichiari di non aver conosciuto le posizioni
del movimento (né mai incontrato il suo leader) prima della stessa
data.
Confrontando l'atteggiamento di Croce con quello dei suoi contemporanei
si scopre che, a parte isolate eccezioni come Levi Della Vida, la maggior
parte degli intellettuali di quella generazione, compresi i sicuri oppositori
come Salvemini, si esprimono negli anni '20 in termini non molto
diversi da quelli del filosofo napoletano. Queste posizioni, moderatamente
favorevoli, sono ampliamente condivise dall'opinione pubblica italiana,
e soprattutto in meridione, laddove alla visione "governativa"
della politica propria dell'elite dirigente si aggiunge un oggettiva
lontananza dagli esordi violenti del fascismo.
Pur ammettendo che le testimonianze sul Croce "simpatizzante del
fascismo" forniteci da Volpe e Russo siano, per il momento in cui
sono espresse e per le opinioni degli autori, da vagliare con estrema
attenzione, Pertici ha sostenuto che esistono comunque motivi fondati
per dubitare che Croce sia stato scosso negativamente dalla presa del
potere di Mussolini (una per tutte: la partecipazione al comizio mussoliniano
al teatro San Carlo del 24 ottobre del '22 - pur rispondente ad
una antica consuetudine dei senatori napoletani).
Sgombrato il campo dalle eccessive cautele (ed essendo nell'impossibilità
di ricostruire il complesso itinerario che porta Croce a correggere il
suo giudizio), Pertici si è posto come obiettivo di rivisitare
i vari terreni sui quali avviene l' "agganciamento"
della classe dirigente da parte del fascismo, per verificare da quali
argomenti sia stato coinvolto anche Croce. Ha quindi preso in considerazione
tre nodi principali, rispetto ai quali la proposta mussoliniana manifesta
la sua maggiore attrattiva, sovrapponendosi e coagulandosi con motivazioni
preesistenti e con altri programmi politici: la politica estera, l'anticomunismo
e la crisi di governabilità.
Per quanto concerne i primi due la posizione di Croce, nonostante la storiografia
appaia tutt'altro che unanime, sembra essere molto distante da quelle
fasciste. Alla fatale progressione interventismo-caporettismo-nazionalismo-revisionismo-fiumanesimo
Croce è sicuramente estraneo, almeno per quanto riguarda i primi
passaggi. Nelle polemiche del '18-'19 esprime, in polemica
con Salvemini e Prezzolini, posizioni paranazionaliste, riconducibili
alla politica di Orlando; ma poi di fronte all'iniziativa dannunziana
è chiara una ulteriore svolta critica che lo porta a partecipare
al governo Giolitti, a sostenere la politica adriatica di Sforza e a riprendere
le polemiche col nazionalismo. Anche in quest'ambito è illuminante
il confronto con Gentile alla fine della guerra: mentre per il filosofo
siciliano bisogna continuare la lotta per sconfiggere i nemici interni,
il problema di Croce è quello di riallacciare il filo delle memorie
comuni per superare le ferite del conflitto. Il motivo, già mazziniano
e più tardi azionista, delle due Italie contrapposte (quella vecchia,
letteraria e individualista, e quella nuova, comunitaria e imperiale),
per Croce letteralmente non si pone, nella misura in cui esse convivono
armoniosamente in un'unica tradizione.
10. Passando al terreno dell'antibolscevismo, Pertici ha messo
in discussione l'opinione di Zunino sull'antisocialismo di
Croce nel dopoguerra, poiché le polemiche del filosofo gli appaiono
indirizzate più al disfattismo dei riformisti che al massimalismo;
d'altronde i socialisti non vengono mai descritti da Croce come
barbari costituzionalmente estranei alla nazione. In una lettera a Castellano
del '18 egli si mostra convinto che il mondo muova effettivamente
verso il socialismo, e i suoi dubbi riguardano piuttosto l'alternativa
tra un'evoluzione organica e un anarchismo bolscevico, che peraltro
gli sembra da escludere sulla base della forte convinzione che "i
vincitori sono generalmente nemici dell'anarchia".
Pertici ha sottolineato il fatto che, anche di fronte ai gravi disagi
che l'ondata di scioperi del '20 crea alla popolazione, Croce
non invochi mai una reazione violenta, bensì inviti ad un'attesa
prudente. Indicativi sono due episodi non molto noti: il bonario richiamo
ad un dirigente scolastico di Spilamberto che proibisce contemporaneamente
l'esposizione del tricolore e della bandiera rossa; e il rifiuto
alla proposta dei senatori napoletani di costituire una associazione di
uomini d'ordine in chiave antisocialista (è significativo
che Croce ascriva alla paura piuttosto che al reale bisogno questa iniziativa).
Questo tema ha suggerito comunque a Pertici due osservazioni interessanti:
da una parte l'opportunità di studiare meglio il proliferare
di associazioni di riscossa borghese (ma non fascista) che segue il biennio
rosso; dall'altra la necessità di comprendere storicamente
il dilagare delle preoccupazioni per la vittoria dei massimalisti, che
non sempre rimandano ad un chiuso conservatorismo, ma rispondono all'offesa
della sincera sensibilità patriottica della maggioranza del paese.
E' quindi sull'ultimo dei piani considerati che Pertici ha
puntato come elemento decisivo per comprendere le prese di posizione crociane.
Si tratta del diffuso timore circa la crisi del sistema politico e della
governabilità del paese, che fa sì che Croce, intervenendo
sul "Giornale d'Italia" nel '23, si chieda dove
siano le alternative credibili al fascismo nell'arginare tale emergenza
e denunci, con termini salveminiani, ma con intenti opposti, la dilagante
paura di una vera e propria "paralisi parlamentare".
11. Il nocciolo del problema appare a Pertici la questione del sistema
elettorale. Quando infatti nel 1943 Croce si produce in una articolata
ricostruzione della genesi del fascismo (più interessante ma assai
meno citata della teoria della "parentesi"), egli elenca come
elementi decisivi le conseguenze della guerra, il logoramento della classe
politica e "l'improvvida riforma elettorale" che porta
alla ribalta persone impreparate e a suo giudizio indegne.
Pertici ha tentato allora di ripercorrere a ritroso le prese di posizione
di Croce sull'argomento e ha verificato come accenti negativi ricorrano
già nel '24 (quando, ricordando la sua esperienza come ministro
dell'Istruzione, rievoca alcune tensioni con collaboratori scadenti);
nel '22 (allorché critica il veto Sturzo al ritorno di Giolitti);
nel '21 (quando stigmatizza le minoranze che, invece di puntare
a divenire maggioranza, si preoccupano di ostacolare quella in carica);
fino al '19 (quando non si presenta in Senato alla votazione della
proporzionale).
L'impressione complessiva che Pertici ne ha tratto è quella
di un possibile avvicinamento a Giolitti fin dal '20 (simile a quello
che più tardi lo porterà a simpatizzare per De Gasperi);
sia nella valutazione della legge elettorale che nel giudizio su Sturzo
le parole del filosofo napoletano sembrano in effetti ricalcare quelle
dello statista di Dronero.
Ma è tutta la vecchia classe dirigente liberale, da Salandra ad
Orlando, fino a Nitti ed Amendola ad essere convinta, ben dentro l'autunno
del 1922, che il fascismo rappresenti un male minore e probabilmente necessario.
Solo così del resto è possibile capire come questi esperti
statisti siano stati letteralmente giocati da Mussolini sulla legge Acerbo,
approvata da una commissione parlamentare presieduta proprio da Giolitti,
ma divenuta occasione della rottura del Partito Liberale e del sostanziale
accodarsi dei suoi membri di punta al fascismo, in un sostanziale rovesciamento
dell'alleanza del '21.
Pertici ha ricordato tra l'altro come in un passo inedito della
Politica in nuce della primavera del '24, in una fase in
cui appoggia ancora il governo, Croce si riferisca al fascismo come "dittatura"
e come lui facciano, anche in anni precedenti, uomini come Orlando; in
tutti questi autori il termine viene dunque inteso nel suo significato
classico, a designare cioè un potere concentrato per breve tempo
nelle mani di un commissario in grado di risolvere efficacemente la crisi
contingente.
12. Maurizio Griffo ha cercato di ripercorrere l'attività
politica di Croce nel periodo tra seconda guerra mondiale e ricostruzione.
Egli ha premesso come questo impegno diretto possa essere pienamente compreso
solo tenendo conto di due elementi di più lungo periodo dell'impostazione
crociana, e in effetti di tutta una generazione di intellettuali. Bisogna
ricordare innanzitutto la sua precisa concezione dei rapporti civili,
attinente il processo di "nation building" che l'elite
del paese porta avanti, attraverso uno sforzo di valorizzazione della
tradizione e di edificazione della coscienza nazionale. In questo senso
è molto forte in Croce l'ascendente risorgimentale di Fortunato
e soprattutto di De Sanctis (ripreso anche da Gentile con scopi analoghi
ma con modi e conseguenze differenti); ma è indicativa anche la
sua partecipazione al dibattito sulle origini storiche dell'Italia,
su posizioni diverse, almeno inizialmente, dal continuismo di Salvatorelli.
D'altra parte Croce fa parte di quella "repubblica europea
delle lettere" che ha visto infrangersi la propria armonia con la
Grande Guerra e ricorda dolorosamente, sulla scia di Zweig, l'antica
koine.
Solo tenendo conto di questi elementi è possibile comprendere lo
stato di tedio e di angoscia che caratterizza il Croce dei primi anni
'40, frastornato dalla propria inadeguatezza di fronte alla crisi
epocale e preoccupato per l'identità del paese e la sua sorte
nello scenario a venire. Griffo ha rilevato tuttavia l'originalità
e la vitalità dell'atteggiamento crociano, anche in questo
frangente difficile: lo smarrimento non porta a un'inutile nostalgia,
ma spinge il filosofo a riaffermare con umiltà e coraggio il suo
specifico ruolo intellettuale, in una tenace prosecuzione dell'attività
quotidiana da leggersi non come disimpegno, bensì come trepida
attesa e prudente preparazione dei tempi migliori.
Ecco dunque che quando nel '43 la situazione cambia, Croce, per
il suo prestigio intellettuale e morale, ma anche per la credibilità
conferitagli dall'ininterrotta pratica culturale (e dai legami personali
e organizzativi da essa scaturiti), diventa quasi naturalmente il referente
di molte aspettative ed esercita una supplenza "fisiologica"
nei confronti di istituzioni pubbliche in disarmo o in via di riconfigurazione.
13. Griffo ha distinto il quinquennio successivo in due fasi, separate
dalla liberazione della capitale nella tarda primavera del '44,
e ha cercato di delineare gli obiettivi, l'azione e i risultati
di Croce nel corso di ciascuna. Nel primo periodo il filosofo ha modo
di svolgere un ruolo più propriamente istituzionale, come tramite
tra il sovrano, il governo Badoglio e i partiti del CLN. In stretta collaborazione
con Sforza e De Nicola, Croce si prodiga (inutilmente) per l'abdicazione
del re e l'istituzione della luogotenenza; propone inoltre (anche
qui senza alcun esito immediato) la formazione di un corpo di volontari
italiani che combatta a fianco dei nuovi alleati.
L'azione di Croce si rivela però determinante nel fornire
al nuovo governo una legittimazione diversa (e tendenzialmente più
democratica) rispetto all'avallo del sovrano. Il suo intervento
al congresso di Bari e la sua partecipazione diretta al secondo governo
Badoglio e alla costituzione del gabinetto Bonomi contribuiscono a dare
la massima visibilità al CLN, senza però delegittimare la
monarchia come elemento principale di continuità della tradizione
nazionale.
Con lo spostamento del governo a Roma il suo impegno diretto si esaurisce
ed egli assume un ruolo più defilato nella ripresa della vita politica
del paese. In questa fase egli appare impegnato soprattutto nella formazione
di una nuova classe dirigente liberale, missione nella quale si trova
in contrasto sia con i vecchi membri del partito, sia con i suoi discepoli
filoazionisti. A Nitti, Orlando e Bonomi Croce contesta l'eccessiva
disponibilità alle manovre politiche e agli opportunismi parlamentari,
come è evidente a proposito della costituzionalizzazione del Concordato;
a Omodeo o De Ruggiero, che gli muovono a loro volta critiche severe di
conservatorismo, egli replica denunciando il loro moralismo e le pericolose
concessioni ai comunisti. Proprio la polemica col comunismo rappresenta
secondo Griffo una seconda linea strategica della politica di Croce negli
anni '40, mossa dall'esperienza sovietica come nuova minaccia
e dunque assoluta priorità per tutte le forze autenticamente liberali.
Questo rinvigorimento della battaglia intellettuale traspare non solo
dalle recensioni simpatetiche a Koestler e Orwell, ma anche dalle diffuse
ironie sul fiancheggiamento nittiano, sulle ingenuità critiche
del formalismo, sulla partigianeria delle pubblicazioni Einaudi. Del resto
Croce plaude esplicitamente agli esiti delle elezioni del '48, arridendo
alla sconfitta dei "demagoghi della violenza"; e si presenta
al Senato nel '49, dopo una lunga assenza, solo per votare l'adesione
dell'Italia alla NATO.
Il reinserimento del paese nello scenario internazionale è in effetti
l'ultimo obiettivo che Griffo ha attribuito al Croce del dopoguerra,
ricordando come, dopo aver polemizzato contro la ratifica del disonorevole
"dettato" di pace, il filosofo finisca per concedere fiducia
a De Gasperi e abbracciare con lui la scelta filoamericana.
14. Anche a questa sessione hanno fatto seguito alcuni interrogativi
che hanno permesso ai relatori di ritornare sugli snodi più importanti
delle loro tesi.
Chiamato in causa circa la considerazione di Croce per il partito politico,
Pertici ha ricordato come il dispregio per la proporzionale, ribadito
nel dopoguerra con la firma all'appello per l'uninominale,
dimostri un evidente preoccupazione circa la nuova configurazione dei
partiti di massa e, aldilà delle posizioni teoriche sintetizzate
nel famoso saggio del '12 sul Partito come giudizio e pregiudizio,
esprima un forte scetticismo verso l'appartenenza esclusiva che
il partito sembra imporre alle nuove generazioni.
Relativamente alla cronologia della presa di coscienza di Croce sulla
pericolosità del fascismo, Pertici ha accolto come significativo
il riferimento al decreto sulla libertà di stampa del '25,
rafforzando in questi termini il parallelo con Giolitti. Ha inoltre notato
come l'adesione ufficiale di Croce al Partito Liberale, che esiste
fin dal '22, avvenga solo al congresso del '25, allorché
il gruppo abbandona il fiancheggiamento al governo; nello stesso periodo,
tra l'altro, in cui Gentile si iscrive al partito fascista.
Richiesto di un parere sull'europeismo crociano, Griffo ha sostenuto
che aldilà di una temporanea coincidenza di interessi con l'amico
Sforza, l'ottica di Croce rimanga sempre essenzialmente nazionale
e semmai atlantica.
Riguardo poi al problema dell'epurazione introdotto dalla platea,
i due storici hanno ricordato come, sia ricostruendo alcuni episodi della
storia napoletana, sia discutendo con gli studenti dell'IISS, Croce
rifiuti esplicitamente questa formula come soluzione dei problemi legati
al passaggio di regime, pronunciandosi invece a favore della conciliazione;
posizione che, come è stato fatto notare, chiarisce quanto Croce,
avendo ben presenti le difficili condizioni imposte dal fascismo, comprenda
i limiti del consenso in quanto imposto dal regime.
L'incontro si è concluso con i ringraziamenti degli organizzatori,
nella diffusa consapevolezza di aver fornito spunti interessanti per la
rivisitazione delle principali problematiche crociane, ma anche per la
riproposizione delle sue tesi più originali, a volte discutibili,
ma comunque imprescindibili per storicizzare adeguatamente le vicende
del Novecento italiano.