1. La storiografia contemporanea ha riflettuto con molta attenzione sul secolo appena trascorso, dedicandogli, anche recentemente, numerosi lavori di sintesi e di interpretazione[1]. Il Novecento, secolo carico di passioni, ideologie, progresso tecnologico e scientifico, ma anche di violenza, stragi e lutti, ha segnato del resto in profondità il cammino dell’uomo moderno e alcune delle domande a cui non si è riusciti a dare una risposta nel secolo scorso oggi rimangono drammaticamente attuali e coinvolgenti. Tra i lavori di sintesi più recenti e significativi si segnala questo volume di Massimo Luigi Salvadori (il libro è l’ampliamento di un saggio precedentemente pubblicato col titolo Il Novecento: un profilo storico, come introduzione a Eredità del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000). Occupatosi già in passato in maniera assai originale ed efficace di lavori di sintesi storica (per citare solo alcune delle sue opere più recenti, si possono menzionare L’utopia caduta. Storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov, 1992 e La Sinistra nella storia italiana, 1999 entrambe edite da Laterza, mentre per il Mulino si ricorda l’ultima edizione di Storia d’Italia e crisi di regime. Saggio sulla politica italiana. 1861-2000, 2001), con questo volume lo storico torinese si è cimentato in un’analisi dei fondamentali nodi storici del Novecento attraverso un saggio interpretativo agile e denso, dalla scrittura particolarmente accattivante. Vista l’ampiezza e la complessità delle problematiche storiografiche presenti nel testo, si è preferito, in questa sede, analizzarne esclusivamente i principali elementi interpretativi.
2. All’interpretazione classica di Hobsbawn, quella del ‘900 come "Secolo Breve", Salvadori oppone quella del Novecento come secolo più lungo della storia universale; l’autore non crede – come lo storico inglese ma anche, seppure da una diversa angolazione, come Furet – che la parabola storica dell’URSS segni irrimediabilmente il Novecento, perché se è vero che il comunismo ne è stato una delle ideologie centrali, altri sono risultati gli elementi di rottura e cesura storica che hanno segnato in profondità il secolo scorso (lo storico torinese ricorda come già prima della rivoluzione d’ottobre vi siano stati elementi destinati a segnare indelebilmente il secolo, come il "risveglio dell’Asia" con la vittoria del Giappone espansionista sulla Russia zarista, il crollo dell’impero cinese, lo sviluppo in India del movimento indipendentista, l’agonia dell’impero turco, l’emergere della potenza degli Stati Uniti, il ripetuto e determinato assalto della Germania alla supremazia continentale di Inghilterra e Francia). E questo non solo per l’indiscutibile rivoluzione che ha assunto il decennio finale del Novecento, restato forzatamente fuori dal quadro tracciato da Hobsbawn dato il termine ad quem del suo discorso; ma soprattutto per il fatto che «mai in cento anni il mondo, in specie nei paesi sviluppati, è tanto profondamente mutato, al punto da far prevalere in modo netto ed evidente la discontinuità sulla continuità, il cambiamento sulla conservazione, con la conseguenza che il rapporto tra gli uomini e il loro ambiente vuoi politico e socio-economico vuoi naturale si è, per così dire, capovolto rispetto al passato. I mutamenti avvenuti tra il primo e l’ultimo anno del secolo furono, infatti, di tale portata per cui, per la prima volta nella storia dell’umanità, individui nati all’inizio del Novecento e vissuti fino a ottanta-novant’anni si sono trovati nel corso della loro esistenza fisica a vivere diverse vite storiche (pag. 158)». Da queste premesse nasce, quindi, il bisogno di partire dall’incredibile e repentina mutabilità delle vicende politiche e socio-economiche dell’uomo novecentesco per tentare di interpretare il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle.
3. Tra gli elementi portanti che accompagnano l’autore
e il lettore in questo "lungo volo" nella storia del secolo scorso,
emerge con forza il problema della redistribuzione del potere mondiale
e la conseguente crisi della centralità europea nella storia
mondiale (dwarfing of Europe, secondo la nota definizione di
Geoffrey Barraclough); Salvadori, per suffragare questa tesi in maniera
convincente, individua i seguenti periodi: quello tra il 1898-1905
e il 1917-1918; quello tra il 1917-1918 e il 1939-1941; quello, infine,
della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze.
Il segmento culturale che arriva sino al primo conflitto bellico riveste
un’importanza strategica essenziale nell’analisi dell’autore.
La fede nel progresso che aveva caratterizzato la storia europea nel
secolo XIX, per cui l’imponente sviluppo tecnologico e scientifico-industriale
avrebbe avviato l’umanità verso nuovi traguardi di convivenza
civile, fu spazzata via dall’emergere di nuove insicurezze,
da una nuova tendenza a concepire il progresso e le innovazioni in
campo tecnologico non più soltanto in senso positivo, ma anche
in chiave distruttiva. Il sentimento di rigetto delle tendenze politico-culturali
di fine ottocento, carico di implicazioni anti-borghesi e anti-democratiche,
espresso nelle sue forme più radicali dalla vicenda delle avanguardie
artistiche, vero momento di drastica rottura con il realismo pittorico
in favore della scoperta dell’individualismo e della libertà
di espressione e riproduzione (e non a caso il libro ha
in copertina un’opera di uno dei maggiori esponenti dell’avanguardia
artistica russa, Kazimir Malevič), contribuì a
creare nel primo decennio del Novecento un nuovo clima in cui convivevano
insicurezza e straripanti cariche vitalistiche, che rendevano oramai
superati gli anni della belle epoque.
4. La prima guerra mondiale e il carico di violenza,
morte e distruzione che essa portò cambiarono la prospettiva
della crescita infinita e progressiva dell’umanità; l’esperienza
bellica segnò e lacerò in profondità l’esistenza
degli esseri umani che la vissero in tutte le sue manifestazioni,
modificandone profondamente mentalità e tessuto sociale. Scrive
in proposito Salvadori che «la fine della guerra lasciò
un’eredità che da un lato esaltava la potenza dello Stato,
del potere esecutivo, delle burocrazie dell’industria, dei mezzi
di condizionamento di massa, dall’altro diffondeva in maniera
estrema il senso della mancanza di valore della vita umana e della
precarietà dell’esistenza, l’angoscia per la perdita
di significato dell’individuo, la convinzione del carattere
risolutivo della violenza nella soluzione dei problemi politici e
sociali, l’insicurezza di fronte al futuro (pag. 64)».
Si apriva un periodo cruciale della storia mondiale: «il liberalismo,
la democrazia, il riformismo persero in Europa la loro battaglia nel
primo decennio seguente la fine della grande guerra (pag.66)».
L’autore mette in evidenza come l’idea liberale e riformista
che concepiva la competizione politica ben collocata all’interno
del democratico conflitto istituzionale (l’unica sede in cui
poteva concepirsi il progresso sociale), fu definitivamente cancellata
dall’azione dei totalitarismi incapaci di concepire la politica
se non come lotta contro il nemico.
La fine del primo conflitto mondiale aveva avuto come lascito da un
lato la crescita della potenza dello Stato, dell’industria e
dei mezzi di comunicazione di massa; dall’altro il disprezzo
del valore della vita umana e un profondo senso della precarietà
dell’esistenza, a cui si era sommato l’emergere della
convinzione che la violenza potesse risolvere i problemi politici
e sociali, mobilitando in chiave nazionalista le masse e trasformando
la democrazia in una "nuova politica".
5. Un’attenzione particolare viene destinata dall’autore
all’analisi dei totalitarismi novecenteschi. Decisamente incisive
sono le pagine in cui Salvadori delinea la novità dei regimi
totalitari nazifascisti e comunisti rispetto a quelli autoritari che
avevano caratterizzato la storia precedente. Se questi ultimi, infatti,
avevano rafforzato «enormemente le facoltà dell’esecutivo
e tendeva[no] a stabilire uno stretto controllo sull’attività
legislativa, non aboliva[no] di necessità la distinzione tra
i poteri, non sopprimeva[no] il Parlamento, limitava[no] spesso in
maniera drastica l’azione dei partiti d’opposizione, reprimeva[no]
quando necessario i movimenti delle masse senza mirare al loro inquadramento
entro il sistema politico (pag. 53)», il modello totalitario
tese invece a configurarsi come «una specie di moderna teocrazia
politica, in quanto fondato sulla fusione tra il potere temporale
e il potere ideologico [...]. Così lo Stato totalitario venne
a fondarsi su un suo principio superiore, che è a dire su un
suo Dio politico-ideologico, diverso a seconda delle sue specifiche
varianti: il dominio del proletariato per il regime comunista di Stalin,
la comunità razziale per il regime nazionalsocialista di Hitler,
lo Stato per il regime fascista di Mussolini (pag. 54)».
La violenza divenne il pilastro e il modello di regolamentazione della
vita politica del sistema di potere dei regimi totalitari. Ed è
per questo che gli avversari politici divennero nemici da schiacciare
ad ogni costo, perché concepiti come ostacolo al cammino verso
il mondo nuovo che queste dittature volevano instaurare, fossero i
kulaki o i nemici di classe che nella visione della nomenclatura sovietica
frenavano l’avanzata del comunismo, o gli ebrei che nella Germania
nazista ostacolavano la crescita e lo sviluppo del Reich millenario
e che sarebbero stati trucidati in quel vero e proprio unicum
della storia che fu l’Olocausto, risultante di un aberrante
disegno volto all’annientamento biologico di un popolo.
6. Il 1945 segna nell’analisi di Salvadori la
definitiva sconfitta della centralità europea e la nascita
di un nuovo tipo di relazioni internazionali (e in queste pagine l’autore
sembra richiamare alcune intuizioni di Habermas). Egli suddivide l’assetto
bipolare derivato dalla guerra fredda in tre articolazioni: 1) la
contrapposizione tra Occidente ed Oriente, ovvero tra capitalismo
e comunismo; 2) l’organizzazione sociale e politica dei due
campi in contrasto; 3) la suddivisione in sfere d’influenza
e la capacità di spostare nel resto del mondo il conflitto
che non poteva esplicarsi direttamente (visto il rischio atomico)
tra le due superpotenze.
La specificità della guerra fredda viene analizzata come un’assoluta
novità nella storia delle relazioni internazionali per la sua
natura, le sue modalità e per i suoi effetti, ma anche per
le sue contraddizioni talmente laceranti che «la storia della
guerra fredda si configurò dunque come l’incessante preparazione
a una "impossibile" guerra calda (pag. 73)». Salvadori divide
la guerra fredda in tre fasi: la prima (la più aspra) è
quella che va dall’immediato dopoguerra sino alla crisi di Cuba,
ed è la fase che portò il mondo sull’orlo del
conflitto nucleare nel 1962; la seconda, quella compresa tra la prima
metà degli anni sessanta e il 1979 è quella della coesistenza,
vale a dire dell’Ostpolitik di Brandt e del reciproco riconoscimento
delle frontiere delle due Germanie sino alla firma sulla limitazione
degli armamenti nucleari e della armi strategiche, ma anche della
tragica e dolorosa pagina della guerra in Vietnam; la terza è
quella del rilancio della guerra fredda, con l’invasione sovietica
in Afghanistan e la sfida di Reagan all’"Impero del Male" sovietico,
conclusasi poi con l’esperienza del riformismo mancato di Gorbaciov
e il crollo del comunismo. L’elemento cardine che caratterizzò
questo conflitto non guerreggiato resta per l’autore la totale
incompatibilità tra i due mondi, che egli arriva a paragonare
(per la sua globalità, per l’ampiezza delle risorse spirituali
e materiali impiegate, per la radicalità ideologica, politica
e sociale), alla spaccatura che divise il mondo cristiano da quello
islamico in età medievale e moderna.
Particolarmente incisive sono le pagine in cui Salvadori analizza
le cause che permisero agli Stati Uniti di vincere il confronto, sino
al collasso dell’impero sovietico. La guerra fredda, specie
nei suoi anni più crudi, tese a configurarsi come una sfida
rimandata nel tempo; e fu nel corso di questa sfida che l’Occidente
mostrò la sua crescente superiorità, risultando infine
il vincitore, laddove il mondo sovietico, dopo un periodo di grandi
e persino strabilianti successi, si trovò avviluppato in ingovernabili
contraddizioni e in una situazione di inferiorità che ne determinarono
il crollo finale. Ma è un altro l’elemento che per Salvadori
segnò la fine, alla lunga, dell’URSS: il contrasto tra
apparenza e realtà che, vista la natura totalitaria di quel
potere, finì per scatenare un processo di implosione. L’apparenza
coprì interamente la realtà, la nascose, la mistificò
in una situazione di sempre maggiore autoreferenzialità della
burocrazia al potere, generando col tempo quello scetticismo e quella
diffidenza che neppure il tentativo gorbacioviano riuscirono a cancellare,
e questo perché «i tentativi di attuarlo mostrarono che
il sistema non possedeva le risorse per autoriformarsi, e che anzi
le riforme tendevano a distruggerlo, in quanto scatenavano ingovernabili
contraddizioni al suo interno (pag. 126)».
7. La crisi economica, i contrasti politici e la secessione
di etnie e nazionalità che avevano retto solo sotto il collante
dell’ideologia e del potere totalitario, oltre alla sollevazione
dei paesi dell’Europa orientale che avevano fatto parte dell’universo
sovietico, portarono tra il 1989 e il 1991 al crollo dell’URSS,
un sistema di potere che ben pochi, nota Salvadori, finirono per rimpiangere:
«alla caduta del comunismo nell’impero sovietico - il che
spiega molto della profondità del male che l’aveva colpito
– non vi fu pressoché nessuno che combattesse per mantenerlo
(pag. 126)». Lo storico torinese coglie invece nella capacità
dell’Occidente di porre la discussione sui grandi problemi e
sulle scelte di interesse generale al centro del dibattito democratico,
evitando di sottrarre l’azione del governo al controllo dei
Parlamenti, delle opposizioni e degli elettori, l’elemento discriminante
che permise agli Stati Uniti e all’Europa occidentale di vincere
la sfida. Se infatti il sistema di potere sovietico non si configurava
come un’alleanza, ma come un impero dove l’internazionalismo
mascherava l’unanimismo delle decisioni del Cominform e il partito
controllava politica, forze armate, economia e vita sociale, soffocando
spesso con l’intervento dell’Armata Rossa le ribellioni
e l’opposizione al sistema delle popolazioni sottomesse, il
ruolo guida degli Stati Uniti si configurò attraverso un’opposta
fisionomia.
Se nei confronti di molti paesi africani, asiatici e sudamericani
spesso il governo statunitense non esitò ad appoggiare regimi
autoritari e dittatoriali seguendo l’unica logica della difesa
dei propri interessi all’interno della vicenda della guerra
fredda, gli Stati Uniti stabilirono invece con i paesi dell’Europa
occidentale in prevalenza un legame di leadership liberale derivante
dalla propria egemonia economico-politica, ben diversa dal dominio
esercitato dall’URSS sui paesi satelliti. La ricostruzione economica
tanto dell’Unione Sovietica quanto dell’Europa dell’Est
si presentò sicuramente molto più ardua che non nell’Europa
occidentale, circostanza che permise agli Stati Uniti di riversare
grandi risorse a sostegno dei paesi europei nella loro sfera di influenza,
mentre l’URSS dovette far fronte anzitutto alle proprie esigenze
in una condizione disastrosa e, a tal fine, non esitò a drenare
massicciamente risorse dai già tanto impoveriti paesi dell’Est
europeo.
8. La fine della seconda guerra mondiale non causò
esclusivamente lo scontro tra le due superpotenze, poiché proprio
per la sua valenza globale pose al centro del percorso storico della
seconda metà del XX secolo due questioni come la decolonizzazione
e la ridefinizione di modelli sociali e di sviluppo all’interno
del blocco occidentale. La scomparsa del dominio coloniale aggiunse
un altro tassello alla fine della prospettiva di conquista e dominazione
delle potenze europee, contribuendo in maniera consistente alla crisi
della centralità europea nella storia mondiale. Naturalmente,
nota Salvadori, quel processo riuscì ad attuarsi sia attraverso
fenomeni di decolonizzazione negoziata, sia attraverso una decolonizzazione
violenta, molto spesso all’interno della logica spartitoria
della guerra fredda, quando le due superpotenze trasferirono quella
guerra che non erano in grado di combattere l’una contro l’altra
all’interno dei perimetri degli stati africani, asiatici o sudamericani.
Ridefinito il proprio ruolo politico a livello internazionale anche
in seguito a quei processi di indipendenza delle ex colonie, i paesi
europei poterono concentrarsi sul rapporto tra democrazia e benessere
ponendo le basi per lo sviluppo del Welfare State. Lo sviluppo
industriale e sociale di Europa e Stati Uniti aveva portato le classi
lavoratrici a non poter più essere controllate secondo i classici
mezzi del paternalismo o della repressione già durante la belle
epoque e ancor di più dopo la prima guerra mondiale grazie
al consolidamento e all’allargamento di quello che venne chiamato
lo "stato del benessere", le cui radici affondavano nella Germania
bismarckiana e che conobbe un ulteriore sviluppo negli anni Trenta
a opera di governi sia democratici (anche a carattere conservatore),
sia autoritari e fascisti.
Nel trentennio tra il 1945 e il 1975, caratterizzato da una crescita
senza precedenti, Salvadori vede lo straordinario processo di elevazione
economica e sociale della società occidentale, a dimostrazione,
tra l’altro, di come le probabilità di successo del comunismo
internazionale rispetto al capitalismo occidentale fossero pressoché
nulle: «i conflitti politici e sociali, anche i più acuti,
svoltisi nell’Europa occidentale e guidati dai partiti comunisti
e da una serie di movimenti e organizzazioni fiancheggiatori, specie
in Italia e Francia, furono l’espressione di squilibri e disagi,
senza che mai si configurasse un reale pericolo di rivoluzione. Pertanto
nell’Europa occidentale la rivoluzione sopravvisse come un’aspirazione,
un mito ideologico nutrito dai marxisti e dai radicali di varia corrente.
Ma i rivoluzionari, così ripetendosi ciò che era già
avvenuto nel periodo tra le due guerre mondiali, restarono ancora
una volta senza rivoluzione (pag.101)». Se, come si è
detto, le politiche governative del Welfare ebbero anche un
importante presupposto politico nella volontà di contrastare
l’influenza del comunismo sulle masse lavoratrici, è
indubbio che istituzioni democratiche e diffusione dello stato sociale
segnarono la chiave del successo di quel modello, anche se col tempo
il sistema rivelò alcuni elementi negativi, come il progressivo
aumento del prelievo fiscale e la necessità di rinegoziare
i patti sociali anche alla luce di nuove situazioni emerse nel corso
di questo lungo periodo di benessere sociale (si pensi soltanto all’innalzamento
dell’età media degli uomini e delle donne europee o alla
necessità di ridiscutere il sistema pensionistico).
9. Il consolidarsi di diritti sociali e la sostanziale
stabilità delle democrazie in gran parte dei paesi europei
rappresentarono gli elementi capaci di favorire la costruzione di
una struttura continentale unitaria. Salvadori mette in evidenza come
questo fondamentale processo di aggregazione di paesi che per secoli
si erano fronteggiati sullo scacchiere europeo e mondiale fu il risultato
della capacità dell'Europa di saper ripartire dal disastro
della seconda guerra mondiale con una nuova mentalità e una
nuova volontà di confrontarsi sull'identità del continente
partendo da una comune base culturale antifascista, anche se il processo
di integrazione che ne scaturì fu di tipo economico (funzionalista)
e non politico, come era invece nelle aspirazioni dei federalisti
europei della prima ora come Altiero Spinelli.
Il crollo dell’Unione Sovietica ha mutato profondamente lo scenario
dell’Unione Europea, dinanzi alla quale si poneva e si pone
il compito di allargare l’Unione stessa a numerosi altri paesi
del continente, come la Turchia o quelli già appartenenti alla
sfera di influenza russa. Si è profilato così alla fine
del XX secolo e in questo inizio di XXI una sfida irta di difficoltà,
legate innanzitutto alla persistente debolezza e inadeguatezza dei
meccanismi istituzionali comunitari e, in secondo luogo, ai problemi
posti dall’inserimento dei paesi desiderosi di accedervi, ma
ancora molto diversi dai paesi fondatori per grado di sviluppo economico
e caratteristiche sociali.
Un segnale di queste difficoltà dell’Unione Europea si
è manifestato rispetto al problema della cittadinanza. All’interno
di questa questione fondamentale, Salvadori analizza il processo di
emancipazione femminile nel corso del Novecento. L’autore mette
in evidenza come la marcia di progresso dei diritti sociali e di quelli
politici e civili delle donne abbia avuto la sua scena principale
nei paesi più sviluppati socialmente ed economicamente, in
particolare sotto la spinta dei mutamenti socio-culturali degli anni
sessanta e settanta. Tuttavia anche in Occidente permangono radicate
disuguaglianze sul piano socio-economico, accompagnate sovente dal
persistere di stereotipi e pregiudizi che rendono diseguale l’inserimento
e l’affermazione della donna in campi come la politica. Salvadori
non manca di notare come a differenza della situazione dell’Occidente,
in gran parte del mondo i processi di emancipazione femminile siano
andati avanti in maniera alquanto limitata, sino ad invertire la direzione
come nel caso di numerosi paesi musulmani, dove – in concomitanza
con l’emergere di forti movimenti ispirati a una visione fondamentalista
della religione islamica, contrari alla laicità dello Stato
– le donne hanno pagato il prezzo maggiore rimanendo in uno
stato di inferiorità giuridica capace di giungere sino all’esclusione
dall’istruzione.
10. Rimangono vive, dunque, nel secolo del progresso
tecnico incessante, le questioni inerenti la dimensione dell’individuo
e il suo rapportarsi alle problematiche socio-culturali della modernità,
a partire dal problema religioso. Salvadori dedica pagine molto interessanti
all’analisi del processo di secolarizzazione e di laicizzazione,
diventati tratti ormai diffusi della società contemporanea,
anche se mette in evidenza come si sia avuto dal 1945 ad oggi un notevole
risveglio del fondamentalismo, caratterizzato da un rifiuto palese
della modernità a favore di un ordine sociopolitico governato
da una presunta legge di Dio incapace di accettare una dimensione
privata della religiosità o di qualsiasi forma di laicismo.
Utilizzando la categoria del "risveglio religioso", l’autore
mette a confronto quello portato avanti dal cattolicesimo in seguito
al Concilio Vaticano II, grazie all’ispirazione di pontefici
come Giovanni XXIII o Giovanni Paolo II, motivato da una prospettiva
di rinnovamento e aggiornamento specie in campo sociale e politico
(mentre permangono resistenze e frizioni in materia di etica e sessualità),
con quello che ha avuto luogo in alcuni paesi islamici, che ha visto
l’emergere di un fondamentalismo ispirato alla suprema missione
di abbattere un mondo visto quale portatore di intollerabili mali
a favore di una società costruita su basi religiose in cui
la legge dello Stato coincida con la legge divina.
In virtù di queste riflessioni Salvadori arriva alla conclusione
che il mito ottimistico del progresso continuo e illimitato è
definitivamente crollato nel corso del Novecento. La conquista di
sempre nuove tecnologie e saperi non hanno certo diminuito il senso
di angoscia, lo smarrimento e l’insicurezza di un mondo ancora
diviso da laceranti differenze e contraddizioni. Sono emersi nuovi
problemi come l’esplosione demografica, specie delle zone meno
sviluppate, con le conseguenti ondate di immigrazione, fonte di problemi
di convivenza di non facile soluzione, in grado spesso di suscitare
pericolosi rigurgiti razzisti e xenofobi.
Salvadori riconduce negli ultimi due capitoli l’analisi su queste
problematiche alla questione della globalizzazione, «fenomeno
dalle implicazioni non soltanto economiche, ma anche culturali, sociali
e politiche (pag.150)». L’autore mette in evidenza come
l’economia dell’epoca della globalizzazione, in cui il
settore terziario ha acquisito sempre più rilevanza e nel quale
le imprese, in relazione al rapidissimo rinnovamento delle tecnologie
e delle forme dell’organizzazione del lavoro, muoiono e nascono
con un turn-over impensabile nell’epoca dell’industria
tradizionale, è diventata altresì un sistema che tende
ad assicurare sempre meno "il lavoro per la vita", favorendo l’espulsione
degli addetti "obsoleti" e l’immissione di una mano d’opera
meglio qualificata alle nuove esigenze.
11.Ma è sulle prospettive socio-politiche che
Salvadori concentra la sua analisi finale, notando come dal Novecento
l’umanità abbia avuto un lascito ambiguo, in cui uno
straordinario progresso scientifico e tecnologico non ha comportato
un parallelo sviluppo di processi di pacificazione e di normalizzazione
dei rapporti politici internazionali. Il terribile attentato terroristico
dell’11 settembre 2001 contro le Twin Towers di New York ha
drammaticamente smentito tutte quelle teorie sulla "fine della storia"
ispirate dal politologo Francis Fukuyama che avevano riscosso grandi
successi durante gli anni novanta.
La necessità di una cultura politica delle regole, che si manifesti
nella esigenza di garantire la pluralità e la trasparenza nei
mezzi di comunicazione di massa (non a caso l’autore richiama
nell’ultimo capitolo del libro le riflessioni critiche di politologi
come Robert Dahl sulla necessità di un’informazione pluralista
e indipendente dal potere politico-economico in grado di garantire
lo sviluppo democratico del processo decisionale dei cittadini), oltre
che nella capacità di evitare che le differenze tra gli Stati
in materia di sviluppo economico e tecnologico possano riportare a
idee di superiorità o di necessaria supremazia mondiale, rappresentano
per Salvadori alcune delle principali sfide che si pongono dinanzi
all’umanità del XXI secolo.
Il pericolo di omologazioni in grado di cancellare le specificità
culturali resta uno dei problemi fondamentali del governo del mondo
a cui nessuna organizzazione statuale può pensare di dare da
sola la risposta decisiva, in un momento in cui lo Stato nazionale
attraversa una delle sue più gravi crisi. Per lo storico torinese
«dire globalizzazione significa largamente dire americanizzazione
e occidentalizzazione del mondo, che è quindi un villaggio
globale posto sotto la tutela dei paesi più ricchi e orientato
in primo luogo a sostenerne gli interessi (pag.150)», circostanza
che pone il problema drammaticamente attuale dei limiti e delle competenze
degli Stati Uniti in relazione al ruolo di organismi mondiali come
l’ONU o superstatuali come l’Unione Europea. La sfida
per l’autore è quella tra una società assoggettata
al mercato globalizzato e un mercato regolato e controllato dalla
politica e da istituzioni espresse con procedure democratiche. Scrive
in conclusione Salvadori che «a questi modelli dell’agire
politico fa contrasto la cultura politica la quale unisce la prudenza
critica al coraggio che si nutre del senso del possibile e del limite,
il diritto degli individui e dei gruppi a essere liberi, alla solidarietà
attiva che sola consente alle persone e ai paesi meno fortunati di
acquisire le risorse materiali e culturali senza cui non è
dato entrare nel circolo della vita civile. [...] L’ordine e
il disordine internazionale dipendono e dipenderanno senza via di
fuga dalle risposte date alle grandi divisioni e alle enormi disuguaglianze
in termini di potere, di cultura e di reddito che continuano a dominare
la nostra comune esistenza (pag. 174)».
12. Questo volume pone di fronte alla consapevolezza che il problema Novecento e il rapporto fra memoria individuale e rappresentazione collettiva è destinato ad interessare ancora e a lungo il dibattito tra gli storici. La prospettiva analitica dell’autore e l’importanza assegnata alla crisi della centralità europea nella sua analisi pongono interrogativi sul futuro di una storiografia che voglia riflettere sul secolo appena trascorso. Sarà necessario, come già è stato fatto in opere recenti, spostare l’attenzione su una storia sempre più extraeuropea che privilegi l’approfondimento delle dinamiche relazionali tra centro e periferie del mondo? Un’opzione sicuramente stimolante, che pone peraltro alcuni interrogativi non soltanto in senso epistemologico, ma anche, ad esempio, dal punto di vista della didattica. L’introduzione della storia del Novecento nell’ultimo anno della scuola secondaria superiore ha posto all’attenzione generale il problema dell’insegnamento della contemporaneità. Sembra dunque lecito chiedersi in che modo sia possibile introdurre lo studio della storia del ′900 partendo da una dimensione mondiale in una scuola come quella italiana che raramente riesce a superare la prospettiva nazionale, giungendo al massimo a lambire quella europea. Così come è evidente che una prospettiva simile presupponga un cambiamento anche sul piano della metodologia, con la necessità che alla storia si affianchino discipline come l’antropologia e la sociologia, l’economia, la letteratura e la cultura popolare e, di conseguenza, un numero ancora più vasto di fonti che necessitano di uno studio attento e di una profonda capacità critica.
[1] Tra i lavori più recenti si segnalano in particolare quattro testi particolarmente stimolanti: C. Pavone (a cura di), ’900 I tempi della storia, Donzelli, 1997; V. Castronovo, L’eredità del Novecento, Einaudi, 2000; M. Salvati, Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, 2001; M. Flores, Il secolo-mondo, Il Mulino, 2002.